L’apartheid vaccinale di Israele

Amira Hass

 

1 marzo 2021 – Haaretz

I ceppi del COVID non terranno in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

La domanda scomoda ogni giorno è: “Sei stata vaccinata?” La risposta imbarazzata è “sì.” A chiedere sono vicini e amici palestinesi, conoscenti e intervistati, residenti in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est) e nella Striscia di Gaza. Non lo fanno con l’intenzione di mettermi in imbarazzo, né tanto meno di farmi vergognare. Esprimono un interesse umano e amichevole. Di solito alla mia risposta replicano: “É fantastico.” Il disagio e l’imbarazzo derivano dal fatto che noi, cittadini di Israele, veniamo vaccinati e loro no. 

Anche se possiamo vantarci di essere primi al mondo per la vaccinazione di cittadini e residenti, resta il fatto che Israele ha escluso dalla vaccinazione circa 4,5 milioni di palestinesi, sebbene essi vivano tutti sotto il suo controllo. Il governo continua a dichiarare di non essere responsabile della loro salute. Allora va ricordato: ciascuno di quei 4,5 milioni è iscritto nel registro della popolazione palestinese controllata da Israele.

 

Che cosa si intende per controllo? È Israele a decidere chi è nel registro. Se il certificato di nascita di qualche neonato palestinese non viene convalidato da Israele, quel neonato non viene registrato. Non è sufficiente la certificazione del Ministero degli Interni palestinese per fare avere la carta di identità ad una sedicenne di Gaza, Hebron o Barta’a. Ci vuole il consenso di Israele. I funzionari del Ministero degli Interni israeliano che lavorano per l’Amministrazione Civile devono confermare i dettagli della carta di identità, che altrimenti viene considerata “contraffatta.”

 

Per favore, ditemi quale altro Paese del mondo sia “non responsabile” della salute di quelle stesse persone che ha l’autorità di riconoscere come “esistenti” oppure no.

E questo si aggiunge alle altre questioni relative ai palestinesi su cui è Israele a decidere: la quantità di acqua che consumano, le restrizioni al loro diritto di muoversi, l’entità del loro sviluppo economico, le università palestinesi in cui hanno diritto a studiare, l’estensione della terra che possono coltivare.

 

L’elenco dei settori in cui si esplica il dominio di Israele sui palestinesi “che non possono beneficiare dei nostri vaccini” è più lungo di quanto non si possa illustrare esaurientemente in questo articolo.

Eppure, come prevedibile, la vaccinazione dell’apartheid non fa scalpore in Israele. Le considerazioni morali per noi non valgono.

 

Vi siete imbattuti in qualche appello di docenti di filosofia di università israeliane che chiedano al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di vaccinare senza alcuna discriminazione l’intera popolazione che risiede in questo Paese fra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano? Avete sentito dei rabbini in Israele chiedere al governo, in nome della loro autorità spirituale, di fare in modo che l’efficace campagna di vaccinazione non trascuri nessuno?

Queste sono domande retoriche. Grazie a gruppi per i diritti umani, si è aperta un’unica crepa in quell’insensibilità: vaccineremo i palestinesi che lavorano in Israele. 

 

Per noi le considerazioni legali valgono solo se sono a nostro vantaggio, e a patto che l’unica interpretazione legale sia Ginevra-à-la-carte. [Geneva-Shmeneva nel testo di Hass – l’aggiunta del prefisso “shm” in yiddish trasforma il termine in modo da sminuirlo e/o ridicolizzarlo, ndtr]. Vale a dire che Israele non è una potenza occupante e che quindi non è vincolato dalle Convenzioni di Ginevra per quanto concerne i suoi obblighi di potenza occupante.

Anche se le organizzazioni internazionali hanno decretato l’opposto.  Quando ci viene bene, decidiamo che gli Accordi di Oslo sono vincolanti: per esempio, la clausola che l’Autorità Nazionale Palestinese è responsabile della salute degli abitanti.

Ma se ci conviene, storciamo il naso davanti al fatto che gli Accordi di Oslo avrebbero dovuti essere validi solo per cinque anni, e davanti alla clausola che vieta alle parti di stabilire fatti sul terreno in modo tale da avere un impatto sulla fase permanente.

 

L’utilitarismo sanitario ormai è l’unica cosa che sta a cuore all’ebreo medio in Israele, come dimostra la tardiva consapevolezza che i lavoratori palestinesi devono essere vaccinati. La scorsa settimana ONE – movimento internazionale di lotta alla povertà – ha affrontato il problema dell’iniqua distribuzione mondiale dei vaccini, con le Nazioni ricche che si accaparrano circa un miliardo di dosi in più del necessario, mentre quelli poveri non sono in grado di acquistarli.

“Ogni nuova infezione rappresenta una possibilità di mutazione” ha rammentato ONE nella sua dichiarazione. “Ci sono già oltre 4.000 varianti di Covid-19 e alcune varianti – come quelle sud-africana e inglese – si stanno dimostrando più contagiose di altre.

Ogni nuovo ceppo del virus presenta un aumento del rischio che la malattia evolva al punto da rendere inefficaci gli attuali vaccini, strumenti diagnostici e trattamenti. I leader delle Nazioni ricche non renderanno alcun servizio né ai loro cittadini né al resto del mondo accumulando vaccini.”

Se questo vale per gli USA e la Francia nei confronti di Messico e Marocco, vale sicuramente anche per Israele e i palestinesi.

 

Non sono soltanto i palestinesi che lavorano in Israele o nelle colonie a vivere gomito a gomito con la società israeliana. I palestinesi che vengono nei centri commerciali in Cisgiordania e i coloni che frequentano attività commerciali palestinesi nell’Area C [sotto il totale controllo israeliano, ndtr], quali negozi di alimentari, officine meccaniche, chioschi di falafel; i soldati che fanno irruzione tutte le sere nelle case dei palestinesi, li arrestano, li picchiano e li ammanettano, si avvicinano alle loro facce per urlare contro di loro; gli agenti del Servizio di Sicurezza Shin Bet che respirano la stessa aria viziata delle persone che torturano per poi tornare a casa e passare del tempo nel parco vicino con i figli; i palestinesi di Gerusalemme hanno parenti e amici in Cisgiordania, nonché soci e imprese dove si incontrano; i commercianti palestinesi si vedono con quelli israeliani; i palestinesi con cittadinanza israeliana non hanno smesso di andare a trovare i fratelli e le sorelle in Cisgiordania.

 

Non esiste una separazione ermetica fra le due popolazioni, né può esistere.

Le subdole mutazioni del virus non tengono in considerazione le bugie di Israele secondo cui esso “non è responsabile” della salute dei palestinesi.

   

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




I palestinesi condannano la mossa di Israele di inviare vaccini all’estero

Linah Alsaafin

25 febbraio 2021 – Al Jazeera

Il ministro degli esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese denuncia l’invio di vaccini da parte di Israele agli alleati stranieri come “ricatto politico”.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato in quanto “iniziativa immorale” l’impegno da parte di Israele di inviare vaccini contro il coronavirus a Paesi lontani ignorando i cinque milioni di palestinesi che vivono a pochi chilometri di distanza sotto la sua occupazione militare.

Giovedì l’Honduras ha ricevuto da Israele la prima spedizione di vaccini contro il COVID-19, dopo che i media israeliani avevano riferito all’inizio di questa settimana l’intenzione del governo di inviare vaccini al Paese centroamericano, oltre che a Guatemala, Ungheria e Repubblica Ceca.

Il Guatemala ha seguito la discutibile decisione degli Stati Uniti di trasferire lo scorso anno la propria ambasciata a Gerusalemme, mentre l’Honduras ha promesso di fare lo stesso.

L’Ungheria ha aperto a Gerusalemme un ufficio per le missioni commerciali e anche la Repubblica Ceca si è impegnata ad aprire uffici diplomatici in quella città.

Il ministro degli Affari Esteri dell’ANP, Riyad al-Malki, ha detto che la decisione di Israele di fornire vaccini ad alcuni Paesi in cambio di concessioni politiche è una forma di “ricatto politico e un’iniziativa immorale”.

Giovedì in un’intervista all’emittente radio Voice of Palestine [stazione radio con sede a Ramallah, filiale della Palestinian Broadcasting Corporation sotto il controllo dell’ANP, ndtr.] al-Malki ha detto che la decisione “conferma l’assenza di principi morali e di valori” da parte di Israele.

Condurremo una campagna internazionale per combattere un tale sfruttamento dei bisogni umanitari di questi Paesi”, ha affermato.

I casi di coronavirus nella Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono arrivati a più di 203.000. Almeno 2.261 persone sono morte a causa del virus e mercoledì la ministra della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese Mai al-Kaila ha affermato che il numero di casi di coronavirus è in forte aumento.

“Il numero di test positivi ha superato il 20% nella Cisgiordania occupata e il 9% nella Striscia di Gaza”, ha detto a una stazione radio locale.

Al-Kaila ha aggiunto che il tasso di ospedalizzazione nella Cisgiordania occupata è dell’80%, il più alto dall’inizio della pandemia.

Il potere persuasivo del vaccino

Yara Asi, una ricercatrice presso l’Università della Florida centrale, esperta di salute e sviluppo negli Stati colpiti da conflitti, ha denunciato il potere persuasivo del vaccino israeliano.

L’uso della promessa del farmaco salvavita per fare pressione sui Paesi in via di sviluppo perché spostino ambasciate o prendano altre complesse decisioni politiche è cinismo politico ad altissimo livello“, ha detto ad Al Jazeera.

