Gli israeliani scelgono un governo di destra – rispetto ad un governo di destra moderata

Jonathan Ofir

3 marzo 2020 Mondoweiss

Con il 90% dei voti scrutinati nella terza elezione in un anno in Israele, la grande sorpresa è che il Likud di Netanyahu supera il partito rivale di centro “Blu e Bianco” di Gantz. Il conteggio è di 36 (seggi) per il Likud e 32 per “Blu e Bianco”. Per alcuni mesi il Likud è rimasto sostanzialmente indietro, e solo nelle ultime due settimane i sondaggi hanno iniziato a mostrare un lieve vantaggio del Likud su “Blu e Bianco”. Nessun sondaggio aveva assolutamente previsto una vittoria di questa portata prima della giornata elettorale di ieri.

Però in base al conteggio sembrano mancare al blocco di destra del Likud 2 seggi –con 59 eletti– per raggiungere una coalizione di governo senza  “Blu e Bianco” e senza i sette seggi di Lieberman nel partito “Yisrael Beitenu” [ultranazionalista laico, ndtr.]. Ma Lieberman ha sempre dichiarato che la sua unica opzione è un governo di unità senza i partiti religiosi, che hanno ottenuto 17 seggi e sono una componente essenziale del blocco di Netanyahu.

Quindi, benché non sia ancora una vittoria decisiva per il Likud e per Netanyahu, è comunque una vittoria importante, almeno simbolicamente. Netanyahu ha già salutato la vittoria come “la più grande della mia vita”.

Occorre sottolineare che anche la “Lista Unita”, che rappresenta la maggior parte dei palestinesi israeliani, ha ottenuto un successo storico: 15 seggi. Ma questo conta poco per i sionisti che governano Israele: “Blu e Bianco” ha già affermato chiaramente che non parteciperanno al governo, come è sempre stato in Israele – gli “arabi” possono aumentare o diminuire, semplicemente non contano nel sistema dell’Israele “ebraico e democratico”, che è una forma di “democrazia solo per gli ebrei”.

Qui è importante l’elemento simbolico. Se Netanyahu sembra essere ad un passo dalla maggioranza di 61 seggi, Gantz ne è lontano anni luce. Senza la Lista Unita, una coalizione di centro-sinistra tra “Blu e Bianco” e partito Laburista – Meretz (7 seggi, i rimasugli della sinistra sionista) arriverebbe solo a 39 seggi. Anche se questa coalizione dovesse contare sull’appoggio dei voti della Lista Unita, comunque non si avvicinerebbe nemmeno [alla maggioranza]. Perciò il messaggio è che Israele è un Paese di destra.

E bisogna considerare la logica dal punto di vista dell’elettore israeliano di destra. Se “Blu e Bianco” è sostanzialmente un partito fotocopia del Likud, semplicemente senza Netanyahu, e se votarlo porta ad un’impasse, allora perché non votare direttamente il Likud e aumentare le probabilità di un governo di destra, anche se non ti piace Netanyahu?

Questa sembra essere la logica naturale in questa protratta guerra di logoramento sotto forma di elezioni israeliane senza fine. Netanyahu sembra essere entusiasta di questa prospettiva. Può essere che ciò conduca ad una quarta elezione, ma non sarà affatto un problema per Netanyahu. Il messaggio è “solo un’altra piccola spinta” e “Netanyahu o il disastro”.

Israele può andare avanti per un po’ con questo “governo provvisorio”. Se la realtà dimostra che elezioni ripetute alla fine producono un vantaggio per il Likud, allora dal punto di vista di Netanyahu potrebbe valere la pena di insistere,  non accettare compromessi per un governo di unità e giocare questa carta in vista di una vittoria ancor maggiore e più netta la prossima volta.

Jonathan Ofir . Musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger, vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La vita culturale e educativa dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane

Addameer

14 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

La sistematica violazione dei diritti umani più basilari dei prigionieri e detenuti palestinesi da parte dell’occupazione israeliana ha modellato la continua lotta che essi conducono nelle prigioni israeliane.

Durante tutti questi decenni sono stati sistematicamente e deliberatamente privati di uno specifico diritto – quello all’educazione. Per avere accesso all’educazione, e anche per poter disporre di penne e carta entro le mura del carcere, i prigionieri palestinesi hanno dovuto ricorrere, tra le altre forme di resistenza, a scioperi della fame collettivi. Nel 1992, in seguito ad uno dei più importanti e famosi scioperi della fame di quell’anno, i prigionieri hanno ottenuto il diritto di usufruire dell’insegnamento secondario e superiore.

Ciò ha comportato un cambio di paradigma nel processo educativo ed ha consentito ai prigionieri di iscriversi ad istituti di insegnamento, cosa cruciale per loro, dato il numero crescente di prigionieri che volevano intraprendere un percorso universitario. Tuttavia il servizio penitenziario israeliano – sostenuto dall’Alta Corte israeliana – ha continuato a limitare il diritto all’educazione dei prigionieri. Ecco qui di seguito una sintesi della storia della lotta dei prigionieri politici palestinesi per il loro diritto all’educazione.

Al momento degli accordi di Oslo nel 1993, le le continue lotte e iniziative dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane avevano consentito loro di conquistare il diritto ad avere dei libri e delle biblioteche in carcere. I prigionieri organizzavano dibattiti educativi e culturali su diverse questioni legate ai diritti dei prigionieri e alla resistenza palestinese.

Nel quadro degli accordi di Oslo vennero liberati migliaia di prigionieri politici palestinesi arrestati durante l’Intifada. Benché un esorbitante numero di prigionieri sia tuttora in carcere, questo cambiamento indebolì la lotta dei prigionieri, cosa che a sua volta influenzò la situazione culturale creata all’epoca dai prigionieri. Le animate discussioni culturali divennero meno frequenti e il loro scopo si modificò, come anche la capacità dei prigionieri di organizzare scioperi della fame ed altre forme di azione collettiva per ottenere il rispetto dei loro diritti.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che aveva precedentemente svolto un ruolo essenziale fornendo libri, materiale educativo e test sul quoziente di intelligenza nelle carceri, soprattutto per i bambini detenuti, a metà anni ’90 iniziò a farsi da parte, fino a scomparire del tutto da alcune carceri.

A metà degli anni ’90, in seguito all’evoluzione del movimento dei prigionieri e all’abbandono da parte della CICR, i prigionieri si riorganizzarono per dare priorità all’accesso all’educazione come richiesta collettiva. Lo sciopero della fame del 1992, a cui parteciparono migliaia di prigionieri e che durò 19 giorni, ottenne parecchie vittorie. Anzitutto per la prima volta i prigionieri furono autorizzati a presentarsi all’esame di maturità, noto con il nome di “tawjihi”, per ottenere il diploma di studi secondari.

Questa vittoria, molto importante per quei prigionieri i cui studi erano stati interrotti per decenni, era tuttavia incompleta perché si limitava alle discipline umanistiche, in quanto l’occupazione israeliana continuava a rifiutare l’accesso ai diplomi di scienze o di matematica.

Inoltre i prigionieri avevano accesso solo ad un numero limitato di programmi accademici all’università aperta israeliana, come teologia, sociologia, finanza e amministrazione, psicologia e scienze politiche. Ancora, i prigionieri dovettero condurre una difficile battaglia per costringere il servizio penitenziario israeliano (SPI), incaricato di agevolare il percorso, a rispettare l’accordo invece di ostacolare deliberatamente la sua applicazione in tutti i modi. Per esempio lo SPI, che doveva approvare l’iscrizione ad un programma di studi, spesso rifiutava di farlo con il pretesto della sicurezza, del fatto che si era raggiunto il numero masssimo di iscritti al programma o di altri motivi tanto fittizi quanto arbitrari.

Inoltre non forniva per tempo il materiale didattico ai prigionieri, cosa che impediva loro di seguire i corsi, oppure li trasferiva continuamente da un carcere all’altro durante il trimestre universitario o nei periodi degli esami, costringendo molti di loro a ripeterli.

