La visita di Herzog negli Stati Uniti nasconde i crimini israeliani, ma emergono motivi di speranza.

Majdi Khaldi

29 luglio 2023 – Middle East Eye

Il discorso del presidente israeliano al Congresso è stato un mero esercizio di pubbliche relazioni mentre l’appoggio statunitense ai diritti dei palestinesi sembrerebbe il più alto da sempre.

Proprio mentre il governo israeliano promuove un numero senza precedenti di unità abitative nelle colonie e adotta decine di leggi discriminatorie, i politici occidentali continuano a lodare i valori “democratici” e “liberali” di Israele.

È come se si affannassero a trovare ogni scusa per proteggere Israele qualunque cosa faccia.

Questo atteggiamento è stato il presupposto del recente discorso del presidente israeliano Isaac Herzog al Congresso USA, in cui ancora una volta il messaggio di impunità per le violazioni e i crimini israeliani è stato sostenuto oltre ogni considerazione per le leggi internazionali, i diritti umani o persino gli stessi principi del Processo di Pace per il Medio Oriente sponsorizzato a suo tempo dagli USA.

Il discorso di Herzog ha difeso adeguatamente gli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ha glorificato un Israele mitico come faro di democrazia e uguaglianza, come se decine di leggi israeliane che negano ai palestinesi i loro diritti non esistessero, mentre gli ebrei israeliani godono dei pieni diritti dello Stato. Sono in vigore più di 70 leggi discriminatorie contro i palestinesi che secondo diverse organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch e persino l’israeliana B’Tselem configurano il crimine di apartheid.

Tra gli esempi ci sono la legge dello Stato-Nazione del popolo ebraico, secondo cui l’autodeterminazione è riservata solo agli ebrei la legge del Ritorno, che consente solo agli ebrei di entrare e ottenere la cittadinanza dello Stato; la legge sulla Proprietà degli Assenti, che codifica il furto di proprietà dei rifugiati palestinesi da parte dello Stato; infine il divieto di riunificazione delle famiglie palestinesi, che nega alle famiglie palestinesi cristiane e musulmane di Gerusalemme o di Israele il diritto di vivere insieme se un coniuge ha la carta d’identità palestinese.

Nessun interesse per la pace

Herzog non ha parlato della soluzione a due Stati, ma dei “vicini palestinesi” di Israele come se non fossero sottoposti all’occupazione israeliana, giocando il classico gioco di incolpare gli altri. Ciò che Herzog ha anche dimenticato di citare è che i “vicini” includono più del 50% della popolazione dei territori controllati da Israele, che consegna alla sua minoranza demografica pieni diritti negando nel contempo i diritti civili e umani al popolo palestinese.

Inoltre non ha menzionato il fatto che il territorio occupato nel 1967, compresa Gerusalemme est, in base al diritto internazionale è della Palestina. È semplicemente vergognoso, anche per centinaia di migliaia di cittadini palestinesi-americani, che i politici statunitensi abbiano ospitato al Congresso la negazione della Nakba e l’occultamento dell’occupazione da parte di Herzog.
Si è trattato di un puro esercizio di pubbliche relazioni piuttosto che di un tentativo di fare la pace. Al massimo è stato un tentativo personale da parte del presidente israeliano di presentare le sue credenziali a Washington in un momento in cui i rapporti tra l’amministrazione Biden e Netanyahu sembrano essere tesi.

Tuttavia i loro problemi non riguardano il popolo palestinese, la cui negazione dei diritti a Washington sembra essere stata normalizzata, ma piuttosto le dispute interne a Israele riguardo alle riforme giudiziarie di Netanyahu.

In effetti lo stesso Congresso USA che sostiene le politiche israeliane contro il popolo palestinese non molto tempo fa appoggiava l’apartheid in Sud Africa. La vasta maggioranza delle iniziative prese dall’amministrazione Trump a sostegno all’annessione israeliana e alla negazione dei diritti dei palestinesi non è stata revocata dall’attuale governo, mentre il Congresso considera ancora l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina un gruppo terroristico proprio come fece con l’African National Congress [il partito di Mandela, ndt.]. Herzog rappresenta la tradizionale diplomazia israeliana che nasconde crimini di guerra con un sorriso e una stretta di mano. La sua descrizione del governo israeliano è stata raffinata e fatta su misura per un pubblico di persone già desiderose di concedergli il podio. Ovviamente non ha citato i sionisti religiosi radicali del suo governo perché sono una pubblicità negativa. Nel contempo sono stati attuati sul terreno i disastrosi progetti del colono di estrema destra e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che chiaramente invocano una seconda Nakba [la pulizia etnica di cui furono vittime i palestinesi nel 1947-49, ndt.] senza uno Stato palestinese, con l’espulsione forzata e l’apartheid.

Ragioni di Speranza

Ma ci sono ancora ragioni di ottimismo. Il boicottaggio che alcuni membri del Congresso hanno messo in atto contro il discorso del presidente israeliano è più significativo di quanto alcuni credono, in quanto rappresenta la crescente percentuale di americani che appoggiano i diritti dei palestinesi.

Nella comunità statunitense per i diritti umani c’è un crescente riconoscimento dell’apartheid israeliana e più comunità religiose ed altre organizzazioni della società civile stanno chiedendo di prendere misure concrete contro l’occupazione israeliana, anche attraverso il boicottaggio e il disinvestimento.

Quanti sostengono l’impunità di Israele sembrano essere sovrarappresentati rispetto all’opinione pubblica USA. Questi segnali potrebbero essere un punto di svolta nella lotta per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza e la pace. Il popolo palestinese e i suoi alleati continueranno la lotta, ovunque siano, per la libertà e rinnovano appelli agli USA e ai Paesi europei perché prendano misure di responsabilizzazione per mettere in pratica, con molto ritardo, i diritti inalienabili del popolo palestinese. Ciò dovrebbe includere azioni contro il terrorismo dei coloni. Inoltre è adesso chiaro che il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo urgente che gli USA e l’UE dovrebbero prendere per confermare il loro sostegno a una soluzione politica piuttosto che rimanere in silenzio riguardo alle azioni di un governo di coloni e altri estremisti che dettano i termini dell’impegno.

I tentativi di sdoganare le politiche israeliane non faranno sparire il popolo palestinese. Nel momento in cui il governo israeliano sta mettendo in atto iniziative intese a consolidare l’annessione di tutta la Palestina storica, la risposta di quanti hanno a cuore la pace fondata su un ordine mondiale basato sulle leggi dovrebbe essere di prendere iniziative per la libertà dei palestinesi piuttosto che rafforzare l’occupazione israeliana.