“Queste operazioni consentono inoltre a Israele di fornire alcuni vaccini ai palestinesi sotto l’egida della ‘generosità‘, offuscando ulteriormente i loro doveri legali in qualità di potenza occupante e trattando la Palestina come se fosse solo un altro Paese povero che ha bisogno di aiuto, e non un territorio in cui Israele esercita un controllo economico e politico quasi totale”.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure di profilassi e prevenzione necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni a favore dei diritti umani hanno affermato che Israele è una potenza occupante responsabile del benessere dei palestinesi. Israele ha sostenuto di non avere tali obblighi sulla base degli accordi di pace ad interim degli anni ’90.

[Israele] in poco meno di due mesi ha già fornito dosi di vaccino a più della metà dei suoi 9,3 milioni di abitanti, divenendo leader mondiale nella campagna di vaccinazione delle popolazioni. Tuttavia, nonostante abbia annunciato il mese scorso che avrebbe consegnato 5.000 dosi di vaccino all’Autorità Nazionale Palestinese, finora ne sono state ricevute solo 2.000.

Inoltre, dopo che in un primo tempo Israele ha bloccato una spedizione del vaccino russo destinato alla Striscia di Gaza, l’enclave costiera sotto assedio ha ricevuto la scorsa settimana 1.000 vaccini Sputnik a doppia somministrazione.

[Gaza] ha ricevuto separatamente dagli Emirati Arabi Uniti 22.000 vaccini Sputnik, ma gli operatori sanitari di Gaza hanno affermato di aver bisogno di 2,6 milioni di dosi per vaccinare tutte le persone di età superiore ai 16 anni.

“La selezione da parte di Israele dei Paesi da aiutare se vi vede un vantaggio politico è qualcosa di completamente diverso”, dice Asi.

“Fare ciò mentre i palestinesi anziani e ad alto rischio che vivono letteralmente a qualche chilometro di distanza aspettano i vaccini che per la maggior parte dei palestinesi non arriveranno nè nell’arco dei prossimi mesi nè addirittura nel 2021 rappresenta un disprezzo palese per i cinque milioni di persone che vivono sotto l’occupazione israeliana da più di 50 anni.”

Il senatore americano Bernie Sanders ha condannato l’iniziativa di Israele di inviare vaccini ad altri Paesi politicamente allineati prima di distribuirli ai palestinesi.

“In quanto potenza occupante Israele è responsabile della salute di tutte le persone sotto il suo controllo”, ha twittato mercoledì Sanders. “È vergognoso che [il primo ministro israeliano] Netanyahu utilizzi vaccini di scorta per ricompensare i suoi alleati stranieri mentre tanti palestinesi nei territori occupati stanno ancora aspettando.

“Non politicamente vantaggioso”

Sono state sollevate obiezioni anche all’interno del governo israeliano, ma le questioni sono incentrate sugli aspetti tecnici piuttosto che sull’obbligo di dare la priorità alla vaccinazione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il ministro della Difesa Benny Gantz avrebbe chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di interrompere immediatamente il processo di invio di vaccini contro il coronavirus in Paesi stranieri e di consultare il consiglio di sicurezza prima di prendere tali decisioni.

“I vaccini sono di proprietà dello Stato di Israele e quando hai sostenuto che ‘sono state raccolte dosi di vaccino inutilizzate’, mentre la maggior parte della popolazione di Israele non è stata ancora vaccinata con la seconda dose, hai detto il falso”, ha sostenuto Gantz in una lettera a Netanyahu, al consigliere per la sicurezza nazionale e al procuratore generale.

Netanyahu, che il 23 marzo è in lizza per la rielezione, ha messo in gioco il suo successo politico sulla riuscita della campagna di vaccinazione in Israele.

Asi sottolinea che il programma COVAX sostenuto dalle Nazioni Unite – progettato per fornire i vaccini ai Paesi più poveri contemporaneamente ai Paesi ricchi – è fondamentale per porre fine a questa pandemia, ma agisce su un piano di “equità e di non discriminazione”.

“In sostanza il messaggio è che fornire vaccini ai palestinesi non è politicamente abbastanza vantaggioso da costituire una priorità“, spiega.

“E Netanyahu ha scommesso sul fatto che, a solo un mese di distanza da difficili elezioni, vale la pena resistere alla condanna internazionale che Israele sta ricevendo per aver ignorato i palestinesi a vantaggio dei propri interessi politici”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La legge anti-BDS dell’Arkansas viola il Primo Emendamento, afferma il tribunale

Michael Arria

15 febbraio 2021 Mondoweiss

Con due voti a favore ed uno contrario l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha dichiarato incostituzionale una legge che proibisce all’Arkansas di lavorare con aziende che boicottino Israele.

L’Arkansas Times ha contestato con successo una normativa che proibisce allo Stato di avere rapporti di affari con aziende che boicottano Israele.

Il settimanale di Little Rock [capitale dell’Arkansas, ndtr], che aveva intentato la causa legale nel 2018, era rappresentato dall’ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione non governativa USA per la difesa dei diritti civili che ha giocato un ruolo importante nell’evoluzione del diritto costituzionale USA, ndtr]. Pur non avendo adottato alcuna posizione ufficiale sul BDS, il periodico aveva intrapreso questa battaglia legale in seguito al rifiuto da parte del Pulaski Technical College dell’Università dell’Arkansas di firmare un contratto pubblicitario con l’Arkansas Times se questo non avesse sottoscritto l’impegno (a non boicottare Israele, ndtr). L’istanza era stata respinta da un giudice distrettuale nel 2019, ma la settimana scorsa l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha sentenziato con due voti a favore ed uno contrario che la legge è incostituzionale.

“Siamo entusiasti per la decisione della Corte, che sostiene il diritto fondamentale a partecipare a campagne politiche di boicottaggio,”, ha dichiarato il legale dell’ACLU Brian Hauss. “Il governo non può obbligare a scegliere se mantenere le proprie fonti di reddito oppure i diritti garantiti dal Primo Emendamento, che è esattamente ciò che fa questa legge. I boicottaggi politici sono una forma legittima di protesta nonviolenta, protetti dal Primo Emendamento.”

Sulla stessa scia la dichiarazione di Nihad Awad, direttore generale del CAIR [Council on American-Islamic Relations, gruppo musulmano per i diritti civili in USA, ndtr]. “Questa sentenza federale rappresenta un momento cruciale nella lotta per la protezione della libertà di parola qui negli USA e per la promozione dei diritti umani all’estero,” ha affermato. “Dall’Arizona al Texas fino all’Arkansas numerosi tribunali cominciano a riconoscere ciò che è ovvio: gli Stati non possono chiedere né a soggetti individuali né ad aziende di sottoscrivere l’impegno a sostenere lo Stato di Israele come condizione per poter lavorare con il governo di uno Stato dell’Unione.”

Leslie Rutledge, Procuratore Generale dell’Arkansas, ha invece espresso la sua frustrazione per la sentenza. “Il Procuratore Generale è delusa per la decisione dell’Ottavo Distretto. Tale decisione interferisce con la legge dell’Arkansas che proibisce la discriminazione contro Israele, importante alleato degli USA,” ha dichiarato all’Associated Press un portavoce dell’Ufficio del Procuratore.

Nella stessa giornata della sentenza in Arkansas, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu attaccava il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per avere pubblicato la lista delle aziende che operano nei Territori Occupati. Nella sua dichiarazione Netanyahu ha ammesso che Israele promuove norme anti-BDS all’interno degli USA: “Negli anni recenti abbiamo promosso leggi nella maggioranza degli Stati dell’Unione che stabiliscono che si debbano adottare misure forti contro chiunque cerchi di boicottare Israele.”

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




La CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito di avere l’autorità di indagare sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas

Redazione di MEE

5 febbraio 2021 – Middle East Eye

Le conclusioni aprono la strada perché la procuratrice capo prosegua le indagini su presunti crimini di guerra commessi a partire dal bombardamento di Gaza da parte di Israele nel 2014.

Venerdì [5 febbraio 2021] i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) hanno stabilito di avere “giurisdizione territoriale” all’interno delle zone occupate da Israele dal 1967, aprendo la strada per una possibile indagine riguardo a presunti crimini di guerra.

Nel gennaio 2020 un collegio giudicante preliminare presso la corte con sede all’Aia è stato incaricato di stabilire l’ambito di competenza giurisdizionale della CPI riguardo a Israele e Palestina, posto che lo Stato di Israele, a differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non è membro della CPI.

La Palestina ha…accettato di sottomettersi alle condizioni dello Statuto di Roma della CPI e ha il diritto di essere trattato come qualunque altro Stato membro per le materie riguardanti l’applicazione dello Statuto,” ha affermato venerdì la CPI in un comunicato.

Il primo ministro palestinese Muhammad Shtayyeh ha accolto positivamente la decisione, definendo la sentenza della CPI “una vittoria della giustizia e dell’umanità.” Ha anche chiesto alla corte di “accelerare le procedure giudiziarie” riguardo ai casi relativi ai palestinesi.

L’ambito giurisdizionale della CPI includerebbe le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, generalmente considerate illegali in base alle leggi internazionali.

La convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante non può trasferire legalmente parte della propria popolazione nel territorio che occupa, e nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha emanato un parere consultivo affermando che costruendo le colonie Israele ha violato i suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

Israele ha tassativamente rigettato qualunque forma di giurisdizione della CPI sui propri cittadini.

L’iniziativa è stata contestata anche dagli USA, i più stretti alleati di Israele, che venerdì hanno affermato di essere “seriamente preoccupati riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano.”

Una base ragionevole” per avviare un’indagine

La corte ha preso in considerazione la questione della giurisdizione territoriale dopo che la procuratrice generale, Fatou Bensouda, ha annunciato che esistevano i presupposti per aprire un’indagine complessiva riguardo a presunti crimini di guerra commessi all’interno dei territori occupati.

