La divisione ‘temporale e spaziale’ della moschea Al-Aqsa: perché qui l’obiettivo finale di Israele fallirà

Ramzy Baroud

27 aprile 2022 – Palestine Chronicle

A partire dal 15 aprile l’esercito di occupazione israeliana e la polizia hanno attaccato giornalmente la moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme Est occupata. Con la scusa di proteggere le provocatorie ‘visite’ di migliaia di coloni ebrei israeliani illegali e fanatici di destra l’esercito israeliano ha ferito centinaia di palestinesi, fra cui dei giornalisti, e ne ha arrestati a centinaia.

I palestinesi sanno che per Israele questi attacchi contro Al-Aqsa hanno un significato politico e strategico più profondo di quelli precedenti.

Nel passato Al-Aqsa ha subito raid di routine da parte delle forze israeliane in varie forme. Tuttavia negli ultimi anni la valenza della moschea ha acquisito ulteriori significati, specialmente dopo la ribellione popolare palestinese, le proteste di massa, gli scontri e una guerra contro Gaza lo scorso maggio, che significativamente i palestinesi chiamano Saif Al Quds – Operazione Spada di Gerusalemme.

Storicamente Haram Al-Sharif o il Nobile Santuario, oltre ad essere il cuore della lotta della lotta popolare in Palestina, è anche al centro delle politiche di Israele. Il santuario, situato nella Città Vecchia della Gerusalemme Est occupata, è considerato uno dei luoghi più sacri per tutti i musulmani. Ha un posto speciale nell’Islam poiché è citato sia nel sacro Corano che frequentemente anche negli Hadith, i detti del profeta Maometto. Il complesso ospita parecchie moschee storiche e 17 porte e altri importanti siti islamici. Al-Aqsa è una di queste moschee.

Ma per i palestinesi il valore di Al-Aqsa ha acquisito ulteriori significati a causa dell’occupazione israeliana che, nel corso degli anni, ha preso di mira moschee, chiese e altri luoghi sacri palestinesi. Per esempio, il ministero palestinese degli Affari Religiosi ha riferito che, durante la guerra israeliana del 2014 contro l’assediata Striscia di Gaza, 203 moschee furono danneggiate da bombe israeliane che causarono la completa distruzione di 73 edifici.

Quindi i palestinesi musulmani, ma anche i cristiani, considerano Al-Aqsa, il santuario e altri siti musulmani e cristiani a Gerusalemme, una linea rossa che non deve essere superata da Israele. Generazioni dopo generazioni si sono mobilitate per proteggere i siti, talvolta senza riuscirci come nel 1969, quando l’ebreo estremista australiano Denis Michael Rohan compì un attacco incendiario dentro Al-Aqsa.

Anche i recenti raid contro la moschea non si sono limitati a lesioni personali e arresti di massa di fedeli. Il 15 aprile, il secondo venerdì di Ramadan, Al-Aqsa ha subito gravi danni con le famose vetrate multicolori della moschea in frantumi e gli arredi sfasciati.

I raid contro Haram Al-Sharif stanno continuando al momento della stesura di questo articolo. Gli estremisti ebrei si sentono sempre più forti grazie alla protezione che ricevono dall’esercito israeliano oltre alla libertà d’azione fornita da influenti politici israeliani. Molti degli attacchi sono spesso guidati da Itamar Ben-Gvir parlamentare di estrema destra della Knesset israeliana, da Yehuda Glick, politico del Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.], e dall’ex ministro Uri Ariel.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett sta indubbiamente usando i raid contro Al-Aqsa come un modo per tenere in riga la sua estrema destra spesso ribelle e l’elettorato religioso. Il 6 aprile le improvvise dimissioni dal partito di estrema destra Yamina della deputata Idit Silman hanno lasciato Bennett ancora più disperato nel suo tentativo di mantenere in vita la sua litigiosa coalizione. Bennett, un tempo leader di Yesha Council, un’organizzazione ombrello delle colonie illegali della Cisgiordania, è salito al potere con il sostegno degli zeloti religiosi, sia in Israele che nei Territori della Palestina Occupata. Perdere il sostegno dei coloni potrebbe semplicemente costargli la carica.

Il comportamento di Bennett è coerente con quello dei precedenti leader israeliani che hanno causato un’escalation di violenza ad Al-Aqsa per distrarre i votanti dai propri guai politici o per far appello al potente elettorato israeliano di destra e degli estremisti religiosi. Nel settembre 2000 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon fece irruzione nella moschea con migliaia di soldati israeliani, polizia ed estremisti con opinioni simili. Lo fece per provocare una reazione palestinese e per far cadere il governo del suo arcinemico Ehud Barak. Sharon ci riuscì, ma a caro prezzo dato che la sua ‘visita’ scatenerà la Seconda Intifada palestinese, detta anche l’Intifada di Al-Aqsa, durata cinque anni.

Nel 2017 migliaia di palestinesi hanno protestato contro un tentativo israeliano di installare ‘telecamere di sicurezza’ agli ingressi del luogo sacro. La misura era anche un tentativo dell’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accontentare i suoi sostenitori di destra. Ma le proteste di massa a Gerusalemme e la conseguente unità palestinese all’epoca costrinsero Israele ad annullare i propri piani.

Tuttavia questa volta i palestinesi temono che Israele miri a qualcosa di più di una semplice provocazione. Secondo Adnan Ghaith, massimo rappresentante dell’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, Israele progetta di “imporre una divisione temporale e spaziale della moschea Al-Aqsa”. Questa particolare espressione, ‘divisione temporale e spaziale’, è anche usata da molti palestinesi che temono che si ripetano gli eventi della moschea di Ibrahimi (la tomba dei Patriarchi).

Nel 1994, dopo il massacro di 29 fedeli per mano di un estremista ebreo israeliano, Baruch Goldstein, e le successive uccisioni di molti altri palestinesi da parte dell’esercito israeliano presso la moschea Ibrahimi a Hebron (Al-Khalil), Israele la divise. Uno spazio più ampio fu destinato ai coloni ebrei limitando l’accesso ai palestinesi, a cui è permesso di pregare in certi orari, ma non in altri. Questo è esattamente quello che i palestinesi intendono con divisione temporale e spaziale che per molti anni è stata al centro della strategia israeliana.

Comunque Bennett deve muoversi con cautela. I palestinesi sono molto più uniti ora che nel passato nella loro resistenza e consapevolezza riguardo ai disegni israeliani. Una componente importante di quest’unità è la popolazione araba palestinese nella Palestina storica, che ora sta sostenendo un discorso politico simile a quello dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Infatti molti dei difensori di Al-Aqsa provengono proprio da queste comunità. Se Israele continua con le sue provocazioni ad Al-Aqsa rischia un’atra rivolta palestinese come quella di maggio, che significativamente è cominciata a Gerusalemme Est.

Ingraziarsi l’elettorato di destra attaccando, umiliando e provocando i palestinesi non è più così facile come spesso è stato in passato. Come la ‘Spada di Gerusalemme’ ci ha insegnato, i palestinesi sono ora capaci di rispondere in modo unitario e, nonostante i loro mezzi limitati, anche facendo pressione su Israele per rovesciare le sue politiche. Bennett deve tenerlo bene in mente prima di scatenare altre violente provocazioni.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders andIntellectuals Speak out” (La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il movimento del Monte del Tempio in rapida crescita sotto il nuovo governo israeliano

Baker Zoubi 

6 dicembre 2021 – +972 magazine

Sfidando un accordo politico pluridecennale le autorità israeliane stanno favorendo un incremento senza precedenti degli ebrei che pregano sul sacro sito a Gerusalemme.

Per gran parte del decennio scorso gli ebrei religiosi che si recano al Monte del Tempio/Haram al-Sharif [Spianata delle Moschee] nella Città Vecchia di Gerusalemme, considerato il luogo più sacro per l’ebraismo e uno dei più sacri per l’Islam, sono lentamente aumentati di numero violando un pluridecennale e fragile “status quo” riguardo al complesso. Però negli ultimi mesi, e in particolare dall’insediamento del governo Bennett-Lapid, il numero di ebrei che vi sono entrati sembra sia cresciuto enormemente.

Stando alle statistiche pubblicate da Yaraeh, un’organizzazione israeliana che promuove l’ingresso e la preghiera agli ebrei sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, negli ultimi tre mesi circa10.000 ebrei sono entrati nel complesso, un aumento del 35% rispetto agli anni precedenti.

Le cifre di Yaraeh mostrano anche che la percentuale di ebrei entrati nel complesso ad agosto era più alta dell’85% rispetto allo stesso mese del 2020 e del 137% maggiore che nell’agosto 2019. A luglio di quest’anno il numero di ebrei entrati nel complesso era maggiore del 76% rispetto allo stesso mese del 2020. Le statistiche di Yaraeh tengono conto sia delle visite al complesso che delle preghiere e delle lezioni di Torah sul luogo dove non erano mai state tenute prima e in violazione del cosiddetto status quo.

Il Monte del Tempio/Haram al-Sharif, dove sono situate la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della roccia (Al-Sakhra), è uno dei posti più contesi in Israele-Palestina. Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est nel 1967 c’è un accordo fra Israele e la fondazione islamica Waqf, il custode religioso giordano del complesso, secondo cui solo ai musulmani è permesso di pregare sul complesso mentre gli ebrei possono pregare al Muro Occidentale (Muro del Pianto). 

Ciononostante negli ultimi mesi la polizia israeliana avrebbe allentato le restrizioni alla devozione ebraica presso il complesso, sono anche stati filmati dei fedeli ebrei mentre, sotto gli occhi della polizia, era loro permesso di pregare liberamente sul monte. La frequenza di tali episodi è cresciuta lentamente in anni recenti sotto il precedente governo Netanyahu, ma negli ultimi mesi è stato rilevato un marcato aumento.