Le restrizioni relative all’educazione dei prigionieri si sono aggravate nel tempo, soprattutto nel 2006, quando Israele ha applicato una punizione collettiva che comprendeva la soppressione del diritto all’educazione di parecchi prigionieri perché il soldato israeliano Gilad Shalit era stato catturato durante un’incursione militare israeliana a Gaza. Le restrizioni sono ulteriormente peggiorate nel 2011, dopo che il Primo Ministro israeliano dell’epoca, Benjamin Netanyahu, ha annunciato che nessun prigioniero palestinese sarebbe più stato autorizzato ad ottenere il diploma di laurea o di dottorato in carcere, affermando che per i prigionieri politici “la festa è finita”.

Il discorso di Netanyahu ha comportato il divieto totale di studio dei prigionieri nelle carceri ed ha posto fine all’esame di tawjihi e ai programmi di studio dell’Università aperta israeliana, per i quali i prigionieri si erano duramente battuti. Alcuni prigionieri che stavano per ottenere il diploma hanno invano presentato denunce all’Alta Corte israeliana, perché l’Alta Corte ha giudicato il divieto legale ed ammissibile. Nella sua decisione, la Corte ha sottolineato che l’educazione dei prigionieri è un privilegio che può essere revocato se lo SPI lo decide.

Tuttavia va notato che, se il discorso di Netanyahu è stato un annuncio pubblico della soppressione dei diritti dei prigionieri, lo SPI nel 2008 aveva già annullato i programmi educativi nella maggior parte delle carceri. Netanyahu non ha fatto che ratificare quanto era già in atto.

I prigionieri palestinesi ai quali sono state vietate le vie ufficiali di accesso all’educazione hanno continuato a battersi con ogni mezzo per il diritto all’educazione. Hanno cercato di colmare le lacune organizzando dibattiti culturali, corsi di alfabetizzazione e seminari educativi, creando delle biblioteche all’interno delle carceri e procurandosi giornali e riviste per i prigionieri. Molte di queste strade alternative non erano nuove, ma hanno acquisito importanza quando per i prigionieri è diventato impossibile iscriversi all’Università aperta israeliana.

Inoltre gli stessi detenuti hanno svolto un ruolo chiave nel processo educativo insegnandosi reciprocamente le lingue ed altre conoscenze.

Nel 2013 i prigionieri hanno lavorato con i ministeri competenti palestinesi per poter sostenere l’esame di tawjihi in prigione. Inoltre hanno instaurato dei legami con alcune università palestinesi ed hanno sviluppato dei programmi di laurea e di dottorato che hanno permesso a decine di prigionieri di conseguire il diploma nel corso degli anni.

Le autorità israeliane trovano continuamente nuovi modi per impedire ai prigionieri di studiare, senza contare che da anni ormai vietano i testi didattici in carcere e confiscano regolarmente i libri ed altro materiale educativo che i prigionieri riescono a fare entrare in carcere. Nel 2018 lo SPI ha confiscato circa 2.000 libri nella prigione di Hadarim, distruggendo la biblioteca che ci erano voluti anni a creare. Inoltre lo SPI punisce i prigionieri che cercano di proseguire i propri studi al di fuori delle mura carcerarie, trasferendoli in altre carceri o in altre celle.

Le donne e i minori detenuti subiscono le stesse restrizioni. Anche se nel 1997 i tribunali israeliani hanno stabilito che i minori prigionieri potevano proseguire la loro educazione secondo il programma palestinese, questo è molto lontano dalla realtà. Lo SPI autorizza gli insegnanti del ministero dell’Educazione israeliano ad insegnare solo due materie (arabo e matematica), cosa che ostacola gravemente lo sviluppo del minore. Il limitato numero di materie e l’irregolarità dei corsi compromettono enormemente i loro studi.

Le restrizioni continue e sistematiche imposte da Israele sono una violazione del diritto all’istruzione garantito da molte convenzioni internazionali, in particolare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia.

Il diritto all’educazione è garantito anche dal diritto internazionale umanitario. L’articolo 94 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “la potenza occupante deve incoraggiare le attività intellettuali, educative e ricreative, sportive e ludiche tra i reclusi, pur lasciandoli liberi di parteciparvi o meno. Deve prendere tutte le misure possibili per garantire il loro esercizio, in particolare mettendo a disposizione dei prigionieri locali adeguati. Devono essere messi a disposizione dei prigionieri tutti gli strumenti necessari a permettere loro di seguire i propri studi o di iscriversi a nuove discipline. L’educazione dei bambini e dei ragazzi deve essere garantita; essi devono essere autorizzati a frequentare la scuola in carcere o all’esterno. I prigionieri devono avere la possibilità di fare ginnastica, praticare sport e giochi all’aria aperta. A questo scopo, in tutti i luoghi di detenzione devono esserci sufficienti spazi all’aria aperta. Ai bambini e agli adolescenti devono essere riservate aree speciali per il gioco.”

Inoltre l’articolo 77 delle Norme standard minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite stabilisce che: “Devono essere prese misure per garantire la formazione continua di tutti i detenuti in grado di trarne profitto, compresa l’istruzione religiosa nei Paesi dove questo sia possibile. L’educazione degli analfabeti e dei giovani detenuti è obbligatoria e le deve essere dedicata particolare attenzione da parte dell’amministrazione. Per quanto possibile, l’educazione dei detenuti deve essere integrata al sistema d’insegnamento del Paese, in modo che essi, dopo la scarcerazione, possano proseguire gli studi senza difficoltà. In tutte le strutture penitenziarie devono essere offerte attività ricreative e culturali per mantenere la salute mentale e fisica dei detenuti.”

Non solo la potenza occupante vieta ai prigionieri palestinesi di usufruire del diritto all’educazione, ma continua a prendere di mira e ad arrestare deliberatamente gli studenti palestinesi. Solo nel 2019 il numero di studenti palestinesi incarcerati è salito a circa 250-300. Nel 2019 circa 75 studenti della sola università di Birzeit sono stati arrestati perché erano membri attivi di associazioni di studenti.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Decenni dopo l’uccisione in California di un attivista palestinese americano, due sospettati del suo omicidio vivono tranquillamente in Israele

David Sheen

6 febbraio 2020 –The Intercept

Alex Odeh nacque nel 1944 nella Palestina del Mandato britannico da una famiglia del villaggio cisgiordano di Jifna, nei pressi di Ramallah, solo quattro anni prima della fondazione di Israele. Nel 1972 emigrò negli Stati Uniti, dove divenne portavoce della comunità araba americana, contestando l’immagine negativa di mediorientali e musulmani, che all’epoca era un luogo comune almeno quanto lo è oggi.

Odeh, direttore per la California meridionale dell’Arab-American Anti-Discrimination Committee [Comitato contro la Discriminazione degli Arabi Americani], o ADC, era noto per i suoi tentativi di creare ponti tra ebrei e arabi, ma il suo slancio era duramente osteggiato dai nazionalisti della comunità ebraica, che lo vedevano come una nascente minaccia.

Quando iniziò a sfidare il consenso a favore di Israele negli USA, organizzando manifestazioni contro l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982, l’ADC divenne un bersaglio per la destra ebraica. Nel 1984 membri dell’ADC ricevettero in continuazione telefonate minatorie da parte di una o più persone che si presentavano come leader della Jewish Defense League [Lega per la Difesa Ebraica], un movimento antiarabo guidato dal rabbino Meir Kahane. L’anno successivo, dopo che l’ADC pubblicò sul Washington Post annunci con cui tentava di convincere elettori e politici americani che Israele non avrebbe più dovuto ricevere le assegnazioni annuali di milioni di dollari in aiuti statunitensi all’estero, iniziarono aggressioni fisiche.

L’11 ottobre 1985 Odeh avrebbe dovuto parlare alla congregazione B’nai Tzedek, una sinagoga riformata [corrente progressista dell’ebraismo, nata in Germania nel XIX secolo, ndtr.]. Tuttavia quella mattina, quando entrò nell’ufficio dell’ADC a Santa Ana, in California, scoppiò una bomba. Morì in sala operatoria due ore dopo. Fu il secondo attacco dinamitardo contro l’ADC in soli due mesi.

