Rassegna della stampa israeliana: ministro definisce i matrimoni con non-ebrei un “secondo Olocausto”

Da un corrispondente di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

Nel contempo ai richiedenti asilo è vietato iscrivere i bambini a scuola e il governo approva iniziative USA contro Hezbollah

Cittadina chiude scuole ai richiedenti asilo

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che la cittadina israeliana di Petah Tikva sta impedendo ai richiedenti asilo, la maggioranza dei quali provenienti da Paesi africani, di iscrivere i figli nelle scuole della cittadina.

Secondo Haaretz i genitori di 129 bambini eritrei non hanno potuto iscrivere i propri figli negli asili e nelle scuole, aggiungendo che le famiglie hanno avviato un ricorso legale contro il Comune.

Benché la legge israeliana preveda che i genitori devono mandare i propri figli a scuola dai tre ai diciotto anni e stabilisca che l’educazione di base debba essere gratuita, a Petah Tikva i richiedenti asilo hanno scoperto di non poter iscrivere i propri figli, anche se hanno frequentato la scuola della città durante l’anno scorso.

La città utilizza due meccanismi per impedirne l’iscrizione: rifiuta di riconoscere i documenti che dimostrano che i richiedenti asilo sono residenti a Petah Tikva o sostiene che i bambini non possono completare l’anno scolastico perché i loro genitori sono in possesso di un visto che scade prima della fine dell’anno scolastico.

Il ministero dell’Interno israeliano emette permessi di permanenza a tempo determinate per periodi da tre a sei mesi.

In febbraio il Canale 13 israeliano ha informato che il sindaco di Petah Tikva Rami Greenberg ha chiesto agli abitanti della cittadina di dare notizia di richiedenti asilo nei loro quartieri per organizzare la loro deportazione.

Un ministro sostiene che i matrimoni misti sono un secondo Olocausto

Secondo notizie che hanno avuto ampio risalto, durante una recente riunione del governo il neoministro dell’Educazione, Rafi Peretz, ha affermato che i matrimoni tra ebrei e non ebrei – noti anche come matrimoni misti – sono un “secondo Olocausto”, che mette a rischio di distruzione il popolo ebraico.

Per anni l’organizzazione di destra contro i matrimoni misti “Lehava”, guidata dal Benzi Gupstein, è stata coinvolta in incitamenti all’odio e anche in attacchi fisici contro coppie miste in Israele. Tuttavia l’ufficio del procuratore generale israeliano, persino dopo che è stato presentata una denuncia ufficiale, rifiuta di incriminare Gupstein.

Prima delle elezioni Peretz ha tentato di prendere le distanze da Gupstein per mantenere un’immagine presentabile dell’Unione dei Partiti di Destra di cui è segretario, ma da quando è ministro ha apertamente manifestato le stesse opinioni sull’importanza della purezza razziale degli ebrei.

Netanyahu ammonisce l’Iran

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato lo sfondo di un gruppo tattico di caccia Stealth F-35 (importato dagli USA) per registrare un video in cui rivolge un monito all’Iran, affermando che “l’Iran deve ricordare che i nostri aerei da guerra lo possono raggiungere.”

Ben Kaspit, del giornale Maariv, sostiene che Netanyahu sta cercando di convincere il presidente USA Donald Trump ad affermare esplicitamente che esiste un’“alleanza militare” tra gli USA e Israele per aumentare le possibilità di Netanyahu nelle prossime elezioni.

In cambio Netanyahu farebbe una dichiarazione in appoggio al piano di Washington denominato “accordo del secolo” per risolvere la crisi israelo-palestinese.

Anche la decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni a due deputati libanesi e ad un ufficiale della sicurezza del partito Hezbollah è stata ampiamente riportata ed in Israele è vista come una tacita accettazione dell’opinione del governo israeliano riguardo a Hezbollah come nient’altro che un rappresentante dell’Iran.

Silverstein rivela il nome del presunto uccisore di un ebreo etiope

Gli ebrei israeliani di origine etiope continuano a protestare in Israele e chiedono che il poliziotto che il 30 giugno avrebbe sparato e ucciso il diciottenne Salomon Teka ad Haifa venga chiamato a risponderne.

Su richiesta delle autorità israeliane l’identità del poliziotto sospettato è stata tenuta segreta, ma il blogger residente negli USA ed editorialista di Middle East Eye Richard Silverstein ha rivelato che il suo nome è Baruch Ben Azari.

Tuttavia Silverstein ha informato che, in conformità con le norme israeliane sulla censura, il motore di ricerca Google ha impedito alla gente in Israele di leggere il suo post.

L’identità di Ben Azari non è un segreto ben custodito, in quanto il suo nome è filtrato anche sulle reti sociali ed egli è stato identificato in un hotel. Si è anche lamentato di aver ricevuto minacce di morte.

A titolo di confronto, anche Mahmoud Qatusa, un palestinese falsamente accusato dello stupro di una bambina di sette anni in una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania occupata, ha ricevuto minacce di morte, mentre delinquenti hanno fatto scritte nella sua città chiedendo la sua esecuzione e danneggiando veicoli nella zona.

A differenza di Ben Azari, l’identità di Qatusa non è stata protetta quando la polizia israeliana lo ha sospettato di un crimine che non aveva commesso e il suo nome e la sua foto sono stati pubblicati dai mezzi di comunicazione israeliani.

* La rassegna della stampa israeliana è un compendio di notizie la cui accuratezza non è stata verificata in modo indipendente da Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Si sono tenute nuove proteste ma più moderate per l’uccisione di un adolescente, mentre le autorità invitano alla calma

Redazione di Times of Israel

3 luglio 2019 – Times of Israel

A Tel Aviv la polizia blocca l’incrocio di Azrieli, compie numerosi arresti, ma la maggior parte delle manifestazioni è stata più pacata il giorno dopo la violenza generalizzata per la rabbia provocata dall’uccisione di Solomon Tekah

Mercoledì pomeriggio membri della comunità etiope-israeliana ed altri si sono riuniti nei principali incroci in tutto il Paese mentre Israele si preparava a nuove manifestazioni il giorno dopo violente dimostrazioni contro l’uccisione di un diciannovenne da parte di un poliziotto fuori servizio.