Non sembra una coincidenza che esso si stia verificando sotto il nuovo governo Bennett-Lapid. Il primo ministro Naftali Bennett ha pubblicato a metà luglio una dichiarazione che sembrava affermasse il diritto degli ebrei alla “libertà di culto” sul monte, suscitando la severa condanna di leader musulmani e arabi.

A ottobre il giudice di pace di Gerusalemme ha ribaltato il divieto di avvicinarsi per 15 giorni al sito emesso dalla polizia nei confronti di Aryeh Lipo, un attivista di spicco del Movimento del Tempio dopo che era stato visto pregare lì. Lipo appartiene a un più vasto movimento religioso fondamentalista che cerca di incoraggiare e normalizzare la preghiera ebraica sul sito con la speranza che un giorno si ricostruisca un tempio ebraico.

Il giudice aveva deciso che, visto che la preghiera di Lipo si era svolta silenziosamente, essa non costituiva un rischio per la sicurezza, la tesi che la polizia cita per giustificare l’applicazione del divieto. In seguito, apparentemente su pressione diplomatica degli USA, in appello un altro giudice ha annullato la decisione del tribunale.

Dieci anni fa, persino cinque anni fa, cose simili non sarebbero successe,” dice Hagit Ofran, il direttore del gruppo di controllo sulle colonie di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], a proposito del recente aumento dei visitatori ebrei. “Gli ebrei non potevano pregare (sul complesso). La polizia israeliana lo impediva, intervenendo e impedendo agli ebrei di pregare o svolgere cerimonie religiose durante la visita dei cortili della moschea di Al-Aqsa.”

Secondo Ofran è stato durante il mandato di Gilad Erdan [politico del partito di destra Likud, ndtr.], ministro della Pubblica Sicurezza fra il 2015 e il 2020 (ora Erdan è ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite), che la polizia israeliana ha cominciato a cooperare con gli ebrei che volevano salire sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif. Ciò è continuato con Amir Ohana [anch’egli del Likud, ndtr.] che ha occupato la carica fra il 2020 e il 2021.

Il governo di Netanyahu ha contributo significativamente alla tensione e a tutti questi ingressi (nel complesso), a tal punto che per questa ragione Netanyahu non era più in contatto con il re di Giordania Abdullah II,” dice Ofran. “Tutto ciò sta continuando e le presenze sono in crescita, sebbene Omer Barlev [del partito Laburista, di centro, ndtr.], il ministro della Pubblica Sicurezza, abbia intenzioni diverse.” Barlev, che ha assunto la carica quest’estate, si è impegnato a continuare a cooperare con il Waqf giordano e a impedire agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Abbiamo visto molte volte negli ultimi 10 anni che a Gerusalemme le tensioni cominciano dopo queste visite,” continua Ofran. Lo scoppio della “Intifada dei coltelli” nel 2015, le gravi tensioni dopo l’installazione israeliana dei metal detector sul complesso nel 2017 e le violenze scoppiate in Israele-Palestina nel maggio scorso, tutto ciò è stato preceduto da un aumento delle visite degli ebrei al Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Io concordo con l’opinione che il Likud e il partito sionista religioso, in quanto parte dell’opposizione, stiano appoggiando (le preghiere degli ebrei sul monte) per mettere in imbarazzo il governo,” conclude Ofran. “Quando il Likud era al potere, sul posto c’erano dei controlli per prevenire tensioni durante certi periodi. Ora non hanno alcun problema riguardo all’escalation, al contrario.”

Il deputato Ahmad Tibi che guida la commissione interna su Al-Quds (Gerusalemme) della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.] conviene che l’attuale coalizione di governo stia permettendo agli ebrei l’accesso al complesso di Al-Aqsa in numero maggiore. “Ci sono più incursioni e soprattutto si conducono con discrezione le preghiere in presenza della polizia,” dice Tibi, aggiungendo che, mentre i partiti di destra nella coalizione stanno facilitando l’incremento [della presenza religiosa ebraica, ndtr.], “il centro sinistra tace e guarda dall’altra parte per evitare di far tremare la coalizione.”

A luglio Asaf Fried, il portavoce del gruppo di attivisti israeliani dell’amministrazione del Monte del Tempio, ha dichiarato all’emittente israeliana Channel 12 che gli ebrei hanno avuto accesso al monte per anni, ma che sono stati “oggetto di urla e umiliazioni.” Il senso era che “nessuno poteva fare niente là, che quando un ebreo arriva [sul monte] egli rappresenta un problema.” Ma, ha aggiunto Fried, c’è stata una “totale inversione di tendenza, l’ingresso al Monte del Tempio è migliorato, non ci sono barriere all’ingresso… non c’è il Waqf a seguirti, c’è molto più spazio per respirare sul Monte del Tempio.”

Sebbene alcuni gruppi di ebrei entrino nel complesso per la preghiera e il culto, “lo scopo di tutta questa attività è indubbiamente politico,” dice Aviv Tatarsky, un ricercatore presso Ir Amim, [Città di Persone, ndtr.] un gruppo di controllo e difesa con sede a Gerusalemme. “Lo scopo è di aumentare il numero di ebrei che entrano nel complesso di Al-Aqsa che già vede un incremento [di ebrei], per far pressione sul governo affinché cambi l’attuale situazione a loro favore. Lo Stato, come ogni Stato, è sensibile alla pressione sociale e popolare,” continua, e gli attivisti del Monte del Tempio stanno sfruttando questa dinamica.

Eppure per quanto notevole sia l’aumento dei numeri degli ebrei che accedono al complesso, quello che in realtà stanno facendo è altrettanto significativo. “Si sfida lo status quo,” dice Tatarsky. “Anche se Barlev dice che è contrario alla preghiera, la sua polizia non sta facendo nulla per fermarla.”

Tatarsky fa anche notare che, sebbene il Ministero dell’Educazione non sia obbligato a seguire un suggerimento della Commissione per l’Istruzione della Knesset del mese scorso di includere il Monte del Tempio/Haram al-Sharif nei viaggi obbligatori per gli studenti delle scuole israeliane, la proposta è “al vaglio.”

Azzam al-Khatib, il capo di Waqf di Gerusalemme, ha detto che la posizione della fondazione islamica sui recenti sviluppi è “molto chiara.”

Queste incursioni violano le condizioni religiose, legali e politiche esistenti dal 1967,” dice. “È inaccettabile e contrario alle norme internazionali profanare in tal modo le moschee [del complesso].” Al-Khatib concorda che la percentuale degli ingressi degli ebrei è cresciuta sotto il nuovo governo Bennett-Lapid e che le preghiere avvengono apertamente, con scarso o nessun intervento da parte della polizia anche quando il Waqf lo richiede. L’attuale situazione è “senza precedenti,” dice.

Per ora i fedeli ebrei continuano ad accedere al complesso mentre la tensione continua a salire.

Il 21 novembre, Fadi Mahmoud Abu Shkheidem, un abitante del campo profughi di Shu’afat a Gerusalemme e presunto affiliato ad Hamas, il gruppo islamista palestinese, ha aperto il fuoco presso uno degli ingressi della moschea Al-Aqsa nella Città Vecchia uccidendo un israeliano e ferendone gravemente altri tre. Lo sparatore è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane.

L’episodio ha portato a ulteriori inasprimenti e controlli israeliani degli abitanti palestinesi della città, seguiti dalla richiesta di un aumento della sicurezza nella zona, oltre a una richiesta da parte del ministro delle Comunicazioni Yoaz Hendel [del partito di destra “Nuova Speranza”, una scissione del Likud, ndtr.] di riconsiderare l’installazione dei metal detector all’ingresso della moschea di Al-Aqsa. L’ultima volta che Israele ha tentato di farlo i palestinesi hanno condotto una campagna di disobbedienza di massa che ha costretto Israele a rimuoverli.

Baker Zoubi è un giornalista originario di Kufr Misr [cittadina arabo-israeliana, ndtr.] che attualmente vive a Nazareth [città arabo-israeliana, ndtr.]. Baker lavora nel giornalismo dal 2010, inizialmente come reporter per organi di stampa arabi locali e poi come direttore del sito web Bokra. Oggi collabora anche come ricercatore e redattore per programmi televisivi sui canali Makan e Musawa [canali televisivi israeliani in arabo, ndtr.]. Sulla sua pagina Facebook scrive e posta vari editoriali di politica e temi sociali relativi alla società palestinese. Recentemente ha anche cominciato a scrivere per Local Call. [edizione di +972 in ebraico, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La commemorazione dell’assassinio di Rabin in un crescendo di odio e istigazione.

 

Adnan Abu Amer

25 ottobre 2021 – Middle East Monitor

 

Gli israeliani commemorano il 26° anniversario dell’assassinio dell’ex primo ministro Yitzhak Rabin. Questa commemorazione avviene in una situazione senza precedenti di drastica polarizzazione con reciproci scambi di accuse. Inoltre negli ultimi tempi si levano voci che esprimono la loro paura di un ritorno alla stessa atmosfera di istigazione [alla violenza, ndt] che precedette l’assassinio: il primo del suo genere nella storia di Israele.

Pochi giorni fa in Israele si sono tenuti alcuni eventi per commemorare questo anniversario alla presenza di molte personalità politiche le quali hanno convenuto che qualsiasi israeliano che abbia vissuto la notte dell’omicidio di Rabin non dimenticherà mai quel momento. Fu uno shock che nessuna parola può descrivere, poiché un ebreo aveva ucciso un altro ebreo. Inoltre Rabin era rappresentato, per molte generazioni di israeliani, dall’immagine caratterizzante della sua irruzione nella moschea di Al-Aqsa durante la guerra del 1967.

