I conservatori britannici si impegnano a vietare i boicottaggi

Asa Winstanley

26 novembre 2019Electronic Intifada

Il partito conservatore al governo nel Regno Unito si è impegnato a vietare agli enti pubblici di aderire a “campagne di boicottaggio, disinvestimento o sanzioni contro Paesi stranieri”.

La promessa – inserita nel programma elettorale del partito – non fa il nome di alcuno Stato specifico, ma è chiaramente rivolta a proteggere Israele dal crescente movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Le campagne del BDS “minano la coesione della comunità”, afferma il documento programmatico, pubblicato domenica. I conservatori dicono che applicheranno il nuovo divieto se vinceranno le elezioni nazionali del 12 dicembre.

Se messo in pratica, si tratterebbe del secondo tentativo di questo genere da parte dei conservatori per arginare il BDS.

Nel febbraio 2016 Matt Hancock, ora importante ministro, si è recato a Gerusalemme per annunciare nuove misure volte a impedire agli enti pubblici britannici di boicottare Israele, durante una conferenza stampa congiunta insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma le nuove regole del governo del Regno Unito sulla gestione dell’autorità locale non sono state incisive e non hanno comportato nessuna nuova legge.

Il primo caso che si è basato sulla nuova normativa – promosso da un gruppo di pressione israeliano contro governi locali che avevano boicottato Israele – è stato bocciato dall’Alta Corte nel giugno 2016.

BDS nuovamente vietato?

Però c’era un’altra serie di direttive derivanti dal “divieto”. Tali direttive erano mirate ad impedire che gli enti pubblici che amministrano il regime pensionistico escludessero le imprese complici delle violazioni israeliane dei diritti umani.

Il nuovo impegno del programma elettorale arriva nel momento in cui la Campagna di solidarietà con la Palestina sta impugnando le norme anti-BDS presso la Corte Suprema, la più alta autorità giudiziaria del Regno Unito.

La settimana scorsa si è tenuta un’udienza ed una sentenza è prevista probabilmente per gennaio. Una fonte della Campagna ha detto che loro sono moderatamente ottimisti sull’esito.

A differenza del precedente “divieto”, la nuova promessa del programma elettorale sembra preludere alla presentazione di una nuova legge anti-BDS, o almeno un decreto che dichiari il boicottaggio di Israele “antisemita”.

L’affermazione del documento programmatico secondo cui le campagne BDS “minano la coesione della comunità” è quasi certamente un riferimento a quella falsa accusa.

Infatti il movimento BDS è sempre stato chiaro sul fatto di essere una campagna antirazzista che chiede eguali diritti per tutti.

Quest’anno i ministri del governo conservatore hanno diffamato i boicottaggi di Israele come antisemiti.

Calunnie

A maggio Jeremy Hunt, allora ministro degli Esteri del Regno Unito, ha espresso il suo appoggio alla dichiarazione non vincolante del Parlamento tedesco secondo cui “le argomentazioni e i metodi del movimento BDS sono antisemiti”.

La mozione tedesca ha anche calunniato il movimento BDS definendolo affine ai nazisti.

Il nuovo programma elettorale dei conservatori si pone in netto contrasto con quello del partito laburista di opposizione, che ha anzi appoggiato il movimento BDS.

La settimana scorsa il partito ha annunciato che un governo laburista sospenderebbe “immediatamente” la vendita di armi ad Israele ed all’Arabia Saudita.

Asa Winstanley è un giornalista di inchiesta e redattore associato di ‘The Electronic Intifada’. Vive a Londra

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Dirigente di un gruppo suprematista ebraico imputato di incitamento all’odio contro i palestinesi

Natasha Roth-Rowland

27 Novembre 2019 – +972

Come Benjamin Netanyahu, Benzi Gopstein deve affrontare un procedimento penale atteso da tempo. Ma l’incriminazione di entrambi non cambia niente riguardo al sistema razzista ed espansionista che li ha prodotti

Martedì [26 novembre] un tribunale di Gerusalemme ha incriminato Benzi Gopstein, capo del gruppo razzista anti-assimilazionista “Lehava”, ed ha bandito il candidato alla Knesset del partito Otzma Yehudit [Potere Ebraico] per incitamento alla violenza, al razzismo e al terrorismo e per essersi pronunciato in favore del massacro alla Grotta dei Patriarchi di Hebron da parte di Baruch Goldstein nel 1994. Il suo rinvio a giudizio rappresenta il culmine di una campagna durata otto anni da parte dell’“Israel Reform Action Center” [Centro di Azione Israeliano per la Riforma, ndtr.] (IRAC), braccio giuridico dell’ebraismo riformato, per far sì che Gopstein e Lehava rendano conto [della loro posizione politica].

L’incriminazione di Gopstein cita, tra le altre cose, video in cui egli ha giustificato l’uso della violenza contro i palestinesi che sono in rapporto con donne ebree; ha definito i “nemici tra noi” (cioè i palestinesi) un “cancro”, ha proposto che la soluzione sia togliere di mezzo la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa ed ha affermato che ogni palestinese che egli dovesse vedere ad un matrimonio ebraico finirebbe nel “più vicino ospedale”.

Gopstein, allievo del fondatore della “Lega per la Difesa Ebraica” e demagogo razzista Meir Kahane ed ex-attivista del Kach, movimento politico israeliano di quest’ultimo, ha una lunga e storica carriera di razzismo violento. Da giovane ha avuto a che fare con la giustizia, in particolare quando è stato arrestato (e in seguito rilasciato per mancanza di prove) nel novembre 1990 in quanto sospettato di essere coinvolto nell’uccisione di due palestinesi, a quanto pare come rappresaglia per l’assassinio di Kahane a New York all’inizio di quel mese.

Di tutti i discepoli di Kahane che occupano ancora un posto sulla ribalta, Gopstein si è forse impegnato in modo più assiduo per portare avanti la principale ossessione del suo mentore: evitare rapporti tra ebrei e palestinesi, soprattutto tra donne ebree e uomini palestinesi. Come fondatore e capo di “Lehava” (il cui nome in ebraico è un acronimo per “Evitare l’Assimilazione nella Terra Santa”), Gopstein ha progettato di persona accaniti e spesso violenti tentativi di distruggere rapporti misti [tra israeliani e palestinesi, ndtr.] – sia tramite l’istituzione di un “telefono rosso” in stile Stasi [polizia segreta della Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], in cui israeliani preoccupati possono dare informazioni su cittadini che sospettano avere rapporti misti, fino a violente proteste durante matrimoni musulmani in cui la moglie si sia convertita dall’ebraismo.

Questi incidenti hanno fatto di “Lehava” un parafulmine per le critiche all’estrema destra nel discorso pubblico israeliano. Ed è facile capire perché: l’organizzazione e le sue azioni sono emblematiche dei fenomeni che israeliani progressisti (e non tanto progressisti) evidenziano come i mali della loro società, in un modo che consente loro di evitare di approfondire i più profondi problemi strutturali in cui essi stessi sono coinvolti.

Come Kahane prima di lui, Gopstein ha cercato di reclutare intorno alla sua causa giovani disadattati e svantaggiati dal punto di vista socio-economico, portando nell’organizzazione mizrahim (ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani) della periferia sociale e geografica di Israele. La sua orchestrazione di proteste molto visibili – sia durante i matrimoni summenzionati o quelle del sabato notte in piazza Zion a Gerusalemme – garantisce che i media e i politici israeliani abbiano un archivio di immagini da condannare quando insistono che nel Paese la violenza della destra è esclusivamente un problema “mizrahi” (cioè: marginale e non istituzionale), invece che sistematico o “ampiamente diffuso” (cioè: ashkenazita [ebrei di origine europea, che dominano nella vita economica, politica e sociale di Israele, ndtr.]).

Analogamente lo stesso Gopstein – insieme al resto della sua coorte di “Otzma Yehudit”: Itamar Ben-Gvir, Baruch Marzel e Michael Ben-Ari — è liquidato come un fanatico religioso marginale, la cui ortodossia gli israeliani stentano ad evidenziare quando si scagliano contro la sua ideologia. Quindi, per esempio, durante un dibattito alla Knesset sulla messa fuori legge di “Lehava” nel 2015, il parlamentare laburista Itzik Shmuli denunciò trionfalmente Gopstein come “Isis con la kippah [il tradizionale copricapo ebraico, soprattutto degli ebrei praticanti, ndtr.]”.

Tali tentativi di definire come “diversi” i terroristi ebrei – siano Kahane, Yigal Amir [l’assassino di Rabin, ndtr.], Baruch Goldstein [autore della strage di 29 fedeli palestinesi nella tomba dei Patriarchi a Hebron, ndtr.], gli assassini di Muhammad Abu Khdeir [ragazzino palestinese bruciato vivo per vendicare la morte di tre giovani coloni uccisi da palestinesi nel 2014, ndtr.] o la “gioventù della cima delle colline” [gruppo informale di coloni estemisti, ndtr.] che incendia chiese, case e scuole [palestinesi] – è molto utile all’establishment israeliano. La condanna e l’occasionale incriminazione di questi personaggi consente al governo e ai suoi sostenitori interni ed internazionali di evidenziare un sistema giudiziario che funziona e un codice morale che rifiuta questa ideologia e queste azioni razziste. È lo stesso meccanismo che seleziona sporadicamente e in apparenza (anche se non realmente) in modo arbitrario soldati e poliziotti israeliani da punire per la continua serie di uccisioni extragiudiziarie di palestinesi, tra gli altri violenti misfatti.