All’epoca Bensouda aveva sottolineato che, avendo stabilito che c’era “una base ragionevole per avviare un’inchiesta sulla situazione in Palestina,” era comunque necessario che prima la corte definisse la giurisdizione. La sua decisione era arrivata dopo cinque anni di indagini preliminari ed analisi delle prove.

Venerdì, pur notando che problemi di confine e questioni di sovranità non rientrano nell’ambito di competenza della corte, la CPI ha autorizzato Bensouda a procedere con un’indagine esaustiva.

Un’inchiesta complessiva della CPI potrebbe portare a incriminazioni di singole persone, ma non di Stati.

Ora si prevede che Bensouda inizi a indagare funzionari e politici israeliani e di Hamas riguardo a presunti crimini di guerra nei territori occupati a iniziare dal 2014, durante il quale i bombardamenti aerei israeliani contro la Striscia di Gaza provocarono la morte di 2.251 palestinesi, in maggioranza civili. Durante lo stesso periodo vennero uccisi anche 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Nel 2015 un rapporto di una commissione ONU stabilì che durante il conflitto sia Israele che gruppi armati palestinesi potrebbero aver commesso crimini di guerra.

Il rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) affermò che, mentre sia israeliani che palestinesi erano stati “profondamente colpiti” dalla guerra, a Gaza “le dimensioni delle devastazioni erano state senza precedenti”. Sostenne che tra i morti c’erano 551 minori palestinesi e se ne contavano altre migliaia tra gli 11.231 feriti dalle azioni israeliane.

Tra gli israeliani che potrebbero essere indagati dalla CPI ci potrebbero essere: il primo ministro Benjamin Netanyahu, gli ex-ministri della Difesa Moshe Yaalon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, gli ex-capi di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] Benny Gantz e Gadi Eisenkot, l’attuale capo di stato maggiore Aviv Kochavi e sia l’ex che l’attuale capo del servizio di sicurezza interno Shin Bet, rispettivamente Yoram Cohen e Nadav Argaman.

Gli USA sanzionano funzionari della CPI

In giugno anche un gruppo di palestinesi della Cisgiordania occupata ha presentato una denuncia alla CPI, chiedendo un’indagine contro importanti politici israeliani e statunitensi che hanno autorizzato il piano “Pace verso la Prosperità” dell’ex-presidente USA Donald Trump.

All’epoca un rappresentante del gruppo ha affermato che c’erano “prove ragionevoli” in base alle quali importanti funzionari USA, compreso Trump, erano stati “complici di azioni che potrebbero rappresentare crimini di guerra riguardanti il trasferimento di popolazione nei territori occupati e l’annessione di territorio sotto la sovranità dello Stato di Palestina.”

Israele e gli USA sono due dei pochi Stati ad essersi opposti alla nascita della CPI, mentre 123 Paesi ne hanno accettato la giurisdizione.

A settembre gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno imposto sanzioni contro Bensouda e Phakiso Mochochoko, un altro importante funzionario della procura, per le inchieste su Afghanistan e Palestina. All’epoca Trump sottolineò che la corte non aveva “giurisdizione sul personale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati,” in riferimento ad Israele.

L’amministrazione Biden ha affermato che prevede di rivedere le sanzioni contro i funzionari della CPI. “Per quanto siamo in disaccordo con le azioni della CPI relative ai casi afghano e israelo-palestinese, le sanzioni saranno comunque riesaminate mentre decideremo i nostri prossimi passi,” ha affermato in un comunicato il portavoce del Dipartimento di Stato durante la prima settimana del mandato di Biden.

Il portavoce ha aggiunto che la nuova amministrazione appoggia riforme “che aiutino la corte a realizzare più efficacemente la propria principale missione di punire e scoraggiare atrocità” e in “casi eccezionali” potrebbe collaborare con la CPI.

In seguito alla decisione di venerdì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli USA sono “seriamente preoccupati” riguardo ai tentativi della CPI di stabilire la propria giurisdizione su personalità israeliane.

Non crediamo che i palestinesi siano uno Stato sovrano e di conseguenza non sono legittimati a ottenere l’ammissione come Stato o a partecipare in tale veste ad organismi, entità o incontri internazionali, compresa la CPI,” ha affermato Price.

Gli Stati Uniti hanno sempre adottato la posizione secondo cui la giurisdizione della corte dovrebbe essere riservata ai Paesi che vi aderiscono o che sono indicati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando la polizia uccide un colono, i coloni seminano il terrore tra i palestinesi

Orly Noy

24 gennaio 2021 – +972 magazine

Da quando il mese scorso un adolescente israeliano è stato ucciso dalla polizia nel corso di un inseguimento, in Cisgiordania i coloni hanno continuato ad esercitare la loro furia attaccando e costringendo alla fuga i palestinesi.

Il mese scorso, il 21 dicembre, la polizia israeliana ha condotto un inseguimento ad alta velocità vicino all’insediamento di Kochav Hashachar nella Cisgiordania occupata. L’auto inseguita trasportava diversi giovani coloni israeliani radicali sospettati di aver scagliato poco prima pietre contro veicoli palestinesi in transito. Secondo quanto riferito, durante l’inseguimento l’auto della polizia si è schiantata contro quella dei coloni, facendola capovolgere e uccidendo il sedicenne Ahuvia Sandak.

I principali uomini di governo di Israele si sono affrettate a esprimere la loro solidarietà alla famiglia Sandak. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i genitori di Sandak nel suo ufficio per esprimere le sue condoglianze; il ministro della giustizia Amir Ohana ha reso visita alla famiglia e ha promesso di “scoprire cosa sia realmente accaduto”; Il rabbino capo di Israele David Lau ha inviato una lettera accorata ai genitori.

La morte di Sandak ha scatenato una serie di proteste in Cisgiordania e Israele, seguite nei territori occupati da un’esplosione di violenza contro i palestinesi – che non avevano nulla a che fare con la morte di Sandak.

Secondo Yesh Din, una ONG israeliana che documenta le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, dopo la morte di Sandak i coloni israeliani hanno commesso 52 azioni violente contro i palestinesi. In 37 casi i coloni hanno bloccato gli incroci centrali lungo la Strada 60 – una delle autostrade nevralgiche della Cisgiordania – e hanno scagliato pietre contro le auto dei palestinesi. Yesh Din ha riferito che 14 palestinesi, di cui due minori, sono stati feriti nel corso degli attacchi con lancio di pietre. In 11 casi i coloni hanno invaso città palestinesi e hanno lanciato pietre contro i civili e [le loro] case. In occasione di tre episodi gruppi di coloni hanno attaccato dei contadini palestinesi che lavoravano la loro terra.

“I coloni le hanno lanciato una pietra in faccia”

Una dei minorenni palestinesi feriti nell’ultimo mese è una ragazzina di 11 anni di nome Hala Alqut, del villaggio di Madmeh, appena a sud di Nablus. Il 17 gennaio decine di coloni del vicino insediamento di Yitzhar, noto per per il suo violento fondamentalismo, hanno fatto irruzione nel villaggio e lanciato pietre contro le case. Il padre di Hala, Mashour, ha riferito che sua figlia era uscita per andare a casa di sua zia proprio un attimo prima dell’attacco. “L’hanno raggiunta fuori casa, e quando mia moglie è andata a salvarla dalle loro grinfie hanno aggredito anche lei”.

Hala è stata ferita al viso ed è stata portata all’ospedale Rafidia di Nablus per le cure.

Mashour, che lavora in Israele, ha ricevuto la notizia dell’attacco mentre era al lavoro. “Mia moglie mi ha telefonato piangendo e urlando: ‘Vieni a vedere cosa è successo alla ragazza – i coloni le hanno lanciato una pietra in faccia’. Mi sono spaventato moltissimo. Quando sono arrivato, ho visto i vetri rotti e le pietre dentro casa”.

La moglie di Mashour, insieme a Hala e ai loro altri tre figli – compreso un neonato – erano presenti quando ha avuto luogo l’attacco. “Hanno lanciato una pietra e hanno rotto la finestra che si trovava sopra la testa del bambino. Avrebbe potuto finire in una tragedia molto peggiore”, dice Mashour. Il trauma, aggiunge, ha fatto sì che Hala smettesse del tutto di parlare.

Il secondo minorenne ferito il mese scorso, un bambino di cinque anni, è stato colpito pochi giorni dopo da un sasso lanciato contro l’auto della sua famiglia mentre attraversava il bivio di Assaf, nei pressi di Ramallah.

Quando ho chiesto al portavoce della polizia israeliana se la polizia avesse programmato di effettuare degli arresti a seguito delle aggressioni, ho ricevuto la seguente risposta: “La polizia israeliana, insieme alle altre forze di sicurezza, è dispiegata nei vari assi viari principali e nelle zone di attrito in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) per prevenire episodi di violenza, far rispettare la legge e mantenere l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Il portavoce ha proseguito: “Per quanto riguarda l’incidente in cui il ragazzo è rimasto ferito, la polizia ha avviato un’indagine in cui sono state intraprese azioni investigative e raccolte prove, l’indagine è in corso”.

Stanno seduti nella mia casa al posto mio’

Nonostante il fatto che l’esercito israeliano abbia il controllo totale sui territori occupati, il compito delle indagini sugli atti criminali degli ebrei israeliani – anche quando sono commessi in Cisgiordania – spetta alla polizia. Anche questo fa parte del regime di apartheid di Israele, che mantiene due differenti sistemi giudiziari per due popolazioni, sulla base della loro nazionalità.

