Inventare il nuovo antisemitismo

Em Hilton

16 gennaio 2023+972 magazine

Israele ei suoi sostenitori hanno a lungo promosso l’agenda secondo cui l’antisionismo è una forma di razzismo antiebraico. Un nuovo libro mostra come questo sforzo sia avvenuto a spese sia dei palestinesi che degli ebrei della diaspora.

Whatever Happened to Antisemitism?: Redefinition and the Myth of the ‘Collective Jew,’” by Antony Lerman, Pluto Press, June 2022, pp. 336.

Antony Lerman, “Cosa accidenti è successo alll’antisemitismo? Ridefinizione e mito dell’ebreo collettivo’”, Pluto Press, giugno 2022, pp. 336.

Stiamo vivendo un momento particolarmente preoccupante nella lotta globale contro l’antisemitismo. In mezzo al risorgente autoritarismo di destra, le teorie antisemite del complotto vengono poste alla base delle campagne elettorali in tutto il mondo; gli attacchi violenti agli ebrei in Europa  sembrano in aumento e vanno di pari passo con gli attacchi ad altre minoranze; negli Stati Uniti i politici nazionalisti bianchi continuano a gettare la maschera, mentre personaggi pubblici con numeri enormi di follower professano il loro sostegno al nazismo.

Eppure nel frattempo la comprensione pubblica di ciò che costituisce antisemitismo è più confusa che mai. Le accuse di antisemitismo vengono regolarmente lanciate – molto spesso da Israele stesso – per mettere a tacere chi critica Israele  e per attaccare qualsiasi forma di difesa della Palestina come se fosse motivata esclusivamente dal razzismo antiebraico. Nel Regno Unito questa politicizzazione della questione dell’antisemitismo, che si esprime in gran parte come una battaglia di definizioni, ha ridotto a una partita di calcio politica e a stucchevoli politiche sull’identità la un tempo intellettualmente rigorosa ricerca per comprendere come si manifesti l’antisemitismo.

È in questo contesto che dobbiamo esaminare il nuovo libro dello scrittore britannico Antony Lerman, “Whatever Happened to Antisemitism?”. Offrendo un’esplorazione storica e analitica dei tentativi di ridefinire l’antisemitismo nel contesto moderno, il libro si concentra in particolare sullo sviluppo negli ultimi decenni del concetto di “nuovo antisemitismo” – un approccio politicizzato che mira a fondere le critiche a Israele e al sionismo con precedenti interpretazioni dell’antisemitismo che cercavano di fare una distinzione tra i due.

Il saggio di Lerman è completo e ben documentato. Il libro inizia con un riepilogo dei principali eventi relativi all’imbroglio dell’antisemitismo nel Partito Laburista durante tutto il periodo in cui Jeremy Corbyn ne fu il leader (2015-20): la confusione sulle definizioni di antisemitismo e l’uso e l’abuso della nozione di stereotipi antisemiti. Mentre i lettori potrebbero essere riluttanti a immergersi ancora una volta nei vari attacchi [all’interno del Labour, ndt.] di quella stagione politica – dall’evento di lancio del Rapporto Chakrabarti sull’antisemitismo, che l’ex deputata laburista ebrea Ruth Smeeth lasciò in lacrime, al commento di Corbyn, secondo cui i sionisti britannici  “non capiscono l’ironia inglese” –, il libro mostra l’acume dell’analisi di Lerman nel collocare quella che è nota come la “crisi dell’antisemitismo laburista” all’interno della più ampia strategia internazionale della destra per ridefinire l’antisemitismo in funzione della propria agenda politica piuttosto che lanciarsi in una nuova controversia autonoma su un terreno già battuto.

Il libro quindi passa a una rivisitazione storica della costruzione del “nuovo antisemitismo” da parte delle organizzazioni sioniste e dei successivi governi israeliani. Ciò è avvenuto in gran parte come risposta al cambiamento del clima politico seguito all’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, e in particolare all’ormai famosa risoluzione 3379 delle Nazioni Unite, approvata nel novembre 1975 e poi revocata, che dichiara che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Come sostiene Lerman, la mossa simboleggiava una crescente ostilità verso Israele sulla scena internazionale, che costrinse il governo israeliano e gli accademici sionisti a elaborare una nuova strategia per puntellare la legittimità dello Stato.

