La Fossa dei Leoni [nuova fazione di resistenza palestinese, ndt.] non è un fenomeno passeggero: l’incombente rivolta armata della Palestina

Ramzy Baroud

19 dicembre 2022, JordanTimes

Proprio mentre Israele, e anche alcuni palestinesi, cominciavano a parlare al passato del fenomeno della Fossa dei Leoni, molti combattenti appartenenti al neonato gruppo palestinese sono riapparsi nella città di Nablus.

A differenza della prima apparizione del gruppo il 2 settembre, il numero dei combattenti che hanno preso parte al raduno nella Città Vecchia di Nablus il 9 dicembre è stato significativamente più grande, meglio equipaggiato, con divise militari unificate e maggiori precauzioni di sicurezza.

La Fossa appartiene a tutta la Palestina e crede nell’unità del sangue, della lotta e dei fucili” – riferimento ad una Resistenza collettiva che superi gli interessi di fazione.

Inutile dire che l’evento è stato notevole. Solo due mesi fa, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva sminuito il gruppo in termini di numeri e influenza, stimandone la consistenza in “circa 30 membri”, e impegnandosi a “mettergli le mani addosso […] ed eliminarli”.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è attivamente coinvolta nella soppressione del gruppo, anche se ha tentato un approccio diverso. I media palestinesi e arabi hanno parlato di generose offerte dell’ANP in termini di lavoro e denaro ai combattenti della Fossa dei Leoni che accettino di abbandonare le armi.

Sia la leadership israeliana che quella palestinese hanno interpretato male la situazione. Hanno erroneamente presunto che il movimento nato a Nablus sia un fenomeno regionale e provvisorio che, come altri in passato, possa essere facilmente schiacciato o comprato.

La Fossa dei Leoni sembra invece cresciuta e si è già insediata a Jenin, Al Khalil (Hebron), Balata e altrove.

Per Israele, ma anche per alcuni palestinesi, la Fossa dei Leoni è un problema inedito le cui conseguenze minacciano di cambiare completamente le dinamiche politiche nella Cisgiordania occupata.

L’emblema della Fossa dei Leoni sta ora comparendo in ogni quartiere palestinese nei Territori Occupati; il gruppo è riuscito a espandersi da un singolo quartiere della città vecchia di Nablus – Al Qasaba – sino a diventare un’esperienza palestinese collettiva.

Un recente sondaggio condotto dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca Demoscopica (PCPSR) ha dimostrato in modo inequivocabile l’affermazione precedente.

Il sondaggio pubblico del PCPSR ha mostrato che il 72% dei palestinesi auspica la creazione di molti altri gruppi armati simili in Cisgiordania. Quasi il 60% teme che una ribellione armata rischi lo scontro diretto con l’ANP. Alte percentuali – 79% e 87% – rifiutano rispettivamente la resa dei combattenti alle forze dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’idea stessa che l’ANP abbia persino il diritto di eseguire tali arresti.

Questi numeri attestano la realtà nelle strade palestinesi, segnalano la quasi totale mancanza di fiducia nell’ANP e la convinzione che solo una Resistenza armata, simile a quella di Gaza, sia in grado di contrastare l’occupazione israeliana.

Queste opinioni sono sostenute da prove empiriche, la principale delle quali è il fallimento dell’ANP, finanziariamente e politicamente corrotta, nel promuovere in qualsiasi modo le aspirazioni palestinesi; il completo disinteresse di Israele per qualsiasi forma di negoziato di pace; la crescente tendenza fascista di estrema destra della società israeliana, direttamente collegata alla violenza quotidiana esercitata sui palestinesi nella Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania.

Tor Wennesland, inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha recentemente riferito che il 2022 “sta per diventare l’anno più letale per i palestinesi in Cisgiordania dal […] 2005”. Il ministero della Sanità palestinese ha riferito che in Cisgiordania solo quest’anno sono stati uccisi 167 palestinesi.

È probabile che questi numeri aumenteranno sotto il nuovo mandato del futuro primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu. Il nuovo governo può rimanere al potere solo con il sostegno di Bezalel Smotrich del partito Sionismo Religioso e di Itamar Ben-Gvir dell’Otzma Yehudit Party [partito politico di estrema destra kahanista e anti-arabo, ndt.]. Ben-Gvir, noto politico estremista, è ironicamente ma non imprevedibilmente destinato a diventare il nuovo ministro della Sicurezza di Israele.

Ma c’è altro nel fermento della ribellione armata in Cisgiordania che la sola violenza israeliana.

A quasi trent’anni dalla firma degli accordi di Oslo, i palestinesi non hanno ottenuto nessuno dei diritti politici o legali fondamentali. Al contrario, arroganti politici di destra in Israele parlano ora di “annessione morbida” unilaterale di vaste parti della Cisgiordania. Nessuna delle questioni ritenute importanti nel 1993 – lo status di Gerusalemme occupata, i rifugiati, i confini, l’acqua, ecc. – è oggi all’ordine del giorno.

Da allora, Israele ha investito piuttosto in leggi razziali e in politiche di apartheid diventando un perfetto regime di apartheid. Le principali associazioni internazionali per i diritti umani hanno affermato e denunciato la nuova identità pienamente razzista di Israele.

Con il totale sostegno degli Stati Uniti e nessuna pressione internazionale su Israele che sia degna di menzione, la società palestinese si sta mobilitando al di là dei canali tradizionali degli ultimi tre decenni. Nonostante l’ammirevole lavoro di alcune ONG palestinesi, la “ONG-izzazione” della società palestinese, che opera con fondi in gran parte versati da sostenitori molto occidentali di Israele, ha ulteriormente accentuato la divisione in classi dei palestinesi. Con Ramallah e pochi altri centri urbani che fungono da quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese e di un lungo elenco di ONG, Jenin, Nablus e i loro annessi campi profughi tirano avanti nell’emarginazione economica, sotto la violenza israeliana e nell’abbandono politico.

Disillusi dal fallito modello politico dell’ANP e sempre più impressionati dalla Resistenza armata a Gaza, la ribellione armata in Cisgiordania è semplicemente questione di tempo.

Ciò che differenzia i primi segni di un’Intifada armata di massa in Cisgiordania dall'”Intifada di Gerusalemme”, detta anche “Intifada dei coltelli” del 2015, è che quest’ultima era stata una serie di atti individuali disorganizzati compiuti da giovani vessati della Cisgiordania, mentre la prima è un fenomeno di base ben organizzato con un discorso politico unico che piace alla maggioranza della società palestinese.

E, a differenza della Seconda Intifada palestinese armata (2000-2005), la nascente ribellione armata è radicata in una base popolare, non nelle forze di sicurezza dell’ANP.

Il riferimento storico più vicino a questo fenomeno è la rivolta palestinese del 1936-39, guidata da migliaia di palestinesi fellahin – contadini – nelle campagne palestinesi. L’ultimo anno di quella ribellione aveva visto crearsi una grande spaccatura tra la leadership dei fellahin e i partiti politici urbani.

La storia si sta ripetendo. E, come la rivolta del 1936, sono in gioco il futuro della Palestina e della resistenza palestinese – di fatto, lo stesso tessuto sociale della società palestinese.

Dr. Ramzy Baroud è giornalista, autore ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. L’ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è Our Vision for Liberation: Engaged Palestines Leaders and Intellectuals Speak out [La nostra visione della liberazione: parlano i leader e gli intellettuali impegnati della Palestina]. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché il governo della “seconda Nakba” vuole ricostruire lo Stato israeliano

Meron Rapoport e Ameer Fakhoury

9 dicembre 2022 – +972 Magazine

In Israele la crociata dell’estrema destra contro il liberalismo laico sta provocando una diffusa opposizione, ma non può essere distinta dalla missione anti-palestinese dello Stato.

È difficile ricordare l’ultima volta che un governo israeliano ha suscitato un’opposizione e una resistenza così diffuse prima ancora di insediarsi. La nuova coalizione di estrema destra del primo ministro entrante Benjamin Netanyahu ha indotto decine di sindaci in tutto il Paese a dichiarare che non collaboreranno con il membro ultra-religioso e palesemente omofobo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Avi Maoz, destinato a dirigere l’organo responsabile dei corsi extracurriculari [“Dipartimento dell’identità ebraica nazionale”, con delega sui contenuti dei programmi scolastici, ndt.] e che sembra prepararsi a bloccare i programmi educativi volti a insegnare i valori liberali, l’uguaglianza di genere e la tolleranza verso le minoranze.

Gadi Eizenkot, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha invitato a protestare in massa nelle strade, così come il primo ministro uscente Yair Lapid, che si è impegnato a “proteggere i tribunali, l’esercito e le scuole”. Allo stesso modo, il responsabile dell’Israel Bar Association [l’associazione forense che accoglie tutti gli avvocati israeliani, ndt.] ha affermato che le persone dovrebbero “scendere in piazza” per impedire al governo di attuare i suoi piani rivolti a frenare l’autorità dei tribunali e consentire ai politici di determinare le nomine giudiziarie. Lunedì il capo di stato maggiore uscente, Aviv Kochavi, avrebbe affermato in colloqui riservati che non permetterà a nessun politico – che non sia il ministro della Difesa – di nominare alti ufficiali militari, né di sottrarre ai militari la responsabilità della polizia di frontiera della Cisgiordania. La presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, ha affermato che se l’indipendenza del sistema giudiziario dovesse essere messa a repentaglio i giudici non saranno in grado di “adempiere al loro dovere”.

Mentre Netanyahu distribuisce i più importanti incarichi ministeriali agli elementi più estremisti della sua coalizione, il termine “disobbedienza civile” è diventato un grido di battaglia per le persone che costituiscono il cuore pulsante della classe dirigente israeliana. I semi di questa nuova resistenza non sono stati piantati solo in risposta ai termini scritti degli accordi della nuova coalizione, ma anche a seguito delle iniziative che non compaiono sulla stampa.

Sebbene i piani della coalizione coprano varie questioni della vita politica israeliana, possono essere riassunti in due temi principali: primo, consegnare tutti gli “affari palestinesi” su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] alla destra razzista dei coloni, promuovendo al contempo un’annessione e un apartheid formalizzati; in secondo luogo, imporre all’opinione pubblica israeliana una visione sfacciatamente anti-liberale dell’ebraismo e stravolgere le istituzioni democratiche già indebolite di Israele, in particolare la magistratura.

Il tentativo di rafforzare l’annessione e l’apartheid nei territori occupati può essere immediatamente riscontrabile nel consenso di Netanyahu a dare il controllo dell’Amministrazione Civile e del Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), che gestiscono gli affari quotidiani di milioni di palestinesi sotto occupazione, a Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, di estrema destra, ndr.] e alla riassegnazione della polizia di frontiera all’autorità di Itamar Ben Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, ndt.] come nuovo “ministro della sicurezza nazionale”.