Ore dopo l’uccisione di Odeh, l’omicidio venne giustificato dalla Jewish Defense League: “Non piango per il signor Odeh,” disse Irv Rubin, allora presidente nazionale della JDL. “Ha semplicemente avuto quello che meritava.”

Non venne effettuato alcun arresto. Nell’aprile 1994, quando Odeh avrebbe festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, la città di Santa Ana gli eresse una statua per commemorare la sua vita e il suo lavoro. Due anni dopo la statua venne sfigurata e pochi mesi dopo fu di nuovo profanata da vandali che la cosparsero di secchiate di pittura rosso sangue.

Lo stesso anno l’FBI offrì una ricompensa di 1 milione di dollari per informazioni che portassero all’arresto e alla condanna degli assassini di Odeh. Finora non è stato rivendicato.

Sottrarsi alla giustizia

Baruch Ben-Yosef, che ha 60 anni, vive in una colonia per soli ebrei a sud di Betlemme. Ha fatto l’avvocato come membro dell’ordine degli avvocati israeliano per un quarto di secolo, sommando in quarant’anni comparizioni a due cifre di fronte alla Corte Suprema israeliana – come cliente, avvocato, querelante e difensore. In quel tempo ha anche presentato una denuncia contro molti primi ministri israeliani, compreso quello in carica, Benjamin Netanyahu.

Dopo aver terminato la scuola superiore nel Bronx ed essere emigrato subito in Israele, Ben-Yosef fu tra i primi ebrei a colonizzare i territori palestinesi che Israele occupò nel giugno 1967. Mesi dopo il suo arrivo, Ben-Yosef si arruolò nelle forze armate israeliane, prestando servizio nell’ormai disciolta unità commando Sayeret Shaked [unità delle forze speciali che dipendeva dal comando Sud dell’esercito israeliano, ndtr.], e continuò a far parte nella riserva fin oltre i trent’anni. Tuttavia, dopo che nel 1993 Israele firmò gli accordi di Oslo con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Ben-Yosef rifiutò di presentarsi per il servizio militare nella riserva.

Ben-Yosef è anche uno dei padri fondatori dell’attuale movimento israeliano ‘dominionista’ per il Tempio, che intende sostituire la Cupola della Roccia di Gerusalemme – uno storico santuario venerato dai musulmani e tra gli edifici più belli del Paese – con un tempio ebraico.

Negli Stati Uniti, dove Ben-Yosef è cresciuto ed è tornato a vivere all’inizio degli anni ’80, ha fatto parte della Jewish Defense League, il gruppo razzista e violento fondato da Kahane. Ben-Yosef è stato attivo nel movimento di Kahane anche in Israele, per cui è stato uno dei pochissimi cittadini ebrei sottoposti dallo Stato israeliano a detenzione amministrativa, una misura draconiana che praticamente viene applicata quasi unicamente ai palestinesi. Per aver progettato di far saltare in aria la Cupola della Roccia nel 1980 è stato in prigione per sei mesi con lo stesso Kahane. Ben-Yosef è stato incarcerato per altri sei mesi nel 1994, insieme agli altri dirigenti del movimento ultranazionalista Kach, un partito politico fondato da Kahane, dopo che il governo israeliano ha messo fuorilegge l’adesione a gruppi kahanisti.

Un altro membro della Jewish Defense League è stato Keith Israel Fuchs, cresciuto a Brooklyn, New York, prima di spostarsi a Santa Monica, California. Dopo le scuole superiori Fuchs è emigrato nella colonia di Kiryat Arba in Cisgiordania, dove il rabbino Kahane e i suoi seguaci avevano creato una comunità all’interno di un’altra comunità.

Nel febbraio 1983, durante la festa ebraica di Purim, Fuchs sparò con un Kalashnikov contro un’auto palestinese in transito sulla strada fuori da Kiryat Arba. Il New York Times scrisse che Fuchs venne arrestato per “aver sparato contro un’automobile araba che lo aveva bagnato passando in una pozzanghera.”

Un rapporto della vice procuratrice generale israeliana Yehudit Karp pubblicato l’anno precedente evidenziò che i coloni ebrei avevano pepetrato a lungo e senza conseguenze violenze contro i palestinesi del posto, ma gli attacchi compiuti da Fuchs e da altri coloni quella stessa settimana preoccuparono importanti dirigenti israeliani perché avevano comportato l’uso di armi da fuoco.

In seguito a ciò il nuovo ministro della Difesa Moshe Arens ordinò la demolizione del nuovo quartiere kahanista, e Fuchs venne condannato a 39 mesi di carcere, che secondo una notizia giornalistica era fino a quel momento “la più lunga condanna di sempre per un vigilante ebreo.” La sua carcerazione venne alla fine ridotta a 22 mesi, a condizione che passasse fuori da Israele il tempo rimanente della sua pena originaria.

Come previsto dalla sua libertà vigilata, nel dicembre 1984 Fuchs tornò negli Stati Uniti. Vi rimase fino al settembre 1986, più o meno un anno dopo l’assassinio di Odeh.

Circa 35 anni dopo né lui né Ben-Yosef sono stati imputati per il delitto che almeno tre ufficiali di polizia sospettano essi abbiano commesso negli Stati Uniti: l’assassinio di Alex Odeh.

Doppia identità

Ben-Yosef era nato negli Stati Uniti come Andy Green, e venne a lungo ricercato dall’FBI per essere interrogato riguardo all’uccisione di Odeh.

Secondo tre ufficiali di polizia in pensione che si occuparono del caso e sono stati intervistati da The Intercept, e da allora anche da molti altri servizi giornalistici, Ben-Yosef e Fuchs (che in Israele è noto con il suo nome ebraico, Israel) furono identificati come sospetti subito dopo l’assassinio di Odeh. Gli ufficiali di polizia – della polizia locale, due dei quali hanno prestato servizio nell’unità operativa speciale congiunta contro il terrorismo dell’FBI – hanno parlato a The Intercept in forma anonima perché l’inchiesta rimane aperta.

È un caso aperto. Abbiamo parecchi casi di omicidio aperti e cose del genere. Ma questo era frustrante perché avevamo nomi di sospetti,” ha detto a The Intercept un ufficiale di polizia in pensione che lavorò al caso di Odeh per più di un decennio, citando Ben-Yosef come sospetto, insieme ad altri due seguaci di Kahane: Keith Israel Fuchs e Robert Manning. “Sappiamo chi lo ha fatto. Sappiamo dove vivono. Sappiamo perché l’hanno fatto e come.”

Nei decenni seguiti all’uccisione di Odeh, sono emerse molte prove di dominio pubblico che Andy Green, nato negli Stati Uniti, è la stessa persona del cittadino israeliano Baruch Ben-Yosef. Quattro giornali israeliani che hanno informato sulla sua incarcerazione nel 1980 hanno fatto riferimento a lui come a Baruch Green Ben-Yosef. Viene citato con entrambi i nomi nei documenti del 1994 della Knesset e del Senato USA. Un articolo del “Wall Street Journal” pubblicato il 18 maggio 1994 e inserito nella documentazione del Volume 140, numero 62 del Congresso, include un rapporto sulle attività del movimento del Tempio di Keith Fuchs e di “Baruch Ben-Yosef, nato Andy Green.” Il Wall Street Journal racconta anche che Fuchs era stato “indagato ma mai imputato dal Federal Bureau of Investigation [FBI] in rapporto con una serie di attentati dinamitardi negli USA, compresa la morte di un attivista arabo statunitense e di un sospetto criminale di guerra nazista.” Negli articoli americani e israeliani sugli stessi avvenimenti, come il suo arresto del 1983 in Israele e l’assassinio di Odeh, Fuchs è stato identificato come Keith Fuchs, Israel “Keith” Fuchs, Yisrael Fuchs e Israel Fox.