La loro soluzione fu cercare di dimostrare come la critica a Israele sia, di fatto, un attacco al popolo ebraico in tutto il mondo, sostenendo che lo Stato [di Israele] rappresenta “l’ebreo collettivo” nella famiglia delle Nazioni. I fautori di questo “nuovo antisemitismo”, spiega Lerman, hanno suggerito che [secondo gli oppositori di Israele, ndt] “il diritto di stabilire e conservare uno Stato sovrano e indipendente è prerogativa di tutte le Nazioni, tranne che di quella ebraica”.

Lerman si affretta a sottolineare che l’intervento di Israele nei tentativi precedentemente condotti da organizzazioni ebraiche di tutto il mondo per affrontare l’antisemitismo nei propri Paesi non ha tenuto molto conto della sicurezza degli ebrei che vi vivono; l’esempio di Israele che vende armi alla giunta militare argentina che ha fatto sparire 20.000 dissidenti politici – 2.000 dei quali ebrei – tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 chiarisce bene questo punto.

Sancire che la critica a Israele è antisemitismo

In questo contesto Lerman esamina lo sviluppo della miriade di organizzazioni, istituzioni e organizzazioni no-profit dedicate all’identificazione e alla risposta all’antisemitismo contemporaneo che hanno adottato la premessa del “nuovo antisemitismo” e l’hanno incorporata nella loro difesa [degli ebrei, ndt.] e nei loro sforzi educativi. Questi organismi, sostiene, hanno compiuto un notevole sforzo, spesso in collaborazione con il governo israeliano o istituzioni affiliate, per ridefinire il modo in cui il fanatismo antiebraico è inteso a livello politico e socioculturale, lavorando per sancire fermamente che la critica a Israele o al sionismo è la versione moderna di un odio classico.

Questo era e continua ad essere chiaramente un progetto internazionale: gruppi come l’Anti-Defamation League e l’American Jewish Committee negli Stati Uniti, il World Jewish Congress (precedentemente con sede a Ginevra, ora a New York) e il Community Security Trust nel Regno Unito hanno convogliato e sviluppato risorse e analisi dell’antisemitismo che hanno spinto per il riconoscimento del “nuovo antisemitismo”. Altre organizzazioni, come il Britain Israel Communications and Research Center e il Canadian Institute for the Study of Antisemitism, sono state istituite sulla scia della Seconda Intifada e, secondo Lerman, si sono “concentrate su ‘nuovo antisemitismo’ e ‘antisionismo antisemitico.'”

Sebbene sia importante comprendere la natura interconnessa di questi problemi, Lerman entra nel merito con una quantità estremamente densa di informazioni sulle discussioni tra i vari gruppi ebraici storici, il che rischia di enfatizzare eccessivamente la rilevanza di dibattiti che potrebbero non aver avuto un impatto oltre la ristretta cerchia della politica o del discorso intracomunitario. Si potrebbe anche sostenere che a volte Lerman insiste troppo sull’idea che le organizzazioni ebraiche britanniche abbiano scarso interesse per il benessere e la sicurezza delle comunità che servono, e siano puramente motivate dal loro rapporto con Israele. È forse più giusto suggerire che il loro desiderio di sostenere Israele e il sionismo come pilastro cruciale dell’identità ebraico-britannica abbia avuto la priorità rispetto alle minacce materiali contro le comunità che vivono nel Regno Unito.

Tuttavia il livello di approfondimento di questa sezione del libro mette in evidenza gli ampi sforzi delle istituzioni accademiche israeliane e delle istituzioni governative – come il Ministero degli Affari Strategici, recentemente rimesso in funzione, responsabile della campagna internazionale di Israele contro il movimento BDS – per distogliere l’attenzione dall’ antisemitismo che colpisce principalmente le comunità ebraiche al di fuori di Israele e concentrarsi sul presunto pericolo che la delegittimazione di Israele rappresenterebbe per l’ebraismo globale. Lerman non sottovaluta l’impatto di questo sforzo e le considerevoli risorse che Israele vi ha riversato: non solo ha generato confusione nell’opinione pubblica su cosa sia l’antisemitismo, ma è anche servito a restringere la discussione pubblica su come comprenderlo e, cosa più importante, su come affrontarlo quando si presenta.

E’ inquietante l’ipotesi che la lotta contro l’antisemitismo dalla fine del XX secolo fosse invischiata con e subordinata agli interessi del sionismo in modo tale che le interpretazioni contrastanti dell’antisemitismo contrapponessero la sicurezza e il benessere degli ebrei in tutto il mondo alla forza di uno Stato-Nazione. Ma, come mostra Lerman, queste sono le inevitabili conseguenze della politicizzazione della lotta all’antisemitismo.