Queste mosse non solo hanno ricevuto forti risposte dalla sinistra radicale e dalle organizzazioni per i diritti umani, ma anche da membri direttivi della sicurezza israeliana, che temono che questa nuova titolarità possa cambiare lo status quo dell’occupazione e portare al crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese come subappaltatore della sicurezza di Israele. Se si aggiungono i tentativi di attuare misure anti-liberali e anti-democratiche si potrà assistere alla discesa in campo di gran parte del settore laico-liberale, e persino di alcuni sostenitori del Likud [partito nazionalista liberista e di destra israeliano, guidato da Netanyahu, ndt.]. Questi due ceppi di resistenza si stanno ora fondendo per formare qualcosa che non si vedeva da decenni.

Un antidoto ai vecchi paradigmi

Quindi ci si deve chiedere perché Netanyahu abbia deciso di unire così saldamente le iniziative anti-palestinesi e anti-liberali della sua coalizione. Il Primo Ministro entrante comprende sicuramente che la sua più grande minaccia dall’interno della società israeliana proviene proprio da coloro che si oppongono ai disegni del nuovo governo sia contro il secolarismo che contro i tribunali. Detto questo, affidare a uno come Avi Maoz l’incarico su programmi educativi aggiuntivi è semplicemente una manovra diversiva per consentire alle politiche anti-palestinesi di passare inosservate, come sostengono alcuni? O fa davvero parte di un pacchetto completo che non può essere scomposto nella somma delle sue parti?

Per capire come siamo arrivati a questo punto in cui due dei membri più dichiaratamente razzisti della Knesset che sostengono una seconda Nakbacome soluzione migliore sono ora responsabili degli affari palestinesi dobbiamo tornare agli anni ’90, quando Israele adottò gli Accordi di Oslo come percorso per affrontare il conflitto israelo-palestinese.

Gli accordi di Oslo si basavano sull’idea che attraverso l’istituzione di uno Stato palestinese o di un qualche tipo di entità che potesse essere etichettata come Stato” – in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Israele potesse tornare ad essere ebraico e democratico, come i suoi fondatori apparentemente sognavano. Questo processo si basava anche sulla separazione dell’occupazione militare del 1967, a cui i funzionari israeliani ritenevano si potesse porre fine, dalla Nakba del 1948, che causò l’espulsione di oltre 750.000 palestinesi dalla loro patria e il rifiuto di lasciarli tornare, e che Israele vedeva come una questione conclusa. A trent’anni dalla nascita di Oslo appare chiaro che questa strategia è fallita.

Poi è arrivata la violenza brutale della Seconda Intifada [rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina, ndt.], che ha incoraggiato la convinzione che Israele potesse porre fine al conflitto, o almeno ridurlo al minimo, attraverso mosse unilaterali. L’istituzione della barriera di separazione all’interno della Cisgiordania e il disimpegno da Gaza sono stati i due risultati più eclatanti di questa strategia. L’idea di “circoscrivere il conflitto”, che da allora ha guidato il pensiero politico di Israele, potrebbe non essere scomparsa, ma neanche i suoi più grandi assertori sostengono che risolverà il conflitto.

Da quando è tornato al potere nel 2009 Netanyahu ha rafforzato l’idea di mantenere lo “status quo”. Ma questo status quo è stato tutt’altro che stagnante: i successivi governi israeliani hanno perseguito un’annessione strisciante e la lenta costruzione dietro le quinte di un regime di apartheid. Ma al centro della strategia di Netanyahu c’è la convinzione che Israele possa fiorire e prosperare rimuovendo la questione palestinese dall’agenda pubblica. In altre parole, viene spianata la strada verso uno splendido nuovo futuro col rendere la storia palestinese priva di interesse e irrilevante.

Questa politica in generale ha avuto successo e gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele firmare trattati di normalizzazione con diversi Stati arabi, avrebbero dovuto costituire il suggello finale. Ma gli eventi del maggio 2021 e l’esplosione della violenza nelle cosiddette “città miste” di Israele hanno ricordato all’opinione pubblica ebraica ciò che i palestinesi hanno sempre saputo: il conflitto non sta andando da nessuna parte e continua a condizionare la vita di tutti gli ebrei e palestinesi tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo).

Ben Gvir e Smotrich propongono un antidoto a questa situazione in cui sia il paradigma di Oslo che quello dello status quo si sgretolano davanti ai nostri occhi. Entrambi i politici cercano di porre in ginocchio i palestinesi dando loro due opzioni: o una resa totale e l’accettazione della supremazia ebraica in tutto il Grande Israele, o l’emigrazione. Il piano dettagliato di Smotrich per la resa palestinese, pubblicato nel 2017, include una clausola in base alla quale le forze di sicurezza israeliane possono trattare chiunque si opponga a queste due opzioni “con una forza maggiore di quella che usiamo oggi e sulla base di condizioni a noi più favorevoli”. Insomma, una nuova Nakba.

Questo è anche ciò che sta alla base degli accordi di coalizione di Smotrich e Ben Gvir con Netanyahu. Ben Gvir ambisce al controllo della polizia non per diminuire la criminalità nella società araba in Israele, poiché così facendo si otterrebbe l’ultima cosa che desidera: permettere ai cittadini palestinesi di vivere in pace e sicurezza nelle loro comunità. Se la criminalità dovesse diminuire, la causa nazionale tornerà probabilmente al centro della scena, proprio ciò che Ben Gvir vuole impedire. Il ministro della Sicurezza Nazionale entrante vuole uno scontro frontale tra i cittadini palestinesi e le autorità, e prevede di utilizzare la polizia di frontiera in Cisgiordania per lo stesso scopo: intensificare il conflitto.

Allo stesso modo, Smotrich vuole avere il controllo dell’Amministrazione Civile e del COGAT non solo perché andrà a vantaggio dei coloni. La sua massima priorità è portare allo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, nella speranza di seminare il caos nei centri urbani della Cisgiordania. Tale caos richiederà l’intervento dell’esercito israeliano e Smotrich e Ben Gvir sperano che tale intervento conduca al momento decisivo in cui i palestinesi o cederanno o verranno espulsi.

Separare la democrazia dal colonialismo

Questa situazione così pericolosa ha radici che vanno molto più in profondità di questa schiera relativamente nuova di fondamentalisti. Uno Stato che è nato nel 1948 da una pulizia etnica e che ha tenuto sotto controllo militare milioni di persone per oltre mezzo secolo non può essere considerato una democrazia. Eppure, è imperativo capire esattamente perché la destra ha accelerato ora la sua crociata antiliberale e antidemocratica.

Come altre società di colonizzatori, il sionismo ha cercato di stabilire una “società modello” che fosse democratica – solo per i coloni. In questo senso il colonialismo di insediamento israeliano non è del tutto esclusivo; modelli simili potrebbero essere riscontrati negli Stati Uniti, in Sud Africa e in Australia. Questa società modelloera necessaria per tenere uniti all’interno i coloni ebrei che arrivarono in Palestina per fondare una casa sicura per se stessi, ma che si trovarono di fronte a una società autoctona giustamente resistente.

Tuttavia ciò che distingue il sionismo dalle altre società improntate sul colonialismo di insediamento è che le condizioni per l’ammissione nella società dei coloni si basano sia sull’etnia che sulla religione. I primi coloni in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti erano dei bianchi che arrivavano dall’Europa, ma la società americana trovò il modo di raccogliere i coloni provenienti dall’Asia, dal Sud America, dall’Irlanda e altri luoghi intorno alle sue ambizioni coloniali nei confronti dei nativi americani. In Israele, con la sua esclusività etnico-religiosa, questo è impossibile. E mentre in Nord America la popolazione indigena è stata quasi completamente spazzata via dal genocidio, in Israele-Palestina i palestinesi autoctoni sono rimasti in massa, mettendo a dura prova lo Stato colonizzatore.

Tuttavia negli ultimi anni il contratto sociale ebraico-israeliano che consentiva l’unità e la coesione interna ebraica si è inaridito. Agli occhi di molti ebrei israeliani l’ideale di un modello di società democratica ha perso la sua magia, e ora essi preferiscono una versione diversa del regime in cui l’ebraismo come religione – dalla versione haredi [ultra-ortodossa, ndt.] proposta dallo Shas [partito politico israeliano che rappresenta principalmente gli ebrei ultra ortodossi sefarditi e mizrahì, in gran parte immigrati dai Paesi arabi, ndt.] e United Torah Judaism [alleanza di due partiti politici che rappresentano gli interessi degli ebrei aschenaziti, discendenti degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, ndt.], alle visioni nazionaliste-religiose di Smotrich e Ben Gvir — è posto al di sopra delle istituzioni secolari che furono costruite dai fondatori del sionismo.

Le ragioni di questa crisi sono molteplici. Come ha spiegato in queste pagine Avi-ram Tzoreff, questo è in gran parte il risultato della ridistribuzioneall’interno della società coloniale dei frutti della colonizzazione tra la vecchia élite ashkenazita, che ha raccolto i benefici della Nakba e della guerra del 1967, e le classi medie e lavoratrici costituite soprattutto dai mizrahi, che vogliono una fetta più grande della torta.

Queste tendenze sono state rafforzate da diversi altri fattori, tra i quali: il fatto che il sionismo non ha mai veramente deciso se basarsi su una definizione nazionalista o religiosa, il che ha portato all’indebolimento del campo laico in Israele; un cambiamento demografico a favore degli haredi e delle popolazioni nazional-religiose; il processo per corruzione in corso nei confronti di Netanyahu, e il modo in cui egli ha fatto tutto il possibile per minare il sistema giudiziario. Ma soprattutto c’è il fatto che i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde rifiutano di accettare la supremazia ebraica come legge del territorio, sfidando apertamente il regime più e più volte.

L’opposizione del nuovo governo all’Ancien Régime è, in fondo, un’opposizione al vecchio contratto sociale che ha costituito le fondamenta del sionismo laico che ha dato vita allo Stato di Israele. Per cambiare il regime dovrà subordinare i tribunali e i consulenti giuridici ai capricci della coalizione, aggiungendo un forte sapore fondamentalista religioso alle sue nuove politiche, come cambiare i criteri per la Legge del Ritorno in modo che solo gli ebrei “purosangue” possano trasferirsi in Israele.

Inoltre sembra che l’estrema destra veda i resti del vecchio regime, che conserva una versione più gentiledella supremazia ebraica gradita al mondo occidentale, come un ostacolo al progetto di sconfiggere i palestinesi. Pertanto solo la loro versione di uno Stato ebraico – teocratico e fermamente antiliberale, in cui vengano soggiogate le minoranze razziali, etniche e sessuali di ogni tipo – può portare alla vittoria finale di Israele. In questo senso, c’è un’intima connessione tra le ambizioni antipalestinesi e antisecolari della destra. Per intenderci, senza un fondamentalismo messianico a sostenerla la sola logica coloniale  non riuscirà a portare a termine il lavoro.