Tuttavia nella pratica né l’esercito né la polizia fanno molto per impedire i violenti pogrom compiuti dai coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. A volte di fatto addirittura collaborano.

Ho assistito a questa cooperazione tra le forze armate israeliane e i coloni sabato 23 gennaio, quando mi sono unito a un gruppo di attivisti per una protesta di solidarietà nelle colline di Hebron sud. Gli attivisti si sono recati nella zona per solidarizzare con una famiglia palestinese della comunità di Khirbet Tawamin, dopo che lo scorso giovedì i coloni avevano invaso l’area e li avevano cacciati con la forza dalla grotta in cui vivono. I coloni hanno preso possesso della loro casa per ore cantando intorno a un falò che avevano acceso appena fuori dalla grotta.

In un post sconvolgente su Facebook il giornalista e attivista Yuval Abraham, che trascorre gran parte del suo tempo con le comunità palestinesi nelle colline di Hebron sud, ha riportato la sua telefonata con Abu Mahmoud, uno degli abitanti di Tawamin, che ha descritto in tempo reale le modalità in cui i coloni hanno preso possesso della sua casa:

[…] Abu Mahmoud dice: ‘Perché non hai risposto? Ho cercato di contattare l’esercito e la polizia, non arrivano. La sua voce giunge soffocata e la linea si interrompe. Restiamo entrambi in silenzio, Nasser e io. Un silenzio di paura. Nasser dice che forse dovremmo andare, ma è chiaro che è terrorizzato. Sono terrorizzato anch’io. Proviamo a chiamare di nuovo Abu Mahmoud. Non c’è campo.

Un minuto dopo Abu Mahmoud chiama (di nuovo). ‘Mi hanno cacciato di casa. Sono entrati tutti, i coloni, e si sono seduti lì al posto mio. “Ci manda un video. L’intera famiglia è fuori. I coloni sono a casa sua. Dice: ‘Perché la polizia non è qui? Perché l’Amministrazione (Civile) non è qui? Vieni presto. E noi non sappiamo cosa fare. Ci avviciniamo. Nasser dice: Entriamo nella stradina che porta a casa sua. Rispondo che forse [è meglio] di no. Poi dico no. Solo per un tratto, insiste Nasser, e la imbocchiamo, con il mio piede che trema sull’acceleratore. Vediamo 15 auto con targa israeliana parcheggiate e un falò. ‘Torniamo indietro, torniamo indietro. È pericoloso , dice Nasser.

I coloni se ne sono andati dopo alcune ore e la famiglia è potuta tornare a casa.

Il giorno seguente Abraham è tornato alla grotta di Tawamin. Mentre si trovava seduto insieme alla famiglia, ha assistito a una chiamata tra un rappresentante dell’Amministrazione Civile – il braccio del governo militare israeliano che ha il controllo sui palestinesi nella Cisgiordania occupata – e uno dei membri della famiglia. Nel corso della telefonata, che è stata registrata integralmente e pubblicata su Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism, che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], il rappresentante ammonisce in arabo la famiglia di assicurarsi che né giornalisti né attivisti entrino nella grotta.

“Non createci problemi oggi. Inteso?” ha detto il funzionario. “Assicuratevi di non accogliere giornalisti o persone che oggi potrebbero venire a casa vostra per esprimere [la loro] solidarietà.”

Quando il componente della famiglia palestinese dice all’interlocutore di non volere problemi, ma che i soldati non si sono mai fatti vivi dopo essere stati chiamati ripetutamente, il rappresentante ha urlato di rimando: “Alla fine se ne sono andati, giusto? Quindi [ciò è] khalas (“sufficiente” in arabo). I coloni non verranno più lì. Quella è la tua terra e la grotta ti appartiene, giusto? Quindi resta nella grotta. Non portare giornalisti e un mucchio di persone e non creare problemi o espellerò te e loro, capito?”

Una battaglia infinita

Khirbet Tawamin si trova a pochi passi dal villaggio di al-Rakiz, dove i soldati israeliani sono arrivati ​​all’inizio di questo mese per confiscare un vecchio generatore che serviva gli abitanti, dopo che l’amministrazione civile vi aveva eseguito delle demolizioni. Mentre i soldati cercavano di portar via il generatore, Haroun Abu Aram, uno degli abitanti di Al-Rakiz, ha cercato di riprenderlo. Un soldato gli ha sparato al collo, lasciandolo paralizzato.

Gli attivisti che si recavano a Tawamin per la manifestazione di solidarietà del sabato sono stati fermati ad un posto di blocco improvvisato della polizia a 10 chilometri dal villaggio. Ci è stato mostrato un ordine delle IDF [esercito israeliano, ndtr.] che dichiarava l’area “zona militare chiusa” – un noto trucco che l’esercito usa per tenere i palestinesi e gli attivisti di sinistra lontani da zone della Cisgiordania. La polizia ci ha invitato a fare dietrofront e ad andarcene.

Abbiamo trovato un percorso per Khirbet Tawamin attraverso le splendide colline polverose, solo per incontrare – a 10 minuti dall’arrivo – un gruppo di soldati armati che ha mostrato un’ulteriore ordinanza di zona militare chiusa. Dopodiché i soldati ci hanno dispersi con granate assordanti fino a quando abbiamo raggiunto il fondovalle, dove si trova l’insediamento coloniale israeliano di Susya (adiacente all’omonimo villaggio palestinese).

Mentre eravamo intrappolati tra una zona militare chiusa dietro di noi e l’insediamento coloniale israeliano estremista davanti a noi, un gruppo di coloni con cani di grossa taglia si è avvicinato a noi. I soldati, che evitano a tutti i costi il ​​confronto con i coloni, ancora una volta hanno dichiarato chiusa l’area e ci hanno allontanati.

Siamo risaliti verso Tawamin. I soldati che ci seguivano hanno ribadito ancora una volta l’ordine e uno di loro, che parlava correntemente l’arabo, è andato a parlare con i membri della famiglia che avevano temporaneamente perso la loro casa e avevano paura di ciò che poteva ancora accadere. Si può solo supporre che il soldato abbia ripetuto ciò che il rappresentante dell’Amministrazione Civile aveva detto loro al telefono pochi giorni prima: manda via gli attivisti, altrimenti

Qualche minuto dopo la famiglia ci è venuta incontro, ci ha ringraziato per la nostra presenza e ci ha chiesto di andarcene “per evitare problemi”. Siamo andati via, ovviamente. Conosciamo bene questa esperienza: che siano i coloni ad essere arrabbiati con l’esercito, o l’esercito ad essere arrabbiato con gli attivisti di sinistra, sono sempre i palestinesi a pagarne il prezzo.

I palestinesi e gli attivisti israeliani sanno fin troppo bene che la battaglia contro la violenza dei coloni è continua e senza fine. Oggi, 24 gennaio, e nonostante le promesse dell’Amministrazione Civile, circa 30 coloni israeliani hanno invaso lo stesso identico punto in cui gli attivisti avevano cercato di protestare solo un giorno prima. L’esercito è arrivato e ha disperso i coloni.

Orly Noy

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa dal farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano i tratti che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi [ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, ndtr.], esponente femminile della sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro una perenne immigrata, e il dialogo costante tra loro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestina. Macchinazioni contro un diplomatico svizzero dell’UNRWA

Baudouin Loos

11 gennaio 2021 – Orient XXI

Documentario

La carriera di Pierre Krähenbühl alla testa dell’agenzia dell’ONU per l’aiuto ai rifugiati palestinesi si è brutalmente interrotta nel 2019. In gioco c’erano accuse che si sono dimostrate ampiamente infondate, come ha appena dimostrato un documentario della televisione svizzera. Il contesto pone interrogativi, dal momento che l’UNRWA è presa di mira dall’amministrazione Trump e dal governo Netanyahu.

Questo articolo è stato integrato, per maggiori dettagli, l’11 gennaio 2021.

Può succedere che informazioni importanti per la reputazione di alcune persone rimangano confidenziali, provocando loro un grave danno. È quanto è avvenuto nel 2020 con le conclusioni di un’inchiesta commissionata dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres riguardo alle gravi accuse rivolte contro lo svizzero Pierre Krähenbühl, all’epoca commissario generale dell’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA secondo l’acronimo inglese. Quest’ultimo aveva finito per dare le dimissioni nel novembre dello stesso anno in seguito a pressioni da parte dei suoi capi. Un’inchiesta giornalistica della televisione svizzera RTS [radiotelevisione pubblica svizzera in lingua francese, ndtr.] ha recentemente svelato le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU mai divulgate, che abbiamo potuto leggere e dalle quali risulta che l’alto funzionario svizzero è stato assolto dalla maggior parte delle accuse che pesavano su di lui, salvo qualche inadempienza di scarsa importanza. Un ritorno a una questione da cui emana un forte fetore geopolitico.

Nepotismo, discriminazioni, abuso d’autorità…”

Il primo rapporto data dicembre 2018. Interno all’UNRWA, doveva quindi rimanere confidenziale e finire solo nell’ufficio di António Guterres, che ha peraltro rapidamente deciso di avviare un’inchiesta per verificare le accuse imbarazzanti che conteneva. Queste accuse sono state comunque divulgate e la stampa se ne è appropriata, perché era una bomba: in effetti l’autore del testo, l’olandese Lex Takkenberg, capo dell’ufficio etico dell’UNRWA, vi denunciava tra le altre cose “comportamenti inopportuni di carattere sessuale, nepotismo, rappresaglie, discriminazioni e altri abusi d’autorità, commessi per fini personali, per reprimere legittime divergenze d’opinione.”

principale accusato: Pierre Krähenbühl, a cui inoltre è stato rimproverato di intrattenere una relazione sentimentale con una collaboratrice. In tutto il mondo la stampa lo ha dovuto constatare: “L’UNRWA è nella tormenta,” come hanno titolato numerosi giornali. Esortato dal segretario generale dell’ONU perché si mettesse in aspettativa in attesa delle conclusioni dell’inchiesta da lui promossa, Krähenbühl si è sentito sconfessato e il 6 novembre 2019 ha preferito dare le dimissioni. Fine della vicenda.