Un sondaggio sulle opinioni di molti israeliani nel commentare questo ricordo ha mostrato che dopo tutti questi anni è come se gli israeliani si vendicassero gli uni degli altri: l’odio e la divisione tra di loro stanno aumentando. Potrebbero persino perdere lo stesso Israele a causa di tutto questo. È vero che gli israeliani mettono tutti i loro sforzi nel rafforzare la sicurezza di Israele dall’esterno, ma non si rendono conto che stanno per perdere il loro stato dall’interno.

L’anniversario dell’omicidio di Rabin lancia un avvertimento agli israeliani su come dovrebbe essere il dibattito tra destra e sinistra, quali sono i limiti di questo dibattito e le sue linee rosse: in sostanza, senza arrivare ad alzare le mani gli uni sugli altri. Rabin non era di sinistra quando è stato assassinato ma, piuttosto, era qualcuno che comprendeva i pericoli di uno stato binazionale con i palestinesi, quindi si affrettò a fare un accordo con loro. Le istigazioni [alla violenza, ndt] sono oggi molto simili a quelle a cui Israele assistette alla vigilia del suo assassinio, perché gli istigatori stanno usando lo stesso vocabolario e la stessa terminologia.

Quanto ai membri della destra israeliana, accusano coloro che commemorano l’assassinio di Rabin di mettere in piedi un circo politico. È vero che si astengono dal chiamarlo traditore – come gli estremisti della destra lo avevano accusato di essere all’epoca – ma sono d’accordo nell’affermare che la sua posizione politica rispetto ai palestinesi era sbagliata. Contemporaneamente vi sono odio dilagante, divisione e discorsi volgari contro gli avversari politici.

Inoltre la destra israeliana considera la commemorazione dell’assassinio di Rabin un’occasione per attaccare coloro che lo commemorano. Questo ha spinto alcuni dei suoi leader a boicottare la commemorazione; ciò ha reso evidente che non esiste una linea di demarcazione netta tra legittime dichiarazioni politiche e affermazioni incendiarie che potrebbero portare all’assassinio politico; inoltre screditare qualsiasi opposizione israeliana alla politica del governo in carica può condurre ad effetti negativi tra le masse israeliane e spianare la strada verso altri crimini politici.

Ventisei anni dopo l’assassinio di Rabin la società israeliana è più divisa che mai e le istigazioni [all’odio, ndt] intestino hanno raggiunto nuove vette. Il periodo seguente all’assassinio è considerato uno dei momenti più drammatici della storia di Israele. Quando Rabin fu trasferito in ospedale in condizioni critiche, gli israeliani speravano in due cose: che Rabin sopravvivesse e che l’assassino non fosse ebreo, ma tutte le loro speranze furono spazzate via.

Yigal Amir, l’assassino di Rabin, era un nazionalista estremista a cui era stato fatto il lavaggio del cervello. Credeva che uccidere Rabin avrebbe seppellito il processo di accordo con i palestinesi e salvato Israele dalle conseguenze catastrofiche che ciò avrebbe comportato. Ha continuato a crederlo anche quando era dietro le sbarre ed è per questo che è stato considerato uno dei più pericolosi assassini politici della storia moderna.

L’assassinio di Rabin e, 6 mesi dopo, la sconfitta alle elezioni del suo successore, Shimon Peres, a favore di Netanyahu hanno portato al crollo del processo di Oslo, con Israele che è passato a destra e vi è rimasto per un quarto di secolo. Oggi, mentre Israele celebra la memoria di Rabin, le istigazioni della destra del Likud e di altri partiti, che portarono all’assassinio di Rabin, non si sono fermate. Al contrario sono aumentate le segnalazioni dei servizi di sicurezza dello Shin Bet [servizio di intelligence interno israeliano, ndtr.] di maggiori possibilità di violenza causate dalle istigazioni della destra contro il primo ministro, Naftali Bennett.

Anche gli alti funzionari della polizia israeliana non esitano a dire che questi giorni ricordano loro ciò che ha preceduto l’uccisione di Rabin. L’odio e la divisione che vediamo nelle strade sono più pericolosi di quanto non fossero in quel momento e squillano campanelli d’allarme che avvertono della possibilità di un altro assassinio politico, mentre gli attivisti del Likud vagano per le strade indossando magliette con la scritta: “Quelli di sinistra sono traditori ‘. Il figlio dell’ex primo ministro, Yair Netanyahu, ha ripetutamente twittato contro gli oppositori di suo padre, accusandoli di rappresentare una minaccia esistenziale per Israele e descrivendoli come “cattivi quanto l’Iran”.

Oggi, a più di un quarto di secolo dall’assassinio di Rabin, gli israeliani sembrano ancora più divisi tra destra e sinistra e lacerati tra sostenitori di Rabin e del processo di Oslo da lui guidato e oppositori che consideravano la consegna della terra ai palestinesi un peccato imperdonabile contro la Torah. Questo mostra quanto sia tesa l’atmosfera e come gli israeliani siano lacerati tra i due poli. In questo senso l’atmosfera attuale è molto peggio, sia a causa della velocità del collasso interno, sia perché non è più solo una divisione tra destra e sinistra, ma piuttosto tra gli individui di due campi contrapposti, il che rende la situazione più pericolosa.

È vero che metà degli israeliani sta dietro a questo campo, mentre l’altra metà lo vede come una forza distruttiva, che rappresenta una vera minaccia esistenziale per il futuro di Israele. In realtà, nessuna delle due parti è pronta a muoversi. Inoltre, in questo momento c’è una miscela tra le amare recriminazioni di questa intransigenza e la profonda crisi economica e le relative proteste in corso in tutto Israele. Questa miscela a sua volta spinge il tutto sull’orlo di un’esplosione; qualunque cosa di sinistra è una scintilla per appiccare il fuoco.

Gli eventi interni a cui Israele sta assistendo in questi giorni contribuiscono ad alimentare le proteste in tutto lo Stato. La maggior parte della violenza in Israele consiste in tentativi di investire i manifestanti, sparare gas lacrimogeni e spray al peperoncino, lancio di pietre e occasionali scontri. Pertanto l’atmosfera è molto volatile; sembra aspettare solo che qualcuno lanci un fiammifero.

Tutto ciò conferma che Israele potrebbe andare incontro ad un altro assassinio politico. La colla che univa le varie tribù israeliane in un’unica nazione non esiste più. Ciò è dimostrato dal fatto che, a seguito della lezione appresa dall’assassinio di Rabin, lo stesso Naftali Bennett è ben protetto dai servizi di sicurezza: infatti la più grande minaccia viene dalle proteste nelle strade di Israele.

Al fondo dell’anniversario dell’assassinio di Rabin giace la constatazione che le possibilità di cercare di prendere di mira qualcun altro in Israele sono in aumento. La situazione sta diventando molto scivolosa, i freni si stanno indebolendo e sembra che Israele non abbia modo di uscire da questa crisi ingestibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Non c’è destra o sinistra in Israele, solo sionismo e non sionismo

Gideon Levy |

17 ottobre 2021 – Haaretz

La scorsa settimana Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la solidità della nuova coalizione israeliana. L’editorialista di Haaretz Carolina Landsmann si chiede su questo sito se abbiamo a che fare con un governo ambiguo oppure con uno che ha messo allo scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il giornalista Ron Cahlili afferma che la destra ideologica e la sinistra sionista sono la stessa cosa. Tutti e due evocano una vecchia storia, quella del gatto che esce dal sacco: in Israele non c’è né sinistra né destra. L’unica divisione ideologica è tra sionisti, vale a dire quasi tutti, e non sionisti, molto meno numerosi.

La cancelliera può quindi tranquillizzarsi. Quando è stato formato l’attuale governo non è avvenuto nessun miracolo e la Germania non ha nulla da imparare da esso. Non c’è stata nessunacontingenza politica”, per usare la frase coniata dal primo ministro. L’attuale coalizione si mantiene facilmente poiché è una coalizione basata sul consenso, senza grandi divari tra i suoi componenti. Il Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.] (meno Netanyahu) e gli ultra-ortodossi potrebbero formare un’estesa coalizione trasversale, che rappresenti una società ampiamente trasversale.

Questo governo sarà ricordato come quello che, pur non volendolo, ha smascherato il grande inganno. È sorto sulle onde dell’odio provato nei confronti di Netanyahu, e vive (e continuerà a vivere) sulla base dell’unità di fondo dei suoi componenti. Se domani mattina Merav Michaeli [leader del Partito Laburista Israeliano e Ministra dei Trasporti nel Governo Bennett, ndtr.] sostituisse Naftali Bennett [leader del partito Nuova Destra e attuale primo ministro israeliano ndtr.], non si verificherebbe alcun terremoto. A parte qualche cambio di stile, Israele resterebbe uguale a quello di prima.

Il presunto incarico epocale del primo primo ministro nazional-religioso non è foriero di cambiamenti. Non perché Bennett abbia tradito la sua ideologia, ma perché questa situazione concorda sorprendentemente bene con le posizioni delle componenti di sinistra di questo governo.

Non è che la sinistra sionista sia di destra, o che la destra ideologica abbia tendenze di sinistra. E non sono tutti degli opportunisti, il che sarebbe il segno della morte dell’ideologia. Al contrario, Israele ha un’ideologia, eccome! Un’ideologia dominante che mette in ombra tutto il resto. Si chiama sionismo ed è la religione che dirige e unifica la nazione. (Quasi) tutti sono sionisti e tutti credono nella supremazia ebraica su questo Paese, compresi i territori che esso occupa.