È molto probabile che Ben Gvir e Smotrich temano che il liberalismo laico possa minare l’intera struttura coloniale, aprirla e distruggerla dall’interno. Lo slogan elettorale di Ben Gvir, in cui ha promesso di ricordare ai cittadini israeliani – e in particolare ai cittadini palestinesi – chi sono i veri “signori della terra”, indica una preoccupazione che la logica liberal-progressista, che la destra sostiene abbia preso il sopravvento sulla maggioranza della società israeliana, possa mettere in pericolo il monopolio ebraico del potere nel Paese. In questo modo, i nuovi signori della terra non stanno giungendo solo per i palestinesi, ma anche per il “tipo sbagliato” di ebrei.

Tuttavia il fatto che in Israele ci siano molte voci che si oppongono a questo nuovo governo non dovrebbe nascondere le profonde connessioni ideologiche che ancora esistono tra molti di loro. Mentre l’opposizione all’esplicita istituzionalizzazione dell’apartheid riguarda il regime israeliano di supremazia ebraica, di fatto gran parte dell’opposizione all’attacco contro il sistema giudiziario e all’opinione pubblica laica mira ancora a preservare la supremazia ebraica, anche se in modo più moderato. E mentre la resistenza interna è attualmente molto più ampia di quanto ci si aspettasse, e probabilmente crescerà, la stragrande maggioranza di coloro che chiedono agli israeliani di scendere in strada non fa domande sull’occupazione o sulla supremazia ebraica. Per loro la questione della democrazia rimane separata dalla questione del colonialismo.

È difficile sapere dove porteranno queste lotte contro il nuovo governo e se si collegheranno alla lotta contro l’annessione, l’apartheid e un’altra espulsione di massa dei palestinesi. Ma non si può negare che siamo arrivati a un momento in cui tutte le contraddizioni iintrinseche del sionismo fin dai suoi primi giorni sono diventate più chiare e importanti che mai.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Chi è il potente rabbino che una volta ha esortato a uccidere i Palestinesi

Shir Hever

29 novembre 2022, MiddleEastEye

Il rabbino Dov Lior è il leader spirituale di una coalizione destinata a far parte del prossimo governo Netanyahu.

Se il politico di estrema destra Itamar Ben-Gvir è destinato a diventare il prossimo Ministro della Sicurezza Nazionale di Israele, la sua guida spirituale e alleato, il rabbino Dov Lior, è finito sotto i riflettori per la sua potenziale influenza “razzista” sul nuovo governo.

Lior, sostenitore della pulizia etnica dei musulmani arabi, è il leader spirituale dell’intera coalizione di estrema destra  Sionismo Religioso che comprende tre partiti: Sionismo Religioso, Potere Ebraico e Noam [partito politico ebraico ortodosso di estrema destra, nato nel 2019 da una fazione radicale di Sionismo Religioso, ndt.]

All’inizio del mese questa alleanza politica ha conquistato 14 seggi al parlamento israeliano, più di qualsiasi altro partito nazionalista religioso nella storia dello Stato, diventando così il secondo maggior blocco nella coalizione di governo del primo ministro designato Benjamin Netanyahu. Attualmente le parti sono impegnate in trattative per la formazione del governo con il Likud di Netanyahu, e potebbe ottenere il controllo di diverse istituzioni statali chiave.

Lior aveva esortato gli israeliani a votare per la coalizione e, alla pubblicazione dei risultati elettorali, ha concesso una conferenza stampa.

Lior è molto esplicito sulle questioni politiche e ha ripetutamente sostenuto la teoria secondo cui la “Terra occidentale di Israele” (intendendo tutta la Palestina storica) appartiene solo agli ebrei.

Afferma poi che la “Terra orientale d’Israele “, oggi regno di Giordania, che anch’essa a suo avviso appartiene agli ebrei, è meno santa e si può arrivare a un compromesso. Ma abbandonare una qualsiasi parte della “Terra occidentale di Israele” secondo Lior è peccato.

Lior è favorevole alla costruzione di colonie illegali sul territorio palestinese e non riconosce il diritto dei palestinesi al possesso della terra.

Dopo l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1995, il nome di Lior è stato inserito tra i rabbini che avrebbero emesso una sentenza di morte a condanna del traditore Rabin.

Itamar Ben-Gvir, leader del partito Potere Ebraico, in un’intervista televisiva aveva insinuato minacce a Rabin, ma non fu incriminato perché all’epoca era minorenne. Come conseguenza Lior e Ben-Gvir sono legati da solida amicizia.

Tra il 1987 e il 2015 Lior è stato il rabbino della colonia illegale di Kiryat Arba, nei sobborghi della città occupata di Hebron . Uno dei suoi discepoli, Baruch Goldstein, nel 1994 sparò e uccise 29 palestinesi nella moschea abramitica di Hebron . Il rabbino Lior ha poi lodato Goldstein come “più santo di tutti i martiri dell’Olocausto”.

Nel 2011 manifestò per iscritto il suo sostegno al libro The King’s Torah, pubblicazione razzista e genocida dei rabbini Yitzhak Shapira e Yosef Elitzur in cui, tra altre cose, si invoca l’uccisione dei bambini non ebrei prima che diventino adulti e rappresentino una possibile minaccia per gli ebrei.

La polizia israeliana  aprì un’indagine contro il rabbino Lior per potenziale istigazione ed emise un mandato di arresto contro di lui quando si  rifiutò di testimoniare. I coloni di estrema destra organizzarono grandi proteste contro il mandato d’arresto e alla fine Lior accettò un colloquio di due ore con la polizia e venne rilasciato senza accuse.

Nel luglio 2014, nel pieno dell’invasione israeliana della Striscia di Gaza, Lior emise un psak halacha (una sentenza religiosa), che consentiva la distruzione dell’intera Striscia di Gaza e sollevava i soldati israeliani dall’obbligo di distinguere tra combattenti e non combattenti.

“È giusto uccidere civili innocenti e distruggere Gaza”, ha detto.

Nella sinistra israeliana il proscioglimento suscitò indignazione e richieste di aprire un’altra indagine su di lui, ma non se ne fece niente. A una conferenza nel settembre di quell’anno Lior ribadì il concetto dicendo: “La sinistra vuole dare agli arabi un regime democratico. Sanno condurre un regime democratico tanto quanto io so condurre i cammelli. In Arabia Saudita un negoziante può lasciare il negozio aperto perché a chi tenta di rubare verrà tagliata la mano. Questa è l’unica lingua che conoscono.”

Ha proseguito dicendo che la Terra d’Israele deve essere “ripulita dagli arabi”. La polizia non ha mai aperto un’indagine sulla dichiarazione.

Nel 2015 Lior  elogiò gli attacchi dello Stato Islamico a Parigi in cui vennero uccise 137 persone, dicendo: “I malvagi dell’Europa intrisa di sangue se lo meritano per quello che hanno fatto alla nostra gente 70 anni fa”.

Il rabbino Lior invitò gli ebrei statunitensi a votare per Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016. Trump nominò David Friedman, amico di Lior, ambasciatore degli Stati Uniti in Israele. Friedman ha donato fondi all’organizzazione ebraica israeliana Komemiyut [socranità in ebraico, ndt.], di cui Lior era il rabbino capo.

Lior venera il defunto rabbino Meir Kahane e ha parlato al suo funerale. Kahane è stato il fondatore del movimento di estrema destra Kach, definito un’organizzazione terroristica in diversi Paesi, incluso lo stesso Stato di Israele, ma durante il funerale Lior parlò accanto al parlamentare Ben-Gvir, anche lui membro del Kach.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele: Netanyahu ha chiesto al mondo di dimenticarsi dell’occupazione. Ben-Gvir la vuole in primo piano e al centro

Meron Rapoport

22 novembre 2022 – Middle East Eye

Il primo ministro israeliano entrante ha lavorato duramente per togliere i palestinesi dalla lista delle priorità sia degli israeliani che degli arabi, ma lo scontro è fondamentale per i suoi nuovi partner di coalizione

Circa due settimane prima delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu ha illustrato la sua concezione del futuro di Israele in un articolo pubblicato da Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.]. “Negli ultimi 25 anni ci è stato detto ripetutamente che ci sarebbe stata pace con gli altri Paesi arabi solo dopo che avessimo risolto il conflitto con i palestinesi,” ha scritto. Ma egli credeva che “la strada verso la pace non passi da Ramallah [sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.], ma piuttosto le giri attorno.”

La sua via, ha sostenuto su Haaretz, si è dimostrata giusta. Ha firmato accordi di normalizzazione con quattro Paesi arabi e si prospettano ulteriori accordi con altri Stati. In poche parole, non solo Israele può prosperare senza risolvere il suo conflitto con i palestinesi, ci dice, ma il modo per raggiungere la prosperità è di fatto ignorarli. Non hanno nessuna importanza.

Sono trascorse altre tre settimane dalle elezioni del 1° novembre in cui il blocco di partiti di destra guidato da Netanyahu ha ottenuto una maggioranza apparentemente comoda di 64 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset. Al momento rimane incerto quale sarà l’esatta composizione del suo prossimo governo e chi deterrà dicasteri chiave come Difesa, Finanza e Affari Esteri.

Tuttavia una cosa è già chiara: per dei possibili partner di Netanyahu, in particolare Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i due leader della lista razzista e nazionalista della lista Sionismo Religioso che hanno vinto 14 seggi alle elezioni, il conflitto di Israele con i palestinesi non è solo un fattore importante: è l’unico fattore importante.

Netanyahu ha inequivocabilmente dimostrato che rimuovere la questione palestinese dall’agenda pubblica in Israele, e anche a livello globale, è stato uno dei suoi obiettivi preminenti, soprattutto dal suo ritorno al potere nel 2009.

Ha perseguito questo obiettivo utilizzando tre approcci principali: in primo luogo, cancellando il confine del 1948 (noto come Linea Verde) dalla coscienza della maggioranza degli ebrei in Israele espandendo le colonie e annettendo nella pratica ampie fasce dell’Area C [più del 60% dei territori occupati e sotto totale controllo di Israele, ndt.] in Cisgiordania.

In secondo luogo, promuovendo l’affermazione secondo cui “non esiste un partner per la pace” da parte palestinese, ignorando quasi completamente la leadership palestinese e le sue richieste di porre fine all’occupazione; infine, moderando in qualche modo l’uso della forza militare israeliana in base alla teoria che meno violento è il conflitto, minore sarà l’attenzione, in Israele, nel Medio Oriente e in tutto il mondo.