Il discorso di Herzog al Congresso rappresenta la perpetuazione dello status quo, in cui i diritti dei palestinesi sono negati. Ma lo spostamento dell’opinione pubblica statunitense a favore dei palestinesi e i parlamentari che hanno boicottato la sessione con il presidente [israeliano] sono una fonte di speranza lungo il cammino per raggiungere la libertà e l’indipendenza dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

L’ambasciatore Majdi Khaldi è membro del Consiglio Nazionale Palestinese e consigliere diplomatico esperto del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il capo delle Nazioni Unite dice a Israele di fermare gli insediamenti illegali in Palestina

Redazione di Al Jazeera

20 giugno 2023- Al Jazeera

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres afferma che la costruzione di insediamenti israeliani illegali su territorio palestinese provocherà “tensioni e violenze”.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha esortato Israele a “cessare immediatamente tutte le attività di insediamento” nel territorio palestinese occupato, definendo il piano di Israele di procedere alla costruzione di colonie israeliane una fonte di “tensioni e violenza” e un grave ostacolo ad una pace duratura.

Il commento del capo delle Nazioni Unite arriva dopo che cinque palestinesi– tra cui un ragazzo di 15 anni – sono stati uccisi e più di 90 sono rimasti feriti negli scontri più feroci degli ultimi anni scoppiati lunedì quando le forze israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata. [il dato aggiornato è di 7 morti ndr]

Primo caso del genere in quasi 20 anni, Israele ha inviato elicotteri da combattimento che hanno sparato razzi contro degli obiettivi nel campo di Jenin, mentre i militanti palestinesi hanno combattuto per ore con armi leggere e ordigni esplosivi mettendo fuori uso diversi veicoli militari israeliani intrappolando i militari all’interno. Otto soldati israeliani sono rimasti feriti negli scontri durati quasi 10 ore secondo i testimoni.

“Il Segretario Generale ribadisce che le colonie sono una flagrante violazione del diritto internazionale”, ha dichiarato lunedì Farhan Haq, vice portavoce del Segretario Generale.

L’espansione di queste colonie illegali è una notevole causa di tensioni e violenze e accresce i bisogni umanitari”, ha affermato Haq.

“Rafforza ulteriormente l’occupazione israeliana del territorio palestinese, invade la terra palestinese e le risorse naturali, ostacola la libera circolazione della popolazione palestinese e mina i legittimi diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla sovranità”, ha affermato il capo delle Nazioni Unite, secondo Haq.

Haq ha affermato che Guterres è apparso “profondamente turbato” dalla decisione di Israele di modificare le procedure di pianificazione degli insediamenti per accelerare i progetti di nuove colonie nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme est, nonché dallo sviluppo di oltre 4.000 unità abitative nelle colonie da parte dell’autorità di pianificazione israeliana.

Domenica scorsa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approvato piani per migliaia di nuove unità abitative nella Cisgiordania occupata, conferendo al ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ampi poteri per accelerare la costruzione di colonie che secondo il diritto internazionale sono illegali.

I piani per l’approvazione di 4.560 unità abitative in varie aree della Cisgiordania sono stati inseriti nell’agenda del Consiglio supremo di pianificazione israeliano che si riunirà la prossima settimana.

L’espansione delle colonie israeliane sembra mettere Netanyahu in rotta di collisione con il suo più stretto alleato, gli Stati Uniti, che si sono detti “profondamente turbati” dal piano di espansione delle colonie e dalle notizie di modifiche ai processi di pianificazione e approvazione delle colonie nei territori palestinesi occupati.

Le associazioni palestinesi hanno anche espresso profonda preoccupazione per il fatto che l’intera Cisgiordania possa presto finire sotto il controllo israeliano.

Il Ministro degli Esteri palestinese ha affermato che approvare l’incremento di colonie è una “pericolosa corsa a completare l’annessione della Cisgiordania”.

Khaled Elgindy, membro senior del Middle East Institute [think tank e centro culturale senza scopo di lucro e apartitico, ndt.] con sede a Washington, ha dichiarato ad Al Jazeera che le gravi affermazioni del capo delle Nazioni Unite ora devono essere sostenute da azioni sul campo.

“Le azioni di questo governo israeliano hanno accelerato praticamente ogni possibile tendenza negativa, dalla violenza sul terreno all’espansione delle colonie, agli sgomberi, alla costruzione e all’allargamento delle colonie”, ha detto Elgindy.

“A meno che tali dure parole non siano seguite da una qualche azione da parte degli attori principali come gli Stati Uniti o l’Unione Europea, una sorta di conseguenza a quelle azioni, allora saranno semplicemente ignorate come lo sono sempre state”, ha affermato.

“È davvero necessaria un’azione sul campo per sostenere quelle parole forti, e non abbiamo visto niente”, ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un uomo senza strategia: come Netanyahu sta provocando un’Intifada armata in Cisgiordania

RamzyBaroud

30 maggio 2023 – Middle East Monitor

Dopo aver firmato il 18 maggio un decreto militare che consente ai coloni ebrei israeliani illegali di reclamare l’insediamento abbandonato di Homesh situato nella Cisgiordania occupata settentrionale il governo israeliano ha informato l’amministrazione americana Biden che non trasformerà l’area in un nuovo insediamento.

Quest’ultima rivelazione è stata riportata da Axios il 23 maggio. Questa contraddizione non sorprende. Mentre i ministri di estrema destra israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sanno esattamente cosa vogliono, Netanyahu sta cercando di compiere un atto politico impossibile: vuole esaudire tutti i desideri di Ben-Gvir e Smotrich, ma senza deviare dall’agenda politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, e senza creare le circostanze che potrebbero alla fine rovesciare l’Autorità Nazionale Palestinese.

Inoltre, Netanyahu vuole normalizzare i rapporti con i governi arabi, pur continuando a colonizzare la Palestina, espandere gli insediamenti e avere il controllo completo sulla moschea di Al-Aqsa e su altri luoghi sacri musulmani e cristiani palestinesi.

Peggio ancora, vuole, su insistenza di Ben-Gvir e del suo collegio elettorale religioso estremista, ripopolare Homesh e creare nuovi avamposti, evitando una ribellione armata generalizzata in Cisgiordania.

Allo stesso tempo Netanyahu vuole buoni rapporti con arabi e musulmani, mentre costantemente umilia, opprime e uccide arabi e musulmani; in effetti un’impresa del genere è praticamente impossibile.

Netanyahu non è un politico alle prime armi che non riesce a soddisfare contemporaneamente tutti i suoi sostenitori. È un ideologo di destra che usa l’ideologia e la religione sioniste come fondamento della sua agenda politica. In qualsiasi altro posto, specialmente nel mondo occidentale, Netanyahu sarebbe stato percepito come un politico di estrema destra.

Uno dei motivi per cui l’Occidente deve ancora etichettare Netanyahu come tale è che se esistesse un accordo generale sul fatto che Netanyahu sia un affronto alla democrazia sarebbe difficile dialogare con lui diplomaticamente. Mentre il governo di estrema destra italiano di Giorgia Meloni ha ospitato Netanyahu lo scorso marzo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden deve ancora incontrare di persona il leader israeliano, mesi dopo che quest’ultimo ha varato il suo ultimo governo di religiosi di estrema destra.

Netanyahu è consapevole di tutte queste sfide e che la reputazione del suo paese, anche tra gli alleati, è a brandelli. Il leader israeliano, tuttavia, è determinato a perseverare, per il proprio interesse.