Durante l’estate 2020 il governo svizzero ha ricevuto il rapporto che ha chiuso l’inchiesta dell’ONU. Un lavoro serio di 129 pagine, nel quale ex-poliziotti analizzano in modo minuzioso le mail e gli SMS dei quadri dell’agenzia ONU coinvolti. Ma la gestione di Pierre Krähenbühl non è affatto rimessa in discussione. Niente corruzione, nessun rapporto sentimentale inopportuno. Tra tutte le accuse non restano da indagare che tre casi di reclutamento da parte dell’agenzia. Poca cosa, alla fine. Né il ministero degli Esteri svizzero né l’ufficio del segretario generale dell’ONU hanno reso pubblico questo rapporto d’inchiesta che ha liberato Pierre Krähenbühl dalla maggior parte delle colpe che gli erano state rimproverate. Certo, questo tipo di rapporti non è destinato ad essere reso pubblico, ma, poiché era in gioco l’onore di un uomo ed erano state rese note le accuse che avrebbero dovuto rimanere confidenziali e che doveva affrontare, sarebbe stato corretto fare altrettanto con le conclusioni dell’inchiesta ufficiale. È qui che intervengono Xavier Nicol e Anne-Frédérique Widmann, due giornalisti di RTS. Il loro reportage è stato trasmesso in Svizzera lo scorso 17 dicembre nel quadro del programma “Temps présent” [Tempo Presente]. Il documentario, intitolato Israël-Palestine : un Suisse dans la tourmente [Israele-Palestina: uno svizzero nella tormenta] dà ampiamente la parola, tra gli altri, a Pierre Krähenbühl.

Chi vuole togliere di mezzo l’UNRWA?

Il contesto geopolitico di questa vicenda potrebbe evocare un complotto. Contro Pierre Krähenbühl? Certamente, ma soprattutto, attraverso lui, contro l’UNRWA, che alcuni vogliono togliere di mezzo. Il governo israeliano di Benjamin Netanyahu da parecchio tempo non nasconde più che desidera la scomparsa dell’agenzia per i rifugiati palestinesi.

Per lui l’UNRWA incarna una causa: il diritto al ritorno di questi rifugiati, che egli rifiuta radicalmente. Ed essa rimane un richiamo perpetuo a un passato che si preferisce rimuovere: la partenza, il più delle volte obbligata, di oltre 700.000 abitanti palestinesi nel 1948 e la loro spoliazione durante avvenimenti che portarono alla creazione di Israele.

Ufficialmente Israele rimprovera invece alla rinfusa all’agenzia di perpetuare “l’illusione” di un ritorno dei rifugiati in quello che è diventato Israele, di avere al proprio interno numerosi militanti di Hamas, di fornire un’istruzione che sparge odio contro Israele, che promuove la lotta armata e persino il terrorismo, ecc.

Con l’arrivo di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel gennaio 2017 il governo israeliano si è trovato a godere di un sostegno politico americano di una portata senza precedenti su tutte le questioni, compresa quella dei rifugiati palestinesi. Il miliardario americano ha chiesto rapidamente a suo genero Jared Kushner, noto per la sua vicinanza con l’estrema destra israeliana, di concepire un “piano di pace” per risolvere finalmente il conflitto israelo-palestinese. Cosa aveva previsto per i rifugiati? Una mail dell’11 gennaio 2018 inviata a vari funzionari dell’amministrazione Trump, tra cui Jason Grenblatt, l’inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente, presenta il pregio della chiarezza, come ha rivelato il 3 agosto 2020 il sito americano ForeignPolicy.com [autorevole bimestrale statunitense di politica internazionale, ndtr.]: “È importante fare un tentativo sincero ed onesto per ostacolare l’UNRWA”, scrive Kushner. “Questa agenzia perpetua lo status quo, è corrotta e non contribuisce alla pace. Il nostro obiettivo non può essere lasciare le cose stabili e come sono adesso. Forse bisogna rischiare di rompere le righe strategicamente per avanzare.”

È stato dato il via. Il governo americano è anzi passato ai fatti, riducendo nel 2018 in modo drastico il suo aiuto all’UNRWA, passando da un contributo di 364 milioni di dollari (296 milioni di euro) a 65 milioni (53 milioni), che l’anno successivo sono stati persino azzerati. Con un bilancio globale che superava gli 850 milioni di dollari (691 milioni di euro), la drastica riduzione del contributo americano si è dunque rivelata drammatica per il funzionamento dell’agenzia umanitaria, che dà lavoro a circa 30.000 palestinesi al servizio di 5.5 milioni di rifugiati distribuiti in tutto il Medio Oriente, dalla Siria a Gaza passando per il Libano, la Giordania, Gerusalemme est e la Cisgiordania. Ormai si sa anche quello che il “piano di pace” di Jared Kushner, reso pubblico in pompa magna il 28 gennaio 2020 a Washington, prevedeva per l’UNRWA, cioè la sua pura e semplice soppressione. Come volevasi dimostrare.

Un uomo da distruggere

Pierre Krähenbühl rappresentava un ostacolo incombente lungo il cammino degli americani e degli israeliani mobilitati per programmare la morte dell’agenzia specializzata dell’ONU? Il documentario non arriva fino a questo punto. Mostra il diplomatico ginevrino, solo in prima linea, schierato contro le mire ostili della potente coppia americano-israeliana. Una cosa sembra in ogni caso evidente: nel 2018 lo svizzero aveva moltiplicato i viaggi, le iniziative e le riunioni per rimpinguare le casse dell’UNRWA. E il suo successo si è rivelato altrettanto efficace quanto imprevisto, dato che quell’anno 43 Paesi o istituzioni avevano accettato di aumentare i propri finanziamenti per coprire il deficit. Per giunta Pierre Krähenbühl non ha esitato a difendere con le unghie e con i denti la sua agenzia, anche davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove, in diretta da Gaza, aveva contraddetto gli oratori americano e israeliano. Il diplomatico svizzero non si era quindi fatto solo degli amici dal suo arrivo alla testa dell’UNRWA il 1 aprile 2014, proveniente dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR).

D’altronde a partire dal 2018 aveva constatato che nel suo stesso Paese una personalità in vista, il ministro degli Affari Esteri Ignazio Cassis, si era schierato tra gli avversari dell’agenzia che dirigeva. Quest’ultimo era iscritto tra i membri del gruppo di amicizia con Israele nel parlamento svizzero. Aveva assunto il suo incarico il 1 novembre 2017. Nella primavera del 2018, di ritorno da un viaggio in Medio Oriente in cui aveva incontrato Pierre Krähenbühl a Amman, sull’aereo che li riportava a casa Ignazio Cassis ha confidato le sue impressioni ad alcuni giornalisti. “Per me si pone la domanda: l’UNRWA fa parte della soluzione del problema?” si era chiesto. Ed ha precisato la sua opinione: “Finché i palestinesi vivranno in campi di rifugiati, vorranno tornare nella loro patria. Appoggiando l’UNRWA, teniamo in vita il conflitto. È una logica perversa, perché in realtà tutti vogliono porre fine al conflitto.”

Affermazioni che avevano indignato l’ex-diplomatico svizzero Yves Besson, un ex-direttore dell’agenzia in questione: “Oggi l’UNRWA è ciò che rimane dell’interesse della comunità internazionale a favore dei palestinesi e dei loro rifugiati,” ha dichiarato al sito swissinfo.ch. “Inoltre dire una cosa simile non ha niente di oggettivo, perché questo argomento è stato un ritornello di Israele e degli Stati Uniti.”

Accuse fondate su … “timori”

Di fatto gli aspetti del linguaggio adottato dal ministro svizzero sembravano usciti direttamente dalle cancellerie israeliana e americana. Quindi molto logicamente quando nel 2019 il rapporto interno dell’UNRWA ha messo il capo dell’agenzia sul banco degli imputati, Ignazio Cassis non ha alzato un dito per aiutarlo: al contrario, ha ordinato la sospensione dell’aiuto svizzero all’UNRWA. D’altronde questo rapporto non presentava prove contro il diplomatico svizzero, ma diffondeva solo un certo numero di accuse raccolte all’interno dell’agenzia. Del resto Lex Takkenberg, che aveva firmato questo testo, che come si è visto non ha resistito al vaglio dell’indagine approfondita chiesta in seguito a New York da António Guterres, nel documentario di Xavier Nicol et Anne-Frédérique Widmann riconosce che le accuse che aveva ripreso si basavano soprattutto su conversazioni con una ventina di membri dell’UNRWA che facevano riferimento a “timori” (“concerns”).

Oggi Pierre Krähenbühl ha voltato pagina, non senza amarezza. “Sarebbe il minimo che gli Stati Uniti e la Svizzera prendessero posizione riguardo alla mancanza di fondamento del rapporto (che mi ha accusato) e riconoscessero quello che abbiamo passato,” dice alla fine del documentario sulla vicenda. Il pesante silenzio delle autorità svizzere e dell’ONU, che hanno rifiutato di parlare ai giornalisti svizzeri e che non volevano rendere pubbliche le conclusioni dell’inchiesta dell’ONU favorevole a Pierre Krähenbühl, non testimoniano in ogni caso a loro favore.