A metà pomeriggio era chiaro che le proteste erano molto più tranquille delle violente dimostrazioni di martedì.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e altri importanti dirigenti hanno fatto appello alla calma ed hanno promesso di stroncare la violenza, nel contesto della rabbia scatenata dall’uccisione di Solomon Tekah domenica ad Haifa.

All’incrocio di Azrieli a Tel Aviv, un importante nodo viario, la polizia ha impedito sia alle auto che ai manifestanti di arrivare all’incrocio, nel tentativo di evitare la ripetizione del caos generalizzato e della violenza del giorno prima in quel luogo. Come è scesa la notte, l’incrocio è stato riaperto e il traffico scorreva normalmente.

Cinque persone sarebbero state arrestate a Tel Aviv, dove molti dimostranti portavano magliette o simboli che li identificavano come attivisti del Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.] o della Lista Unitaria dei partiti arabi. Si è parlato di sporadici arresti in altre città anche mercoledì, ma le manifestazioni sono state nel complesso tranquille se paragonate ai giorni precedenti.

Da lunedì dimostranti in tutto il Paese hanno bloccato strade, bruciato copertoni e denunciato quella che hanno definito una discriminazione sistematica contro la comunità etiope-israeliana.

Le manifestazioni si sono inasprite martedì, quando alcuni dimostranti hanno incendiato veicoli e si sono scontrati con la polizia e con quanti hanno tentato di attraversare gli improvvisati blocchi stradali.

Secondo la polizia, negli scontri sono rimasti feriti più di 110 poliziotti, tra cui alcuni da pietre e bottiglie lanciate contro di loro, e 136 dimostranti sono stati arrestati per i disordini.

Mercoledì, mentre manifestanti si riunivano sulle principali autostrade e incroci in tutto il Paese, Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione in cui riconosce che “ci sono problemi che devono essere risolti,” ma ha avvertito che le autorità “non tollereranno il blocco delle strade.”

Vi chiedo: risolviamo insieme i problemi facendo rispettare la legge,” ha supplicato i manifestanti dopo un incontro del gabinetto per la sicurezza.

All’inizio della settimana la polizia ha consentito ai dimostranti di bloccare strade in alcune località, ma mercoledì ha avvertito che era pronta ad agire con maggiore decisione.

Il commissario operativo della polizia Moti Cohen ha messo in guardia i manifestanti che non sarebbe più stata tollerata alcuna violenza.

Non c’è posto per aggressioni a poliziotti, istituzioni e beni pubblici,” ha detto Cohen prima delle proteste previste.

Non verrà più dato spazio al turbamento dell’ordine pubblico, né al blocco di strade o alla violenza,” ha affermato. “Continueremo a rispondere in modo proporzionato, a fare distinzione tra quanti esercitano il proprio diritto a protestare in un Paese democratico e quanti incitano alla violenza e aggrediscono.”

Mercoledì anche il presidente Reuven Rivlin ha lanciato un appello alla calma: “Dobbiamo smetterla, ripeto, smetterla – e pensare insieme come risolvere tutto questo.

Questa non è una guerra civile. È una lotta condivisa di fratelli e sorelle per la patria comune e il comune futuro. Chiedo a tutti voi di agire in modo responsabile e con moderazione,” ha affermato in un comunicato.

Dobbiamo consentire che l’inchiesta sulla morte di Solomon segua il suo corso ed evitare la prossima morte [di qualcuno]. Il prossimo attacco. La prossima umiliazione. Siamo tutti impegnati a farlo,” ha detto Rivlin.

Tekah, l’adolescente etiope ucciso, è stato colpito a morte da un poliziotto fuori servizio domenica durante una lite nel quartiere di Kiryat Haim ad Haifa. Un testimone oculare della sparatoria avrebbe detto al Dipartimento per le Indagini della Polizia Interna del ministero della Giustizia (PIID) che, contrariamente alle affermazioni del poliziotto, non pare fosse in pericolo quando ha aperto il fuoco.

L’ufficiale che ha sparato a Tekah è stato arrestato in quanto sospettato di omicidio, ha affermato lunedì il PIID. La pretura di Haifa lo ha in seguito rilasciato agli arresti domiciliari, diffondendo ulteriore rabbia nella comunità [degli etiopi-israeliani, ndtr.]. Sarebbe sottoposto a stretta sorveglianza per timori riguardo alla sua incolumità.

Secondo il notiziario di Canale 12, il poliziotto sostiene di aver mirato verso il basso e che una pallottola è rimbalzata dal terreno, colpendo Tekah. Ha affermato di aver cercato di sedare una rissa per strada in cui si era imbattuto, ma di essere stato aggredito da tre giovani che gli hanno lanciato contro pietre, mettendo in pericolo la sua vita.

Martedì il PIID ha emanato un insolito comunicato, affermando di aver raccolto nuove prove nell’indagine, compresa una testimonianza diretta e immagini di una camera di sicurezza nei pressi della scena.

Informazioni di mezzi di comunicazione in ebraico [affermano che] gli investigatori propendono per un’accusa meno grave di omicidio colposo, indicando che le autorità starebbero accettando la testimonianza secondo cui ha sparato a terra.

Più di 135.000 ebrei di origine etiope vivono in Israele. Gli immigrati arrivarono in due ondate principali, nel 1984 e 1991, ma molti hanno lottato con fatica per integrarsi nella società israeliana. Molti nella comunità lamentano razzismo, mancanza di opportunità e sistematici maltrattamenti da parte della polizia, nonostante le ripetute promesse da parte del governo di occuparsi del problema.

Mentre alle proteste di lunedì hanno partecipato principalmente manifestanti etiopi-israeliani, martedì ha visto una mobilitazione di appartenenti alla società israeliana nel suo complesso, che si sono uniti agli slogan contro la brutalità della polizia nei confronti delle minoranze.

Gli organizzatori della protesta hanno convocato per mercoledì pomeriggio cortei nelle strade in tutto il Paese.