Abbiamo visto questa competizione manifestarsi in modo più netto dall’inizio del nuovo secolo: dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che afferma abitualmente di parlare a nome di tutto il popolo ebraico mentre si allinea con alcuni dei leader più antisemiti del mondo; all’ex primo ministro Naftali Bennett, che sfrutta l’orribile sparatoria nella sinagoga di Pittsburgh per giustificare l’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza; a Yair Lapid, che critica come antisemita il rapporto, sostenuto da prove inequivocabili, di Amnesty International sull’apartheid israeliano. Interventi come questi da parte dei leader israeliani hanno ulteriormente alimentato la confusione e lo scetticismo sull’antisemitismo come fenomeno reale, distogliendo l’attenzione e le risorse dall’effettivo antisemitismo che si manifesta ovunque. Lerman mostra come, anteponendo gli interessi del suo progetto nazionale agli interessi degli ebrei di tutto il mondo,  i tentativi di Israele di ridefinire l’antisemitismo per adattarlo ai suoi obiettivi politici stiano attivamente rendendo gli ebrei meno sicuri.

IHRA: Il nuovo gold standard sull’antisemitismo

Negli ultimi anni la guerra sulle definizioni di antisemitismo ha portato questo tema al centro del dibattito pubblico. Lo sviluppo della definizione operativa dell’Osservatorio dell’Unione europea sul razzismo e la xenofobia nei primi anni 2000, che in seguito si è trasformata nella definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA), è stato un tentativo di generare una definizione unificante di antisemitismo, ma così facendo ha incluso varie critiche a Israele come esempi di tale sentimento antiebraico.

La definizione dell’IHRA è stata propagandata come il gold standard sull’antisemitismo, consentendo ai suoi sostenitori di screditare e respingere qualsiasi comprensione alternativa di come funziona l’antisemitismo. Il successo del sostegno all’IHRA è evidente nel contesto britannico: quasi tutti i principali partiti politici del Regno Unito l’hanno adottata, insieme a numerosi istituti di istruzione superiore e persino organizzazioni sportive come la Football Association. Eppure la definizione dell’IHRA è stata assente dalle risposte a incidenti antisemiti di alto profilo nella vita pubblica del Regno Unito, come il licenziamento dell’ex accademico dell’Università di Bristol David Miller [sociologo cacciato per aver sostenuto che Israele cerca di imporre la propria volontà al resto del mondo, ndt.]. Con questo in mente Lerman vuole che comprendiamo non solo l’inutilità del tentativo di creare una definizione universalmente accettata di antisemitismo, ma anche che i tentativi dei sostenitori dell’IHRA di espandere la comprensione del razzismo antiebraico per includervi le critiche a Israele o al sionismo in realtà rende gli ebrei più vulnerabili.

Negli ultimi due anni gruppi di studiosi hanno tentato di combattere l’influenza dell’IHRA producendo definizioni alternative di antisemitismo, tra cui la Definizione Nexus e la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (JDA), che non vedono l’antisionismo come necessariamente equivalente all’antisemitismo. Per Lerman, tuttavia, queste non sono riuscite a rappresentare una “sfida decisiva” all’IHRA, proprio perché tali iniziative sono viste come un tentativo politico piuttosto che accademico.

In questo contesto, Lerman descrive come parti dell’accademia che si dedicano allo studio degli ebrei, dell’antisemitismo e del razzismo siano state a volte reclute volontarie nella battaglia per difendere il sionismo e proteggere Israele dalle critiche. “Non esento lo studio accademico dell’antisemitismo contemporaneo dall’essere afflitto e dal contribuire allo stato di confusione intorno alla comprensione dell’antisemitismo… e dal ridurre tutte le critiche a Israele all’antisionismo antisemita”, scrive. L’impatto di questo sviluppo è stato duplice.

In primo luogo, è sempre più ovvio, in particolare nel contesto britannico, come il manto della ricerca accademica sia utilizzato per legittimare le motivazioni politiche alla base della definizione dell’IHRA. In effetti, gli sviluppi successivi alla pubblicazione di “Whatever Happened” hanno ulteriormente esemplificato le intenzioni di coloro che insistono, attraverso studi accademici, sul fatto che l’antisionismo è antisemitismo.