Quanto all’UNRWA, ora diretta da un altro svizzero, Philippe Lazzarini, continua più che mai a dibattersi in inestricabili problemi di bilancio, come dimostrano la sua impossibilità di pagare i salari del mese di novembre 2020 ai suoi dipendenti e i suoi dubbi riguardo a dicembre. L’arrivo di Joe Biden al governo a Washington il 20 gennaio 2021 porterà a una revisione della posizione americana riguardo all’agenzia umanitaria? La risposta, importante per la sua sopravvivenza, arriverà forse molto presto.

Baudouin Loos

Giornalista, Bruxelles.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Siamo la più importante associazione israeliana per i diritti umani, e questo lo chiamiamo apartheid

Hagai El-Ad

martedì 12 gennaio 2021 – The Guardian

La sistematica promozione della supremazia di un gruppo di persone su un altro è profondamente immorale e deve finire.

Non si può vivere neppure un giorno in Israele/Palestina senza provare la sensazione che questo luogo sia stato costantemente ideato per privilegiare un popolo e solo esso: il popolo ebraico. Eppure metà di quanti vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo sono palestinesi. Il divario tra queste situazioni vissute aleggia nell’aria, si espande, è ovunque su questa terra.

Non mi riferisco solo a dichiarazioni ufficiali che lo precisano, e ce ne sono tante, come l’affermazione nel 2019 del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini”, o la legge fondamentale dello “Stato-Nazione”, che sancisce che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”. Quello a cui sto cercando di arrivare è una sensazione più profonda di persone come desiderabili o indesiderabili e una consapevolezza del mio Paese a cui sono stato esposto gradatamente dal giorno in cui sono nato ad Haifa. Ora è una presa di coscienza che non può più essere evitata.

Benché ci sia una parità demografica tra i due popoli che vivono qui, la vita è gestita in modo tale per cui solo una metà gode della grande maggioranza del potere politico, delle risorse del territorio, di diritti, libertà e protezione. È proprio una prodezza conservare simile negazione dei diritti. Ancor di più lo è venderla con successo come una democrazia (all’interno della “Linea Verde”, il confine dell’armistizio del 1949), a cui viene associata un’occupazione temporanea. Di fatto, un governo gestisce chiunque e qualunque cosa tra il fiume e il mare che ovunque sotto il suo controllo risponde allo stesso principio organizzativo e opera per far progredire e perpetuare la supremazia di un gruppo di persone, gli ebrei, su un altro, i palestinesi. Questo è apartheid.

Non c’è un solo centimetro quadrato nel territorio controllato da Israele in cui un palestinese e un ebreo siano uguali. Le uniche persone di prima classe sono i cittadini ebrei come me, e noi godiamo di questo status sia all’interno dei confini del 1967 che al di là, in Cisgiordania. Divisi dal differente status personale assegnato loro e dalle molte varianti di inferiorità a cui Israele li sottomette, i palestinesi che vivono sotto il dominio di Israele sono uniti dal fatto di essere tutti discriminati.

A differenza dell’apartheid sudafricano, l’applicazione della nostra versione, chiamatelo se volete apartheid 2.0, evita alcuni aspetti particolarmente sgradevoli. Non troverete cartelli “solo per bianchi” sulle panchine. Qui “proteggere il carattere ebraico” di una comunità, o dello Stato stesso, è uno degli eufemismi appena velati utilizzato per cercare di nascondere la verità. Però l’essenza è la stessa. Che in Israele le definizioni non dipendano dal colore della pelle non fa una differenza reale: è la situazione di superiorità che è al centro della questione, e che deve essere sconfitta.

Fino all’approvazione della legge sullo Stato-Nazione, la lezione fondamentale che Israele sembra aver appreso riguardo a come è finito l’apartheid sudafricano è stata evitare dichiarazioni e leggi troppo esplicite. Queste possono rischiare di provocare giudizi morali, ed eventualmente, dio ne scampi, conseguenze concrete. Al contrario la paziente, tranquilla e graduale accumulazione di prassi discriminatorie tende a evitare reazioni da parte della comunità internazionale, soprattutto se non si intendono onorare seriamente le sue norme e attese.

È così che la supremazia ebraica da entrambi i lati della Linea Verde è realizzata e applicata. Abbiamo progettato la composizione demografica della popolazione, lavorando per incrementare il numero di ebrei e limitare quello dei palestinesi. Ovunque Israele abbia il controllo abbiamo consentito l’immigrazione ebraica, con la cittadinanza automatica. Per i palestinesi è vero il contrario: ovunque ci sia il controllo di Israele, non possono acquisire lo stato civile, persino se la loro famiglia è di qui.

Abbiamo progettato il potere in modo da attribuire, o negare, diritti politici. Ogni cittadino ebreo ha diritto di voto (e ogni ebreo può diventare cittadino), ma meno di un quarto dei palestinesi sotto il controllo israeliano ha la cittadinanza e quindi vota. Il 23 marzo, quando gli israeliani andranno a votare per la quarta volta in due anni, non sarà una “festa della democrazia”, come spesso vengono definite le elezioni. Sarà invece un ennesimo giorno in cui i palestinesi privati di diritti vedranno come il loro futuro sarà determinato da altri.

Abbiamo progettato il controllo della terra espropriando vaste estensioni di terra palestinese, escludendoli dalla possibilità di beneficiarne o utilizzandole per costruire città, quartieri e colonie ebraici. All’interno della Linea Verde lo abbiamo fatto da quando è stato fondato lo Stato, nel 1948. A Gerusalemme est e in Cisgiordania lo abbiamo fatto da quando le abbiamo occupate, fin dal 1967. Il risultato è che le comunità palestinesi, ovunque tra il fiume e il mare, devono affrontare una situazione di demolizioni, espulsioni, impoverimento e sovraffollamento, mentre le stesse risorse della terra sono destinate a nuove aree di sviluppo urbano per gli ebrei.

E abbiamo progettato, o meglio limitato, gli spostamenti dei palestinesi. La maggior parte di loro, che non sono né cittadini né residenti, dipende da permessi e posti di controllo israeliani per viaggiare all’interno di un’area e tra una zona e l’altra, così come per andare all’estero. Per i due milioni della Striscia di Gaza le restrizioni agli spostamenti sono più severe: non è semplicemente un bantustan [territori che nel Sudafrica dell’apartheid, venivano destinati alla popolazione nativa, ndtr.], in quanto Israele ne ha fatto una delle prigioni all’aria aperta più grandi sulla Terra.

Haifa, la mia città natale, dal 1948 vive una situazione di parità demografica. Dei circa 70.000 palestinesi che vi vivevano prima della Nakba [la Catastrofe, l’espulsione dei palestinesi nel 1948, ndtr.], ne venne lasciato in seguito meno del 10%. Da allora sono passati ormai 73 anni, e adesso Israele/Palestina è una realtà bi-nazionale con parità demografica. Io sono nato qui. Voglio, cerco di rimanervi. Ma voglio, pretendo di vivere in un futuro molto diverso.

Il passato è fatto di traumi e ingiustizie. Nel presente, sono riprodotte costantemente ancor più ingiustizie. Il futuro deve essere radicalmente diverso, il rifiuto della supremazia, costruito sull’impegno per la giustizia e per la nostra comune umanità. Chiamare le cose con il loro nome, apartheid, non è un momento di disperazione, ma di chiarezza morale, un passo sul lungo cammino ispirato dalla speranza. Vedi la realtà per quello che è, chiamala col suo nome senza infingimenti, e contribuisci a realizzare un futuro giusto.

Hagai El-Ad è un attivista israeliano per i diritti umani e direttore esecutivo di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ultimissime sulle elezioni israeliane: ‘Gli israeliani’ e la propaganda del corona

Jonathan Ofir

4 gennaio 2021 – Mondoweiss

Ron Huldai, da vent’anni sindaco di Tel Aviv, ha formato un nuovo partito, “Gli israeliani”, per abbattere definitivamente Netanyahu. Ma Netanyahu ha ancora una carta da giocarsi: il vaccino contro il coronavirus.

Israele si sta avviando verso la quarta tornata elettorale in due anni, questa volta con la scusa di non essere riusciti ad approvare il bilancio 2020. Benny Gantz, il cavaliere bianco liberale, ex generale entrato in politica due anni fa vantandosi di aver riportato Gaza “all’età della pietra”, si è dimostrato un perdente incapace di costituire una reale minaccia per Netanyahu. Lui non vedrà arrivare il suo ‘turno’ [come primo ministro, ndtr.], proprio come la maggioranza degli israeliani si aspettava fin dall’inizio, e secondo i sondaggi i resti del suo partito Blu e Bianco si aggirano appena intorno alla soglia di sbarramento di 4 seggi.

Dal Likud, lo stesso partito di Netanyahu, proviene Gideon Sa’ar, un altro cavaliere bianco con politiche probabilmente ancora più a destra di Netanyahu stesso. Lui salverà Israele con il suo partito “New Hope – Unity for Israel”, [Nuova Speranza – Unità per Israele] difendendo la supremazia ebraica dei “diritti naturali e storici del popolo ebraico sulla terra di Israele”, sostenendo i “valori dello Stato nazionale del popolo ebraico”. Sa’ar, il Netanyahu senza champagne e sigari, negli ultimi sondaggi si aggira sui 17 seggi, rispetto ai 22 previsti una settimana fa, (in Israele, per creare una coalizione di governo, c’è bisogno di una maggioranza di 61 seggi sui 120 del parlamento).

Nessun altro cavaliere bianco?