Secondo post sulle reti sociali, gli organizzatori hanno affermato che dimostranti si sono riuniti agli svincoli di Kiryat Ata, nei pressi di Haifa, e di Yokne’am; in piazza Indipendenza ad Afula; agli svincoli di Poleg e a quello di Azrieli a Tel Aviv; davanti alla stazione di polizia di Rosh Ha’ayin; sulla Strada 4 nei pressi di Rishon Lezion e di Yavne; all’entrata nordoccidentale di Gerusalemme; presso le entrate e uscite cittadine lungo la Strada 431; agli svincoli di El Al nei pressi di Lod, di Bilu, di Kastina, della Ashkelon Arena; alla stazione centrale degli autobus di Beersheba.

Mercoledì pomeriggio è stato riportato un intenso traffico in alcune aree di Tel Aviv e di Gerusalemme. Tuttavia molti pendolari che martedì sono rimasti bloccati per ore sulla strada hanno scelto di evitare le autostrade, determinando un traffico ridotto su parti della superstrada di Ayalon che corre attraverso Tel Aviv e intasando il treno ad alta velocità tra le due città.

Il ministero dei Trasporti ha aperto una linea telefonica per israeliani bloccati in code previste a causa delle proteste di massa. La linea telefonica nazionale, che può essere raggiunta al numero *8787, fornirà agli automobilisti aggiornamenti sul traffico e consentirà alle persone di informare su strade bloccate e altri incidenti nella zona in cui si trovano.

Nel contempo il commissario Cohen e il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan si sono incontrati con i dirigenti della comunità etiope-israeliana in un ultimo disperato tentativo di evitare violenti scontri durante le proteste. “Condivido la sofferenza e comprendo la protesta,” ha detto mercoledì Erdan, promettendo di organizzare un’unità interna della polizia per vigilare su denunce di razzismo e avviare azioni disciplinari contro episodi simili.

La polizia israeliana ha coraggiosamente e onestamente riconosciuto che ci sono state troppe azioni di polizia (nelle comunità di etiopi-israeliani), e ce ne stiamo occupando, anche collaborando con voi,” ha detto ai dirigenti secondo una dichiarazione del suo ufficio. “Ovviamente, c’è ancora molto altro che deve essere affrontato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




Israele: perché il parlamento convoca nuove elezioni ?

Giovedì 30 maggio 2019 – MEE

MEE esamina le ragioni per cui Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo e gli avvenimenti che ne sono seguiti

In seguito al fallimento del tentativo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di formare un governo di coalizione prima di mercoledì a mezzanotte e al conseguente scioglimento della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.], approvato con 74 voti contro 45 dai deputati israeliani, Israele terrà nuove elezioni legislative il prossimo 17 settembre.

Nonostante avesse proclamato con sicurezza la propria vittoria alle elezioni legislative del 9 aprile scorso, Benjamin Netanyahu ha visto la sua autorità pesantemente compromessa da questi sviluppi che derivano dalla sua incapacità di formare un governo di coalizione, nonostante quanto si attendeva.

Nello scrutinio del mese scorso il Likud di Netanyahu e i partiti di destra e religiosi considerati suoi alleati naturali hanno ottenuto una maggioranza di 65 seggi su 120.

La ragione principale del fallimento del Primo Ministro è stata la sua incapacità di ottenere il sostegno di ‘Israel Beitenu’, il partito di estrema destra guidato dal suo ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che nell’ultimo scrutinio ha ottenuto cinque seggi alla Knesset.

Lieberman ha dichiarato che non avrebbe fatto parte di un governo in cui sedessero anche i partiti ultra-ortodossi Shas e ‘Giudaismo unito della Torah’, a causa di un disaccordo relativo ad un progetto di legge sul servizio militare.

Quest’ultimo obbligherebbe gli ‘haredim’ (ultra-ortodossi), che si occupano dello studio della Torah, a entrare nelle forze armate israeliane – obbligo dal quale sono attualmente esentati. Avigdor Lieberman afferma da tempo che gli uomini israeliani dovrebbero suddividersi equamente l’onere del servizio militare.

Mercoledì, sulla sua pagina Facebook, Lieberman ha addossato al Likud la responsabilità della convocazione di nuove elezioni, affermando che il partito aveva rifiutato di votare il progetto di legge ultra-ortodosso.

Tuttavia, poche ore prima di mezzanotte, il portavoce del Likud, Jonathan Urich, ha twittato : «Non si tratta di servizio militare né di ‘principi’. Lieberman vuole distruggere Netanyahu. Tutto il resto sono chiacchiere. »

Anche se è molto improbabile che Lieberman possa vincere le prossime elezioni, gli ultimi avvenimenti sembrano aver notevolmente rafforzato la sua posizione, attribuendogli verosimilmente alle prossime elezioni il ruolo di “ago della bilancia”.

Alcuni commentatori hanno anche visto le azioni di Avigdor Lieberman come un tentativo di rafforzare la propria posizione nella corsa alla guida del governo una volta che sarà terminata l’era Netanyahu.

Quinta elezione in dieci anni

Se da un lato lo scioglimento del parlamento israeliano ha permesso a Benjamin Netanyahu di evitare quello che per lui è lo scenario peggiore – cioè che il Presidente israeliano Reuven Rivlin scegliesse un’altra persona per cercare di formare un governo – esso ha riportato il Paese di fronte alla prospettiva di un’altra campagna elettorale divisiva.

Nessun partito ha mai ottenuto la maggioranza assoluta alla Knesset, facendo dei governi di coalizione la norma, ma lo svolgimento di elezioni così ravvicinate è senza precedenti nella storia di Israele. Lo scioglimento della Knesset significa che Israele terrà la quinta elezione dal 2009.

Benjamin Netanyahu, che nell’attesa resta in carica, dovrebbe pur sempre diventare a luglio il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, superando il padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. A 69 anni, Netanyahu ha chiaramente fatto sapere di avere l’intenzione di ripresentarsi e di vincere queste elezioni.

La sfida non potrebbe essere più importante per il dirigente israeliano, che è di fronte a tre mesi di indagine per corruzione. Netanyahu ha negato qualunque azione illecita in questi affari e dovrebbe dichiararsi non colpevole in un’udienza preliminare fissata per l’inizio di ottobre dal procuratore generale, che lo scorso febbraio ha annunciato l’intenzione di incriminare il Primo Ministro.

Dopo le elezioni di aprile l’attenzione dell’opinione pubblica era del resto meno incentrata sulla formazione della coalizione che sulle iniziative che i sostenitori di Netanyahu avrebbero potuto prendere in parlamento per garantirgli l’immunità.