Ci sono volute cinque elezioni in quattro anni perché Netanyahu mettesse insieme un governo relativamente stabile. Nuove elezioni comporterebbero dei rischi, poiché se si tenesse una sesta elezione il leader dell’opposizione, Yair Lapid, dovrebbe ottenere la maggioranza dei seggi.

Ma soddisfare Ben-Gvir e altri sta trasformando Israele in un paese governato da leader populisti e nazionalisti determinati a dar vita ad una guerra di religione. A giudicare dalla situazione sul campo, potrebbero ottenere quello che vogliono.

La verità è che né Ben-Gvir né Smotrich hanno il buon senso o l’esperienza politica di Netanyahu. Piuttosto sono l’equivalente politico dei tori in un negozio di porcellane cinesi. Vogliono gettare i semi del caos e usare il caos per portare avanti la loro agenda: più insediamenti illegali, più pulizia etnica dei palestinesi e, in ultima analisi, una guerra di religione

A causa di queste pressioni, Netanyahu, con un proprio programma espansionista, non è in grado di seguire un progetto chiaro su come annettere completamente ampie parti della Cisgiordania e rendere i palestinesi permanentemente apolidi. Non può sviluppare e mantenere una strategia coerente perché i suoi alleati hanno una loro strategia. E, a differenza di Netanyahu, a loro importa poco di oltrepassare i limiti con Washington, Bruxelles, Il Cairo o Amman.

Questo deve essere frustrante per Netanyahu che in oltre 15 anni di governo ha sviluppato una strategia efficace basata su diversi equilibri. Mentre colonizzava lentamente la Cisgiordania e sosteneva un assedio e ricorrenti guerre a Gaza, ha imparato anche a fingere il linguaggio della pace e della riconciliazione a livello internazionale. Anche se in passato ha avuto i suoi problemi con Washington, Netanyahu ha spesso prevalso, con il sostegno del Congresso degli Stati Uniti. E sebbene abbia provocato in numerose occasioni paesi arabi, musulmani e africani, è comunque riuscito a normalizzare i rapporti con molti di loro.

La sua è stata una strategia vincente, di cui si è vantato spudoratamente a ogni campagna elettorale. Ma sembra che la festa sia infine terminata.

La nuova agenda politica di Netanyahu è ora motivata da un unico obiettivo: la sua stessa sopravvivenza o, meglio, quella della sua famiglia, diversi membri della quale sono coinvolti in accuse di corruzione e nepotismo. Se l’attuale governo israeliano dovesse crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni e del suo estremismo, sarebbe quasi impossibile per Netanyahu recuperare la sua posizione. Se i partiti di estrema destra abbandonano il Likud di Netanyahu Israele sprofonderà ancora di più in una crisi politica e in uno scontro sociale di cui non si intravede la fine.

Per ora Netanyahu dovrà mantenere la rotta – quella delle guerre non provocate, delle incursioni mortali in Cisgiordania, degli attacchi ai luoghi sacri, del ripopolamento o della creazione di nuovi insediamenti coloniali illegali, del permettere ai coloni armati di scatenare la violenza quotidiana contro i palestinesi e così via, indipendentemente dalle conseguenze di queste azioni.

Una di queste conseguenze è l’allargamento della ribellione armata a tutta la Cisgiordania occupata.

Da qualche anno il fenomeno della lotta armata sta crescendo in tutta la Cisgiordania. In aree come Nablus e Jenin i gruppi della Resistenza armata si sono rinforzati al punto che l’Autorità Nazionale Palestinese ha poco controllo su queste regioni.

Questo fenomeno è anche il risultato della mancanza di una vera leadership palestinese che investa di più nel rappresentare e proteggere i palestinesi dalla violenza israeliana, piuttosto che impegnarsi nel “coordinamento della sicurezza” con l’esercito israeliano.

Ora che i seguaci di Ben-Gvir e Smotrich stanno seminando il caos in Cisgiordania in assenza di qualsiasi protezione per i civili palestinesi i combattenti palestinesi stanno assumendo il ruolo di difensori. La “Fossa dei Leoni” è una manifestazione diretta di questa realtà.

Per i palestinesi la resistenza armata è una risposta naturale all’occupazione militare, all’apartheid e alla violenza dei coloni. Non è una strategia politica di per sé. Per Israele, invece, la violenza è una strategia.

Per Netanyahu le frequenti incursioni mortali nelle città palestinesi e nei campi profughi si traducono in risorse politiche che gli consentono di far contenti i suoi sostenitori estremisti. Ma questo è pensare a breve termine. Se la violenza incontrollata di Israele continua la Cisgiordania potrebbe presto ritrovarsi in una rivolta militare a tutto campo contro Israele e in una ribellione aperta contro l’Autorità Nazionale Palestinese.

Quindi, nessun trucco magico o equilibrismo da parte di Netanyahu può controllare i risultati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rientrano necessariamente nella linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




”Buono per tutti”: Israele approva il controverso budget a favore dei coloni

Redazione di Al  Jazeera

24 maggio 2023 – Aljazeera

Il contestato budget incrementa i fondi per le organizzazioni ultraortodosse e pro-coloni.

 

Il governo israeliano ha approvato un nuovo budget biennale che consolida l’indirizzo confessionale e a favore delle colonie da parte della coalizione di governo, mentre migliaia di manifestanti hanno manifestato contro il pacchetto di spesa fuori dall’edificio del parlamento.

I bilanci 2023 e 2024, bloccati da dibattiti notturni e da un susseguirsi di settimane di negoziati, sono stati approvati nelle prime ore di mercoledì con 64 voti contro 56.

Secondo una dichiarazione del parlamento fatta dopo il voto gli stanziamenti ammontano a 484 miliardi di shekel (122 miliardi di euro) per quest’anno e 514 miliardi di shekel (129 miliardi di euro) per il prossimo anno.

“Questo budget è positivo per tutti i cittadini di Israele”, ha dichiarato il ministro delle finanze Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso di estrema destra, ndr.].

Sinistra e destra, religiosi, ultraortodossi e laici, drusi, arabi. Semplicemente tutti i cittadini israeliani”, ha detto, riferendosi evidentemente alle critiche verso il budget, affermando che i critici “vogliono rovesciare il governo di destra e, a tal fine, tutto è lecito”.

Netanyahu ha annunciato l’approvazione degli stanziamenti in un tweet ottimista promettendo che il suo governo di coalizione avrebbe continuato sulla stessa linea.

Il budget potrebbe portare stabilità alla coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, ma probabilmente aggraverà le divisioni all’interno di Israele, poiché i manifestanti hanno protestato contro i suoi stanziamenti esagerati a favore delle componenti ultraortodosse a spese degli israeliani laici.

Decine di milioni di dollari sono stati accantonati per le fazioni estremiste a favore dei coloni.