In entrambi i processi, il sistema che produce violenza politica e abusi dell’esercito e li ricompensa con un’impunità quasi totale sfugge a una verifica.

Vale la pena di notare il tempismo dell’incriminazione di Gopstein: cinque giorni dopo l’incriminazione di Benjamin Netanyahu e nel bel mezzo dell’ultimo picco di violenza dei coloni in Cisgiordania durato sette giorni, compresa l’ultima fiammata dello scorso fine settimana a Hebron in cui circa una decina di palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un bimbo di 18 mesi.

L’incriminazione di Netanyahu è stata sbandierata come la prova decisiva di una democrazia israeliana in ottima salute – un sistema talmente sicuro da mettere sotto processo il suo stesso primo ministro. Tali analisi hanno misteriosamente ignorato il fatto che Netanyahu finora non ha dovuto affrontare alcuna conseguenza per il fatto di aver infranto ripetutamente la legge relativa alla campagna elettorale e alle elezioni, né per i suoi tentativi razzisti di sopprimere il diritto di voto [dei palestinesi] – azioni che, si potrebbe pensare, rivelano molto più dello stato della democrazia israeliana di quanto questi osservatori evidenzino. Non dimentichiamoci neppure che Netanyahu ha conferito una legittimazione senza precedenti a Gopstein e ai suoi colleghi di “Otzma Yehudit” intervenendo personalmente in loro favore prima delle elezioni dell’aprile 2019.

Né la squadra di quelli che dicono che “la corruzione rafforza la democrazia” segnala l’altro, più fondamentale ostacolo per le loro analisi, cioè che il sistema giudiziario che ha indagato e incriminato Netanyahu è lo stesso che appoggia l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio contro Gaza; che consente l’espulsione di palestinesi dalle loro case e la loro demolizione; che gestisce un apparato giudiziario separato su base etnica nei territori occupati, uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. Ed è lo stesso sistema giudiziario che costantemente omette di considerare responsabili i propri soldati e civili per aver commesso soprusi, per aver aggredito e ucciso palestinesi ed ebrei etiopi, perché fa parte di uno Stato che, lasciando mano libera ai coloni violenti che agiscono in qualità di civili, ha rinunciato al proprio monopolio sull’uso legittimo della violenza.

In altre parole il sistema giudiziario che ha messo sotto processo Netanyahu e Gopstein in questo stesso momento sta anche consentendo ai coloni di aggirarsi per la Cisgiordania vandalizzando e incendiando proprietà palestinesi e aggredendo i proprietari. Queste due incriminazioni di alto livello non intaccano minimamente i progetti di espansione delle colonie, di esclusione su base etnica e di occupazione militare, azioni promosse dagli individui incriminati: la violenza nella relazione con i palestinesi continuerà anche se Gopstein verrà condannato, e la formalizzazione dell’annessione della Cisgiordania, insieme alla devastazione di Gaza che dura da molto tempo, sopravvivrà alla destituzione di Netanyahu.

Il sistema giudiziario che li ha messi sotto processo, per quanto possa essere disturbato dai loro quasi indistinguibili attacchi contro di esso come quinta colonna all’interno della società israeliana, continuerà ad approvare questi progetti.

È positivo che questi due uomini stiano affrontando le conseguenze attese da tempo per (alcune delle) loro azioni. L’ Israeli Religious Action Center, in particolare, deve essere elogiato per una battaglia quasi decennale per chiamare Gopstein a rispondere delle sue azioni. Ma non dobbiamo neppure fare di questa serie di avvenimenti altro che quello che sono: una foglia di fico che, puntando il dito contro due facili bersagli, rafforza piuttosto che indebolire il sistema che li ha prodotti.

Natasha Roth-Rowland è una dottoranda in storia all’università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica israeliana in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto lo pseudonimo del suo vero cognome in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il proprio cognome in ‘Rowland’ quando cercò di rifugiarsi in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la questione israelo-palestinese è arrivata al cuore della politica USA

Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico, Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza – e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele, chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10 anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele. E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata, spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan, una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’ [organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre, come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi, l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’ [importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno boicottato il suo intervento.

Le critiche ad Israele all’epoca di Obama non si limitavano al Congresso. Erano persino più aspre nei movimenti sociali progressisti, che a loro volta rassicuravano i democratici riguardo al fatto che la loro posizione anti Netanyahu era appoggiata dalla loro base elettorale.

Nel periodo in cui si è svolto lo scontro tra Obama e Netanyahu sull’Iran, sempre più gruppi per i diritti dei palestinesi hanno destinato risorse a Washington. Nel 2015 ‘Jewish Voice for Peace’ [Voce Ebraica per la Pace] (JVP), l’associazione di [ebrei di] sinistra di solidarietà con la Palestina, ha assunto il suo primo dipendente focalizzato sul Congresso.

“C’è stato l’attacco a Gaza del 2014, e allora improvvisamente siamo diventati molto, molto più grandi”, ha detto Rebecca Vilkomerson, che ha appena lasciato la carica di capo di JVP dopo 10 anni in carica. “Abbiamo deciso che avevamo abbastanza membri con abbastanza sezioni locali per cui non sarebbe stato inutile andare a fare questo genere di incontri (al Congresso)”.

Inoltre alla fine del 2014 ‘Defense for Children International-Palestine’ [associazione internazionale per la difesa dei bambini con sede a Ginevra, ndtr.] e l’ ‘American Friends Service Committee’ [associazione di quaccheri che si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli, l’abolizione della pena di morte ed i diritti umani, ndtr.] hanno lanciato la campagna “Non è il modo di trattare un bambino”, un tentativo concentrato su Washington di spingere i parlamentari USA a esprimersi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti dei bambini palestinesi. Questo tentativo ha avuto successo, soprattutto presso la deputata Betty McCollum: con le sue proposte di legge e lettere che chiedevano attenzione per gli arresti israeliani di bambini palestinesi, è diventata il principale difensore dei diritti dei palestinesi al Campidoglio.

Tuttavia non tutti i gruppi della sinistra progressista lavoravano congiuntamente. ‘J Street’ [associazione di ebrei liberal moderatamente critici con Israele, ndtr.], per esempio, un gruppo fondato nel 2007, si è creato uno spazio a parte in Campidoglio: premere per uno Stato palestinese e per la fine dell’occupazione israeliana per consentire ad Israele di rimanere “ebreo e democratico”, secondo quanto afferma J Street. Ciò si opponeva a gruppi come JVP e ‘US Campaign for Palestinian Rights’ [coalizione di gruppi che lavorano per libertà, giustizia ed eguaglianza, ndtr.] (USCPR), i quali sostengono in pieno la strategia del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.] (BDS) – compreso il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – e il taglio degli aiuti militari statunitensi [ad Israele, ndtr.]. Eppure nel loro insieme, i gruppi da J Street a ‘US Campaign’ hanno introdotto una novità in un dibattito normalmente dominato soltanto dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele.

“Anche se la parte avversa ha molte più risorse e migliori relazioni, i gruppi per i diritti dei palestinesi hanno svolto un duro e diligente lavoro per rendere visibile la propria presenza in Campidoglio, chiarendo che c’è un’altra prospettiva che i membri del Congresso devono riconoscere, anche se non sentono ancora la necessità di votare in quel senso”, ha detto a +972 un autorevole assistente parlamentare. “Ecco come riesci a spostare il dibattito. Si inizia a rendere più complessa la questione per la gente, e per troppi membri del Congresso la questione è stata semplice. Ciò sta cambiando.”

Ma se il dibattito a Washington si è incentrato su Netanyahu, i movimenti sociali di sinistra non hanno focalizzato la principale attenzione sul leader israeliano. Al contrario, si sono concentrati su Israele stesso e hanno criticato l’intero regime che ha governato i palestinesi in modo simile ad uno Stato di apartheid, uno Stato che doveva essere boicottato – un messaggio diffuso dalle campagne BDS. I gruppi per i diritti dei palestinesi si sono alleati con i gruppi per i diritti dei migranti e per i diritti civili in campagne indirizzate a chi fa profitti con le carceri private, lanciando il messaggio che l’oppressione delle persone di colore nelle carceri è collegata all’oppressione dei palestinesi – soprattutto perché imprese come G4S [società privata britannica di servizi per la sicurezza, ndtr.] traggono profitto dall’incarcerazione di tutte quelle comunità. Sezioni di ‘Students for Justice in Palestine’ [organizzazione di attivisti studenteschi pro-palestinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda, ndtr.] hanno formato coalizioni con comunità di colore nei campus universitari per spingere i dirigenti studenteschi ad appoggiare il disinvestimento dalle imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Molto di questo lavoro degli studenti è stato guidato dagli stessi palestinesi, un’eco del lavoro che gruppi come la ‘General Union of Palestinian Students’ [organizzazione gestita da studenti palestinesi che esiste fin dai primi anni ’20, ndtr.] hanno fatto nei campus USA a cominciare dalla guerra del 1967. Dopo gli Accordi di Oslo [del 1993], l’attivismo guidato dai palestinesi negli USA è venuto meno, in quanto è stata dedicata maggiore attenzione alla creazione di uno Stato a casa loro piuttosto che a creare un movimento globale anticoloniale. Ma, una volta falliti gli Accordi di Oslo, i capi delle organizzazioni palestinesi si sono reinseriti nel più ampio movimento di solidarietà. Questa rinascita ha raggiunto il suo apice in seguito all’invasione israeliana di Gaza nel 2008-2009.