Sinistra e destra sono uguali nel loro culto delle Forze di Difesa Israeliane [esercito israeliano, ndtr.] e dello Shin Bet [l’agenzia interna d’intelligence dello Stato israeliano, ndtr.], il cui ruolo è il mantenimento del regime della supremazia ebraica sopprimendo ogni opposizione ad esso. Quando il nuovo capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha affermato che il servizio di sicurezza è il bastione della democrazia, aveva ragione. Proprio come la Stasi [organizzazione di sicurezza e spionaggio della ex Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], il ruolo di Bar è quello di sostenere il regime che, nel linguaggio dello Shin Bet e del popolo, è chiamato democrazia, piuttosto che tirannia ebraica.

Non c’è un membro di questa coalizione che stia pensando di porre fine all’occupazione, che la pensi diversamente sull’Iran anche l’assedio di Gaza è consensuale. Questo vale anche per le IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndtr.] e per l’operato di insediamento coloniale in corso. Pertanto, non c’è nulla di sorprendente nel silenzio degli agnelli: nel loro intimo, tutti vogliono l’occupazione.

Le differenze sono nella confezione. La sinistra vuole avere un aspetto migliore, motivo per cui i suoi rappresentanti occasionalmente si recano presso il quartier generale palestinese della Muqata a Ramallah, sollevando eventualmente anche una proposta alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] riguardo ai pogrom in Cisgiordania. Non molto di più.

L’attuale governo ha scompaginato la mappa politica. Da questo momento in poi dobbiamo affermare la verità: non ci sono veri divari tra i sionisti. I non sionisti sono pochi, quasi tutti non ebrei, tutti privi di legittimazione. Ci sono differenze tra gli Haredi [gli ebrei ultra ortodossi, ndtr.] e gli ebrei laici, e divari tra gli ebrei Ashkenazi [discendenti degli ebrei provenienti dall’Europa centrale e orientale, ndtr.] e Mizrahi [gli ebrei provenienti dai Paesi del mondo arabo, ndtr.], ma i cliché su una polarizzazione in questa nazione sono vuoti e privi di significato. L’unico abisso si trova tra i sostenitori della supremazia ebraica e i loro oppositori. Ecco perché la maggior parte dei cittadini arabi del Paese non fa parte di questo gioco. Ecco perché Israele si sta avvicinando al momento della verità. Si relaziona con le proprie fondamenta nei termini di uno Stato ebraico in una terra con due popoli, esponendo la sua vera immagine in tutta la sua nudità.

Chi avrebbe mai creduto che un governo esplicitamente non ideologico che cerca di fuggire da tali argomenti come da un incendio sarebbe stato il primo governo a rivelare la verità? E la verità è che non sono molti i Paesi in cui l’ideologia appaia ancora così importante; non ci sono democrazie con una ideologia unica tirannica e dominante. Israele è uno Stato sionista proprio come l’Unione Sovietica era uno Stato comunista. Anche lì non è stato difficile mettere insieme un governo di comunisti moderati ed estremisti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele non può essere accusato di niente

Israele non può essere accusato di niente, grazie alla narrazione della cultura dell’hasbara della vittimizzazione ebraica.

L’etnocentrismo ha devastato la cultura politica ebraica.

Yakov Hirsch

20 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Il mio lavoro si concentra sulla cultura dell’hasbara: la costruzione sociale di una realtà alternativa che si centra sulla vittimizzazione del popolo ebraico che ha poco a che vedere con il mondo reale. Ma, nonostante le idee della cultura dell’hasbara siano a-storiche, i suoi concetti e discorsi sull’odio contro gli ebrei sono ora un’opinione diffusa nella cultura politica ebraica e americana. E ciò ha avuto parecchie conseguenze disastrose per il mondo in cui viviamo.

Hasbara è la parola israeliana per propaganda, e la cultura dell’hasbara sostiene che l’antisemitismo è un odio unico che va collocato in una categoria differente dalle altre forme di odio. E i guardiani della narrazione della vittimizzazione fanno tutto il necessario per continuare a mantenere questa prospettiva. In un editoriale del 2009 sul NYT riguardo ai “timori di Israele” Jeffrey Goldberg ha espresso perfettamente la prospettiva della cultura dell’hasbara riguardo all’antisemitismo “eterno”:

“L’antisemitismo è un odio sui generis che è mutevole, impermeabile alla logica ed eterno.”

È impossibile comprendere il mondo attuale senza prima capire la grande lotta della cultura dell’hasbara contro questo “odio sui generis”. I proseliti della cultura dell’hasbara sottolineano eventi della storia ebraica per trasmettere la convinzione che tutto il mondo sia ossessionato, e sempre lo sia stato, dall’eliminazione degli ebrei, arrivando fino ad oggi con l’esistenza dello Stato ebraico.

La prospettiva vittimistica di Yair Rosenberg non riflette il mondo reale. Come ho dimostrato nel mio ultimo articolo, la nuova serie di video di Rosenberg “per spiegare l’antisemitismo” ascrive agli eventi uno scorretto “significato” più ampio. Gli esseri umani, i loro pensieri e motivi individuali non sono come i sostenitori della cultura dell’hasbara di solito interpretano il mondo. I sostenitori della cultura dell’hasbara sono alla continua ricerca di quel “significato più ampio”.

Nel suo video “Al di là di sinistra e destra” Yair Rosenberg sostiene che l’antisemitismo continua a prosperare oggi perché persone di destra come di sinistra tendono a vigilare contro il fanatismo antiebraico solo quando proviene dai loro nemici politici. La voce narrante afferma che si capisce perché ciò avvenga.

“È molto più difficile parlarne quando l’intolleranza viene dai tuoi amici e alleati.” Con chi riesci a provocare dei cambiamenti, chiede: con i tuoi amici o con i tuoi nemici? Nella tua comunità o in quella di qualcun altro? Quindi, mentre la destra denuncia l’antisemitismo nella sinistra e la sinistra denuncia quello di destra, esse non condannano gli intolleranti della propria parte politica.

Nell’immaginario della cultura dell’hasbara quello che gli storici chiamano “essere antisemita” è un’incessante persecuzione degli ebrei. E di conseguenza gli ebrei devono essere protetti. Questo è il ruolo e il dovere che si sono assunti i giornalisti della cultura dell’hasbara. E, dato che secondo la cultura dell’hasbara il popolo ebraico e ora Israele sono eternamente vittime, diventano anche eternamente innocenti.

Il risultato di questa innocenza “fuori dalla storia” è che ora diventa “comprensibile” qualunque odio e razzismo che provenga dalla comunità ebraica.

Prendete in considerazione l’opinione di Yair Rosenberg sull’ ‘imbarazzante’ politica israeliana Miri Regev, ex-ministra della Cultura di Benjamin Netanyahu. Secondo Rosenberg l’estremismo di destra di Regev è comprensibile a causa dei tweet antisemiti che egli ha trovato su Twitter.

“Miri Regev è una dei ministri di Israele più di destra, demagogica e imbarazzante, ma menzogne inquietanti come queste sul potere malvagio di Israele aiutano la gente come lei ad essere eletta.”

E non si tratta solo di Rosenberg. Tutta una generazione di giornalisti della cultura dell’hasbara ha imposto a forza al mondo reale la sua prospettiva vittimistica: l’antisemitismo eterno rende comprensibile qualunque cosa Israele e i suoi sostenitori dicano. Prendete in considerazione la reazione di Jeffrey Goldberg [giornalista USA, ndtr.] all’accoglienza estasiata che l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] ha riservato a Donald Trump nel 2016:

“Quanti di voi sono sorpresi che un pubblico filo-israeliano abbia apprezzato un discorso filo-israeliano di Donald Trump dovrebbero smettere di essere sorpresi.”

Quello a cui dovrebbe rispondere Jeffrey Goldberg se gli venisse chiesto è: “Perché la gente dovrebbe smettere di manifestare sorpresa riguardo all’entusiasmo delirante del pubblico dell’AIPAC per Donald Trump? Quello che Goldberg dovrebbe dire è la differenza tra il pubblico dell’AIPAC e la solita folla seguace di Trump che Goldberg ha passato anni a condannare incessantemente. Perché Goldberg sta concedendo un’approvazione a un’organizzazione ebrea filo-israeliana che non attribuirebbe a un’altra aggregazione favorevole a Trump? Dov’è finito il suo usuale moralismo?” La sua risposta a questa domanda spiegherebbe parecchio.

Tutto ciò che deve avvenire per dare un senso al mondo è che Jeffrey Goldberg risponda a questa domanda.

Si noti che Peter Beinart [noto intellettuale e commentatore ebreo americano, ndtr.] non ha nessun problema a condannare quello stesso evento. Come ho già sostenuto, l’importanza culturale di Peter Beinart è che egli è il giornalista ebreo più influente senza che abbia una prospettiva vittimistica.

Il discorso della politica estera è pieno di esempi di come la prospettiva vittimistica modelli il mondo. Come Bret Stephens ha spiegato ai lettori del New York Times perché sembrava che Israele stesse per annettere i territori? Ha detto che la mano di Netanyahu era stata forzata dalle critiche globali contro Israele.

Naturalmente, secondo la prospettiva vittimistica di Stephens, annettere i territori è “comprensibile”.

Questa prospettiva vittimistica rende legittima qualunque cosa abbia fatto Netanyahu. Ho già denunciato ad alta voce quanti collaborano con Netanyahu per fuggire dal luogo del loro delitto culturale.