Il Times of Israel  ha riferito che lunedì è stato risolto un grosso ostacolo all’approvazione del bilancio, con una promessa di 68 milioni di dollari al partito di estrema destra Otzma Yehudit per lo sviluppo degli insediamenti coloniali nelle regioni del Negev e della Galilea.

Smotrich ha detto che spera di raddoppiare nel prossimo futuro il numero dei coloni in Cisgiordania.

Amnon Bronfeld, il portavoce del membro comunista della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] Ofer Cassif ha detto ad Al Jazeera che le colonie riceveranno stanziamenti dal nuovo “Fondo Arnuna”, uno strumento nel bilancio di quest’anno con la funzione di distribuire le imposte municipali, e che gli insediamenti coloniali non dovranno versare.

“La spiegazione è ancora più irritante”, ha detto Bronfeld. “Il dipartimento di giustizia ha proibito l’utilizzo di fondi che provengano dagli insediamenti coloniali in quanto contrario al diritto [internazionale], ma ha consentito l’assegnazione di fondi agli stessi insediamenti pur essendo anche questo proibito“.

Ha aggiunto che le colonie vedranno anche un aumento dei budget in una serie di aree, tra cui strade e infrastrutture, turismo e agricoltura.

Nel budget è previsto anche un aumento dei fondi per gli uomini ultraortodossi che studiano a tempo pieno nei seminari religiosi rinunciando all’obbligo di lavorare o prestare servizio militare, cosa che i maschi laici sono obbligati a fare. Anche le scuole ultraortodosse riceveranno più soldi.

L’assegnazione di quasi 4 miliardi di dollari del nuovo budget mediante fondi discrezionali ad organizzazioni ultraortodosse e a favore dei coloni è stata persino criticata dallo stesso dipartimento del bilancio del governo.

Il leader dell’opposizione centrista Yair Lapid ha denunciato il budget come “una violazione del contratto con i cittadini israeliani, che tutti noi – e i nostri figli e figli dei nostri figli – continueremo a pagare”, ha riferito l’agenzia di stampa Reuters.

Le manifestazioni di martedì sera contro lo stanziamento, con persone che accusavano il governo di saccheggio” di fondi statali, si sono svolte dopo mesi di continue proteste contro la proposta di Netanyahu di riforma del sistema giudiziario del Paese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Uomo colpito a morte a Gerusalemme dopo aver investito con l’auto dei civili

Redazione Al Jazeera

24 aprile 2023 – Al Jazeera

Le autorità israeliane comunicano che nell’incidente sono state ferite almeno cinque persone, compreso un settantenne.

La polizia israeliana ha affermato che un palestinese ha diretto la sua auto sulla folla in una strada di Gerusalemme, ferendo cinque persone, prima di essere colpito a morte da un passante.

Lunedì, alcune ore prima, le truppe israeliane hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nella Cisgiordania occupata, l’ultimo di una lunga serie di incidenti nel corso di una recrudescenza di violenze nell’ultimo anno.

Il servizio di ambulanza di Israele ha detto di aver curato cinque persone ferite dall’auto, compreso un anziano di 70 anni che versa in condizioni gravi ma stabili, prima di trasferirle ad un ospedale.

Dei video diffusi dall’agenzia di notizie Reuters mostrano un uomo sul cofano di un’auto fermata in mezzo alla strada mentre si sentono degli spari.

Parlando in apertura delle cerimonie di commemorazione dei soldati israeliani caduti, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto che il guidatore dell’auto, un trentenne di Gerusalemme est, ha cercato deliberatamente di investire dei civili.

Questo attacco terroristico, in questo luogo, in questo momento, ci ricorda che la terra di Israele e lo Stato di Israele sono stati ottenuti attraverso molte prove e tribolazioni”, ha affermato.

Violenza crescente

Quest’anno la violenza tra israeliani e palestinesi si è intensificata, con frequenti incursioni militari e violenze dei coloni israeliani a fronte di una serie di attacchi palestinesi. Da gennaio sono stati uccisi più di 90 palestinesi e almeno 19 israeliani e stranieri.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nel campo profughi di Aqabat Jabr, vicino alla città cisgiordana di Gerico.

Durante l’azione due sospetti sono stati visti fuggire dalla scena. I soldati hanno risposto con proiettili veri. I colpiti sono stati identificati”, ha dichiarato l’esercito. Non ha specificato perché i due palestinesi siano stati presi di mira.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha citato il governatore di Gerico, secondo cui un uomo è stato colpito a morte e altri tre feriti dalle truppe.

La dichiarazione del governatore afferma che l’esercito non ha consegnato il corpo dell’uomo alla sua famiglia.

Dal canto suo l’Associazione Palestinese di Difesa dei Prigionieri ha detto che nella notte e nella mattina di lunedì le forze di sicurezza israeliane hanno eseguito 30 arresti in Cisgiordania.

Israele ha occupato la Cisgiordania e Gerusalemme est, che i palestinesi rivendicano come cuore di un futuro Stato indipendente, durante la guerra del Medio Oriente del 1967. Da allora ha annesso Gerusalemme est con un’iniziativa non riconosciuta a livello internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, si tratta di supremazia liberale sionista

Sai Englert

28 marzo 2023 – Middle East Eye

Israele è uno Stato di apartheid basato sull’espropriazione palestinese, con metà delle persone che vivono sotto il suo dominio diretto private del diritto al voto. Altro che preziosa democrazia liberale dei manifestanti

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in piazza, i blocchi ripetuti delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi per il servizio militare e un insieme di azioni di sciopero e di serrate da parte dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – nel momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno in parte alle istanze del movimento di protesta sociale.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che era in procinto di rinviare la controversa riforma dei tribunali nazionali da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, per volontà di prevenire una spaccatura tra la nostra gente, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato al parlamento.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa degli appelli di quest’ultimo per la sospensione della riforma giudiziaria del governo, Netanyahu ha mostrato di aver perso il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut – la più grande federazione sindacale israeliana e pilastro storico del movimento coloniale sionista – hanno annunciato congiuntamente che avrebbero bloccato l’economia. Centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, così come l’unico aeroporto di Israele, sono stati chiusi, insieme ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto primo ministro a capo di una coalizione di destra, che andava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi all’organizzazione della destra più radicale dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti coloniali a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso un ulteriore giro di vite nei confronti dei palestinesi: violenze, furti e omicidi, ma all’ennesima potenza, da parte della colonizzazione israeliana.

Allo stesso tempo, la coalizione ha messo al centro della sua argomentazione l’idea che la sinistra israeliana avesse controllato per troppo tempo le leve del potere dello Stato e il proposito di porre fine a tutto ciò il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte israeliana e la porrebbe sotto il controllo del parlamento, cioè della coalizione di governo.