“I palestinesi hanno iniziato ad essere più autocentrati, il che ha anche significato che sono aumentati i militanti palestinesi”, ha detto Andrew Kadi, a lungo organizzatore palestinese-americano e membro del comitato direttivo della USCPR.

Uno dei momenti più importanti per il movimento per i diritti dei palestinesi è stato nell’agosto 2016, quando ‘A Vision for Black Lives’, una piattaforma politica resa pubblica da gruppi collegati con il movimento ‘Black Lives Matter’, ha appoggiato il disinvestimento dal “complesso militare-industriale” di Israele ed ha accusato Israele di apartheid e genocidio. Per i gruppi per i diritti dei palestinesi la piattaforma politica è stata un eccellente esempio di come la lotta per la libertà dei neri e la lotta palestinese dovrebbero essere collegate. È stata una brillante affermazione della loro strategia “intersezionale”, che garantiva che i palestinesi difendessero i diritti dei neri negli USA, e viceversa, come parte di una più vasta spinta a collegare le lotte per la giustizia dei palestinesi e dei neri.

“Vi è ora una situazione in cui i movimenti sociali sono profondamente interconnessi”, ha detto Nadia Ben Youssef, direttrice delle attività di sostegno del Center for Constitutional Rights [Centro per i diritti costituzionali, organizzazione di sinistra per il patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.]. “Stiamo creando una politica coerente di giustizia sociale, per cui se tu hai un’opinione sulla giustizia razziale, sulla detenzione, sulla disuguaglianza in senso più generale, hai un’opinione anche sulla Palestina.”

Nel periodo dello shock delle elezioni del 2016, l’ampio schieramento di sinistra era arrivato a riconoscere che i diritti dei palestinesi avrebbero dovuto essere parte integrante del programma progressista. Linda Sarsour, un’importante attivista palestinese-americana, è stata uno dei volti della storica Marcia delle Donne contro Trump del gennaio 2017. Ma l’integrazione dei diritti dei palestinesi nel movimento progressista non è avvenuto senza polemiche. Gruppi filoisraeliani hanno attaccato Sarsour e il Movimento per le Vite dei Neri. Li hanno accusati di dirottare il movimento progressista verso un programma del tutto differente. Tuttavia è diventato insostenibile per i progressisti ignorare la Palestina.

Ciò è diventato ancor più evidente quando dirigenti progressisti come Ilhan Omar, eletta nel 2016, ha sposato la lotta a favore di qualunque cosa, dall’assistenza sanitaria per tutti al Green New Deal fino all’eliminazione dell’occupazione israeliana. L’impostazione di politica estera di Omar si concentra sulla smilitarizzazione e sui diritti umani, senza fare eccezione riguardo al trattamento di Israele verso i palestinesi.

L’elezione di Trump ha esasperato la politica sulla Palestina negli USA. La sua stretta alleanza con Netanyahu ha allontanato i democratici da Israele. I regali di Trump alla destra israeliana – il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il silenzio dell’amministrazione sulle colonie israeliane e il riconoscimento delle alture del Golan come territorio israeliano – lo hanno ulteriormente legato a Netanyahu, un problema per coloro che credono nell’importanza di una relazione bipartisan con lo Stato ebraico.

Trump ha perseguito anche un’altra strategia che ha portato la questione israelo-palestinese al centro del dibattito americano: definendo “antisemiti” suoi accesi oppositori come Omar e Tlaib, parte di un tentativo di spaccare il partito democratico, fa perdere elettori ebrei ed eccita la sua base di destra.

“Avete visto il partito repubblicano cercare di trasformarlo in un’arma politica, una questione spinosa. Diventa una questione di guerra culturale, come l’aborto o l’immigrazione”, ha detto Logan Bayroff, il portavoce di J Street. “Questo provoca la loro base elettorale, che non sono ebrei americani ma sono tanti elettori evangelici, che stanno guidando il programma [di Trump].”

La decisione di Netanyahu nello scorso agosto di vietare a Omar e Tlaib di recarsi in Israele-Palestina con una delegazione del Congresso faceva parte della strategia di Trump di dipingerle come nemiche di Israele e dell’America. Facendo in modo di creare un contrasto internazionale da prima pagina, Trump ha portato avanti i suoi piani di fare di Omar e Tlaib i volti del partito democratico, una strategia che lui reputa vincente nei confronti delle persone preoccupate della corsa a sinistra dei democratici.

Ma quella decisione ha avuto anche un effetto boomerang. Omar e Tlaib hanno tenuto un’eccezionale conferenza stampa dopo che è stato comunicato il divieto, in cui hanno parlato ad un pubblico di tutta la Nazione dell’indecenza dell’occupazione e di come Israele fa del male ai palestinesi. È stata, in una sola settimana, una sintesi di come la Palestina sia passata dai margini al centro della politica americana. A destra viene usata come questione controversa, mentre a sinistra viene amplificata dai parlamentari progressisti che vedono la Palestina come parte del loro più vasto programma di giustizia sociale.

Per quei democratici che vogliono mantenere l’alleanza USA-Israele così com’è, la decisione di Netanyahu di bandire Tlaib e Omar è stata inquietante ed ha solo incrementato il loro desiderio di vedere Netanyahu lasciare l’incarico e vincere qualcuno come Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco [coalizione di centro-destra che ha vinto le ultime elezioni in Israele, ndtr.]. Ai loro occhi, ciò permetterebbe ai democratici di tornare alle loro consuete posizioni su Israele: appoggiare i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese senza la seccatura di un Netanyahu sfacciatamente di parte che danneggia il rapporto tra USA ed Israele.

Ma mentre un incarico di formare un nuovo governo a Gantz potrebbe dare un attimo di respiro a questi democratici dopo il caos dell’era Netanyahu-Trump, non porrà fine alla messa in discussione progressista del consenso di Washington a Israele.

“Moltissimi democratici si illudono che il problema sia solo Bibi (Netanyahu). Ma non dovremmo fare troppe personalizzazioni”, ha detto l’importante consigliere democratico al Congresso. “Sì, Bibi è particolarmente dannoso, sfacciato nel suo approccio di parte, ma, come Trump, Bibi è il prodotto di una reale tendenza politica in Israele. Rappresenta un elemento illiberale con cui i democratici devono fare i conti se prendono sul serio i valori che professano.”

Alex Kane è un giornalista che vive a New York, il cui lavoro su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA è stato pubblicato su VICE News, The Intercept, The Nation, In These Times ed altri giornali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Giornata della collera palestinese contro lo “Stato dei coloni”

Umberto De Giovannangeli

26 novembre 2019 Huffington Post

Negozi chiusi, come le scuole e gli uffici pubblici. Manifestazioni e scontri a Gerusalemme Est e in varie località della Cisgiordania (decine i feriti). È la “Giornata della rabbia” dei palestinesi. Una rabbia indirizzata contro le dichiarazioni del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, sulla legalità degli insediamenti palestinesi.

 

Fine dalle prime ore dell’alba, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno rafforzato la loro presenza nella Cisgiordania e lungo la barriera difensiva con la Striscia di Gaza. “Abbiamo dichiarato una Giornata della rabbia per rifiutare questa dichiarazione del segretario di Stato – afferma Wasel Abu Yousef, membro della Commissione politica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – Condanniamo completamente questo sforzo statunitense di legittimare gli insediamenti”.

Gran parte della comunità internazionale considera illegali gli insediamenti, sulla base della Quarta convenzione di Ginevra, che impedisce a una potenza occupante di trasferire parte della propria popolazione civile nei territori occupati. Da parte sua, Israele non considera la Cisgiordania un territorio occupato, ma conteso a causa dell’esito della guerra del 1967, quando fu sottratta al Giordania. Mahmoud al-Aloul, vice presidente di Fatah – la maggiore delle componenti dell’Olp – citato dalla Wafa, ha attaccato l’amministrazione Usa guidata da Trump ed Israele responsabili di “molti crimini” contro il popolo palestinese. Stanno veramente sbattendo le porte in faccia al diritto internazionale e spalancando quelle dell’estremismo, del terrorismo, della violenza, della corruzione, dello spargimento di sangue – ribadisce ad HuffPost il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat – Costringono i popoli a convincersi che l’unico modo di risolvere i problemi sia attraverso la violenza e non con i mezzi pacifici”. E aggiunge: “La comunità internazionale deve prendere tutte le misure necessarie per rispondere a fare da deterrente a questo comportamento irresponsabile degli Usa che rappresenta una minaccia alla sicurezza globale e alla pace”.