Si veda questo tweet di David Frum. Frum è stato dalla parte di Netanyahu contro il giornale [israeliano] progressista Haaretz. Dopo che Chemi Shalev di Haaretz ha twittato un editoriale del New York Times in cui si sosteneva che “Benjamin Netanyahu sta schiacciando la stampa libera di Israele,” Frum ha risposto:

“Il malefico piano di Netanyahu per schiacciare la stampa? Consentire l’esistenza di un giornale che non piace alla sinistra israeliana. Proprio così.”

Il lungo regno di Netanyahu non può essere compreso senza prendere in considerazione la protezione culturale garantita da questi giornalisti ebrei. Non era Jeffrey Goldberg l’esperto numero 1 al mondo su Israele e Netanyahu quando Obama e Kerry erano apparentemente così anti-israeliani? Dov’è andato? Chi meglio di Goldberg per spiegare come sia possibile che il corrotto uomo forte sacro della cultura dell’hasbara sia arrivato in un attimo a diventare dittatore degli ebrei? Ma, come previsto, una volta diventato capo-redattore dell’Atlantic [rivista USA progressista di cultura e politica estera, ndtr.]  sotto Trump, Goldberg ha perso ogni interesse in Israele e nelle questioni ebraiche che gli hanno fatto fare carriera.

Vediamo qualche altra azione “comprensibile” degli israeliani. Secondo la cultura dell’hasbara è comprensibile che gli ebrei israeliani lincino arabi. Leggete solo l’articolo di Jeffrey Goldberg del 2012 “Un quasi linciaggio a Gerusalemme”, in cui ha richiamato all’ordine la giornalista del NYT Isabel Kershner per aver definito “linciaggio” un’imboscata di ebrei contro un arabo. Ancora una volta, in base alla cultura dell’hasbara l’attacco contro arabi innocenti è comprensibile.

“Questo tipo di cose non sono realmente una novità. Avendo scritto un articolo sul corteo funebre di Meir Kahane, il rabbino razzista assassinato a New York più di 20 anni fa, posso testimoniare il fatto che teppisti ebrei, molti dei quali provenienti dai quartieri più poveri di Gerusalemme (e molti che sono discendenti di ebrei fuggiti o espulsi da Paesi arabi), si sono periodicamente scagliati contro arabi innocenti. Lo hanno fatto durante il funerale e in incidenti successivi.”

Notate il sottotesto: dopotutto questi ebrei provenivano da quartieri poveri e molti di loro erano discendenti di ebrei che fuggirono, o furono espulsi, da Paesi arabi. Quindi la loro vendetta è naturale.

Sono questo offuscamento e oscurantismo che DEVONO portare ai pogrom contro gli arabi che da allora sono diventati eventi quasi settimanali.

Il punto di vista della cultura dell’hasbara sull’innocenza di Israele di fronte all’eterno antisemitismo è la ragione per cui l’onesto Rosenberg e altri combattenti contro l’odio sono rimasti in silenzio mentre l’epoca dell’odio da anni ’30 si ripeteva di fronte a tutto il mondo. Il loro discorso vittimistico porta alla totale impunità e immunità di Benjamin Netanyahu. Si legga questo tweet di Eli Lake:

“Fantastico articolo di @LahavHarkov [giornalista israeliana del Jerusalem Post, ndtr.] su Tablet riguardo alla disponibilità di Israele nei confronti dei regimi autoritari e alla complicata posizione in cui mette lo Stato ebraico. Lo consiglio caldamente.”

C’è da meravigliarsi che Netanyahu sia andato in giro per il mondo a distribuire programmi di spionaggio informatico a regimi reazionari? I giornalisti della cultura dell’hasbara gli coprono le spalle. Secondo la prospettiva vittimistica Netanyahu è in una “posizione difficile” e cerca di proteggere Israele. Qualunque cosa Netanyahu abbia fatto è diventata “comprensibile” e nessuno lo sa più di Netanyahu. Come ho sostenuto, questo è stato il segreto del suo successo.

E dalla prospettiva della vittimizzazione ebraica Israele non può essere accusato di niente. Perché? Perché essere troppo duri con Israele “rafforzerà” gli antisemiti e provocherà il rischio della distruzione di Israele. Si veda questo tweet di Rosenberg per capire come la cultura dell’hasbara risponda alle accuse di apartheid contro Israele. Secondo la dottrina della cultura dell’hasbara, “la progressione dei tweet affatto sorprendente” è il passaggio da “Israele è colpevole di apartheid” all’idea che “l’Olocausto non ci sia mai stato”.

È proprio così? Quelli di noi che vivono nel mondo reale sanno che sono stati i soldi e la cultura dell’hasbara di Sheldon Adelson [miliardario ebreo statunitense, ndtr.] che hanno dettato la politica di Trump riguardo a Israele, per non parlare della costante pressione di suo [di Trump] genero a favore di Israele. Questo è un altro esempio del fatto che Israele e il popolo ebraico sono stati tolti dalla storia, come ho scritto nel mio ultimo articolo.

Quindi perché la cultura dell’hasbara pensa che così tanti ce l’abbiano e sempre ce l’avranno con il popolo ebraico? O, come dice Bari Weiss [giornalista del Wall Street Journal, del NYT e di Die Welt, ndtr.], perché “tutti odiano gli ebrei”?

La risposta della cultura dell’hasbara è che il popolo ebraico è migliore di qualunque altro popolo. Yair Rosenberg descrive quanto sia eccezionale il popolo ebraico.

“Nessuno che conosca gli ebrei rimarrà sorpreso che Israele abbia definito la protesta come un diritto fondamentale che è consentito persino durante un lockdown d’emergenza.”

È così che due anni fa Bari Weiss ha detto a Jake Tapper [noto giornalista televisivo USA, ndtr.] nel [centro culturale ebraico, ndtr.] 92d Street Y:

“La nostra unicità è ciò che continua a far impazzire la gente.”

L’etnocentrismo che si nota in questo articolo ha devastato la cultura politica ebraica. E non c’è una lotta ebraica più importante che smentire questa sacra prospettiva vittimista della cultura dell’hasbara.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele consente in sordina agli ebrei di pregare nel complesso di Al Aqsa: rapporto.

24 agosto 2021 – Al Jazeera

Il NYT informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al- Aqsa, alimentando il timore di modifiche allo status quo del luogo sacro.

Il New York Times informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, noto agli ebrei come il Monte del Tempio, nella Gerusalemme occupata, con un’iniziativa che rischia di modificare lo status quo del luogo.

In un articolo pubblicato martedì il Times afferma che il rabbino Yehudah Glick ha fatto “ben poco per nascondere le sue preghiere” e le ha persino diffuse in diretta video.

L’area è all’interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e fa parte del territorio che Israele ha conquistato nella guerra del 1967 in Medio Oriente. Israele ha occupato [in realtà ha annesso, ndtr.] Gerusalemme est nel 1980, con un’iniziativa che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Dal 1967 la Giordania e Israele hanno concordato che il Waqf, fondazione islamica, avrebbe avuto il controllo su questioni relative al complesso, mentre Israele si sarebbe occupato della sicurezza esterna. Ai non musulmani sarebbe stato consentito di entrare nel luogo durante gli orari di visita, ma non di pregarvi.

Secondo il Times, Glick, nato negli USA ed ex- deputato di destra, da decenni guida i tentativi di modificare lo status quo e afferma di definire i suoi tentativi come una questione di “libertà religiosa”.

Anche altri movimenti in ascesa, come quello del Devoto del Monte del Tempio e l’Istituto del Tempio, hanno sfidato il divieto del governo israeliano agli ebrei di entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

L’accordo formale in vigore, accettato da Giordania e Israele, intende evitare conflitti nel luogo particolarmente delicato.

Ma le forze israeliane consentono regolarmente a gruppi, a volte centinaia,  di coloni ebrei che vivono nei territori palestinesi occupati di affollare il complesso di Al-Aqsa con la protezione della polizia e dell’esercito, diffondendo tra i palestinesi il timore che Israele si impossessi del sito.

Nel 2000 il politico israeliano Ariel Sharon entrò nel luogo sacro accompagnato da circa 1.000 poliziotti israeliani. Il suo ingresso nel compound scatenò la Seconda Intifada, nella quale vennero uccisi più di 3.000 palestinese e circa 1.000 israeliani.

Nel 2017 il governo israeliano installò metal detector agli ingressi del luogo, cosa che portò a gravi scontri tra i palestinesi e le forze israeliane.

A maggio le truppe israeliane hanno fatto irruzione varie volte nella moschea di Al-Aqsa, e l’escalation che ne è seguita ha portato all’attacco israeliano di 11 giorni contro la Striscia di Gaza assediata.

“Non bloccateli più”

Secondo Glick la politica ha iniziato a cambiare sotto il governo dell’ex-primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha guidato partiti di estrema destra ed è stato uno strenuo alleato del presidente USA Donald Trump.

“Glick dice che cinque anni fa la polizia ha iniziato a consentire a lui e ai suoi sostenitori di pregare sul monte in modo più palese,” afferma l’articolo del Times.

Benché questa politica non sia mai stata ampiamente pubblicizzata per evitare reazioni, il numero è stato “incrementato in sordina.”

Nonostante gli accordi in vigore, in realtà “ogni giorno decine di ebrei ora pregano apertamente in un luogo appartato del lato orientale del sito, e i poliziotti israeliani che li scortano non cercano più di impedirglielo,” racconta il Times.

Israele limita già l’ingresso dei palestinesi nel complesso in vario modo, tra cui il muro di separazione, costruito negli anni 2000, che riduce l’afflusso di palestinesi dalla Cisgiordania occupata all’interno di Israele.