Assalto a tutto campo alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici sarebbe di competenza parlamentare, mentre le decisioni prese dalla Corte potrebbero essere ribaltate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un assalto a tutto campo alla democrazia israeliana e inaugurerebbe la fine di un tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Gettando benzina sul fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite – anche da commentatori di destra e da sostenitori del governo – come palesemente auto-centrate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici e dalla revoca del divieto di prestare servizio nel governo per i politici condannati, alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare registrazioni di [discorsi] di politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stato il disegno di legge approvato con successo la scorsa settimana che rende così difficile l’impeachment di un primo ministro in carica da concedere a Netanyahu l’immunità di fatto, proteggendolo dai potenziali esiti del suo processo per corruzione in corso.

Lo scenario era perfetto per uno scontro frontale nella società israeliana tra i campi pro e contro Netanyahu.

In effetti, i fronti pro e contro Netanyahu – o pro e anti-coalizione – costituiscono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono del tutto le divisioni politiche in Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come accennato in precedenza, i principali protagonisti dell’opposizione alle riforme del governo sono state le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari, considerati in Israele “d’élite”, cioè veterani.

Un ruolo centrale lo hanno avuto i piloti di caccia – gli stessi piloti che hanno acquisito una fama mondiale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono così ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento, ha costruito la sua carriera politica sulla scia del massacro di Gaza del 2014, che ha gestito come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “per decenni, io vi ho protetto. E mentre io vi proteggevo il tribunale proteggeva me”.

Nessuna di queste componenti può essere considerata di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito laburista, sono state storicamente gli artefici chiave dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, nel pieno dei dibattiti in corso, che è stato il movimento operaio israeliano – attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutz (fattorie collettive), le sue milizie e il suo partito politico – a battersi per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro, e ha imposto un regime militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966 e ai palestinesi nei Territori occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori che hanno espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, raso al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e impedito a qualsiasi rifugiato di tornare successivamente alle proprie case, in diretta violazione del diritto internazionale. Ancora una volta è difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, figuriamoci come paladine della democrazia.

Questa tensione è stata resa ben chiara dal recente clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha affermato: Non esiste una nazione palestinese. Non c’è una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono in Cisgiordania e il primo politico civile (e non funzionario militare) ad essere stato incaricato del controllo illegale israeliano sui territori palestinesi occupati.

Le sue dichiarazioni hanno generato un orrore diffuso – come dovrebbero – per la loro palese negazione razzista anche del fatto più basilare dell’esistenza dei palestinesi. Anche gli Stati del Golfo, normalmente così felici di collaborare con Israele, hanno ritenuto necessario chiedere l’intervento degli Stati Uniti.

Democrazia – per chi?

Tuttavia, i sentimenti espressi da Smotrich non sono né nuovi né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico per la colonizzazione in corso della Palestina da parte di Israele. Come diceva il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. L’episodio più famoso è quello in cui Golda Meir – una fedele sostenitrice dell’Histadrut e del partito laburista, che è stata la prima e unica primo ministro donna di Israele – dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Perciò riguardo a tutte le accuse nei confronti della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici di base è importante perché ci permette di dare un senso alla composizione – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte della copertura internazionale riguardo alle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi – ad esempio sul consenso alla legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte – queste stesse questioni sono state praticamente assenti sia nella protesta che nel dibattito pubblico.

Invece i manifestanti si sono drappeggiati con le bandiere israeliane e si sono presentati come difensori dello Stato e delle sue istituzioni contro intrusi illegittimi – le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid israeliano contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi dello Stato che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nelle proteste, si sono trovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. È stata costretta a presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi le hanno chiesto di modificarlo.

Hazzan aveva pianificato di dire ai manifestanti che esiste un collegamento diretto tra il ritiro delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare pluridecennale in corso e la discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti, ndt.]. Di questo, a quanto pare, la lotta del movimento per la “democrazia” non si occupa.

“Supremazia ebraica”

Hazzan non è sola. E’ talmente eclatante l’esclusione sistematica dei palestinesi, e così totale è il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo governo, o come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare che il Tajammu (Balad), che un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele ha rilasciato una dichiarazione che afferma:

Il mancato riconoscimento della stretta connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della Linea Verde e il colpo di stato giudiziario ci fanno capire che non è per una vera democrazia e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione dell’equazione ebraico e democratico”, che si concentra su una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Pretendere che il popolo arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato, è anche indice di sfrontatezza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più eclatante dal momento che l’elezione del governo Netanyahu è stata interpretata – giustamente – dal settore militare e dei coloni come un’indicazione che essi hanno completa libertà d’azione in Cisgiordania. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi oltre 80 palestinesi con attacchi militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuto appoggio del governo ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara, dove centinaia di coloni hanno imperversato per ore, attaccando gli abitanti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dei militari. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che lo Stato di Israele dovrebbe farlo”.

È a dir poco inquietante che in un tale contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri rifiutandosi persino di ascoltare le vittime del regime “liberal democratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su una terra rubata e la continua esclusione dei palestinesi, che sancisce il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei riconosce.

Le organizzazioni sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo confermano ripetutamente, e lo confermano ulteriormente i rapporti di forza che ripropongono al suo interno. Sarebbe lecito chiedersi se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso la sua Alta Corte sia migliore, o più democratica, nel vero senso della parola, di una che lo fa attraverso il suo parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come di una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano ad espandere gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle Alture del Golan e mantengono oltre 65 leggi che prendono di mira specificamente i palestinesi di entrambe le parti della Linea Verde?

Ha senso discutere di democrazia liberale a proposito di uno Stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di suoi futuri cittadini ma continua a rifiutare a loro e ai loro discendenti il diritto al ritorno? Che tipo di democrazia – liberale o meno – si basa sulla negazione del fondamentale diritto di voto a più o meno la metà della popolazione – circa sei milioni di persone – che vive sotto il suo dominio diretto?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese e messe in pratica sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esserci democrazia sotto una supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. Un dominio coloniale richiede il solido dominio di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. O potrebbe resistere alla tempesta.

In ogni caso, la democrazia non emergerà vittoriosa tra il fiume e il mare [Il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ndt.].

Sarebbe necessario sfidare le idee più basilari del sionismo per raggiungere un tale risultato: che uno Stato democratico debba essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa battaglia non viene condotta nelle strade attorno alla Knesset [parlamento israeliano, ndt.] né portata avanti da sindacati, soldati e datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende da sempre dal soddisfacimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È l’autore di Settler Colonialism: an Introduction [Colonialismo da insediamento: un’introduzione]. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. È impegnato anche sul colonialismo di insediamento, sulla trasformazione del lavoro e sull’antisemitismo. È membro del comitato editoriale sia della rivista Historical Materialism [Materialismo Storico, ndt.] che di Notes from Below [Note a piè di pagina, ndt.].

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una milizia kahanista per Netanyahu

Redazione di Haaretz

28 marzo 2023, Haaretz

Nel suo discorso di lunedì sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente evocato il pericolo di una guerra civile. Come si addice al nostro provocatore nazionale, lo ha fatto anche mentre insultava e calunniava i suoi oppositori. “C’è una minoranza estremista che è disposta a fare a pezzi il Paese e sta alimentando una guerra civile”, ha accusato, aggiungendo che questa minoranza “usa la violenza, è piromane, minaccia di fare del male ai funzionari eletti, sostiene la guerra civile e il rifiuto [di fare il servizio militare], che è un crimine orribile”.