Questo approccio ha avuto un grande successo. La maggior parte degli ebrei israeliani oggi non sa dove sia la Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania prima della guerra del 1967, ndt.]. Il termine “occupazione” è diventato una parolaccia che non viene quasi mai menzionata nei principali media israeliani. L’affermazione che “non c’è nessuno con cui parlare” dalla parte palestinese si è solidificata nel consenso non solo nella destra e nel centro ebraici, ma anche nella sinistra moderata.

Il contenimento di operazioni militari di vasta portata, a parte la guerra mortale a Gaza nel 2014, ha ridotto il numero di israeliani uccisi a causa del conflitto a poco più di 10 all’anno, tanto che la discussione su quello che veniva chiamato il “prezzo dell’occupazione” è quasi scomparsa.

Annessione strisciante

Ovviamente lo status quo proposto da Netanyahu non è stato realmente uno status quo, poiché l’annessione strisciante dei territori palestinesi è continuata e sul terreno ha gradualmente preso forma un regime di apartheid. Ma nel complesso per gli (ebrei) israeliani continuare con questa situazione sembra preferibile al tentativo di cambiarla.

Parte del successo di Netanyahu deriva da processi non direttamente collegati alla sua persona. Quando nel 2009 diventò primo ministro per la seconda volta, la Seconda Intifada era finita. La scissione tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania aveva notevolmente indebolito la posizione palestinese e Netanyahu potè sfruttare questa debolezza.

Nel 2011, con l’avvento delle decantate primavere arabe, i Paesi arabi vicini erano inclini a dedicare più attenzione ai propri affari e meno alla causa palestinese. E la crescente ondata di populismo di destra in tutto il mondo, culminata con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2016, ha creato un’atmosfera congeniale a Netanyahu e alla sua politica di strisciante apartheid.

Ma negli ultimi anni qualcosa è andato storto in questo gioco di equilibrio promosso da Netanyahu. La scomparsa del conflitto con i palestinesi dall’agenda nazionale di Israele ha effettivamente sollecitato il movimento dei coloni di destra a spingere per l’annessione o, nel loro lessico, per “l’applicazione della sovranità”. La logica dei coloni sostiene che se i palestinesi non sono più una minaccia, non c’è motivo di evitare di annettere, in tutto o in parte, la Cisgiordania. Sebbene Netanyahu abbia rinunciato all’annessione all’ultimo minuto, questa spinta della destra per sconvolgere lo status quo non è svanita.

Il momento in cui è diventato chiaro che il falso status quo costruito da Netanyahu non funzionava più è arrivato nel maggio 2021. I palestinesi, che Netanyahu aveva cercato di escludere dal discorso pubblico in Israele, si sono ribellati non solo a Gerusalemme est e a Gaza, ma anche nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele: Lydd (Lod), Ramla, Acre (Akka) e altre località.

Invece di retrocedere in Cisgiordania dietro le montagne di tenebre, il conflitto con i palestinesi si è presentato improvvisamente sulla porta di casa di molti ebrei nel cuore del Paese.

Subito dopo l’esponente della destra Naftali Bennett ha deciso di allearsi con il centrista Yair Lapid per formare un governo alternativo e lasciare, per la prima volta in 12 anni, Netanyahu all’opposizione. Le ragioni di questa mossa sono state molte, ma potrebbe aver contribuito alla sua caduta anche il fatto che Netanyahu non fosse più considerato in grado di fornire una risposta al “problema palestinese”.

Nel vuoto lasciato da Netanyahu, la destra razzista è passata nelle mani del famoso colono Itamar Ben-Gvir, leader del partito Otzma Yehudit (“Potere ebraico”), residente a Hebron e ammiratore di Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 fedeli musulmani nella Moschea Ibrahimi di Hebron. Gli eventi del maggio 2021 sono stati sfruttati da Ben-Gvir come prova del fatto che gli ebrei in Israele vivono sotto la minaccia della “violenza araba”, che può essere contrastata solo ricordando agli arabi che gli ebrei sono gli unici “proprietari ” di questo luogo. Per sostenere questa argomentazione Ben Gvir ha evocato anche il timore della gente di un aumento della criminalità nelle città del sud di Israele, dove il crimine viene attribuito principalmente agli abitanti beduini palestinesi dell’area, che vivono in condizioni di estrema povertà e discriminazione di lunga data.

Conflitto come priorità

Ovviamente Ben-Gvir non ha inventato l’idea della supremazia ebraica, che sin dall’inizio è stata, in misura maggiore o minore, un aspetto del sionismo. Ma con il suo effettivo successo nel trasformare l’aspirazione alla supremazia ebraica in un’ampia piattaforma politica Ben-Gvir ha sfidato, consapevolmente o inconsapevolmente, il presupposto di Netanyahu di ignorare la questione palestinese.

Mentre Netanyahu ha sostenuto che il problema non esiste più, o almeno non sta influenzando le vite degli israeliani, è arrivato Ben-Gvir e ha sostenuto che il conflitto palestinese colpisce le vite degli ebrei, sempre e ovunque, all’interno o al di là della Linea Verde. La soluzione di Ben-Gvir è violenta e razzista – uccidere o deportare chiunque, palestinese o anche ebreo, si opponga al regime di supremazia ebraica – ma, nel frattempo, ha messo al primo posto la questione delle relazioni ebraico-palestinesi.

Anche Bezalel Smotrich, partner di Ben-Gvir nell’alleanza del “sionismo religioso”, fa della questione del conflitto tra ebrei e palestinesi la sua massima priorità politica. E Smotrich, come Ben-Gvir, propone una soluzione violenta e razzista. Nel suo saggio “Il progetto decisivo di Israele” pubblicato nel 2017, Smotrich offre tre opzioni ai palestinesi in Cisgiordania: accettare di vivere senza diritti politici sotto il dominio ebraico, emigrare in un altro Paese o affrontare un esito  deciso dalla guerra.

Come Ben-Gvir, Smotrich pensa che in nessun caso si dovrebbe mai rinunciare alla supremazia ebraica all’interno di Israele. Nel 2021 ha ritirato l’appoggio che avrebbe consentito a Netanyahu di formare un governo perché per farlo Netanyahu avrebbe dovuto dipendere da un partito arabo, la Lista Araba Unita guidata da Mansour Abbas. “Un nemico non è un alleato legittimo. Punto,” ha scritto all’epoca Smotrich per giustificare la sua decisione.

Ben-Gvir ha cercato di persuadere gli elettori nelle città periferiche che Netanyahu non ha offerto loro nessuna risposta – né riguardo alle loro preoccupazioni per il crescente rafforzamento economico, accademico e politico dei loro vicini palestinesi, né in merito al fatto che loro, abitanti di zone marginali, devono ancora godere della sbandierata prosperità economica di cui Netanyahu si è vantato.

Smotrich è stato popolare soprattutto tra l’opinione pubblica religiosa, che oggi è parte dell’élite economica e governativa di Israele. Ma ciò che è chiaro è che entrambi questi uomini, dopo aver incrementato i loro risultati insieme dai 6 seggi nella precedente tornata elettorale ai 14 nell’attuale Knesset, che consentono loro di dettare le condizioni a Netanyahu, che sa che senza di loro non può governare, sono i grandi vincitori delle ultime elezioni.

Promesse vincenti

Come c’era da aspettarsi, queste circostanze riguardano innanzitutto questioni che coinvolgono il conflitto con i palestinesi. Prima ancora che finiscano i negoziati sulla formazione del governo, Netanyahu ha già promesso a Ben-Gvir quanto segue: in Cisgiordania verranno forniti allacciamenti alla rete elettrica e idrica a 60 avamposti coloniali senza permesso, la maggior parte dei quali costruiti su terra di proprietari privati palestinesi; su terreni della città palestinese di Beita, in un luogo che i coloni chiamano Evyatar, potrà essere fondata una yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndt.]; verrà ora abrogata una legge del 2005 adottata al fine di consentire l’evacuazione di tre insediamenti coloniali nel nord della Cisgiordania per permettere che vi venga ricostruita una colonia, di nuovo su terre private palestinesi, insieme a notevoli investimenti in strade di collegamento per le colonie in Cisgiordania.

Gli ha anche promesso il ministero della Sicurezza Pubblica, che controlla la polizia, dove Ben-Gvir vuole mano libera per reprimere i beduini palestinesi nel sud di Israele e pretende cambiamenti delle regole d’ingaggio relative a quando è consentito aprire il fuoco, in modo che i poliziotti possano sparare e uccidere chiunque ritengano sospetto senza timore di essere perseguiti.

Smotrich sta puntando più in alto. Vuole essere ministro della Difesa. In tale veste Smotrich sarebbe di fatto l’unico potere sovrano in Cisgiordania e potrebbe fare più o meno quello che vuole. Per non parlare del fatto che ha promesso di mandare l’esercito nelle cosiddette “città miste” all’interno di Israele se e quando si ripetessero gli avvenimenti violenti del maggio 2021.

Finora su questo punto Netanyahu si è rifiutato, in parte perché l’amministrazione Biden a quanto pare è stata chiara sul fatto di non aver intenzione di collaborare con un ministero della Difesa israeliano gestito da Smotrich. E anche perché Netanyahu forse comprende che, se i bellicosi razzisti di Sionismo Religioso avessero il controllo sia del ministero della Sicurezza Pubblica che di quello della Difesa, egli non controllerebbe più il modo in cui Israele gestisce il conflitto con i palestinesi.

Netanyahu avrebbe voluto fare a meno di Smotrich e Ben-Gvir e avrebbe scelto invece di includere nel suo governo l’attuale ministro della Difesa, il centrista Benny Gantz, rinnovando il tal modo l’approccio della “gestione del conflitto” che ha guidato con tanto successo negli ultimi 15 anni. A quanto pare gli americani stanno facendo pressione su di lui e su Gantz perché raggiungano un simile accordo. Ma ciò potrebbe non dipendere da Netanyahu. La destra razzista, stanca dello status quo che egli vende agli elettori israeliani, è più forte di lui.

Crescente violenza

È ancora troppo presto per prevedere le conseguenze di questa nuova situazione. Netanyahu riuscirà, nonostante tutto, a imporre la sua politica preferita e mettere da parte la questione palestinese? Non sarà facile, e non solo perché tornerà alla carica di primo ministro durante un periodo molto violento, con il numero di palestinesi e israeliani uccisi dall’inizio del 2022 a livelli record, che non si vedevano dalla fine della Seconda Intifada nel 2005: al 18 novembre 139 palestinesi e 27 israeliani.

Anche se la destra razzista dovesse riuscire a farsi carico della polizia e dell’esercito, le possibilità che metta in pratica le sue fantasie violente non sono una conclusione scontata. I palestinesi si trovano in una posizione diversa da quella del 1948 o del 1967 ed essi non saliranno senza resistere sugli autobus per essere deportati.