Dei circa 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania viene consentito l’accesso a Gerusalemme di venerdì [giorno di preghiera per i musulmani, ndtr.] solo a quelli al di sopra di una certa età, mentre altri devono presentare richiesta alle autorità israeliane per avere un permesso molto difficile da ottenere.

Le restrizioni provocano già gravi ingorghi e tensioni ai checkpoint tra la Cisgiordania e Gerusalemme, dove in centinaia di migliaia devono passare attraverso controlli di sicurezza per entrare nella moschea e pregare.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestinesi d’Israele. Un duro colpo al mito della “coesistenza”

GRÉGORY MAUZÉ

29 luglio 2021 – Orient XXI

Un partito arabo, il Raam, ha contribuito alla formazione del governo israeliano che in buona misura continua le pratiche di apartheid e la colonizzazione. Le mobilitazioni della primavera scorsa in solidarietà con Gerusalemme est e Gaza hanno tuttavia ricordato la solidità dei rapporti che uniscono tutte le componenti del popolo palestinese.

Il ruolo cruciale giocato dai palestinesi di Israele nella recente crisi ha fatto vacillare molte certezze. Cittadini di serie B, con le loro mobilitazioni hanno evidenziato la situazione di discriminazione materiale e simbolica che colpisce i discendenti degli autoctoni rimasti sulla propria terra quando venne creato Israele. La fiammata di violenza nelle città cosiddette “miste” ha fatto esplodere il mito di una coesistenza armoniosa tra comunità che in realtà non è mai stata pacifica per il gruppo dominato.

Soprattutto ha ricordato le somiglianze tra la loro condizione e quella del popolo palestinese nel suo complesso. Sheikh Jarrah, Al-Aqsa, Gaza: i riferimenti all’oppressione subita nei territori occupati erano sulle bocche di tutti. Questa dinamica di solidarietà, inedita dallo scoppio della Seconda Intifada, è culminata con il grande “sciopero per la dignità” del 18 maggio 2021 dei lavoratori palestinesi, molto partecipato da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.]. Ha sanzionato l’incapacità israeliana di risolvere il problema palestinese all’interno delle proprie frontiere riconosciute. Fin dalla sua creazione quest’ultimo di fatto si è impegnato a reprimere l’affermazione nazionale dei suoi cittadini palestinesi, significativamente definiti “arabi israeliani” per cancellare l’origine colonialista dell’oppressione a cui si trovano di fronte.

Esatto contrario

Questo ritorno imprevisto della centralità della causa nazionale nella minoranza palestinese contrasta con una dinamica quasi simmetricamente opposta all’interno della sua classe politica.

All’inizio del 2021 la Lista Unita, coalizione che dal 2015 raggruppava in modo intermittente i partiti che rappresentano gli interessi della minoranza araba nel parlamento israeliano, è stata indebolita dall’uscita del partito islamista Raam. Infatti il suo leader, Mansour Abbas, ha manifestato in modo sempre più esplicito il suo desiderio di rompere con quello che cementava questa eterogenea alleanza: il legame tra la lotta per i diritti dei palestinesi nei territori occupati e di quelli di Israele. Questi ultimi, ritiene Mansour Abbas, dovrebbero ormai pensare soprattutto a difendere i propri interessi. Liberati dal peso morto che rappresenterebbe la causa palestinese, potrebbero allora prendere in considerazione una collaborazione promettente con una destra nazionalista che, per quanto colonialista e suprematista, è tuttavia stabilmente al potere. Ultima trasgressione, Mansour Abbas ha manifestato in modo evidente la sua complicità con Benjamin Netanyahu, proponendo il suo partito come perno del gioco politico israeliano.

Se questo approccio ha rappresentato un punto di rottura per i suoi ex-alleati, è stato accolto a braccia aperte dal mondo politico e mediatico israeliano. “Mano a mano che la causa palestinese svanisce nel mondo arabo, essa si attenua anche tra gli arabo-israeliani,” scriveva entusiasticamente nel 2020 il Times of Israel [quotidiano israeliano on line in lingua inglese, ndtr.]. Dopo gli accordi di normalizzazione avvenuti qualche mese prima tra Israele e varie monarchie del Golfo, sarebbero dunque i cittadini palestinesi di Israele a dimostrare a loro volta il proprio “pragmatismo”.

Nella posizione di persona decisiva in seguito alle elezioni del 23 marzo 2021, Abbas ha continuato a centrare le proprie esigenze sugli interessi della “sua comunità”, evitando ogni riferimento alla questione palestinese nel suo insieme. Salvo i suprematisti del Partito Sionista Religioso, la classe politica [ebreo-israeliana, ndtr.] ha allora salutato, secondo le parole di un ministro della coalizione di Benjamin Netanyahu, “la vera voce degli arabo-israeliani”. “Una rivoluzione politica,” ha persino intitolato Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.], che ha esortato la popolazione ebraica ad accettare la mano tesa.

L’unità palestinese manifestata durante le rivolte di maggio e aprile non ha impedito a Mansour Abbas e al suo partito, che si sono dissociati per quanto possibile dalle mobilitazioni, anche da quelle pacifiche, di essere conseguenti con la loro logica. La polvere dei bombardamenti a Gaza si era appena depositata quando essi hanno contribuito in modo decisivo alla conclusione di un accordo di governo destinato ad allontanare Netanyahu dal potere. Come previsto, nessuna citazione della questione palestinese da parte sua, ma un piano sostanzioso di investimenti nelle località arabe, il riconoscimento di una manciata di villaggi beduini nel Negev e una sospensione temporanea della distruzione di edifici costruiti senza permesso. In modo altrettanto prevedibile, questa collaborazione arabo-sionista è stata considerata dai commentatori politici un segno dell’apertura della società israeliana e della vitalità della sua democrazia.

Persistenza dell’apartheid

Tra i palestinesi le reazioni sono state nettamente meno entusiastiche. La debole speranza di vita di questo governo, che va dalla sinistra sionista all’estrema destra annessionista, fa sorgere dubbi sul conseguimento effettivo di misure a favore degli arabi, tanto più che esso è in un primo tempo diretto dall’araldo della corrente messianica suprematista ebraica, Naftali Bennett. Cosa ancora più importante, molti hanno criticato l’assenza di risposte alle cause profonde delle diseguaglianze razziali in Israele. Rimangono in vigore norme discriminatorie strutturali come legge sullo Stato-Nazione del 2018, che relega le minoranze non ebraiche in una condizione di secondo piano, o della legge sulla Nakba del 2011, che impedisce di commemorare la grande espulsione dei palestinesi durante la creazione dello Stato di Israele.

Allo stesso modo gli islamisti e la sinistra sionista hanno appoggiato con una relativa facilità il prolungamento del divieto per i palestinesi dei territori occupati di ottenere la cittadinanza israeliana grazie ai ricongiungimenti familiari.

Se l’obiettivo perseguito è l’uguaglianza, non è possibile isolare la questione degli arabi israeliani da quella palestinese nel suo complesso, dal momento che l’oppressione delle diverse componenti del popolo palestinese risponde, in misura variabile, alla stessa filosofia di apartheid,” sostiene Naim Moussa, del centro Mossawa, che promuove l’uguaglianza dei cittadini arabi [di Israele, ndtr.].

Di fatto la rivolta di piazza dei palestinesi dal Giordano al Mediterraneo conferma la constatazione ormai largamente condivisa dalle organizzazioni dei diritti umani: l’esistenza di un regime di supremazia razziale su tutto il territorio controllato da Israele. Il confinamento del 18% dei palestinesi di Israele sul 3% delle terre, l’impossibilità di ottenere un permesso edilizio o l’ebraizzazione a marce forzate da parte di coloni fanatici dei quartieri arabi riecheggiano così clamorosamente la situazione di Gerusalemme est e in Cisgiordania. Allo stesso modo la repressione spietata di queste manifestazioni, a volte con l’appoggio di ausiliari estremisti venuti dalle colonie, e l’ondata di arresti massicci che ne è seguita (più di 2.000 dall’inizio del maggio 2021) evocano i metodi contro-insurrezionali praticati nei territori occupati.

In questo contesto molti temono una risistemazione di facciata che lasci intatte le strutture istituzionali di dominazione. “Quei pochi miglioramenti ottenuti dal Raam non sono molto diversi da quelli ottenuti in modo puntuale grazie al nostro lavoro parlamentare, con la differenza che all’epoca non avevamo da pagare il prezzo del sostegno a un governo che perpetua l’occupazione, le colonie e la discriminazione razziale,” osserva Raja Zaatry, del partito comunista israeliano (Hadash), principale componente della Lista Unita.

Inoltre la tanto celebrata rivoluzione nei rapporti tra ebrei e arabi non lo è affatto. “La storia è piena di cosiddetti dirigenti palestinesi che hanno effettivamente venduto la causa del loro popolo per ottenere un vantaggio personale”, rivela il giornalista e militante Rami Younis, originario di Lod-Lydda, che ricorda la partecipazione di partiti-satellite arabi ai primi governi laburisti o la cooptazione di notabili locali sotto il regime dell’amministrazione militare [israeliana] dal 1948 al 1966.