Durissima è anche la presa di posizione dei partiti arabi israeliani: “Netanyahu usa l’improvvida sortita americana per riproporre una visione colonialista ed etnocentrica d’Israele – ci dice Ayman Odeh, presidente della Joint List (La Lista araba unita, 13 seggi, terza forza parlamentare, ndr), incluso dalla Rivista Time tra le 100 ‘stelle nascenti’ a livello mondale della politica – Per Netanyahu annettere la Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank, ndr) è come realizzare una missione divina, oltre che una spregiudicata manovra politica per garantirsi il sostegno dei falchi legati al movimento dei coloni. Siamo al fondamentalismo che si fa politica. E costui pretenderebbe di continuare a fare danni in un nuovo governo!”

In una nota, diffusa ieri, il Comitato esecutivo del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) riafferma “la sua opposizione alla creazione e all’espansione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati dal 1967″. In risposta alla decisione del Governo Usa, del 18 novembre scorso, di considerare “non illegali” gli insediamenti civili israeliani in Cisgiordania, il Wcc ribadisce che “tale annuncio ribalta la politica statunitense finora applicata e si pone in netta contrapposizione con quella della comunità internazionale e delle Nazioni Unite”. Il Wcc “respinge questa posizione sbagliata nella legge e contraria al perseguimento di una pace giusta sia per i palestinesi che per gli israeliani” e “riafferma il diritto dello Stato di Israele di vivere in pace e sicurezza all’interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, e allo stesso tempo riconosce e sostiene lo stesso diritto per il popolo palestinese”.

“Siamo alla legalizzazione dello ‘Stato dei coloni’, in spregio alla legalità internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite”, incalza Hanan Ashrawi, già portavoce della delegazione palestinese ai negoziati di Washington, più volte ministra palestinese.

In questo clima di odio e di rabbia che crescono le giovani generazioni palestinesi. E nella “Giornata della rabbia”, vale come testimonianza diretta di una situazione drammatica, quanto scrive su Internazionale Amira Hass, firma storica di Haaretz, la giornalista israeliana che meglio conosce, avendola raccontata da anni, la realtà palestinese: “Vivo in Cisgiordania da abbastanza tempo per capire l’odio e il disgusto dei palestinesi, che assume contorni sempre più personali man mano che si allontana la speranza di ottenere la libertà. Negli ultimi venticinque anni Israele ha fatto tutto quello che era in suo potere per dimostrare le proprie ambizioni colonialiste, sfruttando nel modo più astuto il processo di negoziazione per strappare sempre più terre ai palestinesi e per smembrare ancora di più la loro collettività. Per contrastare questa politica sono stati usati tutti i mezzi possibili: manifestazioni individuali e di massa, post su Facebook e video, lancio di pietre, ordigni esplosivi e razzi da Gaza, appelli alle star della musica statunitense affinché non si esibissero in Israele, petizioni sui giornali, concerti di raccolta fondi e votazioni all’Onu.  Tutti questi mezzi hanno fallito. Lo Stato israeliano va avanti per la sua strada. Il mondo gli permette di comportarsi come se fosse al di sopra della legge, mentre i palestinesi vengono vivisezionati per ogni parola e ogni slogan che pronunciano, per ogni colpo che sparano…”. Due pesi e due misure. La speranza di pace si spegne anche così.




Il Likud di Netanyahu dovrà votare per la leadership del partito

25 novembre 2019 – Middle East Monitor

La Reuters riferisce che domenica un candidato alla direzione del Likud ha dichiarato che Il partito del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu terrà una votazione per decidere chi dovrà essere il segretario, mentre aumentano le pressioni sul leader perché si faccia da parte dopo la sua incriminazione per le accuse di corruzione

I media israeliani hanno riferito che le primarie del Likud si terranno tra sei settimane. Non è stato possibile raggiungere nessun portavoce del partito per [avere] una conferma dei tempi.

Gideon Saar, un parlamentare del Likud che ha sfidato Netanyahu, ha scritto su Twitter che “accoglie con favore il consenso del primo ministro a tenere le primarie per la leadership del partito”.

L’incriminazione di Netanyahu lo scorso giovedì è giunta in Israele nel mezzo di uno scompiglio politico, dopo che né Netanyahu né il suo principale sfidante nelle elezioni generali, il centrista Benny Gantz, hanno ottenuto la maggioranza in parlamento dopo le votazioni di aprile e settembre.

Netanyahu ha negato le accuse di corruzione, frode e abuso d‘ufficio e ha detto che sarebbe rimasto in carica e si sarebbe difeso.

Domenica il leader conservatore in carica per quattro mandati ha previsto impegni di ordinaria amministrazione, visitando la frontiera settentrionale del Paese e inasprendo i discorsi sulle minacce iraniane.

La Corte Suprema israeliana ha respinto una richiesta di un’organizzazione di controllo rivolta a costringere Netanyahu a farsi da parte.

Nella sua richiesta presentata alla Corte il Movement for Quality Government [movimento per un governo di qualità, organizzazione no profit israeliana impegnata nel campo della moralizzazione dello Stato, ndtr.] in Israele aveva dichiarato che le prime accuse penali contro un primo ministro in carica costituivano “l’attraversamento di una linea rossa e un grave colpo alla fiducia dell’opinione pubblica nel potere istituzionale”.

Il tribunale ha respinto la richiesta di costringere Netanyahu a dimettersi o ad abbandonare temporaneamente l’incarico. Ha affermato che il comitato di controllo non aveva ancora esaurito altre vie possibili, come una richiesta diretta a Netanyahu e al procuratore generale di Israele.

Da parte sua, Netanyahu si è concentrato sulla sicurezza e si è recato sulle Alture del Golan insieme alle più alte gerarchie militari.

“Sto facendo tutto il necessario per portare avanti il lavoro di governo, il lavoro di gabinetto … in tutti i modi opportuni, per garantire la sicurezza dei cittadini di Israele e quanto è vitale per Israele”, ha detto in una dichiarazione video.

Ha ribadito le preoccupazioni per il tentativo dell’Iran di rafforzarsi militarmente in un certo numero di Paesi del Medio Oriente e ha detto che Israele “agirà per impedire il tentativo dell’Iran di fare dell’Iraq e dello Yemen le basi per il lancio di razzi e missili contro Israele”.

Ma la copertura delle notizie israeliane è rimasta focalizzata sulla sfida politica. I commentatori hanno affermato che potrebbero far seguito altre richieste giudiziarie.

Il mandato di Gantz di formare un governo – dopo un tentativo fallito da parte di Netanyahu – è scaduto mercoledì. Il giorno successivo, il presidente israeliano ha indetto un periodo di tre settimane in cui i parlamentari possono eleggere uno di loro per tentare di mettere insieme una coalizione al potere.

In caso contrario, si imporrà una nuova elezione, la terza in Israele in un anno.

La speranza di Netanyahu di assicurarsi la nomina parlamentare è stata contrastata da Saar.

“C’è solo un modo per poter salvare il Paese, allontanarlo dalla crisi e garantire ancora il potere al Likud – ed è indire oggi le primarie, entro i prossimi 21 giorni”, ha detto Saar alla televisione israeliana Channel 12.

Una proposta meno ostile [a Netanyahu] è stata fatta da un secondo parlamentare del Likud, Nir Barkat, che ha chiesto di nominare un vice di Netanyahu che prenderebbe il suo posto nel caso in cui [quest’ultimo] fosse costretto a lasciare.

Saar aveva affermato in precedenza che avrebbe preso in considerazione l’idea di candidarsi per la leadership del Likud.

Nell’esprimere apprezzamento per il primato di durata [al governo] di Netanyahu e sottolineando la sua innocenza fino a prova contraria, Saar ha criticato i tentativi del premier di screditare il suo procedimento penale come un “tentativo di colpo di stato” che coinvolgerebbe la polizia, i pubblici ministeri e i media.”

Non solo è sbagliato affermarlo, ma è anche irresponsabile dirlo. È completamente fuori dal mondo “, ha affermato Saar.

Il portavoce del partito Likud all’inizio della giornata ha smentito la sfida.

“È triste vedere che mentre il Primo Ministro Netanyahu mantiene Israele al sicuro su tutti i fronti e lavora per preservare il dominio del Likud, Gideon Saar, come è suo solito, non mostra nessuna lealtà e il massimo di sovversione”, ha detto il portavoce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Bollando gli arabi come una ‘minaccia esistenziale’ Bibi evoca una spaventosa storia di violenza etnica

Dahlia Scheindlin

18 novembre 2019 – +972

Domenica notte Netanyahu ha convocato un incontro di emergenza del Likud, in cui ha accusato i cittadini palestinesi in Israele di sostenere il terrorismo. Noi sappiamo fin troppo bene come questo tipo di cose può andare a finire.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, nella sua accanita battaglia per impedire al suo avversario di formare un governo con l’appoggio della Lista Unita, coalizione a prevalenza araba, ha nuovamente accusato i leader del partito arabo di rappresentare una minaccia esistenziale per Israele. Domenica notte il presidente [della Lista Unita]Ayman Odeh ha risposto facendo circolare sui social una sua foto in pigiama mentre legge delle favole ai suoi tre affettuosissimi bambini. “Alla fine di una lunga giornata devo far addormentare queste minacce esistenziali!” ha scritto, contribuendo al divertimento virale dei lettori.