Non c’è alcun dubbio che Netanyahu avrebbe preferito elezioni più vicine, ma in base alla legge del Paese le campagne elettorali israeliane devono durare almeno 90 giorni, da cui la data del mese di settembre.

Ora, la data di queste nuove elezioni, che cade appena due settimane prima dell’udienza preliminare del suo processo, sembra escludere le sue possibilità di beneficiare dell’immunità, anche se le vincesse.

Un’altra sfida Netanyahu-Gantz ?

Anche se finora il Likud ha serrato i ranghi intorno a Netanyahu, questo potrebbe cambiare se i membri del partito avvertissero che il Primo Ministro è in una posizione di debolezza, incapace di formare una coalizione. Gideon Saar e Israel Katz sono possibili rivali di Netanyahu all’interno del Likud.

Benny Gantz sarà probabilmente di nuovo uno dei principali rivali di Benjamin Netanyahu nella lotta per la carica di Primo Ministro. Benché sia nuovo alla politica, Gantz, ex capo di stato maggiore, si è rivelato un valido rivale nelle elezioni di aprile.

Figlio di sopravvissuti all’Olocausto, Benny Gantz ha servito nell’esercito dal 1977 al 2015, data in cui si è dimesso dalla sua carica di comandante.

Ha recentemente creato un partito di centro, ‘Blu e Bianco’, che ha fatto campagna elettorale in aprile promettendo un governo pulito, pace e sicurezza. Il partito ha ottenuto 35 seggi alla Knesset, tanti quanti il Likud.

‘Blu e bianco’ conta tra i suoi esponenti più in vista Yair Lapid, ex Ministro delle Finanze (di centro-sinistra) e Moshe Ya’alon, ex Ministro della Difesa (di destra).

Benny Gantz ha invitato a proseguire le trattative di pace con i palestinesi, salvaguardando nel contempo gli interessi israeliani in materia di sicurezza. Ha detto che avrebbe fatto delle concessioni territoriali ai palestinesi, ma ha evitato la questione della creazione di uno Stato palestinese.

Da parte sua prima delle elezioni di aprile Benjamin Netanyahu aveva annunciato che, se avesse ottenuto un altro mandato, avrebbe dichiarato la sovranità israeliana sulle colonie nella Cisgiordania occupata – cioè una possibile annessione.

Anche le sue strette relazioni con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero rivestire un ruolo importante nella campagna elettorale.

Tuttavia è difficile dire come le vicissitudini politiche in Israele influenzeranno le prospettive di riuscita del piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, noto come l’accordo del secolo, il cui annuncio viene rinviato da molto tempo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Dal 2009 Netanyahu ha costruito nelle colonie in Cisgiordania 19.346 unità abitative

14 maggio 2019 – Ma’an News

Il rapporto di Peace Now [organizzazione pacifista israeliana, ndtr.] riguardo alla costruzione nella Cisgiordania occupata afferma che nel 2018 è iniziata la costruzione di circa 2.100 nuove unità abitative, il 9% in più della media annuale dal 2009 (1.935 unità per anno) e che circa il 73% (1.539) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est del confine proposto dall’Iniziativa di Ginevra [bozza di accordo di pace stilata nel 2003 da politici israeliani e palestinesi, che però non venne accolta, ndtr.], cioè colonie che probabilmente sarebbero evacuate in un accordo a due Stati.

Nel contempo il rapporto mostra che almeno dieci strutture sono state costruite su terreni privati palestinesi di circa 10 dunam [1 ettaro, ndtr], e almeno 37 dunam [3,7 ettari, ndtr] supplementari di terreni privati sono stati espropriati per costruirvi un parco, una strada e mucchi di detriti abbandonati in conseguenza della costruzione di infrastrutture di colonie.

Riguardo all’Avanzamento di Piani e Gare d’Appalto del 2018 (gennaio-dicembre), Peace Now sostiene che 5.618 unità abitative sono state promosse attraverso progetti in 79 colonie e quasi l’83% (4.672 unità abitative) delle unità previste si trova a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra.

Sono stati pubblicati bandi di appalto per 3.808 unità abitative, un numero record da almeno due decenni. Inoltre nel 2018 sono stati pubblicati anche bandi di appalto per 603 unità a Gerusalemme est,” sottolinea il rapporto.

Secondo i calcoli di Peace Now, durante il decennio di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano (2009-2018), si è iniziata la costruzione di 19.346 nuove unità abitative in colonie illegali.

Circa il 70% (13.608 unità abitative) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra. Ciò si è tradotto in un incremento di oltre 60.000 coloni nelle colonie israeliane illegali.

Peace Now presenta anche dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica israeliano su costruzioni in Israele e nelle colonie durante i dieci anni di Netanyahu al potere, che indicano che 18.502 unità abitative sono state costruite nelle colonie e dalla fine del 2008 fino alla fine del 2017 120.518 coloni si sono aggiunti agli insediamenti.

Il rapporto evidenzia gli investimenti governativi israeliani nell’ultimo decennio, in cui i vari ministeri hanno trasferito più di 10 miliardi di shekel (circa 2,48 miliardi di euro) come bilancio extra per le colonie. Nel 2016 la cifra trasferita alle colonie è stata di 1,189 miliardi di shekel [295 milioni di euro]. Nell’anno seguente, la somma è stata di 1.650 miliardi di shekel [408 milioni di euro, ndtr.] e nella prima metà del 2018 la cifra è stata di 697 milioni di shekel [170 milioni di euro, ndtr.].

Peace Now conclude il suo rapporto concentrandosi sulla costruzione su terreni privati palestinesi, affermando che, a causa di petizioni di Peace Now e di altre organizzazioni contro la costruzione nelle colonie su terreni privati palestinesi, nell’ultimo decennio c’è stata una drastica riduzione di questa attività edilizia. Nel 2018 su terreni privati sono stati costruiti 10 edifici.

Inoltre nella colonia di Naaleh sono stati costruiti su terreni privati campi da gioco e parchi, è stata tracciata una strada nella colonia ricollocata di Migron e in varie colonie continua il fenomeno di scarico su terreni privati di mucchi di detriti risultanti dalla costruzione di colonie. In questo modo sono stati portati via a proprietari palestinesi almeno 37 dunam [3,7 ettari] di terra privata palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Occidente e Stato di apartheid

L’Israele di Netanyahu dichiarerà uno Stato dell’apartheid. L’Occidente non farà niente?