Nel gennaio 1993 il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] scrisse che venticinque anni fa, durante un incontro di sostenitori delle colonie, lo stesso Ben-Yosef ammise si essere ricercato dall’FBI in relazione con l’assassinio di Alex Odeh. Secondo il Post, Ben-Yosef disse che l’FBI aveva scorrettamente dato la caccia a Manning per l’uccisione nel 1985 di Odeh e di un presunto criminale di guerra nazista, e Ben-Yosef sostenne l’innocenza di Manning. L’articolo prosegue: “Ben-Yosef affermò di essere anche lui ricercato dall’FBI” riguardo a quegli omicidi e di essere stato “maltrattato” negli USA da un agente dell’FBI. Il Post notò anche che Ben Yosef era “noto negli USA come Andy Green.”

Secondo un articolo della “Jewish Telegraphic Agency” [agenzia di stampa USA che si rivolge ai mezzi di comunicazione ebraici nel mondo, ndtr.] pubblicato lo stesso anno, Ben-Yosef riconobbe pubblicamente di essere ricercato dalla polizia USA, benché le sue affermazioni non facessero esplicito riferimento all’uccisione di Odeh.

Ben Yosef, direttore esecutivo della yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Monte del Tempio e figura centrale nell’organizzazione “Kach”, ha ammesso di essere ricercato dall’FBI negli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nella milizia “Jewish Defense League” negli anni ’70 e ’80,” informò la JTA nel 1993, dopo che Ben-Yosef e Fuchs vennero arrestati in Israele con il sospetto di aver progettato attacchi contro palestinesi.

Ben-Yosef/Green, Fuchs e Manning nel 1988 vennero identificati come sospettati per l’omicidio di Odeh dal giornalista Robert Friedman, che scriveva per il “Village Voice” [storico settimanale newyorkese di tendenza progressista, ndtr.] e per il “Los Angeles Times” nel 1990. Un ritratto approfondito di Ben-Yosef pubblicato dal “Jerusalem Post” [quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] nel 1994 ribadì le accuse contro di lui.

Secondo l’articolo di Friedman sul Los Angeles Times, L’FBI identificò Fuchs, Ben-Yosef/Green e Manning come i principali sospettati nell’uccisione di Odeh prima ancora che le rovine contorte degli uffici dell’ADC venissero portate via. “I nomi di Fuchs, Green e Manning vennero citati come gli attentatori mentre eravamo ancora davanti dall’edificio fatto esplodere con la dinamite,” disse un ufficiale della polizia californiana al L.A. Times nel 1990.

Manning venne estradato negli Stati Uniti nel 1994 per un altro omicidio, non in rapporto diretto con attività di estrema destra o con le politiche di potere ebraiche e attualmente sta scontando un ergastolo per quel crimine in un penitenziario federale dell’Arizona. Fuchs invece ha mantenuto un profilo basso negli ultimi 25 anni, ma The Intercept ha accertato che vive in una piccola colonia a sud di Betlemme, continuando a partecipare a incontri politici privati dell’estrema destra israeliana. La strada in cui vive è l’unica del Paese che prende il nome dal villaggio di Jifna, in cui nacque e visse Alex Odeh.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele”

Nel 1986 Ben-Yosef e Fuchs lasciarono gli Stati Uniti per andare in Israele e l’anno seguente il ministero della Giustizia [USA] chiese al governo israeliano di aiutarlo nell’inchiesta sull’uccisione di Odeh. Venti anni dopo la morte di Odeh, il ministero della Giustizia continua a cercare indizi. Nel 2006 l’allora procuratore generale USA Alberto Gonzales si recò a Tel Aviv e chiese alla sua controparte israeliana, l’allora ministro della Giustizia Haim Ramon, di aiutarlo in questo caso.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele. Una richiesta di assistenza legale reciproca” – una procedura che consente uno scambio di informazioni nel corso di un’inchiesta penale – “è stata presentata al GOI (governo di Israele), e la mancanza di risposta rimane una questione che preoccupa l’FBI,” sottolineò un telegramma diplomatico due giorni dopo l’incontro del 28 giugno.

Il telegramma, pubblicato da WikiLeaks nel 2011, nota che Ramon si impegnò “ad occuparsi del caso di Alex Odeh.” Ramon diede le dimissioni dal suo incarico circa due mesi dopo il suo incontro con Gonzales e non è chiaro cosa sia successo poi con l’inchiesta in Israele. In una recente intervista, Ramon ha detto a The Interceptor di non ricordare niente riguardo al caso di Odeh. “È una delle questioni in cui non fui molto coinvolto,” ha affermato, “e non posso rispondere, non so cosa sia successo con questo caso.” Gonzales si è rifiutato di fare dichiarazioni.

Anche le stesse affermazioni di Ben-Yosef in video caricati su YouTube da un attivista kahanista negli ultimi anni indicano che egli è Andy Green. Il racconto di Ben-Yosef del suo arresto corrispondono al racconto di Robert Friedman dello stesso incidente, attribuita ad Andy Green nella biografia su Kahane “The False Prophet” [Il falso profeta] scritta da Friedman.

Un portavoce del dipartimento di polizia di Santa Ana ha detto a The Intercept che la documentazione del dipartimento sul caso ancora aperto è stata trasferita all’FBI, che è l’ente che se ne occupa. L’FBI non risponde alle richieste di commentare la situazione dell’indagine sull’uccisione di Odeh. Alla richiesta di commentare i risultati dell’inchiesta di The Intercept, Ben-Yosef ha dichiarato: “Nego categoricamente ogni rapporto con gli argomenti citati nella sua lettera,” e non ha risposto ad altre domande. Interpellato per telefono per commentare, Fuchs ha detto a The Intercept che non rilascia interviste. In seguito ha confermato di aver ricevuto una richiesta dettagliata inviata con WhatsApp, ma non ha risposto alle domande.

Nonostante la consistente documentazione apparsa nella stampa israeliana, uno degli apparati di intelligence più avanzati del mondo ha consentito a Ben-Yosef e a Fuchs di rimanere a piede libero, sfuggendo alle autorità USA.

La nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini”

Negli anni immediatamente successivi alla morte di Odeh, i continui appelli del governo USA alle forze dell’ordine israeliane perché contribuissero a risolvere il caso sono stati vani. Secondo un articolo pubblicato quell’anno dal Washington Post, nel 1987 l’allora vicedirettore dell’FBI Floyd Clarke inviò una memoria interna all’allora vicedirettore esecutivo dell’ufficio Oliver Revell, lamentando il fatto che i suoi ripetuti tentativi di conoscere cosa Israele sapesse dei sospetti attentatori non fossero approdati a nulla.

Attraverso l’FBIHQ [quartier generale dell’FBI, ndtr.] sono stati trasmessi al Servizio Segreto israeliano (ISIS) a Washington DC numerosi indizi,” scrisse Clark a Revell nella sua memoria, stralci della quale vennero pubblicati sul Village Voice. “La sezione terrorismo ha avuto numerosi incontri con rappresentanti (israeliani) a Washington, durante i quali sono state sollevate le nostre preoccupazioni relative alla loro gestione delle nostre richieste. Benché queste discussioni a volte abbiano sortito un provvisorio “fervore” di attività da parte loro, non si è concretizzato nessun miglioramento sostanziale nel flusso di informazioni.”

Durante una visita di stato ufficiale a Washington D.C., dieci anni dopo, a Netanyahu venne fatta una domanda diretta riguardo al caso di Odeh. Durante un incontro del 21 gennaio 1998 al National Press Club [sede dell’associazione dei giornalisti USA, ndtr.] Netanyahu – allora al suo primo mandato come capo del governo israeliano – affermò che Israele non aveva ricevuto nessuna richiesta ufficiale da parte delle autorità USA per indagare sull’argomento.