Anche se può essere una soddisfazione vedere come Odeh abbia fatto a pezzi Netanyahu con l’umorismo, le parole del primo ministro costituiscono in se stesse un grande pericolo.

Le deliranti diatribe anti-arabe di Netanyahu stanno accelerando in velocità e gravità. Nel 2015 aveva messo in guardia che i cittadini arabi stavano andando a votare “a frotte.” In vista delle elezioni di settembre la sua pagina Facebook dichiarava che “i politici arabi ci vogliono distruggere tutti.” (Netanyahu ha detto che si è trattato di un errore di un impiegato della campagna elettorale.)

Domenica Netanyahu ha tenuto un incontro di “emergenza” dei membri del Likud (l’emergenza non era una pioggia di razzi, ma l’eventualità di una coalizione di minoranza sostenuta dalla Lista Unita). In quell’occasione aveva tuonato che Blu e Bianco, il partito rivale, stava negoziando con i parlamentari arabi e che, ha continuato, “sostiene le organizzazioni terroristiche e vuole distruggere lo Stato.”

Non potendo trovare delle prove che la leadership della Lista Comune, formata da politici di lungo corso e attivisti della società civile, abbia il desiderio o le possibilità di distruggere Israele, ha citato invece Khamenei, l’ayatollah iraniano, che recentemente ha invocato la distruzione di Israele. Queste sono parole esecrabili, ma non riescono a trasformare l’ayatollah in un politico arabo in Israele.

Ancora più preoccupante è che fare della “minaccia esistenziale” dell’Iran una cosa sola con i cittadini arabo-palestinesi imita la retorica ideologica che sta dietro alle peggiori violenze etniche del mondo.

Un’analisi attenta delle origini di queste atrocità mostra che i responsabili avevano un’immagine distorta di una imminente distruzione che li aveva portati a commettere violenze estreme contro una collettività “altra” , giustificandole con la difesa nazionale. I leader e le élite spesso mettono insieme un reale trauma storico collettivo con una sfida politica del momento, o un’offesa, come prova di distruzione incombente.

Nei primi anni ’90, i miliziani serbi non si sono svegliati un mattino e hanno deciso di terrorizzare, stuprare e commettere un genocidio contro i loro vicini non-serbi. Secondo Stuart Kaufman, uno studioso di conflitti etnici, sebbene il collasso della Jugoslavia avesse naturalmente comportato violenze da parecchie parti, per molti anni i leader e gli intellettuali hanno sottolineato l’idea che le minoranze serbe delle ex-repubbliche della Jugoslavia si trovassero ad affrontare una “estinzione etnica”. Accademici di fama pubblicarono un memorandum, affermando che in Kosovo gli abitanti stavano cospirando per commettere un genocidio della popolazione serba locale. Il nazionalismo albanese in Kosovo stava infatti crescendo e molti, come nelle altre repubbliche, rivendicavano l’indipendenza.

L’influente documento sottolineava che i serbi non erano mai stati in un tale immediato pericolo dagli anni degli ustascia, quando il regime croato fantoccio dei nazisti aveva terrorizzato e massacrato circa mezzo milione di serbi. I serbi avevano fatto circolare voci di stupri commessi da albanesi e di un traffico croato di organi di combattenti serbi morti. Slobodan Milosevic aveva anche lui denunciato che i kosovari albanesi stavano progettando un “genocidio demografico.” Alla fine furono i serbi bosniaci ad essere condannati per il genocidio.

In Ruanda nel 1994 il regime dominato dagli hutu mobilitò la partecipazione di massa a un genocidio contro la minoranza dei tutsi che uccise circa 800.000 persone in circa 100 giorni. Il ruolo della propaganda e l’incitamento attraverso i media sono ben documentati. Ma in realtà che cosa affermava l’incitamento allo sterminio? Un rapporto di Human Rights Watch [associazione statunitense per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ha riscontrato il seguente messaggio:

I tutsi costituivano una minaccia per gli hutu che erano sempre le vittime, sia che si trattasse del potere militare dei tutsi o della loro furbizia (usare le donne per sedurre gli hutu, usare i loro soldi per comprare gli hutu) e così gli hutu avevano il diritto di difendersi.”

Il rapporto di Human Rights Watch continua: “In particolare fu l’ultima idea, cioè che gli hutu fossero in pericolo e che dovessero difendersi, ad aver avuto il successo maggiore nel mobilitare gli attacchi contro i tutsi dal 1990 fino al genocidio del 1994.”

Anche qui il pericolo imminente era attribuito alle sofferenze storiche e recenti degli hutu per mano dei tutsi. Nel vicino Burundi, gli hutu erano vissuti sotto il dominio tutsi per decenni. Quando il primo governo a guida hutu salì al potere nel 1993, il leader fu assassinato in un colpo di stato tutsi e le violenze reciproche uccisero centinaia di migliaia di persone. La distruzione si potrebbe considerare come la continuazione della storica dominazione di una monarchia a guida tutsi in Ruanda durante il colonialismo, prima di un colpo di stato nel 1959.

Mescolare dei torti veri con la ripetizione ossessiva di minacce esistenziali imminenti dovrebbe far paura a chiunque.

A suo modo le fantasie di Netanyahu sono persino più vergognose. Mancano di ogni base di un danno causato dai cittadini arabo-palestinesi in Israele, nel passato o nel presente. Questi gruppi non sono mai stati coinvolti in terrorismo organizzato e anche gli incidenti singoli sono estremamente rari. La comunità non ha tendenze secessioniste, ha partecipato al processo politico in Israele per decenni e dichiara ripetutamente il suo desiderio di una maggiore integrazione politica, civile ed economica. L’unica richiesta che sfida gli ebrei israeliani è simbolica: la conservazione della loro bistrattata identità palestinese. La principale richiesta politica, associata a quella dell’identità, è di porre fine all’occupazione militare dei territori palestinesi durata 50 anni e di riconoscere loro l’indipendenza.

Trasformare i cittadini arabo-palestinesi in una minaccia esistenziale di reale distruzione è un falso a livello di quello di una calunnia che provoca spargimento di sangue e questo è qualcosa che gli ebrei dovrebbero capire.

Dahlia Scheindlin è un’analista di fama internazionale degli orientamenti dell’opinione pubblica e una consulente strategica, specializzata in cause progressiste, in campagne politiche e sociali in oltre una dozzina di Paesi, incluse democrazie nuove/in transizione e nella ricerca su pace/conflitto in Israele, con esperienze nell’Europa orientale e nei Balcani. Lavora per un grande numero di organizzazioni locali e internazionali che si occupano dei temi del conflitto israelo-palestinese, diritti umani, processi di pace, democrazia, identità religiosa e problemi sociali interni. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche alla TAU, l’università di Tel Aviv e co-presenta il podcast The Tel Aviv Review.

(Traduzione di Mirella Alessio)




I palestinesi condannano il ribaltamento della politica USA sulle colonie israeliane

Al Jazeera e agenzie di informazione

19 novembre 2019 – Al Jazeera

Gli USA dicono di non considerare più illegali le colonie israeliane, provocando aspre critiche da parte dei palestinesi e delle associazioni per i diritti

Palestinesi, associazioni per i diritti, politici ed altri hanno aspramente criticato l’amministrazione Trump dopo l’annuncio che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come “incompatibili” con il diritto internazionale.

Dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti del dibattito legale, questa amministrazione concorda ….che l’insediamento di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé in contrasto con il diritto internazionale”, ha detto lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo quando ha dato l’annuncio.

Ha detto che l’amministrazione del presidente USA Donald Trump non si atterrà più all’opinione legale del Dipartimento di Stato del 1978 che affermava che le colonie erano “contrarie al diritto internazionale”.

Secondo diverse Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la più recente nel 2016, le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale, in quanto violano la Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area da essa occupata.

L’annuncio USA, l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Trump a favore di Israele, ha sollevato critiche immediate da parte di palestinesi, associazioni per i diritti e politici in tutto il mondo.

Un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che la decisione degli USA “è totalmente contraria al diritto internazionale.”

Washington “non è qualificata né autorizzata ad annullare le risoluzioni del diritto internazionale e non ha il diritto di concedere legittimità ad alcuna colonia israeliana”, ha dichiarato il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeinah.

Hanan Ashrawi, una importante negoziatrice palestinese e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha scritto su Twitter, di fronte alla dichiarazione di Pompeo, che l’iniziativa rappresenta un altro colpo “al diritto internazionale, alla giustizia e alla pace.”

Il Ministro degli Esteri della Giordania, Ayman Safadi, ha avvertito che il cambiamento di posizione degli USA potrebbe comportare “pericolose conseguenze” sulle prospettive di riavviare il processo di pace in Medio Oriente.