La comunità internazionale, con tutti i suoi limiti, ha già difficoltà ad accettare l’apartheid israeliana (come evidenziato dalla recente decisione di affidare la discussione sulla legalità dell’occupazione israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia). Oltretutto l’economia di Israele dipende totalmente da quella mondiale; dopo le recenti elezioni la società ebraica in Israele è anche più divisa che mai, con una parte sostanziale del centro-sinistra che vede i partiti “religiosi” di Ben-Gvir e Smotrich come una minaccia per il suo stile di vita laico.

Nell’articolo citato all’inizio di questo resoconto Netanyahu ha adottato il concetto del “Muro di Ferro”, titolo di un famoso testo del padre della destra sionista, Zeev Jabotinsky, che negli anni ‘20 scrisse che solo dopo che gli ebrei avessero occupato la Terra di Israele con la forza i palestinesi avrebbero accettato la loro esistenza qui. Ma nel Muro di Ferro che Netanyahu ha cercato di costruire per tenere a distanza la questione palestinese stanno comparendo vistose crepe. Non è necessariamente una cosa negativa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele: Ben-Gvir in trattative con la coalizione “per chiedere condizioni più dure per i palestinesi in carcere”

Redazione di MEE

7 novembre 2022 – Middle East Eye

Secondo i media locali il politico di estrema destra chiederà anche l’accesso senza restrizioni dei coloni alla moschea di Al-Aqsa

Secondo i media locali, durante le consultazioni informali previste per lunedì con Benjamin Netanyahu, leader del Likud, il politico israeliano di estrema destra Itamar Ben-Gvir è intenzionato a chiedere condizioni più dure per i prigionieri palestinesi per motivi di sicurezza, come anche l’accesso senza restrizioni dei coloni alla moschea di Al-Aqsa.

In seguito alle elezioni israeliane della scorsa settimana il blocco di Netanyahu ha ottenuto 64 seggi sul totale di 120 e si prevede che formi un governo con i partiti ultraortodossi Shas [partito degli ebrei praticanti originari dei Paesi arabi o musulmani, N.d.T.] e UTJ [United Torah Judaism, degli ebrei praticanti di origine europea N.d.T.] così come con l’alleanza di estrema destra di Ben-Gvir del Sionismo Religioso-Otzma Yehudit [Potere ebraico N.d.T.]

Durante il ciclo delle elezioni dell’anno scorso Netanyahu aveva detto che Ben-Gvir, che aveva messo in bella mostra una foto di Baruch Goldstein, massacratore di 29 palestinesi in una moschea nel 1994, non era adatto a fare il ministro.

Tuttavia, poiché la popolarità di Ben-Gvir è cresciuta, Netanyahu ha cambiato tattica e ammesso che potrebbe far parte di ogni potenziale governo. 

Ci si aspetta che Ben-Gvir chieda l’incarico di ministro della Pubblica Sicurezza in una eventuale coalizione con il Likud.

Secondo l’israeliano Channel 13, nel corso dei colloqui di coalizione di lunedì Ben-Gvir presenterà a Netanyahu un piano articolato imperniato sul modo in cui lIsrael Prison Service [il servizio carcerario israeliano, sotto la giurisdizione del Ministero della Pubblica Sicurezza, responsabile della supervisione delle carceri, N.d.T.] tratta i prigionieri palestinesi per motivi di sicurezza, inclusa l’imposizione di ulteriori restrizioni.

Channel 13 ha riportato che Ben-Gvir cercherà di limitare l’”indipendenza” dei prigionieri nelle carceri israeliane, impedendo l’organizzazione di prigionieri in gruppi che riflettono le fazioni palestinesi fuori dalla prigione.

Inoltre Channel 13 ha aggiunto che Ben-Gvir chiederà di smettere di trattare con i prigionieri tramite un portavoce o un rappresentante in loro nome, per invece “identificare un rappresentante provvisorio” in contatto con le autorità carcerarie solo su questioni di carattere generale e non sui problemi personali dei prigionieri.

La rete televisiva precisa inoltre che il piano di Ben-Gvir mira anche a impedire ai prigionieri di cucinare nelle loro sezioni, con cibo fornito solo dalle autorità carcerarie stesse, e anche a ridurre il consumo d’acqua.

Terroristi

Sempre secondo Channel 13 Ben-Gvir, che in precedenza ha guidato l’irruzione di gruppi di coloni nella moschea di Al-Aqsa e chiesto che vi vengano consentite le preghiere degli ebrei, è anche determinato a chiedere durante i suoi colloqui con Netanyahu un accesso senza precedenti alla moschea.

Secondo i pluridecennali accordi fra Giordania, custode dei siti islamici e cristiani a Gerusalemme, e Israele, all’interno del complesso della moschea di Al-Aqsa non è permesso ai non-musulmani compiere alcun rito religioso, né esporre simboli ebraici.

I non-musulmani possono visitarla sotto la supervisione del Waqf, un’istituzione islamica giordano-palestinese che gestisce la moschea.

Nel 2003 la gestione delle visite ad Al-Aqsa da parte del Waqf è stata revocata dalle autorità israeliane. Da allora la polizia israeliana ha permesso quasi quotidianamente a coloni e attivisti di estrema destra di fare irruzione nell’area. 

Agli inizi di quest’anno Ben-Gvir ha descritto i membri del Waqf come “terroristi”. 

Funzionari dei servizi di sicurezza israeliani hanno riferito a Channel 13 che le misure richieste da Ben-Gvir servirebbero solo a “infiammare la situazione sul campo”.

Gli attivisti israeliani di estrema destra hanno ripetutamente fatto pressioni per aumentare la presenza ebraica nell’area e alcuni hanno invocato la distruzione di Al-Aqsa per far posto al Terzo Tempio.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele diventerà una teocrazia? I partiti religiosi sono i principali vincitori delle elezioni

Judy Maltz

3 novembre 2022 – Haaretz

Israele si appresta ad avere il governo più clericale di sempre, per cui le richieste di haredi e ortodossi probabilmente saranno una priorità della nuova coalizione di Netanyahu, minacciando le precedenti riforme

Salvo eventuali sorprese dell’ultimo minuto, il prossimo governo israeliano sarà di gran lunga il più confessionale della sua storia.

Dei quattro partiti che si prevede faranno parte della nuova coalizione, tre sono religiosi. Due di questi, United Torah Judaism [Ebraismo Unito per la Torah], i cui elettori sono principalmente ashkenaziti [ebrei di origine europea, ndt.] e lo Shas, il cui elettorato è prevalentemente sefardita [ebrei originari dei Paesi musulmani, ndt.], sono partiti ultra-ortodossi che escludono le donne dalle loro liste elettorali. Il terzo, Religious Zionism [Sionismo religioso], l’unione di tre partiti di estrema destra tra i cui dirigenti c’è un discepolo del defunto rabbino suprematista ebraico Meir Kahane, si colloca sul versante tradizionalista dello spettro religioso, tendenzialmente ultra-ortodosso.

Insieme questi tre partiti rappresenteranno più di metà dei seggi della coalizione guidata da Benjamin Netanyahu, che dovrebbe andare al potere nelle prossime settimane.

Aggiungendo ad essi sette parlamentari dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, risulta che 40 dei 65 membri previsti della prossima coalizione di governo israeliana saranno ebrei ortodossi, il 61%, molto oltre il loro 17% della popolazione totale. Circa 2/3 di questo contingente ortodosso è composto da haredi [ebrei ultra-ortodossi e molto tradizionalisti, ndt.].

Per questa ragione mercoledì mattina [il giorno dopo le elezioni, ndt.] molti israeliani si sono svegliati chiedendosi se il loro Paese stia per diventare una teocrazia.

“Non vedo Israele diventare un vero e proprio Stato della Torah [insieme di insegnamenti e precetti biblici, ndt.],” afferma il rabbino Uri Regev, presidente e amministratore delegato di Hiddush, organizzazione che promuove la libertà religiosa in Israele. “Ma stiamo per arrivarci molto più vicino che mai prima d’ora.”

Tani Frank, direttore del Judaism and State Policy Center [Centro per l’Ebraismo e la Politica dello Stato] presso l’istituto Shalom Hartman di Gerusalemme, concorda: “Vedremo sicuramente i partiti haredi spingere in quella direzione,” dice. “Ma ciò non avverrà tutto d’un tratto, perché sono sufficientemente furbi da sapere che ci sarebbe una grande reazione se cercassero di ottenere tutto quello che possono ci sarebbe una fortissima reazione.”

A dire il vero in Israele non c’è mai stata una separazione tra religione e Stato. Questioni relative a matrimonio e divorzio, per esempio, rientrano sotto la competenza delle autorità religiose, nel caso degli ebrei il Gran Rabbinato controllato dagli ortodossi. Con poche eccezioni il trasporto pubblico non circola durante il sabato, e quel giorno la maggior parte dei negozi al dettaglio è chiusa. Dato che in Israele è riconosciuto solo l’ebraismo ortodosso, i movimenti riformatori e conservatori non hanno accesso ai finanziamenti del ministero dei Servizi Religiosi.

Qualunque progresso fatto negli ultimi anni per promuovere la libertà e il pluralismo religiosi è stato per lo più imposto dai tribunali.

Tra gli esempi più significativi c’è stata la fondamentale sentenza dell’Alta Corte di Giustizia del marzo 2021, che ha riconosciuto le conversioni non ortodosse per ottenere la cittadinanza. E grazie a precedenti decisioni della corte in Israele rabbini non ortodossi, come quelli ortodossi, possono essere stipendiati dallo Stato ed è vietata la discriminazione di genere nella sfera pubblica.

Il grande timore è che i partiti religiosi della nuova coalizione di Netanyahu cerchino di indebolire il potere giudiziario attraverso una “clausola escludente” che consentirebbe alla Knesset di ribaltare decisioni della corte come queste. Ciò potrebbe cancellare molti dei progressi fatti negli ultimi anni per promuovere la libertà religiosa in Israele.

“Finora i tribunali sono stati un attore principale nella promozione di questioni come i diritti degli omosessuali e delle donne, ma se questa coalizione porterà avanti i suoi progetti di istituire la clausola escludente, saranno fondamentalmente in grado di fare quello che vogliono,” afferma Shuki Friedman, vice presidente del Jewish People Policy Institute [Istituto di Politica del Popolo Ebraico] con sede a Gerusalemme.

Friedman crede che, oltre che promuovere la clausola escludente, il nuovo governo cercherà di ribaltare immediatamente le riforme religiose approvate dal governo uscente, soprattutto una revisione molto importante del sistema della certificazione casherut [cibi che rispondono ai precetti religiosi, ndt.], che ha attirato la fiera opposizione del rabbinato.