Ron Huldai, da lungo tempo sindaco di Tel Aviv, ha appena annunciato il suo nuovo partito. Tenetevi forte: ‘Gli Israeliani’. Dovete ammetterlo, un nome originale. E arrogante: noi siamo i ‘veri’ israeliani. In che senso? Huldai rappresenta la vecchia ideologia laburista israeliana, liberale se paragonata alla destra, ma elitaria nel suo sionismo militante, ovviamente. Perciò, Huldai come prima fra le sue credenziali ha scelto di dire che è stato un pilota da guerra. Sai, è una di quelle cose che questi israeliani fanno. Se hai la qualifica di pilota di aerei da combattimento la tiri fuori per prima. Poi ci sono anche quelle di educatore e sindaco. Huldai cerca di riaccendere la speranza del partito laburista israeliano, anche se il partito è appena finito nel dimenticatoio e si dubita che riesca a superare la soglia di sbarramento. Huldai ha dalla sua Amir Peretz, leader del Labor che ha appena lasciato vacante il suo posto, nel caso ci sia qualcuno che veramente lo voglia.

Gli Israeliani’ sembra essere andato bene nel primo sondaggio, attorno agli 8 seggi. Potrebbe piacere ad alcuni fra gli elettori di sinistra che erano andati verso il centro con Blu e Bianco, ma sono rimasti delusi. Ofer Shelah, uno dei suoi leader, ha appena cercato di formare un suo partito per suscitare un maggiore interesse a sinistra, ma i sondaggi lo danno vicino allo zero. Avi Nissenkorn, uno dei ministri di spicco di Gantz (fino ad ora ministro della Giustizia), è passato a Huldai.

Ancora una volta, come è stato pe le tre precedenti elezioni, qui non c’è un blocco assolutamente chiaro per la creazione di un governo. Il Likud ha perso un numero considerevole di voti a causa della scissione di Sa’ar e si aggira ora attorno ai 26 seggi (dai 36 dell’ultima elezione a marzo); ciononostante è di gran lunga il maggior partito e Netanyahu di gran lunga il candidato premier più popolare, più del doppio rispetto a Sa’ar.

E il blocco di Netanyahu? Consisterebbe di quelli che non sono nel campo di chi dice ‘ Purché non sia Netanyahu’, che include i partiti religiosi Shas [partito sefardita, ndtr.] e United Torah Judaism [Giudaismo unito nella Torah, ebrei haredim ultraortodossi ashkenaziti, ndtr.] (insieme raggiungono un consistente numero di 15-16 seggi) e Yamina, il partito nazionalista di destra di Naftali Bennett, ora, stando ai sondaggi, con circa 13 seggi. Yamina è salito fino a 19 all’inizio del mese, ma Sa’ar potrebbe avergli portato via i più moderati. Quindi se aggiungiamo i 26 seggi del Likud si arriva appena a 55. Ma neanche i blocchi rivali, da destra a sinistra, vanno oltre.

È chiaro che dal punto di vista di Netanyahu il sogno sarebbe semplicemente di ampliare i votanti del Likud per riprendersi quei circa 6 seggi e continuare a governare per sempre.

Ma c’è bisogno di un cambio di passo. Qualcuno ha delle idee?

Ma ovvio: il coronavirus.

La propaganda del Corona

Netanyahu ha adocchiato da tempo l’opportunità di essere il ‘re del corona’ e di battere la minaccia del COVID-19 al punto da diventare famoso come il padre della Nazione che la proteggerà come nessun altro. Gli accordi tanto strombazzati sotto il re Trump con gli EAU, Bahrain, Sudan, Marocco sono stati un bel lavoro, ma non decisivi. Dopotutto, le decine di migliaia di turisti israeliani che vanno a Dubai, molti dei quali turisti sessuali, non porteranno così tanti seggi. Ora in Israele c’è il terzo lockdown e la gente vuole uscire, non necessariamente per andare a Dubai, basterebbe uscire di casa.

Perciò Netanyahu sta lavorando freneticamente per assicurarsi un’enorme quantità di dosi di vaccino per gli israeliani, ma, cosa importante, non per i palestinesi sotto occupazione. Si è vantato di chiamare l’amministratore generale di Pfizer alle due di notte. È stato riportato che la Germania avrebbe cambiato le regole sulla condivisione europea del vaccino per dare a Israele parte della quota destinata alla UE per via della ‘relazione speciale’ [con Israele, ndtr.]. Un funzionario dell’ambasciata israeliana ha detto che “ la Germania vede Israele come parte dell’Europa quando si tratta di procurarsi il vaccino e perciò ne permetterà l’invio in Israele quando sarà approvato.” 

Il Likud di Netanyahu continua a tirar fuori il vaccino quando si tratta di rispondere agli sfidanti. “Auguriamo a Gantz e Huldai buona fortuna mentre il primo ministro Netanyahu porta in Israele milioni di vaccini, traghetta Israele fuori dalla crisi da coronavirus e ci dà la vita,” ha ribattuto in risposta al recente annuncio di Huldai di correre alle elezioni.

Netanyahu ha fatto il suo atteso spettacolino della vaccinazione in pubblico il 19 dicembre e Israele è entrato nella corsa per vaccinare gli israeliani ventiquattr’ore su ventiquattro. Ora si vantano di essere i primi al mondo, avendo vaccinato circa il 7% della popolazione (con la prima dose). Per esempio, questo video da hasbara [propaganda israeliana] trasmesso sul canale 4IL: “La Nazione start-up è diventata la VacciNazione! Con il 7% della popolazione già vaccinata, oltre 600.000 vaccini somministrati Israele è al #1 posto al mondo per le vaccinazioni.”

Nel video si vaccina persino un ‘arabo’, un druso [popolazione araba che collabora con Israele, ndtr.]. Naturalmente è per far scena. Se Israele veramente adempisse i suoi obblighi di potenza occupante, allora dovrebbe vaccinare molti ‘arabi’(palestinesi) in più.

No, quello che adesso è importante per Netanyahu è la corsa contro il tempo per inoculare una consistente quantità di israeliani, soprattutto tutti i coloni dei territori palestinesi occupati, entro il 23 marzo, data delle elezioni. Netanyahu ha affermato che Israele sarà in salvo “entro poche settimane”. Vuole che su questo Israele sia #1. Ci aveva già provato prima, lo scorso anno quando aveva detto che in primavera Israele sarebbe stato il posto più sicuro, ma poi in estate era diventato il posto più insicuro. Ma ora sembra più probabile che la popolazione israeliana ebraica possa essere convinta della sua abilità di portarle la salvezza. Pare che Israele stia somministrando circa 150.000 dosi al giorno, quindi in un mese potrebbe vaccinare circa metà dei suoi cittadini.

Netanyahu la vede come una guerra da cui potrebbe uscire vincitore. E bisogna tener conto dell’aspetto: “cosa c’è di meglio?” I più vogliono vaccinarsi, certamente vogliono la fine del COVID-19, almeno per loro. E chi se ne importa dei palestinesi.

In questo modo, Netanyahu entrerebbe nelle vene degli israeliani. Capirebbero quanto profondamente ci tiene a loro. E in quei momenti di beatitudine, potrebbero ridargli quei seggi che quelli del ‘purché non sia Netanyahu’ gli hanno tolto. Netanyahu farà vedere a tutti che è lui quello di cui hanno veramente bisogno ‘gli israeliani.’     

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Joe Biden dovrebbe smetterla con la farsa americana sulle armi nucleari israeliane ‘segrete’

Desmond Tutu

1° gennaio 2021 – The Guardian

Bisogna finirla con questa buffonata e con le enormi somme di aiuti a un Paese con politiche oppressive contro i palestinesi

Al momento del loro insediamento, le ultime quattro amministrazioni USA hanno seguito un rituale iniquo. Si sono tutte dichiarate d’accordo a disattendere la legge americana firmando missive segrete e stipulando così che non ammetteranno qualcosa che tutti sanno: che Israele ha un arsenale di armi nucleari.

Uno dei motivi è per impedire alla gente di focalizzarsi sulla capacità di Israele di polverizzare decine di città. Questo rifiuto di fronteggiare la minaccia posta dallo spaventoso arsenale israeliano dà un senso di potere e impunità al suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, e permette a Israele di dettare agli altri le proprie condizioni.

Ma un altro effetto della strategia dello struzzo dell’amministrazione USA è evitare che l’America applichi le proprie leggi che richiedono la fine della generosità dei contribuenti verso chi contribuisce alla proliferazione di armi nucleari.

Israele infatti è uno di questi Stati. Ci sono prove schiaccianti che negli anni ’70 si offrì di vendere armi nucleari al regime di apartheid in Sudafrica e che condusse persino congiuntamente un test nucleare. Il governo USA ha tentato di occultare questi fatti. Inoltre [Israele] non ha mai firmato il trattato di non-proliferazione nucleare.

Eppure gli USA e i governi israeliani hanno promosso l’invasione dell’Iraq sulla base di menzogne future esplosioni nucleari. Mordechai Vanunu, un tecnico nucleare israeliano che ha fatto la spia, ha detto: le armi nucleari non erano in Iraq, sono in Israele.

Gli emendamenti apportati al Foreign Assistance Act dagli ex senatori Stuart Symington e John Glenn vietano agli USA di fornire assistenza economica e militare a Stati che contribuiscono alla proliferazione nucleare e a quelli che acquistano armi nucleari. Jimmy Carter, quando era presidente, aveva invocato tali misure contro India e Pakistan.

Ma nessun presidente l’ha fatto nei confronti di Israele. Anzi, l’opposto. Dai tempi del presidente Richard Nixon c’è stato un accordo verbale di accettare “l’ambiguità sul nucleare”, accordando in pratica a Israele impunemente il potere che viene dagli armamenti nucleari. E, secondo il settimanale New Yorker, il presidente Bill Clinton ha inviato queste lettere segrete. 