L’istituzione, alla fine del 2022, del London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism (LCSCA) illustra il punto di vista di Lerman. Sul suo sito web la LCSCA dichiara sua missione “sfidare le basi intellettuali dell’antisemitismo nella vita pubblica e affrontare l’ambiente ostile per gli ebrei nelle università”. Tuttavia uno sguardo più attento rivela ciò che sta alla base di questa missione, poiché l’organizzazione definisce esplicitamente l’antisionismo come “un’ideologia antiebraica”. Oltre a fornire credenziali accademiche per il perseguimento della ridefinizione dell’antisemitismo per includervi la critica a Israele, iniziative come queste promuovono anche l’idea che l’antisemitismo sia un’ideologia radicata nella politica di sinistra (molti degli oratori invitati all’evento di lancio dell’LCSCA, che è stato rinviato in seguito alla morte della regina Elisabetta II, erano accaniti critici del partito laburista di Corbyn).

Questi sforzi ad ampio raggio per politicizzare la lotta all’antisemitismo nel discorso pubblico britannico hanno avuto conseguenze significative. Lerman si concentra sul trattamento degli ebrei di sinistra nel partito laburista – alcuni dei quali sono stati espulsi per il loro sostegno a figure laburiste accusate di antisemitismo – da quando Keir Starmer ha sostituito Corbyn, e li cita come i principali obiettivi di questa strategia nel Regno Unito. Ma questi sforzi vanno oltre le fazioni del Labour. Stimati studiosi dell’antisemitismo che non aderiscono alla politica del “nuovo antisemitismo”, come il professor David Feldman, direttore del Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism di Londra, sono stati ampiamente attaccati dall’establishment ebraico-britannico per aver criticato la definizione dell’IHRA e la strategia che la guida e sottolineato come pregiudichi la nostra comprensione e capacità di affrontare l’antisemitismo. (Feldman è uno dei firmatari della JDA.)

Allo stesso modo, i sostenitori della definizione dell’IHRA hanno preso di mira gli accademici il cui lavoro riguarda la Palestina, tentando di restringere ulteriormente i parametri del legittimo discorso accademico. Alla fine del 2021, Somdeep Sen, autore di diversi libri sulla politica palestinese, si è ritirato da un seminario all’Università di Glasgow dato che gli era stato ordinato di divulgare in anticipo il materiale delle sue lezioni ed era stato ammonito di non violare le leggi nazionali antiterrorismo dopo che l’Associazione Ebraica dell’università aveva espresso preoccupazione per il suo invito. E l’anno scorso, l’accademica palestinese residente nel Regno Unito Shahd Abusalama è stata sospesa dalla sua posizione di docente presso la Sheffield Hallam University dopo che sono emersi post sui social media in cui difendeva uno studente che aveva fatto un cartello con scritto “Ferma l’Olocausto palestinese” – il che, secondo il suo datore di lavoro, violava l’IHRA.

Come attesta Lerman, questa repressione dei discorsi critici nei confronti di Israele nel mondo accademico sono possibili grazie all’ambiguità della definizione dell’IHRA sull’identificazione dell’antisemitismo, che alla fine crea un effetto intimidatorio. In effetti l’ambiguità è il punto che fa leva sul desiderio delle persone più ragionevoli di non essere percepite come antisemite. Questa indeterminatezza è ciò che rende la definizione dell’IHRA così efficace non solo nel generare confusione su cosa sia l’antisemitismo, ma anche nel deviare il discorso dal danno che Israele perpetra quotidianamente contro i palestinesi. La decisione del Tower Hamlets Council [consiglio distrettuale di quartiere, ndt.] di Londra di cancellare “The Great Bike Ride for Palestine” nel 2019 per paura di essere considerato antisemita ne è un esempio.

Il secondo impatto che Lerman identifica sottolinea ulteriormente come la politicizzazione della lotta all’antisemitismo diminuisca e cancelli le esperienze vissute di molti ebrei, compresi quelli che hanno effettivamente sperimentato l’antisemitismo. Espandere la definizione di ciò che costituisce l’antisemitismo rischia di indebolirla, rendendo in ultima analisi inutili questi tentativi. Citando il filosofo ebreo britannico Brian Klug, Lerman sostiene: “Se tutto è antisemitismo, allora niente è antisemitismo”.