I leader del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile Sudafrica

Gideon Levy

30 Aprile 2019 – Middle East Eye

Il mondo continua a girare sul suo asse, nulla è cambiato nemmeno dopo le recenti elezioni in Israele.

Eletto alla guida di Israele per la quinta volta, Benjamin Netanyahu è pronto a dare vita al governo più nazionalista e di destra nella storia del Paese – e intanto il mondo sembra andare avanti come niente fosse.

Da decenni Israele sputa continuamente in faccia al resto del mondo, con noncurante disprezzo del diritto internazionale e con totale indifferenza riguardo alle esplicite decisioni e precise politiche adottate dalle istituzioni mondiali e dalla maggioranza dei governi nazionali del mondo.

Tuttavia nel mondo tutto quel disprezzo scivola via come fosse acqua fresca. Le elezioni sono arrivate e passate senza evidenti effetti sul sostegno ciecamente automatico a Israele da parte dei governi europei e, ovviamente, anche da parte americana: incondizionato, senza riserve, appartenente invariato. Evidentemente ciò che era è ciò che sarà.

Però Israele è cambiato nel corso del lungo regno di Netanyahu. Questo abile statista israeliano sta lasciando il segno sul volto del suo Paese, con un profondo e duraturo effetto – molto più di quanto previsto o di quanto appaia.

È pur vero che anche i governi di sinistra in Israele hanno fatto il possibile per mantenere l’occupazione israeliana per sempre e non hanno avuto intenzione neppure per un istante di porvi fine – ma Netanyahu sta portando Israele molto più lontano, verso livelli ancor più estremi.

Sta compromettendo ciò che costituisce un governo accettabile entro il territorio sovrano riconosciuto di Israele, anche nei confronti dei suoi cittadini ebrei. Il volto stesso dell’“unica democrazia in Medio Oriente”, che ha a lungo funzionato soprattutto a beneficio degli ebrei israeliani che costituiscono la sua classe privilegiata, viene adesso sfigurato da Netanyahu e soci.

Beniamino dell’Occidente

Intanto, incredibilmente, la risposta del mondo è di non cambiare affatto il sostegno che ha offerto a Israele in tutti gli anni del governo Netanyahu, come se in quest’ultima fase lui non stesse modificando niente, come se le mutate posizioni assunte da Israele non facessero aumentare né diminuire quel sostegno.

Con o senza Netanyahu, Israele resta il beniamino dell’Occidente. Nessun altro Paese gode dello stesso livello di sostegno militare, economico, diplomatico e morale, senza condizioni. Ma la prossima amministrazione israeliana, il quinto governo Netanyahu, è pronta ad annunciare un cambiamento che alla fine il mondo avrà difficoltà ad ignorare.

Il nuovo governo è pronto a strappare l’ultimo lembo di maschera dal suo volto reale. La principale risorsa di Israele, nel proporsi come una democrazia liberale che condivide i valori cari all’Occidente, sta per essere annientata.

L’Occidente continuerà allora a sostenerlo? L’Occidente, che chiede che la Turchia introduca profondi cambiamenti prima di concederle una piena ammissione, che impone sanzioni alla Russia quando invade la Crimea, questo Occidente continuerà a sostenere la nuova repubblica di Israele che Netanyahu e i suoi partner di governo stanno preparandosi a varare?

Un cambiamento radicale

Il livello del cambiamento atteso non può essere sopravvalutato. Israele sarà diverso. Dove il precedente governo ha appiccato l’incendio, questo attizzerà il fuoco appena si propagherà. Il sistema giudiziario, i media, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei diritti degli arabi in Israele presto proveranno una cocente sensazione.

Gli editoriali, se criticano per esempio i soldati israeliani o appoggiano un boicottaggio contro Israele, tra breve per legge non verranno più pubblicati sui media israeliani. L’aeroporto Ben Gurion amplierà i divieti di ingresso per chi critica il regime israeliano.

Le organizzazioni della società civile verranno private del loro status giuridico. Gli arabi verranno più rigorosamente esclusi in vista della realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i parlamentari sono ebrei.  E ovviamente vi è l’annessione, attualmente in attesa dietro le quinte.

Il nuovo governo sarà il governo israeliano dell’annessione. Se il previsto appoggio di Washington sarà imminente – il riconoscimento americano dell’annessione delle Alture del Golan è stato il primo passo, il ‘ballon d’essai’ – allora Netanyahu farà la mossa che finora si è trattenuto dal fare durante tutto il suo regno.

Annuncerà l’annessione almeno di parte dei territori occupati.

Il significato sarà inequivocabile: Israele ammetterà per la prima volta che la sua occupazione militare della Cisgiordania, durata 52 anni, sarà permanente; che non è, come per molto tempo sostenuto, un fenomeno transitorio.

Drastici cambiamenti di politica

I territori non sono “merce di scambio” in negoziati per la pace, come sostenuto all’inizio dell’occupazione, bensì possedimenti coloniali che rimarranno in modo permanente sotto il governo israeliano. Non vi è alcuna intenzione che i territori annessi ora, che potranno poi espandersi, vengano mai restituiti ai palestinesi.

Quindi il nuovo governo Netanyahu annuncerà due drastici cambiamenti di politica. Primo, si chiuderà la questione della soluzione di due Stati, che persino Netanyahu ha appoggiato e a cui tutti i leader mondiali si sono dichiarati favorevoli.

Quell’opzione verrà dichiarata morta. Al tempo stesso Israele si dichiarerà uno Stato di apartheid non solo di fatto, ma adesso, per la prima volta, anche di diritto.

Poiché nessuno di coloro che sono a favore dell’annessione intende garantire uguali diritti ai palestinesi nei territori che verranno annessi, e poiché una annessione mirata solo sulla terra su cui si trovano le colonie è palesemente una mistificazione, gli uomini di Stato del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, nel XXI secolo, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile sudafricano.

L’ultima volta un regime di apartheid è stato miracolosamente abbattuto senza alcuno spargimento di sangue. Questa volta il mondo si riunirà e ripeterà l’impresa?