Se il governo uscente avesse tenuto fede alla sua promessa di rilanciare l’accordo sul Muro del Pianto, che intendeva facilitare la preghiera egualitaria nel luogo santo ebraico, questa nuova coalizione avrebbe probabilmente dato priorità al suo annullamento. Ma, dato che negli ultimi 16 mesi non è stato fatto alcun progresso nel rilancio dell’accordo, almeno su questo problema c’è poco da annullare.

“Diciamo pure che questo nuovo governo rappresenta il chiodo definitivo sulla bara dell’accordo riguardante il Kotel [il Muro del Pianto in ebraico, ndt.],” afferma Uri Keidar, direttore esecutivo di Israel Hofsheet, una ong attiva nella promozione della libertà religiosa e del pluralismo ebraico.

Le promesse di Netanyahu

Allora, dove il nuovo governo israeliano dirigerà probabilmente i suoi sforzi in materia di rapporti tra la religione e lo Stato nei prossimi anni (ammesso che duri così a lungo)?

Frank crede che si concentrerà inizialmente su politiche che riguardino e beneficino direttamente la comunità ultra-ortodossa. “Ci sarà molto più denaro per le scuole haredi, comprese quelle che non insegnano materie fondamentali come inglese e matematica,” prevede. In effetti Netanyahu ha già promesso ai dirigenti haredi che non subordinerà i finanziamenti statali per le loro scuole al fatto che insegnino queste materie fondamentali.

Frank pensa anche che i partiti haredi faranno pressione su Netanyahu perché revochi una riforma iniziata dal governo uscente che minaccia il controllo rabbinico sui servizi di telefonia mobile nella comunità ultra-ortodossa.

Ecco alcuni degli altri possibili cambiamenti dello status quo religioso da parte di questo nuovo governo:

Legge del Ritorno: i partiti religiosi hanno a lungo fatto pressione per un cambiamento che limiterebbe notevolmente l’idoneità per l’aliyah [l’immigrazione ebraica in Israele, ndt.] e la cittadinanza in base alla Legge del Ritorno. Secondo l’attuale versione qualunque individuo con almeno un nonno/a o il coniuge di questa persona ebreo/a è idoneo all’immigrazione in Israele.

I partiti religiosi credono che nella sua forma attuale questa legge incoraggi troppi “non ebrei” a immigrare. In base alla loro proposta, la cosiddetta clausola del/della nipote verrebbe eliminata e al suo posto verrebbero autorizzate a fare l’aliyah solo persone con almeno un genitore ebreo.

“Penso persino che essi andranno oltre nella modifica della Legge del Ritorno,” prevede Keidar. Frank ritiene tuttavia che Netanyahu potrebbe respingere simili modifiche. “Conservare la clausola del/la nipote è di estrema importanza per gli immigrati russofoni,” dice, evidenziando che questa comunità rappresenta la grande maggioranza degli immigrati in Israele. “E i russofoni garantiscono ancora al Likud circa 4 o 5 seggi a ogni elezione, perciò egli non può ignorarli.”

Conversione: cinque anni fa lo Shas presentò una proposta di legge che avrebbe dato al rabbinato il controllo esclusivo sulle conversioni in Israele e avrebbe messo fuorilegge le conversioni non-ortodosse. Questa legge non è mai andata avanti nell’iter legislativo, ma, dato il potere che i partiti ultra-ortodossi avranno nella nuova coalizione, Regev sostiene che essi cercheranno di riattivarla. E una volta approvata la clausola escludente, ammesso che lo facciano, potrebbero allora revocare la sentenza dell’Alta Corte che riconosce le conversioni non-ortodosse.

Questa sentenza riguarda solo un piccolo numero di persone che si convertono ogni anno in Israele attraverso i movimenti riformato e conservatore. Ciononostante è stata considerata epocale per il riconoscimento implicito della legittimità delle denominazioni non-ortodosse. Frank pensa che Netanyahu ci penserà due volte prima di appoggiare leggi che cancellino questo riconoscimento, a causa delle tensioni che provocherebbero nei rapporti di Israele con la diaspora ebraica, i cui dirigenti hanno accolto con grande favore la sentenza dell’Alta Corte.

Il trasporto pubblico di sabato: il governo israeliano uscente ha fatto poco per promuovere il trasporto pubblico di sabato, anche se nelle ultime settimane la ministra dei Trasporti Merav Michaeli [segretaria del partito laburista israeliano, ndt.] aveva promesso che la metropolitana leggera ancora in costruzione a Tel Aviv avrebbe circolato nel giorno festivo ebraico. Negli ultimi anni vari Comuni israeliani, insieme a organizzazioni di base, hanno inaugurato linee di autobus che circolano di sabato.

Keidar pensa che il nuovo governo darà la priorità alla lotta contro queste iniziative. In effetti i partiti haredi hanno già manifestato l’interesse a ottenere il ministero dei trasporti nel prossimo governo.

Vari sondaggi d’opinione realizzati da Hiddush hanno rilevato che una vasta maggioranza di israeliani, compresi elettori del Likud, è a favore in vario modo del trasporto pubblico di sabato. “Chiaramente concessioni di questa sorte che Netanyahu verrà sollecitato a fare dai suoi partner di coalizione ultra-ortodossi non solo saranno a dispetto della maggioranza della popolazione, ma anche contrarie alla volontà dei suoi stessi elettori, e questa è una cosa di cui egli dovrà tener conto,” dice Regev, che è un rabbino riformato.

Matrimonio: solo un mese fa un tribunale israeliano ha riconosciuto la validità dei “matrimoni dell’ Utah” [dal gennaio del 2020, nello Stato dello Utah è possibile sposarsi online, ndt.]. La sentenza ha fornito un modo economico alle coppie israeliane per evitare la proibizione del matrimonio civile nel Paese. Finora il matrimonio civile era riconosciuto solo se celebrato fuori dal territorio israeliano. Keidar pensa che la nuova coalizione agirà per ribaltare questa sentenza, ripristinando in tal modo il controllo del rabbinato sui matrimoni.

Diritti LGBTQ: non si prevede che il nuovo governo arrivi fino al punto da mettere fuorilegge l’omosessualità, ma potrebbe cercare di annullare alcuni dei progressi fatti nella promozione dei diritti degli omosessuali da parte del governo uscente e di quelli che l’hanno preceduto, afferma Keidar.

Ciò potrebbe includere l’annullamento del divieto alla terapia della conversione [terapia pseudoscientifica intesa a modificare l’orientamento sessuale delle persone omosessuali per farle diventare eterosessuali, ndt.], tagliando il finanziamento pubblico delle terapie ormonali per persone transgender e il ripristino del divieto alla donazione del sangue per le persone omosessuali. “Non immagino che Netanyahu prenda iniziative drastiche contro le persone LGBTQ perché molte votano Likud,” afferma Frank. “Ma non vedremo assolutamente continuare i rapporti cordiali che sono esistiti tra la comunità LGBTQ e il governo uscente.”

Aborto: non si prevede che il nuovo governo segua la linea degli Stati Uniti e istituisca il divieto assoluto dell’aborto, ma Keidar crede probabile che diventi più attivo nel scoraggiarlo. “Probabilmente vedremo molti più finanziamenti pubblici andare alle organizzazioni che assistono le giovani donne con gravidanze indesiderate perché le portino a termine,” sostiene.

Keidar dice che, anche se il nuovo governo riuscisse a indebolire il potere giudiziario, non avrà carta bianca nell’imporre restrizioni di carattere religioso sulla popolazione laica. “Ci sarà una reazione e lo abbiamo già visto accadere quando hanno cercato di chiudere attività commerciali di sabato nei quartieri laici. La gente è scesa in strada a protestare.”

Nonostante la crescente influenza delle comunità ortodosse e ultra-ortodosse, Keidar nota che gli ebrei laici continuano ad essere la comunità più grande in Israele, rappresentando (secondo i dati pubblicati lo scorso mese dall’Ufficio Centrale di Statistica) il 36% della popolazione. Le comunità ortodosse e ultra-ortodosse rappresentano ognuna circa un altro 8,5% della popolazione.

Tra le iniziative più importanti introdotte dalla coalizione uscente per promuovere il pluralismo religioso in Israele c’è stata la creazione di una nuova “Amministrazione per il Rinnovamento Ebraico” nel ministero per gli Affari della Diaspora. Il suo bilancio di 60 milioni di shekel (circa 17 milioni di euro) intendeva appoggiare, tra le altre cause, le attività dei movimenti riformati e conservatori nel Paese. Il nuovo governo probabilmente troverà altri utilizzi, più in linea con il suo programma ortodosso, per questi fondi, il che sarebbe una grave battuta d’arresto per il pluralismo ebraico.

Tuttavia Rakefet Ginsberg, direttrice esecutiva del movimento conservatore in Israele, rifiuta di credere che il nuovo governo cercherà di chiudere le sue attività: “Voglio sperare che ci sia la comprensione del fatto che i nostri movimenti non pregiudicano l’ebraicità dello Stato, ma al contrario l’arricchiscono.”

Anna Kislanski, direttrice esecutiva del movimento riformato in Israele, sembra meno fiduciosa: “I risultati di queste elezioni sono molto inquietanti per quanti di noi non vengono dal movimento ortodosso,” afferma. “Siamo preoccupati della mancanza di accettazione che questo governo potrebbe dimostrare verso gli arabi, le donne, gli omosessuali e in effetti chiunque non la pensi come il movimento ortodosso.”

Avverte che la frattura tra Israele e l’ebraismo della diaspora potrebbe approfondirsi ulteriormente, considerando il grande seguito del movimento riformato fuori da Israele.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il contrastato disegno di legge sulla Cisgiordania non viene approvato al primo voto – un colpo alla coalizione governativa di Israele.

Redazione

6 giugno 2022 – Haaretz

Due membri della coalizione di Bennett rompono i ranghi e votano contro l’estensione dei regolamenti di “emergenza” che applicano la legge israeliana alla Cisgiordania.

La coalizione di governo israeliana lunedì non è riuscita a far approvare un disegno di legge che prolunghi la durata della normativa che estende la legge israeliana ai coloni in Cisgiordania: 58 deputati hanno votato contro la legislazione e 52 l’hanno approvata.

Il disegno di legge aveva lo scopo di estendere la normativa “di emergenza” in vigore dal 1967 e rinnovata da allora ogni cinque anni.

La coalizione di governo può provare a riproporre il disegno di legge ad un altro voto entro il primo luglio, dopodiché decadrà.

Il governo aveva considerato di porre la fiducia per costringere tutti i deputati della United Arab List e la deputata di Meretz Ghaida Rinawie Zoabi a sostenere il disegno di legge. Alla fine, la legge è stata sottoposta a una votazione normale [senza la fiducia, ndt.]