Safadi ha detto in un tweet che le colonie israeliane nel territorio sono illegali ed annientano la prospettiva di una soluzione con due Stati, in cui uno Stato palestinese dovrebbe esistere a fianco di Israele, cosa che i Paesi arabi ritengono essere l’unica via per risolvere il pluridecennale conflitto arabo-israeliano.

‘Un regalo a Netanyahu’

Più di 600.000 israeliani vivono attualmente in colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est occupata. Vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi.

Le colonie sono state considerate per molto tempo un gravissimo ostacolo ad un accordo di pace israelo-palestinese.

Gruppi di monitoraggio hanno detto che, da quando Trump è diventato presidente, Israele ha accelerato la creazione di colonie.

L’annuncio di lunedì ha segnato un’altra significativa tappa in cui l’amministrazione Trump si è schierata a favore di Israele e contro le posizioni dei palestinesi e degli Stati arabi ancor prima di svelare il suo piano di pace israelo-palestinese a lungo rinviato.

Nel 2017 Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e nel 2018 gli USA hanno aperto ufficialmente un’ambasciata nella città. La posizione politica USA precedentemente era stata che lo status di Gerusalemme doveva essere definito dalle parti in conflitto.

Nel 2018 gli USA hanno anche annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’UN Relief and Works Agency [Agenzia ONU per l’Aiuto e il Lavoro] (UNRWA), l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E in marzo Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana delle Alture del Golan occupate nel 1981, facendo un favore al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa che ha provocato una dura risposta da parte della Siria, che un tempo deteneva lo strategico territorio.

Lunedì Netanyahu ha plaudito al cambio di politica, dicendo che la mossa degli USA “corregge uno storico errore”.

Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna per i diritti dei palestinesi, ha definito l’annuncio di Pompeo “un altro regalo a Netanyahu e un semaforo verde ai leader israeliani per accelerare la costruzione di colonie e anticipare un’ annessione formale.”

Attualmente Netanyahu sta subendo pressioni interne su due fronti, dopo che all’inizio dell’anno in Israele si sono svolte elezioni inconcludenti. Il suo principale rivale politico, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ha due giorni per cercare di formare un governo per sostituire Netanyahu, che sta anche affrontando una possibile incriminazione in tre casi di corruzione.

Nell’ultima campagna elettorale Netanyahu ha promesso di annettere ampie parti della Cisgiordania, una mossa che metterebbe ulteriormente a rischio una soluzione con due Stati.

Gantz ha accolto positivamente l’iniziativa statunitense, dicendo in un tweet che “il destino delle colonie dovrebbe essere deciso da accordi che rispettino le esigenze di sicurezza e promuovano la pace.”

Pompeo ha negato la volontà di dare sostegno a Netanyahu, dicendo: “La tempistica di questo (annuncio) non è collegata a niente che abbia a che fare con politiche interne in Israele o altrove.”

Reazioni

Un portavoce dell’Ufficio ONU per i Diritti Umani (OHCHR) ha detto di “condividere la posizione da tempo adottata dall’ONU sulla questione che le colonie israeliane violano il diritto internazionale.”

Rupert Colville ha detto anche che ci sono diverse risoluzioni ONU, come anche sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che si riferiscono alla questione.

Il 9 luglio 2004 la CIG nel suo parere consultivo ha affermato che la costruzione da parte di Israele del muro di separazione e l’espansione delle colonie sono illegali ed alterano la composizione demografica dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), compromettendo in tal modo gravemente la possibilità per i palestinesi di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”, ha detto martedì ai giornalisti.

Al contempo l’Unione Europea ha detto di continuare a credere che l’attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati sia illegale in base al diritto internazionale e vanifichi le prospettive di una pace duratura.

La UE chiede ad Israele di porre fine all’attività di colonizzazione, in conformità con i suoi obblighi in quanto potenza occupante”, ha detto il capo della politica estera europea Federica Mogherini in una dichiarazione in seguito all’iniziativa USA.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha tweettato: “La fittizia dichiarazione di Pompeo non cambia niente. Trump non può spazzare via con questo annuncio decenni di diritto internazionale consolidato secondo cui le colonie israeliane sono un crimine di guerra.”

Anche il senatore USA Bernie Sanders, uno dei più importanti candidati democratici alle elezioni presidenziali USA, , ha detto la sua su Twitter: “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali.

Risulta chiaro dal diritto internazionale e da molte risoluzioni delle Nazioni Unite. Ancora una volta il signor Trump sta isolando gli Stati Uniti e compromettendo la diplomazia per assecondare la propria base [elettorale] estremista”, ha detto Sanders.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Dieci morti a Gaza

Dieci morti a Gaza mentre Israele provoca una nuova guerra

Maureen Clare Murphy

12 novembre 2019 – Electronic Intifada

 

Gli attacchi missilistici israeliani contro Gaza e il lancio di razzi dal territorio sono continuati fino al tardo pomeriggio di martedì [12 novembre 2019] dopo che l’assassinio di un dirigente della Jihad Islamica all’inizio della giornata ha innescato lo scontro militare più grave da mesi.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza durante il giorno dieci palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Nel contempo Israele ha chiuso i punti di transito dal territorio assediato e ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Martedì sera il portavoce dell’ala militare della Jihad Islamica ha giurato che “le prossime ore segneranno una vittoria per il popolo palestinese. Israele ha iniziato questa campagna, ma sarà avvisato quando questa finirà.”

Baha Abu al-Ata, 42 anni, descritto dai media israeliani come il comandante militare della Jihad Islamica nella zona nord di Gaza, è stato ucciso da un attacco aereo contro la sua casa nel quartiere di Shujaiyeh a Gaza City.

Anche sua moglie, Asma Abu al-Ata, 38 anni, è stata uccisa nell’attacco israeliano. Altre sette persone, compresi quattro minorenni, sono rimasti feriti e alcune case vicine e una scuola sono state danneggiate.

Nel frattempo nella capitale siriana la casa di Akram al-Ajouri, il capo dell’ala militare della Jihad Islamica, è stata presa di mira da un attacco aereo. La Siria ha accusato Israele dell’attacco.

Nel raid sarebbero state uccise due persone, compreso uno dei figli di al-Ajouri.

Combattenti palestinesi a Gaza hanno risposto all’attacco con il lancio di razzi che sono arrivati fino a Tel Aviv.  Ziad al-Nakhala, segretario generale della Jihad Islamica, ha affermato che “siamo in guerra” e che il primo ministro israeliano “ha oltrepassato ogni limite” uccidendo Abu al-Ata.

A Sderot, città del sud di Israele, una fabbrica di giocattoli è stata tra i luoghi colpiti dai razzi sparati da Gaza, e le immagini di una telecamera di sicurezza hanno mostrato un razzo che ha raggiunto un’autostrada, quasi colpendo un motociclista.

Martedì non ci sono informazioni di vittime gravi israeliane.

Martedì mattina un missile ha colpito gli uffici della Commissione Palestinese Indipendente per i Diritti Umani a Gaza City, ferendo leggermente un membro del personale.

Amnesty International ha condannato l’attacco, affermando che “aggressioni che prendono di mira edifici civili (sono) una violazione delle leggi internazionali.”

Il quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale di centro sinistra, ndtr.] in seguito ha informato che il palazzo degli uffici a Gaza City era stato colpito da un razzo sparato da Gaza che è caduto troppo vicino, e non da un missile israeliano.

Israele ha sostenuto di aver sparato missili contro gruppi che lanciavano razzi in Israele e la Jihad Islamica avrebbe confermato la morte di uno dei suoi combattenti. L’esercito israeliano ha anche affermato di aver preso di mira fabbriche sotterranee e depositi di armi, così come campi di addestramento della Jihad Islamica.

In un discorso televisivo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’assassinio di Abu al-Ata è stato approvato 10 giorni fa.

“Questo terrorista ha lanciato centinaia di razzi e pianificava ulteriori attacchi,” ha detto Netanyahu. “Era una bomba a orologeria.”

“Non siamo interessati a un’escalation, ma se necessario risponderemo,” ha aggiunto Netanyahu.

Aviv Kohavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha affermato che Abu al-Ata “ha agito in ogni modo per sabotare i tentativi di una tregua con Hamas.”

“Ci stiamo preparando da terra, cielo e mare per un’escalation,” ha aggiunto Kohavi.

In Israele alcuni commentatori hanno sollevato sospetti sulla tempistica e sui motivi dell’assassinio di Abu al-Ata.

Scrivendo per il quotidiano israeliano “Haaretz”, Chemi Shalev ha suggerito che Netanyahu intenda sabotare le possibilità che la “Lista Unitaria”, una fazione parlamentare prevalentemente composta da cittadini palestinesi di Israele, stringa un accordo per sostenere un governo guidato da Benny Gantz.

Gantz, il leader della coalizione “Blu e Bianco”, sta al momento cercando di formare un governo dopo che Netanyahu non ci è riuscito in seguito alle inconcludenti elezioni israeliane di settembre. Mentre i colloqui per formare una coalizione di governo proseguono, Netanyahu rimane capo del governo israeliano ad interim.