Come all’epoca, questa collaborazione tra élite senza dubbio non si rifletterà sui rapporti intercomunitari nella società. L’inclusione di Raam è innanzitutto il risultato di un’aritmetica parlamentare che lo ha reso indispensabile. È quindi poco suscettibile di cancellare anni di incitamento all’odio contro la minoranza araba da parte di quegli stessi che oggi incensano l’atteggiamento di Abbas. Del resto, con quattro seggi, il suo partito è certo il primo della sua comunità se si contano separatamente i sei ottenuti dalla Lista Unita, ma nel contesto di un tasso record d’astensione delle località arabe (55,4% contro il 33,6% nel 2020), in grande misura provocato dalla divisione della rappresentanza politica palestinese. Perché l’iniziativa di Abbas ha soprattutto segnato una battuta d’arresto del processo di affermazione di una forza parlamentare palestinese autonoma. Il successo clamoroso della Lista nel 2020 l’aveva in effetti portata a 15 seggi e ridotto i voti arabi per i partiti sionisti al 12%, il livello più basso da sempre, fornendole un’attenzione inedita. Al contrario, la sua scissione nel 2021 consente di opporre con poco sforzo gli “arabi buoni”, che aspirano a partecipare nel posto che gli compete al sogno israeliano, senza rimettere in discussione le disuguaglianze strutturali e il razzismo, agli “arabi sleali”, che reclamano diritti in quanto minoranza nazionale.

Scetticismo riguardo alle elezioni

Peraltro non è detto che la sequenza imposta dalla piazza palestinese favorisca la Lista Unita. Lo scoppio delle rivolte d’aprile e maggio fuori da qualunque quadro centralizzato costituisce di fatto una sconfessione generale per la classe politica palestinese, che fa eco al divorzio tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le mobilitazioni nate spontaneamente in Cisgiordania. A questo riguardo è significativo che le città “miste” nelle quali si sono prodotte siano anche quelle in cui la popolazione araba ha maggiormente disertato le urne il 23 marzo 2021.

Queste mobilitazioni spontanee testimoniano pertanto un profondo scetticismo quanto all’efficacia della partecipazione palestinese al gioco politico israeliano. “I palestinesi si sono fortemente mobilitati nel 2020 per porre la Lista Unita in terza posizione e con il suo risultato migliore unicamente per essere poi rifiutati dal sistema,” spiega Amjad Iraqi sul sito +972 Magazine, in riferimento al dialogo abortito avviato nel 2020 per affrettare la caduta di Netanyahu tra il capo dell’opposizione Benny Gantz e Ayman Odeh, dirigente di Hadash. L’ambizione di quest’ultimo di far progredire una collaborazione ebreo-palestinese basata sull’inclusione della questione palestinese in senso lato e l’impegno a combattere le disuguaglianze nel loro complesso si è scontrata con la persistente ostilità della maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

Mansour Abbas ha fatto lo stesso errore di Ayman Odeh. Questi ultimi 3 anni sono stati un esame per i nostri rappresentanti politici, e purtroppo hanno fallito due volte,” sostiene Rawan Bisharat, militante originaria di Giaffa ed ex-codirettrice dell’associazione per il dialogo ebraico-arabo Sadaka-Reut. “Il fossato tra la nuova generazione che è scesa in piazza e quella precedente che si è dimostrata incapace di comprendere l’escalation a cui abbiamo assistito è oggi evidente. La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non è più il luogo adeguato per far avanzare i nostri diritti e dovremmo prendere in considerazione in modo diverso il nostro contributo per il futuro.

La partecipazione alle elezioni rimane una leva per difendere i diritti del popolo palestinese nel suo complesso, tanto più se ci mobilitiamo in modo consistente,” confida Naim Moussa. Continuare su questa strada richiederà però di tener conto dei cambiamenti della società araba in Israele nella sua diversità. La persistenza a lungo termine delle disuguaglianze tra i più precari li rende da parte loro sensibili alle proposte, per quanto aleatorie, che consistono nel migliorare nell’immediato la loro vita quotidiana, finché non si porrà fine al regime discriminatorio che colpisce il popolo palestinese nel suo complesso.

GRÉGORY MAUZÉ

Politologo e giornalista.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il nuovo governo israeliano non è certo meglio del precedente, afferma il premier palestinese

Oliver Holmes, Gerusalemme

lunedì 14 giugno 2021 – The Guardian

Mohammad Shtayyeh condanna le dichiarazioni di Naftali Bennett a sostegno degli insediamenti coloniali israeliani

La cacciata di Benjamin Netanyahu chiude uno dei “periodi peggiori” del conflitto israelo-palestinese, ma il primo ministro palestinese ha affermato che il nuovo governo guidato da un sostenitore dei coloni, Naftali Bennett, non è certo migliore del precedente.

“Non riteniamo questo nuovo governo affatto migliore del precedente e condanniamo le dichiarazioni del nuovo primo ministro Naftali Bennett a sostegno degli insediamenti coloniali israeliani”, ha detto Mohammad Shtayyeh, riferendosi alle centinaia di migliaia di ebrei israeliani che si sono insediati nella Cisgiordania occupata.

“Il nuovo governo non durerà se non terrà conto del futuro del popolo palestinese e dei suoi diritti legittimi”, ha aggiunto Shtayyeh.

A tarda notte Bennett, ex leader di estrema destra dei coloni, si è rivolto al suo governo appena insediato sostenendo che il paese si troverebbe “all’inizio di giorni nuovi”. Il nuovo primo ministro ha escluso uno Stato palestinese e vuole che Israele mantenga il controllo in ultima istanza su tutte le terre che occupa. In precedenza aveva chiesto che Israele fosse più energico nei suoi attacchi a Gaza.

Bennett è stato a suo tempo a capo dello staff di Netanyahu e membro del suo partito Likud, ma in seguito sono divenuti agguerriti rivali. Lunedì Bennett e Netanyahu hanno tenuto una riunione di 30 minuti per il trasferimento formale del potere. Tuttavia, hanno saltato il servizio fotografico e gli auguri pubblici successivi al passaggio di consegne.

Diversi leader mondiali si sono congratulati pubblicamente con Bennett. E nonostante il governo del nuovo leader si sia esplicitamente impegnato a non compiere sforzi per porre fine all’occupazione israeliana, alcune figure all’estero hanno sottolineato nei loro messaggi di congratulazioni la necessità di perseguire la pace.

Il primo ministro canadese Justin Trudeau, ha affermato che Ottawa “rimane ferma nel suo impegno per una soluzione a due Stati, con israeliani e palestinesi che vivono in pace, sicurezza e dignità, senza paura e sotto il rispetto dei loro diritti umani”.

La Casa Bianca ha dichiarato che Joe Biden, nel corso di una telefonata con Bennett, “ha comunicato che la sua amministrazione intende lavorare a stretto contatto con il governo israeliano negli sforzi per far progredire la pace, la sicurezza e la prosperità di israeliani e palestinesi”.

In una precedente dichiarazione si affermava che il presidente degli Stati Uniti è impaziente di lavorare con Bennett, aggiungendo: “Israele non ha un amico migliore degli Stati Uniti”.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha dichiarato che sarà lieto di rafforzare il partenariato UE-Israele “per una prosperità comune e verso una pace e una stabilità regionali durature”. Il ministro degli esteri del Regno Unito, Dominic Raab, ha dichiarato: “Non vedo l’ora di continuare la cooperazione in materia di sicurezza, commercio e cambiamenti climatici e di lavorare insieme per garantire la pace nella regione”.

Bennett, 49 anni, ha prestato giuramento domenica sera dopo che il leader dell’opposizione, Yair Lapid, un centrista ex conduttore televisivo, ha conquistato la fiducia alla Knesset con un vantaggio esiguo di 60 seggi contro 59. In base a un accordo di condivisione del potere, Bennett consegnerà le redini del governo a Lapid dopo due anni.

La nuova amministrazione rompe una fase di stallo politico che ha portato dal 2019 a quattro elezioni anticipate. Durante tale periodo Netanyahu, famoso per le sue capacità politiche, è riuscito a far litigare e a dividere i suoi rivali tenendosi aggrappato al potere, anche dopo essere stato incriminato in tre casi penali di corruzione con accuse che egli nega.

Bennett guida un auto-definito “governo del cambiamento” che è un mix di politici ideologicamente opposti, da intransigenti nazionalisti religiosi ebrei a un piccolo partito islamista arabo, il cui leader, Mansour Abbas, è considerato un pragmatico.

Gli accordi di coalizione resi pubblici dichiarano che il nuovo governo si concentrerà principalmente su questioni economiche e sociali, come l’approvazione di un bilancio statale e la costruzione di nuovi ospedali, piuttosto che rischiare una lotta intestina nel tentativo di affrontare la crisi israelo-palestinese. Tuttavia Bennett in qualità di primo ministro avrà poteri esecutivi per consolidare ulteriormente l’occupazione.

Entrando a far parte della coalizione, Bennett è stato bollato come traditore da alcuni politici della destra religiosa, che lo hanno accusato di aver abbandonato la sua ideologia per unirsi a politici di “sinistra” ebrei e arabi.

Prima del voto di domenica Bennett ha dichiarato al parlamento che Israele era stato gettato in un vortice di odio e lotte intestine”.

Di fronte alle urla rabbiose di bugiardo” e criminale” da parte degli oppositori di destra, egli ha dichiarato: “È giunto l’ora che i vari rappresentanti politici, da tutta la nazione, fermino, fermino questa follia”.

Domenica sera a Gerusalemme, dopo che Netanyahu era stato rimosso dall’ incarico, migliaia di israeliani hanno riempito una piazza vicino alla Knesset sventolando la bandiera bianca e blu del Paese. Nel centro di Tel Aviv gli oppositori di Netanyahu festeggiavano recando cartelli con scritto “Ciao ciao Bibi”.

Netanyahu è stato al potere per così tanto tempo che – dopo che il voto di fiducia di domenica lo ha detronizzato – è tornato automaticamente a sedersi in un posto riservato al primo ministro. Sollecitato con discrezione da un parlamentare del suo partito, si è trasferito in un seggio destinato all’opposizione.