Non sono al corrente di richieste di estradizione riguardanti l’uccisione di Alex Odeh. Sono sicuro che, se mi fossero state presentate, le avrei prese in considerazione,” disse Netanyahu. Inquadrando la sua risposta nei termini di una richiesta di estradizione, Netanyahu equiparò scorrettamente la partecipazione a un’indagine condividendo informazioni alla consegna di sospetti agli Stati Uniti per un processo, una cosa che i poliziotti probabilmente non avevano abbastanza prove per fare.

A quanto pare Keith Fuchs e Andy Green sono ancora a Kiryat Arba,” replicò Sam Husseini di ADC, in riferimento alla colonia cisgiordana, covo delle attività dei kahanisti, della zona di Hebron. “E ci è stato detto– dato che siamo l’organizzazione coinvolta –che il ministero della Giustizia non ha affatto ricevuto una piena collaborazione da parte del governo israeliano a questo proposito.”

Con quello che potrebbe essere una sorta di lapsus freudiano, Netanyahu stranamente disse ad Husseini: “Le assicuro che la nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini.”

Il primo ministro israeliano si corresse subito facendo assicurazioni di prammatica che i funzionari di polizia israeliani avrebbero preso in carico il caso senza alcun pregiudizio antipalestinese.

Nelle settimane immediatamente precedenti l’apparizione di Netanyahu al National Press Club, Baruch Ben-Yosef era comparso parecchie volte di fronte alla Corte Suprema di Israele. Ancora una volta nel novembre 1998, dieci mesi dopo la conferenza stampa di Netanyahu a Washington, Ben-Yosef rappresentò la spia [israeliana] Jonathan Pollard incarcerata negli USA in un’azione legale davanti alla Corte Suprema contro lo stesso Netanyahu, allora ancora primo ministro.

Essendo uno dei più reazionari militanti ebrei di Israele, le attività di Ben-Yosef su entrambe le coste dell’Atlantico erano probabilmente ben note ai capi dello Shin Bet e del Mossad, i servizi di sicurezza israeliani interno ed estero, che informavano entrambi direttamente Netanyahu.

Anche due dei parlamentari compagni di partito di Netanyahu nel Likud dell’epoca, Limor Livnat e Uzi Landau – allora rispettivamente ministro delle Comunicazioni e capo della commissione Affari Esteri e Difesa – avrebbero dovuto essere al corrente della doppia identità di Ben-Yosef e di dove egli si trovasse. Durante un dibattito alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] il 26 aprile 1994 sulla detenzione amministrativa applicata contro Ben-Yosef, così come contro il resto della dirigenza kahanista, l’allora ministro degli Interni di Israele Moshe Shahal disse a Livnat e a Landau che la misura era di fatto già stata presa nei confronti di Ben-Yosef più di un decennio prima. Disse che era stato fatto da un governo guidato dal loro stesso partito, il Likud: “Nel 1980, contro il rabbino Kahane, contro il rabbino Baruch Ben Yosef Green.”

L’ufficio di Netanyahu non ha risposto ad una richiesta di commento.

Colono all’avanguardia, militante antiarabo e avvocato di estrema destra

Negli ultimi anni Fuchs, che lavora come guardia di sicurezza nelle colonie, è stato coinvolto in tentativi di creare leggi di destra. Nel 2013, insieme a parecchi affiliati a Komemiut, un gruppo di estrema destra legato agli insegnamenti di Meir Kahane, ha co-fondato l’influente Ong Meshilut, il Movimento per il Governo e la Democrazia. Meshilut ha stilato varie leggi che sono state presentate da deputati del governo israeliano. Nel 2015 Fuchs, insieme al direttore e al consulente giuridico di Meshilut, ha partecipato a un incontro della Commissione Interni del parlamento israeliano.

Meshilut sostiene di voler riformare la burocrazia del Paese e renderla più sensibile ai desideri dei cittadini israeliani. Tuttavia i critici chiedono se Meshilut, come lo stesso Kahane e il gruppo Komemiut a cui è stata affiliata metà dei fondatori di Meshilut, stia cercando di indebolire il potere giudiziario israeliano, in modo che il suo regime prevalentemente laico possa essere trasformato in rigidamente religioso.

Nel frattempo Ben-Yosef lavora ancora per rimpiazzare il santuario religioso musulmano al centro della Città Vecchia con uno ebraico, ma ora lo fa come avvocato-attivista.

Fin da quando si è laureato in legge all’università Bar Ilan all’inizio degli anni ’90, Ben-Yosef ha rappresentato se stesso e altri seguaci di Kahane nei tribunali israeliani, difendendoli da varie accuse penali e portando in giudizio lo Stato per rivendicare i diritti degli ebrei sulla Spianata delle Moschee, compreso il diritto di sacrificarvi animali.

Noto agli ebrei come il Monte del Tempio, il sito nel lontano passato era sede di templi ebrei, l’ultimo dei quali venne distrutto dall’esercito romano circa 2.000 anni fa. Seicento anno dopo nello stesso posto venne costruito il Qubbat al-Sakhrah con la cupola d’oro, o Cupola della Roccia, e pochi anni dopo venne aggiunta la vicina moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per i musulmani. I due edifici e il complesso di Al-Aqsa, circa 14 ettari, che li contiene sono un potente simbolo del nazionalismo palestinese.

Ben-Yosef ha lavorato nel gruppo di difesa legale di altri seguaci di Meir Kahane nati negli Stati Uniti, che pianificarono attacchi armati sulla Spianata delle Moschee: Yoel Lerner e Alan Goodman. Nel 1975, nel 1978 e nel 1982 i piani di Yoel Lerner per far esplodere la Cupola della Roccia vennero bloccati in tempo dalla polizia israeliana. Ma in seguito, nel 1982, Alan Goodman cercò di farsi largo nel luogo sacro e di farvi irruzione con la sua mitragliatrice dell’esercito israeliano. La sua furia lasciò due palestinesi uccisi e 11 feriti. (Ben-Yosef difese Goodman nel tentativo riuscito di ridurre la sua condanna riguardo a queste uccisioni. Difese Lerner in un caso non correlato).

Lerner venne condannato a due anni e mezzo di carcere per il suo tentato attacco del 1982, e Goodman venne condannato all’ergastolo, ma la sua condanna venne in seguito commutata in 15 anni di prigione.

In conferenze caricate negli ultimi anni su un canale kahanista di Youtube prima che venisse chiuso a dicembre, Ben-Yosef ha continuato a chiedere che una manifestazione di massa di ebrei prenda il controllo del Monte del Tempio, cacci i musulmani e demolisca le loro moschee.

Parlando a seguaci di Meir Kahane nel 2015, nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Kahane, Ben-Yosef tenne una conferenza presso la yeshiva dell’Idea Ebraica, il seminario fondato da Kahane a Gerusalemme: “Tutta la questione si riduce a una sola cosa, che si chiama Monte del Tempio, HAR HABAYIT. L’AM HA’HAMOR, la Nazione di asini che vi si trova, capisce che è entrata in ebollizione,” ha detto Ben-Yosef del popolo palestinese. “Quindi tutto quello che il governo, la polizia e chiunque altro stanno cercando di fare è di calmare la cosa, non è quello che vogliamo. Qui non vogliamo niente che calmi la situazione! Proprio il contrario!”

In un’altra conferenza di Ben-Yosef postata su YouTube, approfondisce lo stesso tema: “Come dimostriamo la nostra fede in Hashem (dio)? Come santifichiamo il suo nome e dimostriamo la nostra fede? B’GERUSH HA’ARAVIM – espellendo gli arabi – e TIHUR HAR HABAYIT – purificando il Monte del Tempio! Eliminando le moschee dal Monte del Tempio! Se credete veramente in Hashem, questo è quello che dovete fare!”

Oggi Ben-Yosef continua ad esercitare come avvocato, lavorando in un ufficio nel centro di Gerusalemme e fa regolarmente pellegrinaggio all’Haram al-Sharif, o Monte del Tempio, il centro dei suoi obiettivi politici e religiosi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Governanti arabi e leader israeliani: una lunga e segreta storia di collaborazione

Joseph Massad

18 febbrario 2020 – Middle East Eye

I regimi del mondo arabo hanno sempre anteposto i propri interessi alle sorti del popolo palestinese

Nell’ultimo mese i leader israeliani hanno attivamente cercato di stabilire alleanze e relazioni più strette con i paesi arabi, compresi gli Stati del Golfo, il Marocco e il Sudan.