Fonti governative hanno fatto sapere che la coalizione aveva deciso di non permettere a Rinawie Zoabi di raggiungere alcun risultato politico significativo nella speranza di convincerla a dimettersi dalla Knesset, aggiungendo che questa decisione deriva dal suo comportamento nelle ultime settimane e dalle sue ripetute minacce di non votare con il resto della coalizione, inclusa l’estensione della normativa in questione.

Il deputato Idit Silman – le cui improvvise dimissioni dalla coalizione ad aprile la hanno privata della sua esigua maggioranza – era assente dal voto e Rinawie Zoabi ha votato contro la legge.

Rinawie Zoabi in seguito ha dichiarato di aver votato contro il disegno di legge poiché “è mio dovere essere dalla parte giusta della storia delegittimando l’occupazione e sostenendo il diritto fondamentale del popolo palestinese a fondare un paese accanto allo Stato di Israele”.

Se la misura decadrà alla fine di giugno gli israeliani che commettono crimini in Cisgiordania saranno portati davanti ai tribunali militari israeliani e sconteranno la pena in Cisgiordania. Inoltre la polizia israeliana non potrà più indagare su presunti crimini commessi da israeliani in Cisgiordania, né su coloro che hanno commesso crimini all’interno di Israele e sono fuggiti in Cisgiordania.

Inoltre gli israeliani che vivono in Cisgiordania probabilmente non avranno più diritto alla Sanità statale, all’appartenenza all’Ordine degli avvocati israeliani o a godere di altri diritti e privilegi a cui hanno diritto per la legge israeliana. La mancata estensione della normativa avrebbe conseguenze anche sull’ingresso in Israele, sul reclutamento militare, sulla tassazione, sul registro della popolazione, sull’adozione di bambini e altre questioni.

Il partito Yamina del primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che i deputati ebrei ortodossi e arabi hanno unito le forze contro i residenti [i coloni, ndt.] della Cisgiordania, aggiungendo che “il Likud vedrà il paese in fiamme per gli interessi di Bibi” chiamando il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu con il suo soprannome.

Commentando la fallita votazione il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato: “Abbiamo meno di un mese per assicurarci che la Cisgiordania non si trasformi nel selvaggio West a causa di interessi politici” e ha invitato tutti i membri della Knesset ad agire in modo responsabile e a “mettere Israele al primo posto”.

Il leader della Lista Araba Unita e membro della coalizione Mansour Abbas, anch’egli assente dal voto, ha affermato che “ogni coalizione affronta delle sfide, ma per noi è importante andare avanti”. “Ci sono buone probabilità che il governo non cada, è troppo presto per definirlo un esperimento fallito”, ha aggiunto.

Il ministro delle finanze Avigdor Lieberman ha twittato che, mentre Netanyahu ha “abbandonato” i coloni, la coalizione continuerà a sostenerli “e farà qualsiasi cosa in nostro potere per approvare la legge la prossima settimana”.

Il deputato di destra Bezalel Smotrich ha dichiarato: ” Questa sera il governo ha dimostrato ancora una volta che si appoggia agli antisionisti e che non può prendersi cura dei bisogni e dei valori più elementari dei cittadini israeliani”.

(traduzione dall’ Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La divisione ‘temporale e spaziale’ della moschea Al-Aqsa: perché qui l’obiettivo finale di Israele fallirà

Ramzy Baroud

27 aprile 2022 – Palestine Chronicle

A partire dal 15 aprile l’esercito di occupazione israeliana e la polizia hanno attaccato giornalmente la moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme Est occupata. Con la scusa di proteggere le provocatorie ‘visite’ di migliaia di coloni ebrei israeliani illegali e fanatici di destra l’esercito israeliano ha ferito centinaia di palestinesi, fra cui dei giornalisti, e ne ha arrestati a centinaia.

I palestinesi sanno che per Israele questi attacchi contro Al-Aqsa hanno un significato politico e strategico più profondo di quelli precedenti.

Nel passato Al-Aqsa ha subito raid di routine da parte delle forze israeliane in varie forme. Tuttavia negli ultimi anni la valenza della moschea ha acquisito ulteriori significati, specialmente dopo la ribellione popolare palestinese, le proteste di massa, gli scontri e una guerra contro Gaza lo scorso maggio, che significativamente i palestinesi chiamano Saif Al Quds – Operazione Spada di Gerusalemme.

Storicamente Haram Al-Sharif o il Nobile Santuario, oltre ad essere il cuore della lotta della lotta popolare in Palestina, è anche al centro delle politiche di Israele. Il santuario, situato nella Città Vecchia della Gerusalemme Est occupata, è considerato uno dei luoghi più sacri per tutti i musulmani. Ha un posto speciale nell’Islam poiché è citato sia nel sacro Corano che frequentemente anche negli Hadith, i detti del profeta Maometto. Il complesso ospita parecchie moschee storiche e 17 porte e altri importanti siti islamici. Al-Aqsa è una di queste moschee.

Ma per i palestinesi il valore di Al-Aqsa ha acquisito ulteriori significati a causa dell’occupazione israeliana che, nel corso degli anni, ha preso di mira moschee, chiese e altri luoghi sacri palestinesi. Per esempio, il ministero palestinese degli Affari Religiosi ha riferito che, durante la guerra israeliana del 2014 contro l’assediata Striscia di Gaza, 203 moschee furono danneggiate da bombe israeliane che causarono la completa distruzione di 73 edifici.

Quindi i palestinesi musulmani, ma anche i cristiani, considerano Al-Aqsa, il santuario e altri siti musulmani e cristiani a Gerusalemme, una linea rossa che non deve essere superata da Israele. Generazioni dopo generazioni si sono mobilitate per proteggere i siti, talvolta senza riuscirci come nel 1969, quando l’ebreo estremista australiano Denis Michael Rohan compì un attacco incendiario dentro Al-Aqsa.

Anche i recenti raid contro la moschea non si sono limitati a lesioni personali e arresti di massa di fedeli. Il 15 aprile, il secondo venerdì di Ramadan, Al-Aqsa ha subito gravi danni con le famose vetrate multicolori della moschea in frantumi e gli arredi sfasciati.

I raid contro Haram Al-Sharif stanno continuando al momento della stesura di questo articolo. Gli estremisti ebrei si sentono sempre più forti grazie alla protezione che ricevono dall’esercito israeliano oltre alla libertà d’azione fornita da influenti politici israeliani. Molti degli attacchi sono spesso guidati da Itamar Ben-Gvir parlamentare di estrema destra della Knesset israeliana, da Yehuda Glick, politico del Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.], e dall’ex ministro Uri Ariel.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett sta indubbiamente usando i raid contro Al-Aqsa come un modo per tenere in riga la sua estrema destra spesso ribelle e l’elettorato religioso. Il 6 aprile le improvvise dimissioni dal partito di estrema destra Yamina della deputata Idit Silman hanno lasciato Bennett ancora più disperato nel suo tentativo di mantenere in vita la sua litigiosa coalizione. Bennett, un tempo leader di Yesha Council, un’organizzazione ombrello delle colonie illegali della Cisgiordania, è salito al potere con il sostegno degli zeloti religiosi, sia in Israele che nei Territori della Palestina Occupata. Perdere il sostegno dei coloni potrebbe semplicemente costargli la carica.

Il comportamento di Bennett è coerente con quello dei precedenti leader israeliani che hanno causato un’escalation di violenza ad Al-Aqsa per distrarre i votanti dai propri guai politici o per far appello al potente elettorato israeliano di destra e degli estremisti religiosi. Nel settembre 2000 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon fece irruzione nella moschea con migliaia di soldati israeliani, polizia ed estremisti con opinioni simili. Lo fece per provocare una reazione palestinese e per far cadere il governo del suo arcinemico Ehud Barak. Sharon ci riuscì, ma a caro prezzo dato che la sua ‘visita’ scatenerà la Seconda Intifada palestinese, detta anche l’Intifada di Al-Aqsa, durata cinque anni.

Nel 2017 migliaia di palestinesi hanno protestato contro un tentativo israeliano di installare ‘telecamere di sicurezza’ agli ingressi del luogo sacro. La misura era anche un tentativo dell’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accontentare i suoi sostenitori di destra. Ma le proteste di massa a Gerusalemme e la conseguente unità palestinese all’epoca costrinsero Israele ad annullare i propri piani.

Tuttavia questa volta i palestinesi temono che Israele miri a qualcosa di più di una semplice provocazione. Secondo Adnan Ghaith, massimo rappresentante dell’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, Israele progetta di “imporre una divisione temporale e spaziale della moschea Al-Aqsa”. Questa particolare espressione, ‘divisione temporale e spaziale’, è anche usata da molti palestinesi che temono che si ripetano gli eventi della moschea di Ibrahimi (la tomba dei Patriarchi).

Nel 1994, dopo il massacro di 29 fedeli per mano di un estremista ebreo israeliano, Baruch Goldstein, e le successive uccisioni di molti altri palestinesi da parte dell’esercito israeliano presso la moschea Ibrahimi a Hebron (Al-Khalil), Israele la divise. Uno spazio più ampio fu destinato ai coloni ebrei limitando l’accesso ai palestinesi, a cui è permesso di pregare in certi orari, ma non in altri. Questo è esattamente quello che i palestinesi intendono con divisione temporale e spaziale che per molti anni è stata al centro della strategia israeliana.

Comunque Bennett deve muoversi con cautela. I palestinesi sono molto più uniti ora che nel passato nella loro resistenza e consapevolezza riguardo ai disegni israeliani. Una componente importante di quest’unità è la popolazione araba palestinese nella Palestina storica, che ora sta sostenendo un discorso politico simile a quello dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Infatti molti dei difensori di Al-Aqsa provengono proprio da queste comunità. Se Israele continua con le sue provocazioni ad Al-Aqsa rischia un’atra rivolta palestinese come quella di maggio, che significativamente è cominciata a Gerusalemme Est.

Ingraziarsi l’elettorato di destra attaccando, umiliando e provocando i palestinesi non è più così facile come spesso è stato in passato. Come la ‘Spada di Gerusalemme’ ci ha insegnato, i palestinesi sono ora capaci di rispondere in modo unitario e, nonostante i loro mezzi limitati, anche facendo pressione su Israele per rovesciare le sue politiche. Bennett deve tenerlo bene in mente prima di scatenare altre violente provocazioni.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders andIntellectuals Speak out” (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il movimento del Monte del Tempio in rapida crescita sotto il nuovo governo israeliano

Baker Zoubi 

6 dicembre 2021 – +972 magazine

Sfidando un accordo politico pluridecennale le autorità israeliane stanno favorendo un incremento senza precedenti degli ebrei che pregano sul sacro sito a Gerusalemme.