Gantz ha negato che gli sviluppi possano influire sui negoziati per un governo di coalizione, e ha detto che l’esercito israeliano ha preso la “decisione giusta” nell’uccidere Abu al-Ata.

Martedì molti mezzi di informazione in ebraico hanno informato che Netanyahu ha voluto l’uccisione di Abu al-Ata dopo che razzi sparati da Gaza lo hanno obbligato a lasciare il palco durante un comizio la settimana prima che si tenessero le elezioni di settembre.

Secondo il “Times of Israel” [quotidiano israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] “Netanyahu era furioso e ha fatto subito pressioni su alti dirigenti della sicurezza perché approvassero l’assassinio di Abu al-Ata,” ma l’operazione è stata rimandata.

Ismail Haniyeh, il capo dell’ala politica di Hamas, ha accusato Israele del tentativo di impedire “il percorso per ristabilire la nostra unità nazionale” assassinando Abu al-Ata. Lo scorso mese Hamas ha indicato di essere pronta a tenere elezioni, che non ci sono più state dalla sorprendente vittoria del gruppo della resistenza alle elezioni legislative del 2006.

Nel contempo martedì Naftali Bennett, un acceso antiarabo, ha assunto il ruolo di ministro della Difesa israeliano. Netanyahu è stato titolare del portafoglio del ministero mentre i negoziati per la formazione del futuro governo israeliano sono in corso.

In precedenza Bennett si era vantato del suo sanguinoso passato. “Ho ucciso molti arabi nella mia vita, e non ho nessun problema al riguardo,” ha detto Bennett durante una riunione di governo nel 2013.

L’Unione Europea, la Germania, gli USA e il Regno Unito hanno condannato il lancio di razzi da Gaza, ma non l’esecuzione extragiudiziaria che l’ha determinato, appoggiando implicitamente l’attacco israeliano.

Il Comitato Nazionale del [movimento per il] Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni palestinese ha affermato che “la società civile internazionale deve agire per rendere Israele responsabile quando i governi non lo fanno.”

Amnesty International ha descritto gli sviluppi sui confini tra Gaza e Israele come “profondamente preoccupanti”, aggiungendo che “la successiva escalation della violenza tra Israele e i gruppi armati palestinesi suscita timori di un aumento dello spargimento di sangue tra i civili.”

L’associazione per i diritti umani ha affermato: “Israele ha precedenti nel perpetrare gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali a Gaza, compresi crimini di guerra, con impunità e dimostrando uno sconvolgente disprezzo per le vite dei palestinesi.”

L’uccisione di Abu al-Ata da parte di Israele martedì ricorda l’assassinio del comandante militare di Hamas Ahmed al-Jabari a Gaza sette anni fa in questo stesso mese.

Uccidendo al-Jabari Israele ruppe un cessate il fuoco con i gruppi armati di Gaza. Ciò scatenò alcuni giorni di duri combattimenti e un’invasione terrestre che uccise 170 palestinesi, tra cui più di 100 civili.

Durante quell’offensiva dieci membri della famiglia al-Dalu e due loro vicini vennero uccisi in un solo attacco israeliano contro un edificio residenziale a Gaza City.

Egitto e ONU starebbero cercando di riportare alla calma l’attuale situazione e di evitare uno scontro su vasta scala.

Questo articolo è stato aggiornato dalla sua pubblicazione iniziale per includere nuovi sviluppi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Candidata laburista si ritira dopo aver paragonato Israele a un “adulto maltrattatore”

Rowena Mason

7 novembre 2019 The Guardian

Kate Ramsden prima ha messo in rapporto lo Stato di Israele con un “bambino maltrattato” e potrebbe dover affrontare una sanzione disciplinare del partito

Una candidata laburista ha rinunciato [a partecipare alle elezioni] dopo essere stata messa sotto accusa per un blog in cui ha paragonato Israele a “un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.”

Kate Ramsden, candidata a Gordon, nell’ Aberdeenshire [in Scozia, ndtr.], si è ritirata per “ragioni personali” dopo che il partito Laburista le ha chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione ed ha affermato che potrebbe dover affrontare un procedimento disciplinare.

Nel blog, riportato dal Jewish Chronicle [storico settimanale degli ebrei britannici schierato con Israele e sostenitore della campagna contro il presunto antisemitismo nel partito Laburista, ndtr.], lei ha detto: “Per me, lo Stato israeliano è come un bambino maltrattato che diventa un adulto maltrattatore.” L’articolo afferma che ha aggiunto: “Come i maltrattamenti contro i bambini, deve smetterla…Come interveniamo sui maltrattamenti contro i bambini, la comunità internazionale deve intervenire su Israele.”

Il partito Laburista ha detto di aver scoperto il blog e quindi di averle chiesto di essere di nuovo sottoposta a selezione, ma i dettagli sono comparsi sul “Jewish Chronicle” prima che lei venisse riesaminata. Ramsden allora ha dichiarato di rinunciare a candidarsi di sua spontanea volontà.

Una fonte laburista ha affermato: “Abbiamo immediatamente preso un’iniziativa perché la candidatura di Kate Ramsden venisse riconsiderata alla luce del materiale che abbiamo trovato. Personale della sede centrale del partito Laburista ha scoperto questi post quando stava facendo controlli supplementari relativi a comportamenti corretti.

Il personale ha immediatamente allertato il partito Laburista scozzese, che ha informato il comitato esecutivo scozzese, il quale ha deciso di rivalutare la candidatura di Kate Ramsden riguardo ai nuovi post che erano stati trovati. Kate Ramsden ha rinunciato alla candidatura e quindi non è una candidata del partito Laburista alle elezioni. Il partito ha preso un’iniziativa rapida e decisa sull’argomento.”

Un’altra candidata laburista, Zarah Sultana, è stata oggetto di una polemica dopo che ha accusato la destra del partito di “utilizzare come arma” contro la dirigenza accuse di antisemitismo. La candidata per Coventry Sud in precedenza era stata obbligata a chiedere scusa per aver detto che avrebbe festeggiato la morte di Tony Blair e di Benjamin Netanyahu.

Una terza candidata, Jane Aitchison, che si presenta a Pudsey, Yorkshire ovest, è stata criticata dai conservatori per la sua reazione alle affermazioni di Sultana. Intervistata da Emma Barnett della rete radiofonica 5 Live della BBC, Aitchison ha detto di ritenere che “a volte si dicono cose con molta passione e che sono sbagliate.”

Ma ha aggiunto: “A volte si festeggia la morte di qualcuno…Per esempio quella di Hitler.”

Andrew Percy, vice presidente del gruppo parlamentare interpartitico contro l’antisemitismo, ha affermato: “Paragonare il leader israeliano con Adolf Hitler, un uomo responsabile della morte di 6 milioni di ebrei, non è solo profondamente sconvolgente per la comunità ebraica, ma anche folle.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’altro Benjamin: chi è Benny Gantz, il rivale di Netanyahu?

Marie Niggli

Giovedì 24 ottobre 2019 – Middle East Eye

Dopo la rinuncia di Benjamin Netanyahu lunedì, Benny Gantz è stato nominato per tentare di formare una coalizione di governo. Una missione difficile, se non impossibile, per questo ex-capo di stato maggiore dell’esercito di cui è difficile definire gli obiettivi

Bibi” contro “Benny”: negli ultimi mesi la politica israeliana si è ridotta a un duello al vertice tra i due Benjamin. Da una parte Benjamin Netanyahu, la vecchia volpe, soprannominato Bibi dai suoi sostenitori, che detiene il record di longevità come primo ministro in Israele; dall’altra il novellino Benjamin Gantz, detto Benny, un ex-militare che si è lanciato in politica da meno di un anno.

Dopo due elezioni in meno di sei mesi – lo scorso aprile e in settembre – il Paese si trova in una situazione di stallo politico. Né vincitore né vinto: di per sé per Netanyahu, che ha dominato l’arena politica negli ultimi dieci anni, è già una sconfitta. Lunedì sera è persino sembrato che vacillasse: incapace di mettere insieme un governo, il primo ministro uscente ha restituito il mandato al presidente israeliano.

Per la prima volta dal 2009 è un altro, Benny Gantz, che cercherà di formare una coalizione per prendere il suo posto. Ha 28 giorni di tempo. Una missione impossibile, prevede la maggior parte degli osservatori.

Com’è riuscito questo ashkenazita [ebreo di origine europea, ndtr.] alto e dagli occhi azzurri a far inciampare Netanyahu, là dove tanti politici esperti in precedenza si sono rotti le ossa? Sicuramente non grazie alla sua esperienza politica: non ne ha affatto.

Il suo curriculum? Quello di un militare che ha salito i gradini uno a uno. Arruolato nell’esercito nel 1977, questo figlio di un sopravvissuto alla Shoah è diventato paracadutista, nel 1991 ha partecipato all’operazione “Salomon”, che in 48 ore ha trasferito 14.000 ebrei dall’Etiopia verso Israele, ha combattuto in Libano nel 2000 e alla fine è diventato capo di stato maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015.