Lerman dà il meglio di sé nel capitolo sul mito dell'”ebreo collettivo”, che analizza come il tentativo di ritrarre Israele come l’ebreo nella famiglia delle Nazioni abbia alla fine minato la lotta per smantellare l’attuale antisemitismo. Sostiene che questa distorsione dell’antisemitismo per consentire a Israele di agire impunemente è avvenuta non solo (e in modo più pertinente) a scapito dei diritti umani e delle libertà dei palestinesi, ma anche  della sicurezza e del benessere del popolo ebraico in tutto il mondo.

Le affermazioni di Lerman sono viscerali e piuttosto caustiche. Dissezionare questo processo alla fine mette a nudo l’assurdità quasi comica dell’attuale clima politico, e come la cinica strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte di Israele e della sua industria dell’hasbara [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] significhi che la sicurezza ebraica è passata in secondo piano rispetto al desiderio di affermare un progetto di supremazia etnica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Forse il punto più prezioso di questo libro per gli attivisti progressisti è lo studio di come il nazionalismo ci renda tutti meno sicuri, sostenendo con vigore l’importanza di proteggere i valori universali e di incrementare la solidarietà collettiva di fronte all’eccezionalismo e all’ipernazionalismo

Respingere la definizione di “nuovo antisemitismo”

Il problema che Lerman identifica in “Whatever Happened” è enorme nella misura in cui può sembrare insormontabile. La diffusione del concetto di “nuovo antisemitismo” è sofisticata e dotata di adeguate risorse. È comprensibile che quando si tratta di tentare di sfidare l’identificazione tra Israele ed ebrei – e tra antisemitismo e antisionismo – Lerman sia deluso, come quando descrive gli accenni di resistenza ebraica dopo l’Operazione Piombo Fuso, l’attacco di Israele a Gaza nel 2008 -2009, come “di breve durata”. Sebbene Lerman comprenda l’urgenza e la necessità di respingere queste tendenze, rimane chiaramente scettico sulla nostra capacità collettiva di farlo. Ma gli ostacoli alle lotte di liberazione sono stati quasi sempre percepiti come insormontabili, finché non lo sono più stati.

Anche se Lerman forse non vede come suo compito offrire una visione di ciò che potrebbe essere, il suo libro è anche un intervento contro lo status quo, benché ridotto rispetto a quanto descrive. Ora c’è un’opportunità per valutare le prove presentate da Lerman e invitare coloro che lavorano per combattere il concetto di “nuovo antisemitismo” a riunirsi e identificare ulteriori punti con cui respingerla.

Quindi il valore fondamentale di questo libro per la comprensione del dibattito politico del nostro tempo è il fatto che dimostra non solo che lo sviluppo del progetto del “nuovo antisemitismo” è essenzialmente una questione politica piuttosto che accademica, ma anche che Israele, i suoi sostenitori e altre figure politiche di destra al fine di servire la propria agenda politica hanno sfruttato i timori delle comunità ebraiche di tutto il mondo per confondere le acque rispetto al compito vitale di smantellare l’antisemitismo. “Whatever Happened” fornisce una storia e un contesto di valore inestimabile per coloro che cercano di dare un senso a come la battaglia sulle definizioni di antisemitismo sia stata al centro di un processo per tentare di legare l’identità ebraica a un progetto nazionalista, sia tra gli ebrei che nella società in generale.

Em Hilton è una scrittrice e attivista ebrea che vive tra Tel Aviv e Londra. È la co-fondatrice di Na’amod: British Jews Against Occupation e fa parte del comitato direttivo del Center for Jewish Non-Violence.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




IL Nuovo Nuovo Antisemitismo

Richard Falk≡

18 novembre 2018, WordPress

I crimini dello Stato di Israele nascosti dietro false affermazioni di vittimizzazione

In questi giorni io, come anche molti altri, vengo vittimizzato. Siamo etichettati come antisemiti e in alcuni casi anche come ebrei che odiano sé stessi. È un tentativo da parte di sionisti ed israeliani di mettere a tacere le nostre voci e di punire il nostro attivismo nonviolento, con particolare livore nei confronti della campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni, ndtr.) poiché negli ultimi anni è diventata molto efficace. Questa etichetta negativa dell’opposizione è stata chiamata ‘il nuovo antisemitismo’. Il vecchio antisemitismo era semplicemente odio verso gli ebrei espresso attraverso immagini ed atteggiamenti negativi, come anche pratiche discriminatorie, persecuzioni e giustizia sommaria. Il nuovo antisemitismo è la critica contro Israele e il sionismo, ed è stato sostenuto da governi amici di Israele e portato avanti da una serie di importanti organizzazioni ebraiche, incluse alcune collegate ai sopravvissuti e alla memoria dell’Olocausto. Emmanuel Macron, presidente francese, ha espresso abbastanza chiaramente questo rifiuto da parte degli apologeti di Israele, anche se in forma piuttosto malevola: “Non cederemo mai alle espressioni di odio. Non ci arrenderemo mai all’antisionismo, perché esso è la riproposizione dell’antisemitismo.” La falsa premessa pone sullo stesso piano il sionismo e gli ebrei, definendo automaticamente come antisemitismo le critiche e l’opposizione allo Stato sionista di Israele.