Per gran parte del decennio scorso gli ebrei religiosi che si recano al Monte del Tempio/Haram al-Sharif [Spianata delle Moschee] nella Città Vecchia di Gerusalemme, considerato il luogo più sacro per l’ebraismo e uno dei più sacri per l’Islam, sono lentamente aumentati di numero violando un pluridecennale e fragile “status quo” riguardo al complesso. Però negli ultimi mesi, e in particolare dall’insediamento del governo Bennett-Lapid, il numero di ebrei che vi sono entrati sembra sia cresciuto enormemente.

Stando alle statistiche pubblicate da Yaraeh, un’organizzazione israeliana che promuove l’ingresso e la preghiera agli ebrei sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, negli ultimi tre mesi circa10.000 ebrei sono entrati nel complesso, un aumento del 35% rispetto agli anni precedenti.

Le cifre di Yaraeh mostrano anche che la percentuale di ebrei entrati nel complesso ad agosto era più alta dell’85% rispetto allo stesso mese del 2020 e del 137% maggiore che nell’agosto 2019. A luglio di quest’anno il numero di ebrei entrati nel complesso era maggiore del 76% rispetto allo stesso mese del 2020. Le statistiche di Yaraeh tengono conto sia delle visite al complesso che delle preghiere e delle lezioni di Torah sul luogo dove non erano mai state tenute prima e in violazione del cosiddetto status quo.

Il Monte del Tempio/Haram al-Sharif, dove sono situate la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della roccia (Al-Sakhra), è uno dei posti più contesi in Israele-Palestina. Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est nel 1967 c’è un accordo fra Israele e la fondazione islamica Waqf, il custode religioso giordano del complesso, secondo cui solo ai musulmani è permesso di pregare sul complesso mentre gli ebrei possono pregare al Muro Occidentale (Muro del Pianto). 

Ciononostante negli ultimi mesi la polizia israeliana avrebbe allentato le restrizioni alla devozione ebraica presso il complesso, sono anche stati filmati dei fedeli ebrei mentre, sotto gli occhi della polizia, era loro permesso di pregare liberamente sul monte. La frequenza di tali episodi è cresciuta lentamente in anni recenti sotto il precedente governo Netanyahu, ma negli ultimi mesi è stato rilevato un marcato aumento.

Non sembra una coincidenza che esso si stia verificando sotto il nuovo governo Bennett-Lapid. Il primo ministro Naftali Bennett ha pubblicato a metà luglio una dichiarazione che sembrava affermasse il diritto degli ebrei alla “libertà di culto” sul monte, suscitando la severa condanna di leader musulmani e arabi.

A ottobre il giudice di pace di Gerusalemme ha ribaltato il divieto di avvicinarsi per 15 giorni al sito emesso dalla polizia nei confronti di Aryeh Lipo, un attivista di spicco del Movimento del Tempio dopo che era stato visto pregare lì. Lipo appartiene a un più vasto movimento religioso fondamentalista che cerca di incoraggiare e normalizzare la preghiera ebraica sul sito con la speranza che un giorno si ricostruisca un tempio ebraico.

Il giudice aveva deciso che, visto che la preghiera di Lipo si era svolta silenziosamente, essa non costituiva un rischio per la sicurezza, la tesi che la polizia cita per giustificare l’applicazione del divieto. In seguito, apparentemente su pressione diplomatica degli USA, in appello un altro giudice ha annullato la decisione del tribunale.

Dieci anni fa, persino cinque anni fa, cose simili non sarebbero successe,” dice Hagit Ofran, il direttore del gruppo di controllo sulle colonie di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], a proposito del recente aumento dei visitatori ebrei. “Gli ebrei non potevano pregare (sul complesso). La polizia israeliana lo impediva, intervenendo e impedendo agli ebrei di pregare o svolgere cerimonie religiose durante la visita dei cortili della moschea di Al-Aqsa.”

Secondo Ofran è stato durante il mandato di Gilad Erdan [politico del partito di destra Likud, ndtr.], ministro della Pubblica Sicurezza fra il 2015 e il 2020 (ora Erdan è ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite), che la polizia israeliana ha cominciato a cooperare con gli ebrei che volevano salire sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif. Ciò è continuato con Amir Ohana [anch’egli del Likud, ndtr.] che ha occupato la carica fra il 2020 e il 2021.

Il governo di Netanyahu ha contributo significativamente alla tensione e a tutti questi ingressi (nel complesso), a tal punto che per questa ragione Netanyahu non era più in contatto con il re di Giordania Abdullah II,” dice Ofran. “Tutto ciò sta continuando e le presenze sono in crescita, sebbene Omer Barlev [del partito Laburista, di centro, ndtr.], il ministro della Pubblica Sicurezza, abbia intenzioni diverse.” Barlev, che ha assunto la carica quest’estate, si è impegnato a continuare a cooperare con il Waqf giordano e a impedire agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Abbiamo visto molte volte negli ultimi 10 anni che a Gerusalemme le tensioni cominciano dopo queste visite,” continua Ofran. Lo scoppio della “Intifada dei coltelli” nel 2015, le gravi tensioni dopo l’installazione israeliana dei metal detector sul complesso nel 2017 e le violenze scoppiate in Israele-Palestina nel maggio scorso, tutto ciò è stato preceduto da un aumento delle visite degli ebrei al Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Io concordo con l’opinione che il Likud e il partito sionista religioso, in quanto parte dell’opposizione, stiano appoggiando (le preghiere degli ebrei sul monte) per mettere in imbarazzo il governo,” conclude Ofran. “Quando il Likud era al potere, sul posto c’erano dei controlli per prevenire tensioni durante certi periodi. Ora non hanno alcun problema riguardo all’escalation, al contrario.”

Il deputato Ahmad Tibi che guida la commissione interna su Al-Quds (Gerusalemme) della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.] conviene che l’attuale coalizione di governo stia permettendo agli ebrei l’accesso al complesso di Al-Aqsa in numero maggiore. “Ci sono più incursioni e soprattutto si conducono con discrezione le preghiere in presenza della polizia,” dice Tibi, aggiungendo che, mentre i partiti di destra nella coalizione stanno facilitando l’incremento [della presenza religiosa ebraica, ndtr.], “il centro sinistra tace e guarda dall’altra parte per evitare di far tremare la coalizione.”

A luglio Asaf Fried, il portavoce del gruppo di attivisti israeliani dell’amministrazione del Monte del Tempio, ha dichiarato all’emittente israeliana Channel 12 che gli ebrei hanno avuto accesso al monte per anni, ma che sono stati “oggetto di urla e umiliazioni.” Il senso era che “nessuno poteva fare niente là, che quando un ebreo arriva [sul monte] egli rappresenta un problema.” Ma, ha aggiunto Fried, c’è stata una “totale inversione di tendenza, l’ingresso al Monte del Tempio è migliorato, non ci sono barriere all’ingresso… non c’è il Waqf a seguirti, c’è molto più spazio per respirare sul Monte del Tempio.”

Sebbene alcuni gruppi di ebrei entrino nel complesso per la preghiera e il culto, “lo scopo di tutta questa attività è indubbiamente politico,” dice Aviv Tatarsky, un ricercatore presso Ir Amim, [Città di Persone, ndtr.] un gruppo di controllo e difesa con sede a Gerusalemme. “Lo scopo è di aumentare il numero di ebrei che entrano nel complesso di Al-Aqsa che già vede un incremento [di ebrei], per far pressione sul governo affinché cambi l’attuale situazione a loro favore. Lo Stato, come ogni Stato, è sensibile alla pressione sociale e popolare,” continua, e gli attivisti del Monte del Tempio stanno sfruttando questa dinamica.

Eppure per quanto notevole sia l’aumento dei numeri degli ebrei che accedono al complesso, quello che in realtà stanno facendo è altrettanto significativo. “Si sfida lo status quo,” dice Tatarsky. “Anche se Barlev dice che è contrario alla preghiera, la sua polizia non sta facendo nulla per fermarla.”

Tatarsky fa anche notare che, sebbene il Ministero dell’Educazione non sia obbligato a seguire un suggerimento della Commissione per l’Istruzione della Knesset del mese scorso di includere il Monte del Tempio/Haram al-Sharif nei viaggi obbligatori per gli studenti delle scuole israeliane, la proposta è “al vaglio.”

Azzam al-Khatib, il capo di Waqf di Gerusalemme, ha detto che la posizione della fondazione islamica sui recenti sviluppi è “molto chiara.”

Queste incursioni violano le condizioni religiose, legali e politiche esistenti dal 1967,” dice. “È inaccettabile e contrario alle norme internazionali profanare in tal modo le moschee [del complesso].” Al-Khatib concorda che la percentuale degli ingressi degli ebrei è cresciuta sotto il nuovo governo Bennett-Lapid e che le preghiere avvengono apertamente, con scarso o nessun intervento da parte della polizia anche quando il Waqf lo richiede. L’attuale situazione è “senza precedenti,” dice.

Per ora i fedeli ebrei continuano ad accedere al complesso mentre la tensione continua a salire.

Il 21 novembre, Fadi Mahmoud Abu Shkheidem, un abitante del campo profughi di Shu’afat a Gerusalemme e presunto affiliato ad Hamas, il gruppo islamista palestinese, ha aperto il fuoco presso uno degli ingressi della moschea Al-Aqsa nella Città Vecchia uccidendo un israeliano e ferendone gravemente altri tre. Lo sparatore è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane.

L’episodio ha portato a ulteriori inasprimenti e controlli israeliani degli abitanti palestinesi della città, seguiti dalla richiesta di un aumento della sicurezza nella zona, oltre a una richiesta da parte del ministro delle Comunicazioni Yoaz Hendel [del partito di destra “Nuova Speranza”, una scissione del Likud, ndtr.] di riconsiderare l’installazione dei metal detector all’ingresso della moschea di Al-Aqsa. L’ultima volta che Israele ha tentato di farlo i palestinesi hanno condotto una campagna di disobbedienza di massa che ha costretto Israele a rimuoverli.

Baker Zoubi è un giornalista originario di Kufr Misr [cittadina arabo-israeliana, ndtr.] che attualmente vive a Nazareth [città arabo-israeliana, ndtr.]. Baker lavora nel giornalismo dal 2010, inizialmente come reporter per organi di stampa arabi locali e poi come direttore del sito web Bokra. Oggi collabora anche come ricercatore e redattore per programmi televisivi sui canali Makan e Musawa [canali televisivi israeliani in arabo, ndtr.]. Sulla sua pagina Facebook scrive e posta vari editoriali di politica e temi sociali relativi alla società palestinese. Recentemente ha anche cominciato a scrivere per Local Call. [edizione di +972 in ebraico, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)