Quale Israele state ancora appoggiando?

Questa domanda va posta anzitutto ai leader dell’Europa, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, compresa Theresa May – a tutti i leader dell’Unione Europea. Hanno ripetuto all’infinito il mantra che il loro appoggio ad Israele e al suo diritto di esistere in sicurezza è fermo e irrevocabile.

Hanno continuamente dichiarato il loro sostegno ad una soluzione negoziata di due Stati. Quindi chi sostenete adesso? Che cosa sostenete? Quale Israele, esattamente? In quale mondo pensate di vivere? Forse in un mondo dei sogni che evidentemente trovate comodo, ma che ha sempre meno rapporti con il mondo reale.

L’Europa riuscirà a continuare a sostenere che Israele condivide i suoi valori liberali, quando in Israele sono vietate le organizzazioni della società civile? Quando quasi tutti i politici sionisti israeliani dichiarano che non hanno niente da discutere con i deputati arabi eletti in parlamento?

Provate a immaginare un diplomatico europeo che dichiari che i membri ebrei del suo parlamento nazionale non possono partecipare ad alcun dialogo politico. O che un diplomatico europeo dichiari che i cittadini ebrei del suo Paese sono dei traditori e una quinta colonna.

Questo genere di cose sono politicamente corrette in Israele, in tutti i partiti. E che dire della libertà di parola, tanto sacra nel discorso europeo, quando il ‘World Press Freedom Index’ (Indice mondiale della libertà di stampa) del 2019 di Reporter senza Frontiere classifica già Israele al numero 88 – dopo Albania, Kirghizistan e l’Ungheria di Victor Orban?

Questo è l’Israele che state appoggiando.

La soluzione dei due Stati è morta

Anche il sostegno automatico dell’Occidente alla soluzione dei due Stati deve essere aggiornato. Credete davvero, cari uomini e donne di Stato, che questo Israele abbia qualsivoglia intenzione di applicare una simile soluzione?

Vi è mai stato anche un solo politico israeliano che volesse, o potesse, trasferire circa 700.000 coloni, anche da Gerusalemme est occupata?

Credete davvero che senza un ritiro da tutte le colonie, che rappresenterebbe il minimo di giustizia per i palestinesi, vi sia qualche prospettiva che una simile soluzione si affermi e si trasformi in realtà?

Si potrebbe notare che la maggior parte dei diplomatici occidentali che sono ben informati su ciò che accade sanno già da tempo che questa soluzione è morta, ma nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo.

Ammetterlo richiederebbe di ridefinire tutte le loro posizioni sul conflitto in Medio Oriente, compreso il sostegno all’esistenza di uno Stato ebraico.

Con l’arrivo del nuovo governo Netanyahu il mondo occidentale non può semplicemente continuare a chiudere un occhio e sostenere che tutto va bene. Niente va bene.

Perciò ora la domanda è: siete pronti ad accettare questo? Rimarrete in silenzio, muti, concederete il vostro appoggio e chiuderete gli occhi sulla realtà?

Chi di voi si preoccupa per il futuro di Israele dovrebbe essere il primo a svegliarsi e trarre le dovute conclusioni. Certamente, ogni persona di coscienza dovrebbe farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro della direzione editoriale del quotidiano. E’ entrato in Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vicedirettore del giornale. Ha vinto il premio ‘Euro-Med Journalist’ nel 2008; il premio ‘Leipzig Freedom’ nel 2001; il premio ‘Israeli Journalists’Union’ nel 1997; il premio ‘The Association of Human Rights in Israel’ nel 1996. Il suo nuovo libro, ‘The Punishment of Gaza’ (La punizione di Gaza) è stato appena pubblicato da Verso.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Una strana simbiosi*

 

 

Perché Israele e Gaza continuano a combattersi in brevi battaglie? Perché è nell’interesse dei loro leader

 

 

Di David M. Halbfinger

6 maggio 2019 – New York Times

 

GERUSALEMME – Più di venti persone sono state uccise, case e negozi distrutti negli scontri del fine settimana tra Israele e Gaza, ma lunedì i leader di entrambe le parti si sono dichiarati soddisfatti dei risultati.

Il ciclo di ripetute violenze e cessate il fuoco che continuano a rasentare una guerra totale può sembrare una distruzione senza senso agli occhi del mondo esterno. Ma gli analisti affermano che ciò è perfettamente funzionale agli interessi dei due principali antagonisti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riesce a strapazzare Hamas, il gruppo di miliziani che controlla Gaza, rafforzando il suo discorso secondo cui i palestinesi non sono pronti a fare la pace e che la soluzione dei due Stati è impossibile.

Hamas, che a quanto pare cerca e ottiene rinnovate garanzie di un allentamento del blocco israeliano contro Gaza, riesce a dimostrare agli scettici e impoveriti abitanti di Gaza che la sua strategia di resistenza armata sta funzionando.

Il risultato è uno strano tipo di simbiosi.

La relazione tra Hamas e Israele è sicuramente conflittuale: sempre ostile, frequentemente mortale e carica di rischi che possa degenerare in un protratto conflitto terreste, per un razzo vagante che uccide troppe persone o per un cambiamento dei calcoli politici da entrambe le parti.

Potrebbe dimostrarsi un armistizio che procede lentamente – “un negoziato attraverso l’uso delle armi”, come lo ha descritto Ghaith al-Omari, ex-funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese, o forse una forma di tregua in stile mediorientale.

Ma ad ogni ripetizione del ciclo che non porta a uno scoppio, Israele e Hamas sono utili agli scopi l’uno dell’altro e si stanno sempre più abituando ad avere rapporti in questo modo.

Gli scontri del fine settimana, i peggiori dalla guerra di 50 giorni del 2014, sono stati almeno l’ottavo round di brevi lotte tra Israele e Gaza durante lo scorso anno, con battaglie a volte finite in poco più di un giorno. Ognuna è terminata rapidamente con un cessate il fuoco, in genere mediato dall’Egitto e visto come una prova che nessuna delle due parti vuole una guerra vera e propria.