Già nel 2008 il Dipartimento di Stato USA si è mosso più velatamente in una direzione simile a quella di Macron, attraverso questa dichiarazione formale: “Le ragioni per criticare Israele alle Nazioni Unite possono derivare da legittime preoccupazioni politiche o da pregiudizi illegittimi. (…) Comunque, a prescindere dalle intenzioni, critiche sproporzionate a Israele in quanto incivile e amorale, e le relative misure discriminatorie adottate dalle Nazioni Unite contro Israele, hanno l’effetto di far sì che il pubblico attribuisca caratteristiche negative agli ebrei in generale, alimentando così l’antisemitismo.” L’errore qui sta nel considerare le critiche come “sproporzionate” senza nemmeno prendere in considerazione la realtà della lunga serie di illegalità da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese. Per chi di noi vede la realtà delle politiche e delle pratiche israeliane vi sono pochi dubbi che le critiche che vengono avanzate e le pressioni che vengono esercitate [siano] in ogni senso proporzionate.

Un’argomentazione correlata, che spesso viene avanzata, è che a Israele siano richiesti livelli più alti di altri Stati, e che questo riveli un sottinteso antisemitismo. Questo è un argomento in malafede. Non è una giustificazione suggerire che la criminosità di altri sia più grave. Inoltre, gli USA finanziano Israele con almeno 3,8 miliardi di dollari all’anno, oltre a dare il loro incondizionato appoggio al suo comportamento, determinando una certa responsabilità per imporre dei limiti in base al diritto umanitario internazionale. Anche le Nazioni Unite hanno contribuito al calvario dei palestinesi, non mettendo in pratica la soluzione di partizione e permettendo che per 70 anni milioni di palestinesi subissero le strutture di dominio dell’apartheid. Nessun altro popolo può così giustificatamente condannare forze esterne per la tragedia che ha patito.

Nel 2014 Noam Chomsky, con la sua usuale chiarezza morale ed intellettuale, ha spiegato la falsa logica di una simile affermazione: “In realtà, l’esempio di scuola, la migliore formulazione di ciò, la si deve ad un ambasciatore presso le Nazioni Unite, Abba Eban [politico e diplomatico israeliano, ndtr.] (…). Ha raccomandato alla comunità ebraica americana di assolvere a due compiti. Uno consisteva nel mostrare che le critiche alla politica, che lui definiva antisionismo – che in realtà significa criticare la politica dello Stato di Israele – erano antisemitismo. Questo era il primo compito. Il secondo, nel caso che le critiche provenissero da ebrei, consisteva nel mostrare che si trattava di odio nevrotico verso sé stessi, che necessitava di un trattamento psichiatrico. Quindi forniva due esempi di quest’ultima categoria. Uno era I.F. Stone [giornalista americano progressista, ndtr.]. L’altro ero io. Quindi, noi avremmo dovuto essere curati per i nostri disturbi psichici, e i non ebrei avrebbero dovuto essere condannati per antisemitismo, se criticavano lo Stato di Israele. Si può capire perché la propaganda israeliana prenda questa posizione. Io non critico particolarmente Abba Eban per aver fatto ciò che gli ambasciatori a volte devono fare. Ma dovremmo capire che non è un’accusa sensata. Per niente sensata. Non c’è niente da rispondere. Non è una forma di antisemitismo. È semplicemente una critica delle azioni criminose di uno Stato.”