Presidenti e politici statunitensi si sono rifiutati di ammettere che Israele ha armi nucleari, benché la legge ammetta un’esenzione che permetterebbe la continuazione dei finanziamenti se il presidente certificasse al Congresso che l’aiuto a un Paese che contribuisce alla proliferazione nucleare è di vitale interesse per gli USA.

Il prodotto interno lordo pro-capite di Israele è paragonabile a quello del Regno Unito. Ciononostante i contribuenti americani sovvenzionano Israele più di ogni altro Paese. Nel corso degli anni e tenendo conto dell’inflazione, il totale reso pubblico si avvicina ora ai 300 miliardi di dollari.

Questa farsa deve finire. Il governo USA dovrebbe applicare le proprie leggi e tagliare i finanziamenti a Israele dell’acquisizione e della proliferazione di armi nucleari da parte sua.

L’amministrazione entrante di Biden dovrebbe riconoscere onestamente che Israele è uno Stato leader nello sponsorizzare la proliferazione nucleare in Medioriente e implementare correttamente la legge USA. Altri governi, e in particolare quello del Sudafrica, dovrebbero insistere sul rispetto delle leggi e su un disarmo effettivo e sollecitare immediatamente e con assoluta fermezza il governo USA ad agire.

L’apartheid è stato abominevole in Sudafrica ed è abominevole quando Israele pratica la propria forma di apartheid contro i palestinesi, con checkpoint e un sistema di politiche repressive. Inoltre, un’altra legge USA, la Leahy law, proibisce aiuti militari a governi che violano sistematicamente i diritti umani. 

È molto probabile che uno dei motivi per cui la versione israeliana di apartheid è sopravvissuta a quella sudafricana è che Israele è riuscito a mantenere il sistema di oppressione non solo usando le armi dei soldati, ma anche tenendo la pistola nucleare puntata alla tempia di milioni di persone. La soluzione non sta nel cercare di far avere tali armi a palestinesi e altri arabi. La soluzione sono pace, giustizia e disarmo. 

Il Sudafrica ha capito che poteva avere vera pace e giustizia tramite la verità che avrebbe portato alla riconciliazione. Non succede niente fino a quando non ci si confronta onestamente con la verità e ci sono poche verità più importanti con cui fare i conti che l’arsenale di armi nucleari nelle mani di un governo in cui vige l’apartheid.

Desmond Tutu, vincitore del premio Nobel per la pace, è stato arcivescovo di Città del Capo e presidente della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica dal 1996 al 2003.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ci sono gli Emirati dietro la decisione israeliana di concedere ai palestinesi l’accesso alla valle del Giordano?

Rasha Abou Jalal

31 dicembre 2020 – Al Monitor

Per la prima volta in 46 anni Israele ha permesso ai palestinesi di entrare nella valle di al-Qa’oun nel nord della valle del Giordano per coltivare la propria terra. Nonostante l’Autorità Nazionale Palestinese abbia dichiarato che ciò dipende dalla messa in pratica di una sentenza, Al-Monitor ha ricevuto informazioni secondo cui invece la ragione che ha portato a questa azione sarebbe l’intesa Emirati-Israele.

GAZA CITY, Striscia di Gaza — Il 28 dicembre, per la prima volta dopo 46 anni, Israele ha aperto il  cancello di sicurezza che separa la valle di al-Qa’oun, nel nord della valle del Giordano, dal villaggio palestinese di Bardala, permettendo agli agricoltori palestinesi di coltivare la propria terra, ottemperando a una sentenza della magistratura israeliana.

L’ultima volta che gli abitanti del villaggio di Bardala erano andati nelle loro terre fu nel 1974. Dopo è stato loro impedito di accedere all’area a seguito di una decisione dell’esercito israeliano che la considerava “una zona militare chiusa.”

La terra fu concessa ai coloni [israeliani] per coltivarla e trarne guadagni.

Comunque, recentemente si è concluso un accordo fra palestinesi e israeliani per aprire e ripristinare una strada fra il villaggio di Bardala e la valle di al-Qa’oun e concedere l’accesso ai contadini palestinesi.

Tawfiq Jabareen, un avvocato che nella causa delle terre della valle di al-Qa’oun ha rappresentato presso i tribunali israeliani la Colonization and Wall Resistance Commission [Commissione contro la colonizzazione e la resistenza al muro] e i municipi locali, ha detto ad Al-Monitor che, “nel 2015 i palestinesi avevano presentato un’istanza alla magistratura israeliana per riottenere l’accesso alle terre. Nel settembre 2017 siamo riusciti ad ottenere dalla Corte Suprema israeliana una sentenza che richiedeva la cacciata dei coloni e la restituzione della terra ai proprietari palestinesi.”

Ha poi aggiunto che la sentenza non è mai stata implementata.

La pressione politica e diplomatica esercitata dall’Autorità Nazionale Palestinese su Israele ha poi costretto quest’ultimo ad applicare la sentenza,” ha detto.

Così sono stati restituiti circa 1380 dunum (138 ettari) nella valle di ​​al-Qa’oun di proprietà di circa 300 famiglie palestinesi.

Nella valle del Giordano vivono 65.000 palestinesi in 34 località e 13.000 coloni sparsi in 38 insediamenti.

Bassam Sawafta, un contadino che alla guida del suo trattore stava andando ad arare nella valle di al-Qa’oun, ha detto ad Al-Monitor: “Mio padre sognava di riottenere la sua terra qui, ma è morto anni prima che il suo sogno si realizzasse. Oggi lo realizzo io, coltivando questa terra.”

Ha detto che Israele ha permesso l’ingresso a 20 contadini per lavorare dalle 10 del mattino alle 3 del pomeriggio.

Sawafta ha affermato che i palestinesi hanno bisogno di un permesso israeliano ogni volta che vogliono andare sulle loro proprietà, dato che si trovano in una zona militare israeliana.

Moataz Bisharat, il funzionario palestinese incaricato dell’ANP del caso delle colonie israeliane nella valle del Giordano, ha detto ad Al-Monitor, “L’ANP sta per implementare una serie di progetti mirati a fornire assistenza agli agricoltori della zona.”

Ha aggiunto: “La restituzione della valle è un colpo per i coloni, che per anni si sono appropriati delle risorse delle terre. Porta anche alla luce la lentezza delle istituzioni giudiziarie israeliane quando si tratta di applicare le decisioni riguardanti le colonie a spese dei palestinesi.”

Bisharat ha detto che l’ANP intende far ricorso ai tribunali israeliani per chiedere i danni per i proprietari di terreni nella valle di al-Qa’oun privati dell’uso delle loro proprietà per anni.

Anche se i funzionari palestinesi hanno detto che la restituzione delle terre ai proprietari deriva da pressioni diplomatiche dell’ANP, un leader di spicco della Democratic Reformist Current [corrente riformista democratica, ndtr.] ha detto ad Al-Monitor, a condizione di restare anonimo, che, “la restituzione di questa valle ai proprietari palestinesi è avvenuta dopo un accordo Emirati-Israele.” La corrente è capeggiata da Mohammed Dahlan che fu espulso da Fatah e risiede negli Emirati Arabi Uniti.

Quest’anno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente annunciato la sua intenzione di annettere tutta la valle del Giordano.

Il 13 agosto gli EAU hanno annunciato un accordo di normalizzazione con Israele dopo che quest’ultimo si era dichiarato d’accordo sulla sospensione dei suoi piani di annessione di vaste parti della Cisgiordania e della valle del Giordano.

L’accordo di normalizzazione ha scatenato l’ira dell’ANP che, il giorno stesso, ha richiamato il proprio ambasciatore negli EAU. Comunque, il 17 novembre l’ANP ha annunciato il ripristino del coordinamento per la sicurezza con Israele e il ritorno dell’ambasciatore.

Il leader della Democratic Reformist Current ha aggiunto: “La politica degli EAU in relazione al conflitto Palestina-Israele ha bloccato uno dei progetti israeliani più pericolosi contro i palestinesi, cioè l’annessione della valle del Giordano, oltre ad altre vaste aree della Cisgiordania, che sarebbero finite sotto la sovranità israeliana entrando in futuro all’interno dei suoi confini.” Ha detto che l’accordo EAU–Israele porterà presto alla restituzione ai palestinesi di altre terre nella valle del Giordano.

Ahmed Rafiq Awad, docente di media e scienze politiche presso l’università di Al-Quds, ha detto ad Al-Monitor che Israele ha permesso agli agricoltori palestinesi l’accesso alle terre per promuovere gli accordi di normalizzazione con altri Paesi Arabi.

Ha aggiunto: “La valle fu confiscata nel 1974 e la sua restituzione ai palestinesi, in seguito all’annuncio dell’accordo di normalizzazione EAU-Israele in cambio della sospensione del piano di annessione, trasmette il messaggio a palestinesi e arabi che la normalizzazione sarà nell’interesse dei palestinesi.”

Ha affermato che altre decisioni israeliane che mirano a facilitare la vita dei palestinesi o a ripristinare parte dei diritti a loro sottratti in Cisgiordania tranquillizzerebbero l’opinione pubblica palestinese e la collera a livello ufficiale verso gli EAU e gli altri Paesi che hanno concluso o concluderanno in futuro accordi di normalizzazione con Israele.

Awad ha detto che Netanyahu preferirebbe concludere altri accordi con Paesi arabi piuttosto che annettere la valle del Giordano e parti della Cisgiordania.

Netanyahu crede che ogni futuro accordo di pace con i palestinesi risulterebbe più facile in seguito ad accordi di pace con influenti Paesi arabi della regione,” ha detto Awad.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)