Questi Stati, ci viene detto, hanno finalmente visto la luce e capito che Israele, a differenza dell’Iran, è loro amico, non loro nemico.

La cosa è presentata come un cambiamento radicale da parte dei regimi arabi, che sembrava avessero sempre evitato relazioni con Israele in difesa degli interessi palestinesi.

È sempre stata un’invenzione. La maggior parte dei leader e delle famiglie arabe al potere nel XX secolo intrattennero relazioni cordiali con Israele e, prima ancora, con il movimento sionista.

Narrazione falsa

Questa falsa narrazione di resistenza è stata raccontata sia dai regimi arabi che dagli israeliani. È stata creata da intellettuali arabi filoisraeliani, che sostengono che quei regimi hanno ingiustamente rifiutato Israele o addirittura gli hanno fatto la guerra per volere dei palestinesi, piuttosto che per i loro interessi nazionali e di potere.

Questo ragionamento si conclude con l’affermazione che ora, finalmente, è venuto il momento in cui i governi arabi antepongono ai palestinesi i propri interessi – come se prima avessero dato priorità agli interessi palestinesi.

Questo è stato affermato recentemente dal comandante militare sudanese Abdel Fattah al-Burhan dopo un incontro in Uganda, due settimane fa, con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non era certo il primo di simili incontri tra funzionari sudanesi e Israele.

C’erano stati contatti segreti già negli anni ’50, quando il Sudan era ancora governato da britannici ed egiziani e il partito Umma cercava di ottenere il sostegno israeliano all’indipendenza sudanese.

Dopo l’indipendenza, il primo ministro sudanese Abdullah Khalil e Golda Meir, quarto primo ministro israeliano, ebbero un incontro clandestino a Parigi nel 1957.

Negli anni ’80 il presidente sudanese Gaafar Nimeiri incontrò gli israeliani e agevolò il trasporto israeliano di ebrei etiopi in Israele perché diventassero coloni e si insediassero nella terra dei palestinesi.

Più recentemente, nel gennaio 2016 e con Omar al-Bashir ancora in carica, il ministro degli Esteri Ibrahim Ghandour ha cercato di far revocare le sanzioni economiche statunitensi contro il Sudan offrendosi di aprire rapporti diplomatici formali con Israele. Interrogato sul recente incontro con Netanyahu e sulla normalizzazione delle relazioni, la risposta di Burhan è stata che le relazioni con Israele sono alla base di “sicurezza e interessi nazionali” del Sudan, che vengono per primi.

La storia dei rapporti fra i leader del Sudan e Israele non è affatto unica. In effetti, la cooperazione araba con il movimento sionista risale agli inizi dell’arrivo di funzionari sionisti in Palestina.

Rapporti cordiali

Il 3 gennaio 1919, due settimane prima dell’inizio della Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal Ibn al-Hussein, allora re del regno di breve durata di Hejaz e in seguito re dell’Iraq, firmò un accordo con il presidente della Organizzazione Sionista Mondiale Chaim Weizmann. Faisal acconsentì alla creazione di una maggioranza coloniale ebraica in Palestina, in cambio di poter diventare re di un regno arabo vasto e indipendente esteso in tutta la Siria. 

Ma a Faisal il trono siriano fu negato dall’acquisizione coloniale francese, e l’accordo, che i sionisti usarono alla Conferenza di pace di Parigi per sostenere che i loro piani di insediamento coloniale in Palestina avevano l’accordo dei leader arabi, finì in nulla.

Per non essere surclassato dal fratello, Emir Abdullah della Transgiordania si avventurò in un duraturo rapporto di cooperazione con i sionisti, nella speranza che gli fosse permesso di essere re di Palestina e Transgiordania; sotto il suo regno [i sionisti] avrebbero potuto realizzare i loro obiettivi. Questa collaborazione si concluse con il suo assassinio nel 1951.

Suo nipote, re Hussein di Giordania, autorizzò i primi incontri segreti nel 1960 a Gerusalemme tra uno dei generali del suo esercito e gli israeliani. Nel 1963, egli stesso incontrava segretamente gli israeliani nello studio del suo medico a Londra. A metà degli anni ’70 i suoi incontri segreti con i leader israeliani si sarebbero svolti regolarmente in Israele.

Durante il funerale di Rabin nel 1994 fu evidente la lunga amicizia di  Hussein con il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (che nel 1948 aveva espulso personalmente la popolazione palestinese dalla città di Lydda e nel 1987 avviata la politica di “rompiamogli le ossa” contro i palestinesi di Cisgiordania e Gaza).

La giustificazione che Hussein addusse per i suoi contatti segreti con gli israeliani fu la conservazione del trono, assimilata all’interesse “nazionale” della Giordania, di fronte alla pressione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e poi a quella dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Alleanze sioniste

Oltre ai principi e re hashemiti, dalla metà degli anni ’40 la chiesa maronita del Libano, così come leader maroniti fascisti di destra come i falangisti, si allearono con i sionisti. Questa alleanza continua fino ai giorni nostri, con lo scopo di creare una Repubblica religiosa cristiana in Libano, modellata sul colonialismo di insediamento ebraico.

Agli inizi degli anni ’50 sarebbero poi stati i nazionalisti tunisini del nuovo partito Destour a incontrarsi con i rappresentanti israeliani alle Nazioni Unite, perché li aiutassero ad ottenere l’indipendenza dai francesi – ignorando la natura coloniale degli insediamenti israeliani. Il dittatore tunisino Habib Bourguiba avrebbe mantenuto relazioni amichevoli con Israele fino alla fine del suo potere, nel 1987.

Negli anni ’60, Israele avrebbe sostenuto gli sforzi dell’Arabia Saudita per mantenere un imam al potere in Yemen contro i repubblicani – gli israeliani inviarono ai monarchici yemeniti armi e denaro che furono molto ben accolti.

Le migliori relazioni in Nord Africa diventeranno quelle tra Israele e il defunto re Hassan II del Marocco.

I leader israeliani incontrarono i funzionari marocchini alla fine degli anni ’50, ma l’apertura di rapporti cordiali avvenne quando re Hassan salì al trono. Dal 1960 in poi gli israeliani, a seguito di accordi segreti con il Marocco, portarono in aereo ebrei marocchini per farli diventare coloni di insediamento sulla terra dei palestinesi.

L’affare marocchino

Nel 1963, il ministro marocchino Mohamed Oufkir concluse un accordo con gli israeliani per l’addestramento degli agenti dell’intelligence marocchina. Israele aiutò anche il Marocco a localizzare i leader dell’opposizione, tra cui Mehdi Ben Barka, che fu catturato e ucciso dall’intelligence marocchina nel 1965. E difatti nel 1976 Yitzhak Rabin fu invitato dal re Hassan ad andare segretamente in Marocco.

Nel 1986 non c’erano più ragioni di segretezza e Shimon Peres visitò il Marocco in pompa magna. Nel 1994, Marocco e Israele hanno aperto rispettivamente sedi ufficiali di contatto.

Nel 2018, Benjamin Netanyahu si è incontrato segretamente alle Nazioni Unite con il ministro degli Esteri del Marocco per colloqui. Nelle ultime settimane, gli israeliani hanno offerto ai marocchini il loro aiuto per garantire il riconoscimento degli Stati Uniti della sovranità del Marocco sul Sahara occidentale, in cambio della normalizzazione formale delle relazioni fra Marocco e Israele e del sostegno al cosiddetto “affare del secolo” di Donald Trump.

Per quanto riguarda la grande storia d’amore tra le classi politiche e commerciali egiziane con Israele, la relazione è pubblica dalla fine degli anni ’70.