Ma non ha detto una parola sul suo ruolo nel portare Israele sull’orlo della guerra civile. Al contrario, nel suo discorso Netanyahu ha insistito sul fatto che lui, a differenza di chi si oppone al colpo di stato contro il nostro sistema di governo, “non è disposto a fare a pezzi la Nazione”. Ma come al solito, le sue parole non hanno alcuna relazione con le sue azioni. Poco prima di rivolgersi alla Nazione per dire di essere disposto a congelare le leggi sulla revisione della giustizia fino alla sessione estiva del parlamento per amore del “dialogo”, ha firmato un impegno a istituire una guardia nazionale che sarà subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben- Gvir. O in parole povere, una forza di polizia privata di Ben-Gvir.

Ben-Gvir, discepolo di Meir Kahane [1932-1990, rabbino ultranazionalista e razzista imprigionato negli Stati Uniti e in Israele per atti di terrorismo, fondò la Lega per la Difesa Ebraica, ndt.], è un criminale aggressivo, estremista e già condannato. Formare una milizia subordinata a lui piuttosto che alla polizia è una mossa irresponsabile che metterà inevitabilmente in pericolo gli israeliani che non hanno commesso alcun crimine. Un leader politico che non ha intenzione di arrivare a una guerra civile non istituisce e finanzia una forza di polizia privata armata per il membro più estremista del suo gabinetto. Questa mossa dimostra chiaramente che Netanyahu si sta preparando alla guerra civile.

Netanyahu ha guadagnato tempo fino all’estate per sopprimere le proteste e impegnarsi in un “dialogo”. Ma a quanto pare intende utilizzare questo tempo principalmente per essere meglio preparato alla prossima ondata di proteste. E lui e il suo partner kahanista affronteranno l’ondata con una forza di polizia privata a loro disposizione direttamente subordinata al Ministro della Sicurezza Nazionale, non al commissario di polizia Kobi Shabtai. La sua bandiera non sarà la bandiera israeliana, ma la bandiera del movimento Kach di Kahane. A giudicare dalle sue azioni, Netanyahu non è indirizzato alla pace, ma alla guerra.

È facile indovinare chi si unirà ai ranghi della milizia. Lunedì, un manifestante di estrema destra ha picchiato con un bastone il giornalista televisivo di Channel 13 Yossi Eli che stava seguendo una manifestazione a Gerusalemme, e gli ha rotto una costola. “C’erano alcune decine di attivisti di La Familia [gruppo di ultras sostenitore del Beitar Jerusalem, ndt.] e dei suoi satelliti”, ha detto, riferendosi a un gruppo di ultra tifosi di calcio. “Stavamo da un lato per trasmettere e hanno iniziato ad attaccarci, a sputarci addosso, a lanciarci uova e altri oggetti. Il mio cameraman, Avi Cashman, è stato colpito alla testa con un bastone e io sono stato colpito alle costole. La polizia ha cercato di intervenire, ma non erano abbastanza”.

Le truppe d’assalto Netanyahu/Ben-Gvir presenti alla manifestazione di lunedì a sostegno della revisione del sistema di giustizia non erano altro che un provino di ciò che attende i manifestanti dopo la pausa primaverile del parlamento, una volta che la forza di polizia privata sarà istituita e tutta l’organizzazione sarà completata.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’economia israeliana era il fiore all’occhiello di Netanyahu. L’apartheid può sopravvivere senza?

Nimrod Flaschenberg

27 marzo 2023 – +972 Magazine

Il primo ministro non prevedeva che il colpo di stato giudiziario avrebbe minato uno degli elementi fondamentali a tutela del regime di apartheid israeliano.

La combinazione finora riuscita di neoliberismo e apartheid in Israele sta finalmente incontrando degli ostacoli interni.

Dopo mesi di proteste e pressioni economiche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lunedì che avrebbe temporaneamente interrotto la fase successiva della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato di notte, dopo che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo un’azione congiunta – lunedì mattina – delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano, che era stato riluttante ad aderire alla protesta contro la riforma giudiziaria.

Questa crisi rappresenta il culmine di diversi mesi di guerra economica intrapresa contro il governo da ampie fasce della società israeliana, e in particolare dalle sue élite. E questo scontro interno sta mettendo in luce una sorprendente debolezza nell’economia israeliana guidata dalla tecnologia, seppure in forte espansione. Ora resta la domanda: questa debolezza potrebbe anche segnare una breccia nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?

In tutti gli anni trascorsi nella veste di primo ministro israeliano, il risultato più significativo di Benjamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi. Sotto il suo regno, l’economia israeliana è esplosa, in gran parte grazie al fiorente settore dell’high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le sue relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi in tutto il mondo.

Il modello economico israeliano dall’inizio degli anni 2000 è stato interpretato dallo storico economico Arie Krampf come un neoliberismo isolazionista. Questo è il progetto di Netanyahu: un’economia orientata all’esportazione che dovrebbe costruire resilienza geopolitica attraverso una strategia di commercio diversificato, un basso rapporto debito/PIL e grandi riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che portano a sconcertanti disuguaglianze e ad un aumento della povertà. Il sistema di welfare si è sgretolato ma sono aumentati gli investimenti esteri; le nuove ricchezze di Israele non sono state divise equamente, ma l’élite economica è soddisfatta.

Attraverso questo modello Israele ha potuto diversificare i suoi rischi e interessi economici in tutto il mondo e diminuire in qualche modo la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi si sono basate non solo sulla predilezione per nazionalisti aggressivi che la pensano allo stesso modo, ma su una strategia di riequilibrio della posizione di Israele nella sfera globale, che lo ha reso un ambìto partner commerciale e militare.

Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica globale, non è stata in grado di sfidare veramente questo modello economico. Il movimento BDS ha in gran parte fallito nel far crescere il costo economico per il governo e la popolazione israeliana nel sostenere e radicare l’occupazione, ed è invece diventato un parafulmine per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di ben finanziate organizzazioni di hasbara [propaganda per la diffusione di una immagine positiva di Israele all’estero, ndt.].

L’Autorità Nazionale Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e della morsa dell’occupazione militare israeliana. Quindi, mentre i governi israeliani si sono spostati nell’arco dei decenni verso destra, intensificando l’occupazione e consolidando il regime di apartheid, lo Stato non è stato danneggiato economicamente e la sua posizione diplomatica si è solo rafforzata.

Ironia della sorte, ciò che la campagna del BDS finora non è riuscita a ottenere è ora promosso dagli ebrei israeliani: le élite che si stanno rapidamente radicalizzando nello scontro contro il tentativo di revisione giuridica del governo israeliano. Gli inevitabili impatti economici della riforma minacciano il modello neoliberista isolazionista, che è stato a lungo basato su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu ha vaccinato con successo l’economia israeliana contro le pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di affrontare l’attuale conflitto interno.