Hamas ha dimostrato la capacità di essere all’altezza dei suoi impegni: un momento importante è stato alla fine di marzo, quando per l’anniversario delle manifestazioni lungo la barriera tra Gaza e Israele, secondo gli analisti Hamas ha schierato agenti con giubbotti dai colori vivaci per ridurre al minimo le violenze, mostrando di poter imporre il cessate il fuoco.

Ma in altri momenti può esprimere la propria impazienza con le armi. La violenza del fine settimana potrebbe essere stata alimentata da un ritardo nell’arrivo dei milioni di dollari in denaro del Qatar per contribuire a pagare i salari dei lavoratori di Gaza e dalla sensazione che Israele non stesse dando seguito abbastanza rapidamente ad altre promesse.

Tuttavia alcuni degli scontri fin dall’ultima estate sono stati interpretati come tentativi da parte dei dirigenti di Hamas di ottenere un accordo migliore.

“Hanno la tendenza a cercare di estendere i termini degli accordi e a migliorare quello che hanno ottenuto mostrando i muscoli,” dice Ehud Yaari, uno studioso residente in Israele del Washington Institute for Near East Policy [Istituto di Washington per la Politica in Medio Oriente, centro studi legato all’AIPAC, il più importante gruppo lobbystico filo-israeliano Usa, ndtr.].

Per il governo israeliano questa gestione dei rapporti con Hamas è piena di contraddizioni e della necessità di un attento bilanciamento. Vedendo Hamas come un gruppo terroristico intenzionato alla distruzione di Israele, il governo israeliano non ha interesse a concedergli legittimità o a consentire ad Hamas di rafforzarsi.

Ma Netanyahu ha anche dimostrato scarso impegno per distruggere Hamas – nonostante le richieste di alcuni politici di destra perché lo faccia – per quello che Aaron David Miller, un esperto negoziatore in Medio Oriente per gli Stati Uniti, ha chiamato “il problema del giorno dopo”. Israele dovrebbe rioccupare Gaza con le sue truppe, prendendosi la totale responsabilità dei suoi due milioni di abitanti. C’è anche il rischio che un gruppo ancora più radicale di Hamas possa prendere il potere, come la Jihad Islamica palestinese, già potente rivale di Hamas a Gaza, o forse elementi dello Stato Islamico che operano nel deserto del Sinai.

Questo problema è la ragione per cui Netanyahu nel suo modo di controllare Gaza sembra avere l’appoggio dell’establishment della sicurezza di Israele. I suoi oppositori politici lo hanno aggredito per aver consentito che la situazione cadesse nell’attuale schema, ma non hanno detto cosa farebbero di diverso.

E gli israeliani sembrano aver mostrato una maggiore tolleranza che in passato per le vittime [israeliane]. Domenica ad Ashkelon i sopravvissuti a un attacco con i razzi che ha ucciso un operaio loro collega in una fabbrica hanno manifestato un incrollabile sostegno a Netanyahu, benché abbiano anche incolpato l’opinione pubblica mondiale perché impedisce all’esercito di dare a Gaza il colpo che merita.

“Dovrebbero colpire duro,” ha detto delle forze armate Menashe Babikov, 42 anni, manager di Ashdod, ma non lo faranno “perché hanno paura di quello che direbbe il resto del mondo.”

Gli analisti dicono che Hamas svolge anche un’altra funzione per il governo di Netanyahu. Con l’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania e Hamas a Gaza, non c’è un cammino facile per una soluzione a due Stati del conflitto, a cui si pensa unanimemente che Netanyahu si opponga.

Unificare le due fazioni – cosa che gli Stati Uniti, l’Egitto e altri attori internazionali hanno passato mesi a cercare di fare prima di rinunciarvi lo scorso anno –  inevitabilmente rivitalizzerebbe colloqui per una soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese, dice Miller.

“Finché hai una situazione con tre Stati, non ne puoi avere una con due,” afferma. “Hamas è la polizza di assicurazione di Netanyahu.”

Anche qui gli oppositori israeliani alla soluzione dei due Stati condividono gli stessi interessi di Hamas, che vuole uno Stato unico, anche se non lo stesso che desiderano gli israeliani. Per Hamas un negoziato mediato e ufficioso sulla sicurezza, sull’aiuto economico e umanitario è praticabile, ma abbandonare la sua ideologia di resistenza armata per colloqui di pace con Israele è fuori discussione.

“Dal punto di vista di Hamas è meglio un governo come quello che abbiamo piuttosto che uno più moderato che aspiri a progredire nel processo di pace,” dice Celine Touboul, un’esperta di Gaza della “Israel’s Economic Cooperation Foundation” [Fondazione Israeliana per la Cooperazione Economica, gruppo di studiosi israeliani che si occupano dei rapporti con il mondo arabo, ndtr.]. “Perché una volta che lo fai, agevoli l’ANP,” dice, in riferimento all’Autorità Nazionale Palestinese. “E questa è la cosa che in fondo più importa ad Hamas: in questa competizione politica indebolire il più possibile l’ANP.”

Per Hamas più dura il cessate il fuoco a Gaza meglio è, dice Yaari, che per molti anni ha informato sui palestinesi per la televisione israeliana. Deve ricostituire il suo arsenale di razzi e missili e ricostruire o sostituire le molte installazioni militari e di intelligence che Israele ha distrutto.

“Ogni volta per loro è dispendioso,” afferma.

Ma Yaari dice anche che il leader di Hamas a Gaza, Yehya Sinwar, ha voluto concentrare le energie dell’organizzazione sul miglioramento delle condizioni là, in parte per guadagnare tempo, per vedere cosa succederà con l’Autorità Nazionale Palestinese quando l’amministrazione Trump svelerà il suo progetto per l’accordo di pace israelo-palestinese e mentre la salute dell’anziano presidente dell’Autorità, Mahmoud Abbas, peggiora.

“L’approccio di Sinwar è di bloccare il deterioramento delle condizioni a Gaza,” sostiene Yaari. “Il prezzo sarà un prolungato cessate il fuoco, e in due o tre anni vedremo cosa succede.”

Per allora Abbas potrebbe essersene andato, o Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbero benissimo essere in rotta di collisione, dice, soprattutto se Netanyahu dà seguito alla promessa elettorale di annettere come parte di Israele alcune colonie in Cisgiordania.