Dal 1991, abbiamo visto leader, funzionari e atleti israeliani recarsi apertamente nella maggior parte dei paesi del Golfo, tra cui il Qatar, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e in segreto anche l’Arabia Saudita, per non parlare dell’apertura di uffici di contatto o commerciali in tutti quei Paesi.

Nemico pubblico numero uno

Le relazioni, ostili o amichevoli, degli arabi con Israele non sono mai state improntate agli interessi del popolo palestinese, ma piuttosto ad interessi di regime, spesso identificati falsamente come interessi “nazionali”.

Infine l’ultima parte della loro storia d’amore con Israele è coincisa dal 1991 con la Conferenza di Pace di Madrid e gli Accordi di Oslo, che hanno trasformato la leadership nazionale palestinese e l’OLP in un ente dell’occupazione militare israeliana; questo è il lascito degli incessanti sforzi di Israele di cooptare le élite politiche, economiche e intellettuali arabe. È anche la testimonianza di come queste élite siano disponibili e lo siano sempre state.

Israele ha avuto per lo più successo con le élite politiche e commerciali, ha fallito miseramente nel coinvolgere la classe degli intellettuali arabi, ad eccezione di quelli sul libro paga dei regimi del Golfo e delle ONG finanziate dall’Occidente. Non ha conquistato affatto il favore delle masse arabe, per le quali, diversamente che dai regimi, gli interessi nazionali e la colonizzazione delle terre palestinesi non sono affatto separabili, e per le quali Israele rimane il peggior nemico di tutti gli arabi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Joseph Massad è professore di Politica Araba Moderna e Storia Intellettuale alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli accademici e giornalistici. Fra i suoi libri: Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], Desiring Arabs [Arabi deisderanti], The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi] e, più recentemente, Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in decine di lingue.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele. Il “centrismo” della lista Bianco Blu:”la cultura araba è la giungla”

 Jonathan Ofir

17 febbraio 2020 – Mondoweiss

E’ ciò che pensa e ha affermato senza esitazioni in una intervista il deputato Yoaz Hendel, un alto dirigente del partito, presunto centrista, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che il 2 marzo potrebbe superare il Likud di Netanyahu e vincere le elezioni israeliane

 Nena News – “Penso che la cultura araba intorno a noi sia la giungla.” Questo è ciò che sostiene Yoaz Hendel in un’intervista rilasciata venerdì al giornalista di Haaretz Ravit Hecht. Hendel è tra i primi dieci leader del partito Blu-Bianco di Benny Gantz, che ha 33 seggi nel parlamento israeliano. Il partito dovrebbe fungere da opposizione di centro al Likud di Netanyahu, e secondo molti sondaggi potrebbe superare il Likud di un paio di seggi alle prossime elezioni di marzo.

L’intervista è sconvolgente. Hendel commenta generalmente in modo derisorio la cultura araba:“C’è gente venuta qui da Paesi di ogni tipo: alcuni arrivano con la mentalità da concerto a Vienna, altri con la mentalità da darbuka”, ha dichiarato a Hecht, facendo riferimento a un tipo di tamburo molto popolare in Medio Oriente.

Non è la prima volta che Hendel fa propaganda razzista. Nel 2017, la sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot ha descritto un immaginario di vendetta in cui i Palestinesi avevano il ruolo dei nazisti. In una “manifestazione per la democrazia” orientalista, organizzata dal partito Blu-Bianco l’anno scorso, Hendel ha boicottato l’evento perché, all’ultimo momento, era stato annunciato un intervento di Ayman Odeh, leader della Lista unita dei partiti palestinesi in Israele.

Hendel è passato al partito Blu-Bianco dal Likud, come membro della fazione Telem, insieme a Moshe Ya’alon, che è il numero tre nella lista Blu-Bianca. Anche Ya’alon è un ex membro del Likud, è stato Ministro della Difesa e ha anche lui precedenti di razzismo anti-palestinese, avendo paragonato la “minaccia palestinese” a un “cancro”, contro il quale applica la “chemioterapia” (era il 2002, e lui era Capo di Stato Maggiore dell’esercito). Hendel era il Responsabile della Comunicazione e dell’Hasbara (‘diplomazia pubblica’) di Netanyahu nel 2011-2012.

La dichiarazione secondo cui “la cultura araba intorno a noi è la giungla” non nasce dal nulla. L’idea di Israele come “villa in mezzo alla giungla” viene, infatti, attribuita al leader “di sinistra” Ehud Barak, che la pronunciò in un discorso ufficiale nel 1996. Barak si è anche congratulato con Trump per il suo monito razzista secondo cui “Mohammed” potrebbe diventare Primo Ministro, e reputa che “loro (i palestinesi, e soprattutto Arafat) sono il prodotto di una cultura in cui mentire… non crea dissenso… Per loro dire bugie non è un problema, come invece è nella cultura giudaico-cristiana”.

Ecco qualche altro passo dell’intervista:

Hecht: “Lei ha detto in passato che Israele è una villa nella giungla. Oggi, qui, ribadisce che il nostro vantaggio sui palestinesi è la moralità. Pensa che la cultura araba sia la giungla?”

Hendel: “Sì, certo, penso che la cultura araba che ci circonda sia la giungla. C‘è una palese violazione di ogni singolo diritto umano che noi, nel mondo occidentale, riconosciamo. Lì questi diritti devono ancora vedere la luce del sole. Loro non hanno raggiunto lo stadio evolutivo in cui si hanno dei diritti umani. Non esistono i diritti delle donne, né i diritti LGBT, né quelli delle minoranze, e non c’è educazione. Molti Stati arabi sono dittature mancate, il che spiega perché i trattati di pace che sigliamo qui sono limitati alla leadership. Non esiste la pace tra popoli perché non esiste educazione alla pace e alla tolleranza.”

Hecht contesta Hendel:

Hecht: “Anche in Israele l’odio verso gli arabi è la norma.”

Hendel: “C’è il razzismo e bisogna occuparsene, ma ogni volta che vedo, in ‘A Star is Born’ o a ‘Masterchef’, che gli israeliani votano per un concorrente arabo, o quando giro per gli ospedali per via di mia moglie (è una ginecologa, ndr), ho l’impressione che, finalmente, la vita qui sia priva di razzismo.”

Questa è un’osservazione veramente terribile e paradossale. Hendel cerca di applicare la classica Hasbara quando fa riferimento agli “arabi israeliani” come prova della presunta fiorente democrazia. Ma l’osservazione sugli ospedali! Hendel forse non ha seguito la questione della dilagante e sistematica segregazione razziale delle madri nei reparti maternità israeliani? Non ricorda le parole del parlamentare di estrema destra Bezalel Smotrich, che ha twittato “Subito dopo il parto, mia moglie voleva riposare e non fare una festa come fanno le donne arabe”, e che “È naturale che mia moglie non voglia stendersi vicino a qualcuno che ha appena partorito un bambino che, tra 20 anni, potrebbe voler uccidere il suo”?

Hecht contesta di nuovo le espressioni razziste di Hendel: “Potrai anche votare per un concorrente arabo a ‘Masterchef’, ma dichiari senza esitazione che ‘La mia cultura è superiore e non voglio assomigliare a un arabo’. Anche questa è una forma di razzismo.”

Hendel: “Per come la vedo io, non ho nulla di razzista (sic). Da un punto di vista cognitivo, prima di tutto mi prendo cura della mia gente, delle mie tradizioni e della mia storia. E questo è quanto. Non provo odio verso nessuno e ho legami personali con palestinesi, perché vivo vicino a Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali, ndr).”

Queste espressioni del “colonialista illuminato” che dice “alcuni dei miei amici sono palestinesi” hanno indotto il presidente di B’tselem Hagai El-Ad a paragonare Hendel al Primo Ministro dell’Apartheid sudafricana Hendrik Verwoerd, che dichiarò: “La nostra politica è quella che viene chiamata…‘apartheid’, e io temo che venga spesso fraintesa. Potrebbe essere più semplicemente, e forse meglio, descritta come una politica di buon vicinato.”