Pericoli reali

Martedì scorso Shira Greenberg, capo economista del ministero delle Finanze israeliano, ha pubblicato un rapporto in cui suggerisce che se la riforma legale venisse approvata nella sua interezza il PIL di Israele potrebbe diminuire fino a 270 miliardi di shekel [69 miliardi di euro, ndt.] nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, accennavano ad una perdita annua di 100 miliardi di shekel [26 miliardi di euro, ndt.]. Smotrich ha cercato di confondere i dati dicendo che nell’incontro sono stati presentati sia opportunità che rischi, ma fonti del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.]: Non è chiaro di quali opportunità stia parlando il ministro. C’era accordo fra i convenuti sul fatto che queste iniziative potrebbero causare gravi danni all’economia israeliana”.

Da mesi le istituzioni finanziarie internazionali suonano campanelli d’allarme sulla proposta di riforma. L’agenzia di rating del credito Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire l’aumento del rating del credito di Israele, indicando che i cambiamenti pianificati “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare l’afflusso di capitali nell’importante settore high-tech”. The Economist, il principale quotidiano economico mondiale e barometro per le posizioni dell’élite degli affari globali, ha recentemente pubblicato una notizia di copertina intitolata: “Bibi distruggerà Israele?” Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare in modo significativo la traiettoria del capitalismo israeliano.

Il presupposto alla base del ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che gli Stati non democratici non sono in grado di fare buoni affari. Questo, tuttavia, è un mito liberista: molti Paesi non democratici sono enormi poli commerciali. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; per molti aspetti, l’autoritarismo può servire bene il capitalismo.

Inoltre, lo stesso Israele non può attualmente essere definito una democrazia in quanto tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere problemi reali con l’occupazione. L’atteso rallentamento economico, quindi, non sarà una semplice reazione al restringimento dello spazio democratico in Israele ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale all’interno di Israele che espone il rischio economico allo sguardo degli osservatori esterni.

L’evoluzione del panico negli ultimi mesi è una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono pronti a combattere, e in testa c’è il settore dell’alta tecnologia. I lavoratori della tecnologia, dai manager e dipendenti agli investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano di fine della democrazia israeliana e sono disposti a fare di tutto per fermare i piani del governo.

Allo stesso tempo, si stanno salvaguardando dai rischi prendendo in considerazione destinazioni dove migrare o la possibilità di spostare i loro soldi all’estero. Rapporti recenti suggeriscono un esodo di aziende high-tech in Grecia, Cipro o Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende tecnologiche israeliane hanno tenuto un incontro per esaminare un possibile trasloco. Ricchi lavoratori high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma vada a buon fine. Questi movimenti interni inviano al sistema finanziario internazionale un messaggio secondo cui la crisi è reale e Israele non costituisce una piazza sicura.

Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno della democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, beni che in Israele sono attualmente molto scarsi.

È anche l’occupazione

La prevista revisione giuridica fa parte di un più ampio passaggio al dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. Tra le altre cose, la riforma è progettata per legalizzare l’annessione della Cisgiordania e consentire l’ulteriore persecuzione dei cittadini palestinesi, così come degli israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata per il governo di Netanyahu sarebbe stata quella di raffreddare il più possibile la questione palestinese mentre veniva portato avanti il progetto giuridico. Separando le questioni della democrazia interna” israeliana dalla questione palestinese forse sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e la pressione internazionale.

Ma i membri della coalizione di Netanyahu si rifiutano di separare questi temi: stanno chiarendo che la loro preoccupazione principale nel portare avanti la riforma è perseguire i palestinesi in modo più brutale, lamentandosi del fatto che la Corte Suprema renda troppo difficile demolire le case o deportare i palestinesi. La retorica razzista pronunciata ogni giorno dai ministri del governo, l’intensificarsi della violenza di Stato in Cisgiordania che ha ucciso circa 80 palestinesi dall’inizio dell’anno, e il pogrom dei coloni a Huwara elogiato dai ministri del governo sono tutti segnali che questo è un governo di fanatici, determinato a dare fuoco alla regione. Questo, a sua volta, sminuisce la reputazione di Netanyahu come efficace leader neoliberista orientato al business. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare – sembrano inarrestabili.

Sembra che le proteste interne e la pressione internazionale siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, l’ondata di modifiche nel campo giudiziario. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori qualificando come rischiosa l’economia israeliana. Anche se la riforma è sospesa, Israele è sulla buona strada per una significativa recessione economica.

In pratica, stiamo assistendo alla frattura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo in stile Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto di neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele fosse un investimento troppo buono per mancarlo. La potenza economica e strategica di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti coloniali e a favore di una soluzione a due Stati. Quindi Il capitale globale che ha permesso all’economia israeliana di prosperare è stato un elemento centrale nella lotta diplomatica contro la causa palestinese e per lungo tempo ha avuto successo.

Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliano. Con il conseguente caos sociale ed economico, potremmo assistere alla formazione delle prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.

Nimrod Flaschenberg è ex consigliere parlamentare del partito Hadash [partito politico israeliano di sinistra, ndt.]. Ora studia storia a Berlino.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gas algerino contro ideologia di destra: l’Italia cambierà la sua posizione su Gerusalemme?

Romana Rubeo e Ramzy Baroud

21 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Il 9 marzo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato Tel Aviv per andare a Roma, è stato portato all’aeroporto Ben Gurion in elicottero perché manifestanti antigovernativi avevano bloccato tutte le strade di accesso.

La visita di Netanyahu non è stata accolta con molto entusiasmo neppure in Italia. Nel centro di Roma è stato organizzato un sit-in di attivisti filo-palestinesi con lo slogan “Non sei il benvenuto”. Anche una traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di tradurre il suo discorso nella sinagoga di Roma previsto per il 9 marzo.

Persino la presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, benché come prevedibile abbia ripetuto il suo amore e sostegno a Israele, ha manifestato le sue preoccupazioni per le istituzioni dello Stato di Israele.

Di ritorno a Tel Aviv il viaggio di Netanyahu in Italia è stato stroncato dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid come “un dispendioso e inutile fine settimana a spese dello Stato.” Ma il viaggio di Netanyahu in Italia, oltre a passare un fine settimana a Roma o distogliere l’attenzione dalle continue proteste in Israele, aveva altri scopi.

In un’intervista pubblicata il 9 marzo dal quotidiano italiano La Repubblica il Primo Ministro ha spiegato gli ambiziosi obiettivi che stavano dietro al suo viaggio in Italia: “Vorrei che ci fosse una maggiore cooperazione economica,” ha affermato. “Abbiamo gas naturale, ne abbiamo tanto e vorrei parlare di come portarlo in Italia per contribuire al suo sviluppo economico.”