Secondo Yaari entrambi gli sviluppi potrebbero creare un’apertura per Hamas, per cercare di avere la meglio contro l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. “Sinwar sta dicendo: ‘La mia vera priorità è la Cisgiordania,’” afferma.

Per il momento questa dinamica fa di Hamas un avversario affidabile.

Curiosamente, dice Touboul, Netanyahu sta “guardando ad Hamas come un partner più affidabile dell’ANP.”

Isabel Kershner ha contribuito con informazioni da Ashkelon.

*Nota redazionale: pur non condividendo alcune considerazioni presenti nell’articolo e il fatto che vengano citate quasi esclusivamente fonti israeliane, il che evidenza da quale prospettiva il giornale informa i propri lettori. Ad esempio, quelle dei palestinesi di Gaza sono descritte come “sensazioni” e non fatti concreti e facilmente verificabili riguardo al mancato rispetto degli accordi di tregua accettati da Israele. Né nell’articolo si ricorda che la strategia di isolare Cisgiordania da Gaza risale almeno al ritiro unilaterale deciso da Sharon. Tuttavia riteniamo interessante proporre la traduzione di questo articolo sia per l’autorevolezza del New York Times che per la prospettiva che questo editoriale propone per spiegare gli ultimi scontri tra Gaza e Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’appoggio ai leader di estrema destra di Netanyahu espone gli ebrei al rischio di antisemitismo

Rachel Shenhav-Goldberg

1 maggio 2019, +972 Magazine

Allineandosi ai leader nazionalisti che promuovono il suprematismo bianco, Netanyahu ha abbandonato la comunità ebraica mondiale con l’intento di rafforzare le sue manovre nazionaliste.

Da alcuni anni ormai, il primo ministro Benjamin Netanyahu sta stringendo relazioni diplomatiche forti con i leader nazionalisti di estrema destra del mondo. Tale allineamento potrebbe favorire il piano di Netanyahu di rafforzare il nazionalismo ebraico in Israele, ma allo stesso tempo esso indebolisce gli ebrei della diaspora e li rende più vulnerabili ai crimini di odio antisemita nei loro paesi.

Negli ultimi cinquant’anni l’antisemitismo è stato un fenomeno in declino, specialmente negli Stati Uniti. Oggi gli ebrei negli Stati Uniti occupano posizioni politiche di rilievo, svolgono ruoli chiave nel mondo degli affari e dell’intrattenimento e sono ben integrati nella società americana: sono americani in tutto e per tutto. Ciononostante, come dimostra amaramente l’orrendo atto terroristico in una sinagoga di San Diego la scorsa settimana, i suprematisti e nazionalisti bianchi non hanno mai accettato gli ebrei come loro pari o nemmeno come bianchi.

Il suprematismo bianco di certo esiste ancora: distruggere 500 anni di strutture istituzionalizzate e l’interiorizzazione dello status di privilegiati non è facile. Addirittura l’elezione del presidente Obama è stato sotto molti aspetti solo un progressivismo di facciata, una falsa speranza. Studi hanno dimostrato che il razzismo verso gli afroamericani era di fatto aumentato durante la presidenza Obama. Inoltre, la promessa del presidente Trump di “rendere l’America di nuovo grande” ha dato ai nazionalisti e suprematisti bianchi un segnale di assenso ad alzare la testa e agire.

La Anti Defamation League ha registrato nello scorso anno un totale di 1.879 atti di molestie, vandalismo e aggressione fisica commessi contro gli ebrei negli Stati Uniti. Questo rappresenta il terzo numero più alto di crimini registrati dagli anni 70 a oggi.

Le politiche di Netanyahu e la sua visione di Israele, unite al suo narcisismo e all’ambizione a rimanere al potere per sempre, hanno creato delle divisioni non solo all’interno della società israeliana, ma anche tra Israele e gli ebrei americani. L’idea di Israele che ha Netanyahu non è quella di una nazione ebraica con uguali diritti per tutti, bensì di una nazione israelo-ebraica, lasciando soli quindi sia gli israeliani non ebrei sia gli ebrei non israeliani.
Inoltre, la filosofia di Netanyahu del “si fa come dico io altrimenti quella è la porta” trasforma in traditori tutti quegli ebrei americani che si oppongono all’occupazione o che non supportano a pieno le politiche di Israele. Per rimpiazzare il mancato supporto, previsto o reale, Netanyahu si è cercato alleati altrove, in coloro che si sentono a proprio agio con le sue stesse idee nazionaliste.

Il comun denominatore tra tutti questi leader (Viktor Orban in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump) è il supporto, spesso solo accennato ma a tratti anche esplicito, al suprematismo bianco. Essi appoggiano e impiegano retoriche dell’odio, usano termini razzisti, minano i diritti LGBTQ e delle donne. Il loro vero scopo è la promozione dell’ “ancien régime” discriminando e svilendo la posizione delle minoranze, categoria in cui inevitabilmente e ripetutamente rientrano anche gli ebrei.

La supremazia nazionale che questi leader promuovono nei rispettivi paesi è sotto molti aspetti indistinguibile dalle politiche di Netanyahu in Israele. Netanyahu è un uomo intelligente, qualsiasi sua mossa è perfettamente e strategicamente studiata. Allineandosi con i nazionalisti dell’estrema destra che promuovono il suprematismo bianco, l’antisemitismo e la conseguente violenza da essi provocata, ha deciso di abbandonare gli ebrei di tutto il mondo in cambio del supporto diplomatico e della legittimazione delle sue manovre nazionaliste.

Israele è diventato uno Stato ebraico a cui interessano solo i cittadini israeliani ebrei, infrangendo così la sua promessa di proteggere gli ebrei della diaspora, senza contare i suoi obblighi verso tutti i non-ebrei che vivono sotto il governo israeliano.

Rachel Shenhav-Goldberg è una cittadina israeliana residente in Nord America. Ha conseguito un dottorato in lavoro sociale all’università di Tel Aviv e un post-dottorato all’Università di Toronto. La sua attività di ricerca si concentra prevalentemente sull’antirazzismo in Israele e l’antisemitismo nel Nord America. È anche una mediatrice, fa lavoro sociale e volontariato per il New Israeli Fund (Nuovo Fondo Israeliano) in Canada.

(Traduzione di Maria Monno)