Anche Ahmed Tibi, parlamentare della Lista unita araba, è stato particolarmente drastico nel criticare il razzismo di Hendel, sottolineando come gli accenni alla musica araba colpiscano anche gli ebrei arabi: “Un razzista bianco contro arabi e Mizrahim allo stesso modo. Hendel non è Tarzan: Hendel è la giungla. Io amo [il cantante libanese] Fairuz e la darbuka nelle canzoni di Umm Kulthum [compianta cantante egiziana], e quasi sicuramente Hendel ascolta Wagner ogni volta che lo stivale dell’occupazione calpesta i palestinesi privi di diritti umani a causa di quella cultura occidentale che incoraggia gli insediamenti, l‘espropriazione e l’annessione. Detesto la sua visione del mondo e quella di alcuni amici suoi che credono nella supremazia ebraica.”

Il leader della Lista unita araba Ayman Odeh ha detto che “la teoria di Hendel sulla supremazia europea” è stata smentita dall’ “ignoranza e dalla mancanza di cultura che ha dimostrato nella sua intervista a Haaretz”.

Il palese razzismo di Hendel è troppo anche per molti membri del partito Blu-Bianco. Ofer Shelah (anche lui tra i primi 10 leader del Blu-Bianco, più in alto di Hendel), ha dichiarato che “le affermazioni di Yoaz Hendel sono esternazioni infelici che sarebbe stato meglio evitare, e che non rispecchiano lo spirito del partito Blu-Bianco”. La parlamentare Orna Barbivai (posizionata appena dopo Hendel) è stata più leggera nella sua critica: “Penso che tutti nasciamo uguali e non siamo qui per giudicare”. Definendo “superflui” i commenti di Hendel, ha detto “Io sono favorevole alle darbukas. Ma dedurre da questo che Hendel è un razzista sarebbe esagerato”.

Il fatto che Hendel abbia, in un certo senso, equiparato i Mizrahim ad una presunta degenerazione araba l’ha portato ad essere criticato anche dall’estrema destra. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ritwittato una dichiarazione del Likud secondo cui Hendel dovrebbe vergognarsi di se stesso. Dimenticatevi tutte le dichiarazioni razziste di Netanyahu sugli arabi, adesso ci sono facili consensi da raccogliere contro il suo rivale.

 Perfino il Ministro dell’Educazione Rafi Peretz, del partito di estrema destra Yamina, ha detto di essere “orgoglioso di far parte della cultura delle dabukas”. Il parlamentare di Shas (partito ultraortodosso Mizrahi) Ya’akov Margi ha condannato la “boria” di Hendel e ha detto che gli ebrei Mizrahi vengono da una grande tradizione che include ‘Maimonide, scienza e medicina’. I sionisti cercano, per lo più, di barcamenarsi per non inimicarsi i Mizrahim. Quando però il razzismo è così plateale e disgustoso come nel caso di Hendel, si scivola.

H/t Ronit Lentin, Edith Breslauer

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/giornalista. Vive in Danimarca.

(Traduzione di Elena Bellini)
Nena news




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Dove sono finite le masse arabe?

Amira Abo el-Fetouh

10 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Donald Trump ha fatto scoppiare una bomba con il suo “accordo del secolo”, che elimina ciò che rimane della Palestina storica e liquida completamente la causa palestinese. I Paesi arabi avrebbero dovuto ribellarsi all’unanimità contro di esso. Le masse arabe avrebbero dovuto scendere in piazza a milioni come reazione naturale all’accordo. Non è successo, nemmeno nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Quelli che sono scesi in strada, un po’ timidamente, lo hanno fatto in Giordania, Algeria e Marocco.

Che cosa è successo al popolo arabo? Dove sono finite le masse? Si sono affievoliti i loro sentimenti verso la principale causa araba, la Palestina? Abbiamo assistito a manifestazioni di massa negli anni passati, quando, ad esempio, Ariel Sharon profanò la moschea di Al-Aqsa; quando Mohammad Al-Durra, 12 anni, fu ucciso; quando lo sceicco Ahmed Yassin, Abdel Aziz Al-Rantisi e altri furono trasformati in martiri. Le masse sono scese in piazza anche durante i frequenti attacchi israeliani contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

La recente debole risposta ricorda la reazione alla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale “indivisa” dello Stato di Israele. All’epoca lo stesso presidente degli Stati Uniti dichiarò di essersi aspettato una reazione maggiore dagli arabi. Sono sicuro che sia stata la mancanza di una reazione infuriata che lo ha incoraggiato a fare tante altre mosse ingiuste a favore del nemico sionista, che avrebbero dovuto provocare gli arabi – ma gli era stato assicurato che, come Nazione unita, sono moribondi. Tali mosse includono il via libera a Israele per annettere le alture del Golan siriano e gli insediamenti sionisti illegali, oltre al taglio delle donazioni statunitensi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro [per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.] (UNRWA), tutte preludio al malaugurato accordo.

Invece di scendere in strada, le masse arabe apparentemente si accontentano di dichiarare la loro rabbia attraverso i social media, senza dubbio perché sono essi stessi oppressi da dittatori che governano con il pugno di ferro e non consentono alcun tipo di dissenso pubblico. Quando hanno preso il controllo della situazione, durante e dopo le rivoluzioni delle primavere arabe, le bandiere palestinesi sventolavano nelle piazze in solidarietà con il popolo palestinese.

In Egitto, ad esempio, dopo la rivoluzione un uomo scalò il muro del grattacielo dove al 12 ° piano si trova l’ambasciata israeliana e tirò giù la bandiera israeliana, che fu poi gettata a terra e bruciata; l’atto fu applaudito dai presenti. Al confronto è ben diverso il destino del giovane che qualche mese fa ha alzato una bandiera palestinese mentre guardava una partita di calcio. É stato arrestato e mandato a processo.

Questo è ciò che è accaduto al popolo arabo, e chiarisce perché Israele abbia cospirato contro le primavere arabe con i suoi agenti nella regione, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, in modo che leader nazionali controllati da Israele possano essere suoi subordinati a guardia dei confini. Nel suo discorso alla cosiddetta Lega araba il presidente del coordinamento della sicurezza con Israele, Mahmoud Abbas, ha ammesso il proprio tradimento. Ha detto di aver dato agli israeliani informazioni che potevano solo sognare di avere, ma che ora ha smesso e che dovranno difendersi da soli. Ha anche detto di credere che i palestinesi non abbiano bisogno di armi, e che cercherà di rendere lo Stato palestinese un’entità demilitarizzata. È un dato di fatto che i sovrani arabi vedano Israele come un’ancora di salvezza, per cui si affrettano a compiacerlo in ogni modo per garantirsi di rimanere sui propri troni.

È quindi vergognoso che il presidente del Consiglio militare di transizione in Sudan, Abdel Fattah Al-Burhan, abbia incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda dopo l’annuncio dell’accordo della vergogna di Trump e abbia annunciato di aver accettato di normalizzare le relazioni con lo Stato sionista. Incredibilmente, ha affermato che la sua visita a Entebbe andrà a beneficio del popolo palestinese.

Dopo il viaggio di Al-Burhan – un tradimento sia per la nostra religione che per il popolo arabo – possiamo dire senza esagerazione che l’intera Valle del Nilo è ora sotto il dominio israeliano. Così si conclude l’assedio arabo totale del popolo palestinese, a cui viene ora chiesto di rinunciare a tutto all’interno del documento di resa mascherato da “piano di pace”.

Tuttavia, questo non accadrà. L’eroico popolo palestinese non si arrenderà mai e non abbandonerà mai la lotta. I palestinesi hanno già iniziato con azioni individuali, ma vogliamo che mettano in atto una rivolta collettiva guidata da una leadership unita che faccia tremare la terra sotto i piedi dei sionisti. Vogliamo una resistenza unita e un ritorno alla lotta del passato. La terra storica della Palestina, dal fiume al mare [cioè dal Giordano al Mediterraneo, ndtr.], sarà recuperata solo attraverso ogni tipo di legittima resistenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)