Nelle scorse settimane la Prima Ministra Giorgia Meloni ha fatto la spola tra vari Paesi alla ricerca di lucrosi contratti per il gas. Meloni non vuole solo garantire al suo Paese le necessarie forniture di energia in seguito alla crisi tra Russia e Ucraina, ma vuole che Roma diventi il principale snodo europeo per l’importazione e l’esportazione di gas. Israele lo sa ed è particolarmente preoccupato che l’importante accordo per il gas dell’Italia con Algeria del 23 gennaio possa minacciare la posizione economica e politica di Israele in Italia, in quanto l’Algeria continua a rappresentare il baluardo della solidarietà con i palestinesi in Medio Oriente e in Africa.

Oltre al gas, Netanyahu aveva altre questioni in mente. “Dal punto di vista strategico parleremo di Iran. Dobbiamo impedirgli di avere l’atomica perché i suoi missili potrebbero raggiungere molti Paesi, compresa l’Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista con armi nucleari,” ha detto Netanyahu con il consueto linguaggio allarmistico e stereotipato riguardo ai suoi nemici in Medio Oriente.

Netanyahu ha due principali richieste da fare all’Italia: non votare contro Israele alle Nazioni Unite e, cosa più importante, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Benché Gerusalemme sia considerata dalla comunità internazionale una città palestinese occupata, Netanyahu vuole che, in base all’inconsistente logica della “forte ed antica tradizione tra Roma e Gerusalemme”, Roma cambi la propria posizione, che è coerente con il diritto internazionale.

In base alla stessa logica di esportazione di materie prime e armi in cambio di fedeltà politica con Israele all’ONU, Netanyahu ha ottenuto grandi successi nel normalizzare i rapporti tra il suo Paese e molte Nazioni africane. Ora sta applicando lo stesso modus operandi in Italia, una potenza europea e la nona economia mondiale.

Che questa strategia sia un risultato della crescente sudditanza dell’Europa nei confronti di Washington e Tel Aviv o dell’incapacità di Netanyahu di comprendere il cambiamento delle dinamiche geopolitiche nel mondo è un’altra questione. Ma è chiaro che Netanyahu ha percepito che l’Italia è un Paese che ha disperatamente bisogno dell’aiuto di Israele. Durante l’incontro con Meloni Netanyahu ha promesso di fare dell’Italia uno snodo del gas per l’Europa e di aiutare Roma a risolvere i suoi problemi idrici, mentre da parte sua Meloni ha insistito che “Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e a livello globale.”

Tuttavia la risposta più entusiastica alla visita di Netanyahu è venuta dal ministro italiano delle Infrastrutture Matteo Salvini, di estrema destra, che ha fortemente appoggiato la richiesta israeliana di riconoscere Gerusalemme come sua capitale “in nome della pace, della storia e della verità.” Per quanto in contraddizione con la politica estera italiana, la sua reazione non è affatto sorprendente. Il capo della Lega in passato è stato spesso criticato per il suo linguaggio razzista. Tuttavia Salvini negli ultimi anni si è “trasformato”, soprattutto dopo una visita nel 2018 in Israele, dove ha dichiarato il suo amore per Israele e ha criticato i palestinesi. È stato allora che Salvini ha iniziato a crescere a livello politico italiano in generale, invece che regionale.

Ma questa non è la posizione solo di Salvini. Il governo italiano ha accolto positivamente la visita di Netanyahu senza alcuna critica nei confronti delle politiche radicali del suo governo di estrema destra portate avanti nella Palestina occupata. Mentre questa posizione è in linea con la politica estera italiana, non c’è da stupirsene neanche da un punto di vista ideologico.

Benché in passato, grazie alle forze rivoluzionarie che hanno avuto un grande impatto nel definire il discorso politico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva liberazione del Paese dal fascismo, la politica italiana abbia dimostrato una notevole solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la liberazione e il diritto all’autodeterminazione, questa posizione è cambiata nel corso degli anni. Mentre la politica interna italiana arretrava verso destra, l’agenda della sua politica estera in Palestina e Israele si è spostata decisamente verso una posizione filo-israeliana. Ora quanti vengono percepiti come filo-palestinesi nel governo italiano sono pochi e spesso definiti politici radicali.

Tuttavia, nonostante il discorso ufficiale a favore di Israele in Italia, le cose per Netanyahu non sono così facili come possono sembrare, soprattutto quando si tratta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In effetti Meloni non ha manifestato un sincero impegno verso la richiesta israeliana. Al contrario, lo scorso agosto, in un’intervista con la Reuter [agenzia di stampa inglese, ndt.], ancor prima di diventare prima ministra italiana Meloni era sembrata cauta, affermando solo che si tratta di “una questione diplomatica e dovrebbe essere valutata insieme al ministero degli Esteri.”

C’è una ragione dietro all’esitazione di Meloni. Il riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale di Israele collocherebbe Roma fuori dal diritto internazionale. In una lettera aperta a Meloni la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha ricordato al governo italiano che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele rappresenterebbe un’aperta violazione del diritto internazionale.

La politica estera italiana deve anche rendere conto a quella collettiva dell’Unione Europea, di cui Roma è parte integrante. L’UE sostiene la posizione dell’ONU, secondo cui Gerusalemme est è una città palestinese occupata e l’annessione della città nel 1980 da parte di Israele è illegale.

Oltretutto il recente accordo storico dell’Italia con la compagnia statale algerina del gas, Sonatrach, a gennaio, rende particolarmente difficile per Roma prendere una posizione estremista a favore di Israele. Il delicato equilibrio geopolitico risultante dalla crisi del gas, di per sé un risultato diretto della guerra tra Russia e Ucraina, rende ogni cambiamento nella politica estera italiana riguardo a Palestina e Israele simile a un atto di autolesionismo.

Almeno per il momento il gas arabo è per l’Italia molto più importante di quello che potrebbe offrire Netanyahu. Secondo quanto riferito da “BNE Intellinews” il nuovo accordo tra Roma e Algeri garantirà all’Italia 9 miliardi di m3 di gas, oltre alle forniture che già passano per il gasdotto TransMed. Questa infrastruttura vitale connette l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia che, a sua volta, utilizza gasdotti sotto il mar Mediterraneo. “L’espansione di questi percorsi vitali è già stata programmata, al fine di aumentare l’attuale capacità di 33,5 miliardi di m3 all’anno”, aggiunge il sito web di notizie economiche.

Benché sia una figura politica di estrema destra senza una particolare vicinanza o rispetto per le regole stabilite a livello internazionale, Meloni comprende che gli interessi economici prevalgono sull’ideologia. “Oggi l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas,” ha affermato Meloni in una conferenza stampa ad Algeri dopo aver firmato l’accordo. Il contratto, ha detto, fornirà al Paese “un mix di energia che difenderà l’Italia dall’attuale crisi energetica.”

Un simile fatto renderebbe impossibile per l’Italia allontanarsi, almeno per ora, dalla sua attuale posizione riguardo a Gerusalemme e all’illegale occupazione israeliana della Palestina. Mentre sarà difficile per Israele convincere l’Italia a cambiare posizione, Algeria, Tunisia e altri Paesi arabi potrebbero alla fine trovare un varco per scoraggiare l’Italia dal suo cieco appoggio a Israele.

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)