Il primo grande test per il nuovo governo sarà martedì, quando un corteo a cui parteciperanno nazionalisti ebrei di estrema destra marcerà attraverso i quartieri palestinesi di Gerusalemme.

La polizia israeliana aveva cambiato il percorso per evitare il quartiere musulmano della Città Vecchia, dopo che una marcia simile il mese scorso ha svolto un ruolo chiave nel dare origine alle tensioni che hanno portato all’ultimo conflitto di Gaza. Tuttavia, la marcia programmata attraverserà di nuovo la zona araba ed è vista come fortemente provocatoria.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’odio, la paura e il tradimento: l’eredità di Netanyahu

Richard Silverstein

Giovedì 3 giugno 2021 – Middle East Eye

Mentre il panorama politico è a pezzi, a Israele e ai suoi nuovi dirigenti si pone la seguente domanda: riusciranno a rimediare ai danni provocati da Netanyahu? O la sua influenza continuerà a incombere?

Mercoledì, dopo 12 anni di seguito come primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu è stato spodestato. In precedenza aveva già completato un mandato di tre anni. È il dirigente israeliano con la maggior longevità politica.

Non è ancora detta l’ultima parola, la Knesset non ha ancora confermato il nuovo governo e Netanyahu può ancora far cambiare idea ad alcuni membri di destra della coalizione di Yair Lapid [politico di centro incaricato di formare una maggioranza, ndtr.].

Negli ultimi anni si è avuta l’impressione che in Israele potesse succedere di tutto tranne la fine del regno di Netanyahu. Anche se è stato destituito, si sa già che si avrà ancora a che fare con lui. Ma a questo punto è interessante esaminare il suo regno, che non ha dato grandi risultati.

A livello nazionale ha diviso per governare meglio. Non soltanto ha demonizzato i soliti sospettati, come i partiti di sinistra e i militanti dei diritti dell’uomo – se l’è presa persino con le Ong che hanno testimoniato davanti ai tribunali dell’ONU riguardo ai possibili crimini di guerra israeliani ed ha adottato una legge che le obbliga a rivelare pubblicamente i loro finanziatori esteri -, ma ha demonizzato i suoi oppositori politici ed è andato ben oltre il semplice dissenso. Gli oppositori di Netanyahu sarebbero traditori della Nazione. Svenderebbero il Paese consentendo [la creazione di] uno Stato palestinese. Sarebbero troppo moderati verso Hamas e gli permetterebbero di lanciare di nuovo i razzi, ha affermato.

Persino nel suo stesso partito, il Likud, Netanyahu se l’è presa con suoi antichi protetti. I suoi capi di gabinetto sono noti per essere diventati i suoi più feroci avversari politici. Di fatto il futuro primo ministro, Naftali Bennett, è stato responsabile della sua campagna elettorale, come Avigdor Lieberman, che si è fatto le ossa in politica sotto Netanyahu. Persino i suoi mentori, come l’ex-presidente Reuven Rivlin, che ha contribuito a farlo arrivare al potere, erano considerati come delle minacce. Quando Rivlin si è presentato alla presidenza, il primo ministro ha condotto un’infruttuosa campagna per sabotare la sua candidatura.

Nessuna visione coerente

Netanyahu non ha un vero programma politico coerente nel quale i suoi sostenitori si possano riconoscere. Conta principalmente sull’ideologia ultranazionalista dei coloni, che si è infiltrata nella società israeliana e domina ormai le leve del potere statale. Ha costruito decine di migliaia di nuovi appartamenti nelle colonie. Durante il suo regno la pulizia etnica dei palestinesi sia in Cisgiordania che a Gerusalemme est è continuata.

Il suo obiettivo, come quello dei suoi padrini coloni, è stato distruggere ogni possibilità di uno Stato palestinese. In ciò ha avuto decisamente successo. Attualmente nessun partito politico, di quelli che si dicono di sinistra, ha fatto dei diritti nazionali dei palestinesi una priorità. Persino i politici di sinistra e di centro minimizzano queste opinioni. Pochi sostengono una soluzione a due Stati. Le uniche personalità che la propongono sono i democratici americani e i sionisti liberali ebrei americani.

Nel 2018 Netanyahu ha portato all’approvazione della Knesset la legge sullo Stato-Nazione. Essa esclude la minoranza palestinese [con cittadinanza israeliana, ndtr.] da ogni status giuridico nazionale ufficiale. L’arabo non è più una lingua ufficiale. Così Israele è diventato uno Stato degli ebrei solo per gli ebrei. I palestinesi che sono diventati cittadini di Israele nel 1948 si sono sentiti vilipesi. I loro diritti, nei limiti in cui ne hanno avuti, sono stati disprezzati. Di fatto si possono far risalire i disordini che il mese scorso si sono diffusi a macchia d’olio nelle città miste di Israele a questa legge detestata.

Nel quadro dei tentativi di lunga data per concentrare il potere nelle proprie mani, Netanyahu è riuscito a prendere il controllo della maggior parte dei media nazionali. Ha in particolare concepito accordi corrotti che ricompensavano finanziariamente i responsabili di mezzi di comunicazione in cambio di una copertura mediatica favorevole. Attualmente è imputato penalmente per tre casi distinti. Se non fosse stata formata la nuova coalizione di governo, una condanna lo avrebbe obbligato a dare le dimissioni.

Nemici esterni

Sul piano regionale la paura che Netanyahu ha generato tra gli israeliani nei confronti di nemici esterni ha creato un sentimento artificioso di coesione, cosa che gli ha consentito di unire il Paese di fronte a forze ostili. Aveva bisogno di nemici come l’Iran, Hamas ed Hezbollah per conservare la presa sull’elettorato israeliano. Ha lanciato una campagna terroristica di dieci anni contro l’Iran e quello che secondo lui sarebbe il suo tentativo di dominio sulla regione.

Ha ordinato al Mossad [servizio segreto israeliano per le operazioni all’estero, ndtr.] di sabotare il suo programma nucleare uccidendo scienziati e bombardando basi missilistiche e istallazioni nucleari. Netanyahu ha ordinato attacchi aerei contro le basi militari iraniane in Siria ed ha organizzato bombardamenti contro gli Hezbollah libanesi, uno dei principali alleati regionali di Teheran, che si battono anche a fianco delle forze governative siriane.

Nel 2014 Netanyahu ha annunciato l’operazione “Margine protettivo” ed ha invaso Gaza per porre fine al lancio di razzi contro Israele. Sono morti più di 2.300 palestinesi. Si trattava in grande maggioranza di civili. Questo attacco ha portato a un cessate il fuoco, ma non ha risolto nessuno dei principali problemi che dividono Hamas e Israele.

Il mese scorso, di fronte ai missili lanciati da Hamas come risposta alla brutalità della polizia israeliana nel complesso della moschea di al-Aqsa e in solidarietà con le famiglie palestinesi [minacciate di espulsione dalle proprie case, ndtr.] di Sheikh Jarrah [quartiere di Gerusalemme est, ndtr.], Netanyahu ha ancora una volta lanciato un’offensiva contro Gaza. Questa volta l’operazione militare è durata solo 11 giorni a causa dell’intervento del presidente americano Joe Biden. A Gaza sono morti più di 250 palestinesi, di cui 66 minorenni.

Contrariamente alle precedenti offensive, né gli israeliani né il resto del mondo sono stati convinti dalle affermazioni di Netanyahu secondo cui Israele non faceva altro che difendersi contro i razzi di Hamas. Al contrario hanno considerato gli spietati bombardamenti israeliani come atti di aggressione contro una popolazione civile. Questa guerra non aveva alcun obiettivo strategico se non aiutare a mantenere Netanyahu al potere, in quanto i suoi rivali non avrebbero osato complottare contro di lui mentre il Paese era in guerra.

Mentre il mondo si è ribellato contro Israele, gli stessi israeliani si sono stancati di questa aggressività e di questa bellicosità. Si sono ancor più stancati delle molteplici accuse di corruzione avanzate contro di lui dal procuratore generale.

L’odio in eredità

Come l’ex presidente americano Donald Trump, Netanyahu ha sempre avuto il sostegno di una irriducibile minoranza di israeliani che credono in lui qualunque cosa faccia. Ma non ha mai avuto una maggioranza. Al contrario, come Trump, la maggioranza degli israeliani non lo approvava e non si fidava di lui, ma mai in modo tale da creare un’opposizione unita in grado di scacciarlo dal potere.

Finché ha potuto è rimasto al comando, non perché fosse apprezzato, ma perché l’opposizione era frammentata e non emergeva una personalità che raccogliesse il sostegno sufficiente per cacciarlo. Ciò è dipeso in parte dal modo in cui Netanyahu ha denigrato con successo i suoi rivali e li ha presentati come una seconda scelta.

Netanyahu lascia in eredità l’odio, la paura e il tradimento. Il panorama politico è a pezzi. Israele è più diviso di quanto non sia mai stato tra ricchi e poveri, laici e religiosi, palestinesi ed ebrei, destra e sinistra. Sono il testamento di Netanyahu e la sua opera. Anche con questo nuovo governo che va al potere niente promette di riparare i danni, perché la stessa coalizione è un insieme di partiti politici con ideologie e programmi che si contraddicono.

La questione che si pone a Israele e ai suoi nuovi dirigenti è la seguente: potranno porre rimedio ai danni inflitti da Netanyahu? O la sua influenza continuerà a incombere?

Richard Silverstein è l’autore del blog “Tikum Olam” che svela gli eccessi della politica israeliana di sicurezza nazionale. Il suo lavoro è stato pubblicato su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi “A Time to speak out[Un tempo per denunciare] (Verso) dedicato alla guerra in Libano del 2006 ed è autore di un altro saggio nella raccolta Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)