Una caratteristica di questo nuovo antisemitismo è la sua mancata risposta alle ben comprovate accuse di crimini contro l’umanità avanzate da coloro che sono etichettati come antisemiti. Forse questi ardenti sostenitori di Israele spingono davvero il loro senso di impunità fino al punto di ritenere il silenzio un’adeguata forma di difesa? A sottolineare una tale negazione del concetto di responsabilità legale e morale vi è questo sentimento di eccezionalità di Israele, una concezione del diritto penale internazionale che condivide con l’eccezionalità americana. Coloro che sono d’accordo con questa eccezionalità pretendono di venire offesi persino dall’insinuazione che un tale governo possa essere soggetto alle norme sancite dallo Statuto della Corte Penale Internazionale o dalla Carta dell’ONU. L’eccezionalità di Israele affonda le sue radici nella tradizione biblica, soprattutto nella lettura degli ebrei come “popolo eletto”, ma in realtà si situa in uno spazio rassicurante creato dall’ombrello geopolitico che protegge dal giudizio del mondo la maggior parte dei suoi atti di sfida alle leggi. Queste azioni di protezione sono ben illustrate dalla recente risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha dichiarato nulli e non validi i passi di Israele verso l’annessione delle alture del Golan, con il voto contrario dei soli Israele e Stati Uniti, mentre 151 membri dell’ONU hanno votato a favore.

Se dedichiamo anche solo un minuto ad esaminare il diritto internazionale, scopriremo che la questione è talmente ovvia che non vale la pena di discuterne seriamente. Un principio cardine dell’attuale diritto internazionale, spesso affermato dall’ONU in altri contesti, è il divieto di impadronirsi di un territorio con la forza delle armi. Non c’è dubbio che le alture del Golan facessero parte del territorio sovrano della Siria fino alla guerra del 1967, e che Israele ne abbia preso il controllo, che ha sempre esercitato da allora, attraverso un’occupazione con la forza.

Le ironie del ‘nuovo nuovo’ antisemitismo

Qui è presente un’ironia opportunistica. Il nuovo antisemitismo sembra non avere problemi ad abbracciare i cristiani sionisti, nonostante la loro ostilità verso gli ebrei accompagnata dalla fanatica devozione ad Israele come Stato ebraico. Chiunque abbia assistito ad una conferenza dei cristiani sionisti sa che la loro lettura del Libro della Rivelazione implica l’interpretazione che Gesù ritornerà quando tutti gli ebrei ritorneranno in Israele e verrà ricostruito il tempio più sacro di Gerusalemme. Questo percorso non finirà qui. Gli ebrei saranno di fronte alla scelta tra convertirsi al cristianesimo o essere condannati alla dannazione eterna. Quindi tra questi fanatici amici di Israele è presente una sincera ostilità verso gli ebrei, sia nell’insistere che la fine della diaspora ebraica sia un imperativo religioso per i cristiani, sia per il misero destino che attende gli ebrei che rifiuteranno di convertirsi dopo il Secondo Avvento.

Siamo di fronte ad un’illuminante perversità. A differenza dei nuovi antisemiti che non sono ostili agli ebrei in quanto popolo, i cristiani sionisti danno priorità al loro entusiasmo per lo Stato di Israele, mentre sono disposti a distruggere le vite degli ebrei della diaspora e alla fine anche quelle degli ebrei israeliani e sionisti. Forse si tratta meno di perversità quanto di opportunismo. Israele non ha mai avuto alcuna riluttanza a sostenere i leader più oppressivi e dittatoriali di Paesi stranieri, posto che essi acquistino armi e non adottino una politica diplomatica anti-israeliana. Il messaggio di congratulazioni di Netanyahu a Bolsonaro, il neo eletto presidente del Brasile, è solo l’esempio più recente, e Israele ha ricevuto un immediato ringraziamento con l’annuncio della decisione [del Brasile] di unirsi agli Stati Uniti trasferendo la sua ambasciata a Gerusalemme. In effetti, il nuovo antisemitismo si trova a suo agio sia coi cristiani sionisti che con i leader politici stranieri che mostrano tendenze fasciste. Di fatto, chiudere gli occhi di fronte alla profonda realtà del vero antisemitismo è una caratteristica del nuovo antisemitismo così caldeggiato dai militanti sionisti. Per una esauriente documentazione, si può leggere l’importante libro di Jeff Halper, ‘War against people: Israel, the palestinians and global pacification’ (2015). [‘Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale’, Epoké, Novi Ligure, 2017. Ndtr.].