Fascino militare

Gantz ha lasciato un’impronta sanguinosa: sotto il suo comando, Israele e Hamas si impegnano in due guerre a Gaza. Nel 2012 l’offensiva israeliana ha fatto 163 morti nell’enclave. Nel 2014, durante più di un mese e mezzo, un diluvio di fuoco si è abbattuto sulla stretta striscia di terra e sono stati uccisi 2.220 palestinesi, di cui più di 1.500 civili (550 minori).

Nel 2015 un rapporto dell’ONU ha affermato di aver raccolto “delle informazioni rilevanti che mettono in evidenza possibili crimini di guerra commessi sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi.” Ha rimproverato all’esercito israeliano in particolare l’“uso intensivo di armi concepite per uccidere e ferire in un ampio raggio.”

Invece di tener nascosto questo bilancio disastroso, l’ex capo di stato maggiore l’ha utilizzato per lanciare la sua campagna elettorale. Con una serie di video scioccanti, il prudente Gantz si è trasformato in falco, vantando gli atti di guerra sanguinosi dell’esercito israeliano a Gaza nel 2014 sotto il suo comando, che secondo lui hanno riportato certe zone dell’enclave “all’età della pietra.”

Un macabro calcolo sulle immagini dei funerali di palestinesi si conclude con questo slogan: “Solo i forti sopravvivono.”

Questo immaginario parla al pubblico ebraico in Israele: è “una società molto militarizzata”, spiega Yara Hawari, analista politica di Al-Shabaka, un centro di analisi palestinese. Gli israeliani hanno “molto rispetto per i generali, perché c’è anche questo contesto un po’ machista, una certa mascolinità nociva e i generali vengono quindi percepiti come forti.”

Salvo il fatto che, tra tutti i militari che hanno sfondato in politica, Benny Gantz è il meno esperto.

Ehud Barak era un ex-capo di stato maggiore che è diventato primo ministro, ma da quasi due anni dirigeva il partito Laburista. Ariel Sharon, tutti lo dimenticano, è stato in politica per circa 30 anni prima di diventare primo ministro,” ricorda Dahlia Scheindlin, consigliera politica che ha aiutato a elaborare sette campagne elettorali per conto di diversi partiti israeliani, di cui l’ultima con il partito di sinistra “Unione democratica”.

Anche se figlio del responsabile politico del partito Laburista nella comunità dove è nato, Kfar Ahim – costruito sulle rovine del villaggio palestinese di Qastina –, a 60 anni Gantz ha scoperto il gioco politico nello scorso dicembre, quando ha lanciato il suo partito, “Hosen L’Yisrael” – “Resilienza per Israele”.

All’inizio la formazione sembrava un “piccolo gruppo di amici che hanno preso un anno sabbatico e di professionisti della campagna elettorale reclutati all’ultimo momento,” sfotte il quotidiano israeliano di sinistra “Haaretz”. Insomma, tutto meno che un partito di militanti impegnati.

Ma il rigido militare, un po’ austero, trova dei partner ideali: un ex-ministro, Yaïr Lapid, e due ex-capi di stato maggiore, Gabi Ashkenazi e Moshe Ya’alon, quest’ultimo anche lui con esperienza di governo. Di che rafforzare la sua base politica: ecco com’è nata, all’inizio del 2019, la coalizione “Blu e Bianco”, dai colori della bandiera israeliana.

Presentata come di centro, la lista in “altri luoghi nel mondo sarebbe definita di destra,” sottolinea Yara Hawari, che nota lo spostamento dello scacchiere politico israeliano verso l’estrema destra.

Uniti contro i palestinesi

Ormai circondato da “partner politici e consiglieri”, Gantz ha “condotto due campagne elettorali” che l’hanno fatto progressivamente maturare, ricorda Ofer Zalzberg, analista del Medio Oriente dell’ “International Crisis Group” [Ong con sede in Belgio che cerca di prevenire i conflitti, ndtr.] (ICG). Ma sul piano politico, con più di 30 anni di carriera, “Netanyahu ha un vantaggio enorme.”

In confronto il militare fatica ancora, poco presente sulle reti sociali, non sempre a suo agio, ambiguo nella linea politica. “È molto complicato sapere chi è Benny Gantz e per cosa si batte,” constata Dalhia Scheindlin.

Salvo che in politica estera e sulla questione palestinese. Benny o Bibi, sono la stessa cosa, evidenzia Yara Hawari: secondo lei entrambi applicheranno la stessa politica “violenta d’occupazione e di colonizzazione” nei territori palestinesi.

Quello che cambierà sarà il discorso, la retorica utilizzata da Israele. (Gantz e i suoi alleati) utilizzeranno un linguaggio più accattivante per perpetuare il progetto coloniale e continueranno l’annessione di fatto” della Cisgiordania, territorio sotto il controllo di Israele da 52 anni. Quanto alla prospettiva di negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, essa tornerà a “negoziare i termini del nostro imprigionamento, non quelli della liberazione” dei palestinesi, sottolinea la ricercatrice.

Con un linguaggio più educato, più diplomatico, Gantz “cercherà di riconquistare gli alleati internazionali” trascurati da Netanyahu, che si accontentava del sostegno incondizionato che gli concede il presidente americano Donald Trump, in spregio al diritto internazionale.

Gli “europei sono pronti per questo,” vedono nell’ex-militare “qualcuno a cui possono parlare, lo definiscono un partner per la pace, cosa che è risibile,” continua Yara Hawari. “Penso che ciò sia pericoloso.”

A meno che le sfumature non siano anche da decifrare tra le righe. Nel 2015, dopo aver lasciato l’esercito, “Gantz ha fatto un discorso e sostenuto la soluzione dei due Stati,” ricorda Ofer Zalzberg, dell’ICG. Una posizione che non esprime più in pubblico, ma, se riuscisse ad essere eletto, “proporrà una graduale separazione tra i due popoli,” ritiene.

Resta il fatto che l’ex capo di stato maggiore non ha più evocato uno Stato palestinese durante la sua campagna elettorale. Peggio, ha chiaramente affermato la sovranità israeliana sulla valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, quando Netanyahu ha proposto di annetterla – tutt’al più una differenza semantica.

Religiosi contro laici

Né molto avvenente né molto carismatico, Gantz ha raggiunto da zero la cima della politica israeliana grazie a una fortunata congiunzione astrale. Dopo 10 anni di Netanyahu, il paesaggio politico si ricompone soprattutto attorno alla divisione della destra, ormai scissa tra religiosi e laici.

Il primo ministro uscente “è stato estremamente generoso con i partiti ebrei ultra-ortodossi, e la destra laica è rimasta frustrata,” analizza Ofer Zalzberg. “Non vuole più sedersi a fianco dei religiosi.”

Il grande simbolo di questo cambiamento? La rottura, insieme personale ed ideologica, tra Avigdor Lieberman, ex-ministro di Netanyahu, e il suo antico mentore: è lui che ha fatto fallire tutti i tentativi del primo ministro uscente di formare un governo dopo aver provocato le elezioni anticipate ritirandosi un anno fa dalla precedente coalizione.

Trasporti pubblici – ridotti – durante il sabato, giorno di riposo settimanale degli ebrei, durante il quale la religione vieta ai fedeli di lavorare, l’introduzione del matrimonio civile, la sua estensione agli omosessuali…il programma di Benny Gantz su alcune questioni sociali che sono diventate delle grandi sfide durante le ultime elezioni sono in netto contrasto rispetto a quanto imposto dagli alleati ultra-ortodossi di Netanyahu.

La divisione all’interno della destra tuttavia non è sufficiente a far arrivare Gantz alla guida di un governo, è solo sufficiente a impedire a Netanyahu di rimanere primo ministro,” nota Ofer Zalzberg.

Ed è lì tutta la debolezza della campagna di Benny Gantz. In pochi mesi, il militare discreto ha dolcemente instillato nell’opinione pubblica israeliana di essere l’anti-Bibi. Calmo, pragmatico, mette l’accento sull’unità quando Netanyahu ha costruito la sua carriera politica sulle polemiche e sull’incitamento all’odio verso i palestinesi, che siano o meno cittadini israeliani.

Nel mondo d’oggi si osservano due tipologie di politici,” ricorda Ofer Zalzberg. “Quelli di una sorta di politico ribelle, che si presenta come antisistema, e altri che rivendicano l’appartenenza al sistema e difendono le istituzioni. (Gantz) fa chiaramente parte di questa seconda categoria,” di fronte a un Netanyahu che si scaglia contro media e istituzioni come se gli fossero ostili.

Solo che per strappare Israele dalle mani di un dirigente così avvezzo al gioco politico come il primo ministro uscente, in un Paese frammentato e tormentato dalle divisioni, Benny Gantz non può appoggiarsi unicamente su un programma che caldeggia lo status quo.

La sua campagna elettorale non è riuscita a garantirgli la maggioranza: ha ormai poco meno di un mese per immergersi nell’aspra arena politica israeliana e andarsi a cercare il sostegno che ancora gli manca. In caso contrario, il Paese rivoterà per la terza volta in meno di un anno …

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)