Di fronte ad un simile contesto abbiamo bisogno di un termine che descriva e identifichi questo fenomeno e respinga le sue accuse insidiose. Propongo la poco elegante dicitura di ‘il nuovo nuovo antisemitismo’. L’idea di una simile definizione vorrebbe suggerire che sono i nuovi antisemiti, non i critici e gli attivisti che criticano Israele, i reali portatori di odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Due tipi di argomentazioni sono implicite in questo rifiuto della campagna che cerca di screditare o addirittura criminalizzare i ‘nuovi antisemiti’. Primo, essa impedisce la critica della persistenza di situazione sconcertante, della perdurante tragedia dell’apartheid imposto a tutto il popolo palestinese nel suo complesso, distoglie l’attenzione, deliberatamente o inconsapevolmente, dalle obiezioni al vero antisemitismo, provocando anche confusione, accettando in nome dello Stato di Israele l’abbraccio dei cristiani sionisti (e degli evangelici), oltre a quello dei leader fascisti che predicano messaggi di odio etnico.

In conclusione, nel nostro impegno per la realizzazione dei diritti dei palestinesi, primo tra tutti il loro diritto all’autodeterminazione, noi che veniamo accusati di essere i nuovi antisemiti in realtà stiamo cercando di onorare la nostra umanità e di rifiutare le lealtà tribali o gli schieramenti geopolitici. Come ebrei, rendere Israele responsabile in base agli standard che sono stati utilizzati per condannare i capi politici e militari nazisti sopravvissuti significa onorare l’eredità dell’Olocausto, non infangarla. Al contrario, quando Israele vende armi ed offre addestramento per reprimere le rivolte a governi guidati da fascisti in tutto il mondo, o continua ad accettare l’Arabia Saudita del dopo Khashoggi come un valido alleato, esso oscura la natura malvagia dell’Olocausto in modi che in futuro potrebbero tormentare Israele ed anche gli ebrei della diaspora.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali, che ha insegnato per 40 anni alla Princeton University. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California ed insegna studi globali e internazionali nel locale campus dell’università della California; dal 2005 dirige il consiglio d’amministrazione della Fondazione per la Pace dell’Era Nucleare. Ha dato inizio a questo blog in parte per celebrare il suo 80esimo compleanno.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I partiti europei sono stati invitati a sottoscrivere che le pratiche di boicottaggio sono antisemite

Arthur Neslen

24 ottobre 2018, The Guardian

Un convegno spalleggiato dal governo israeliano intende proporre linee rosse per i futuri membri del Parlamento Europeo

Una conferenza a Bruxelles spalleggiata dal governo israeliano intende spingere tutti i partiti politici europei a firmare delle “linee rosse” che dichiarino le pratiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) “essenzialmente antisemite”.

La conferenza di due giorni, a cui parteciperà il ministro israeliano per le questioni di Gerusalemme, Ze’ev Elkin, proporrà ai futuri membri del Parlamento Europeo e ai partiti politici un testo da firmare prima delle elezioni europee nel maggio del prossimo anno.

Il testo invita gli Stati membri dell’UE a firmare la “definizione operativa di antisemitismo” dell’Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto e ad escludere dal governo tutti i politici o i partiti che la violino.

La più controversa delle linee rosse – basata su una risoluzione adottata nel 2016 in Germania dall’Unione Cristiano-Democratica di Angela Merkel – invita “tutti i partiti politici ad approvare una risoluzione vincolante che respinga le attività BDS come essenzialmente antisemite.”

Il rabbino Menachem Margolin, fondatore dell’Associazione Ebraica Europea (EJA), una coalizione di organizzazioni che sta organizzando la conferenza insieme al gruppo Affari Pubblici Europa-Israele (EIPA), ha detto: “Quando saranno approvate, queste ‘linee rosse’rappresenteranno le nostre linee scritte non sulla sabbia, ma nel cemento, e fungeranno da sveglia per i politici per segnalargli che qui è davvero in gioco il futuro dell’Europa ebraica.”

Nel suo materiale promozionale per la conferenza del 6-7 novembre l’’EJA afferma che gli inviti sono coordinati con i ministeri israeliani per le Questioni di Gerusalemme e degli Affari Esteri, di cui sono indicati i loghi.

Nessuno dei due ministeri ha per ora risposto alle richieste di un commento.

Negli ultimi anni il governo israeliano ha cambiato atteggiamento, passando dall’ignorare il movimento BDS contro Israele, negli anni seguenti alla sua fondazione nel 2005, al lancio di una campagna internazionale contro di esso, sostenendo che mira a delegittimare lo Stato ebraico. Israele ha approvato una legge che vieta l’ingresso agli stranieri che sostengono pubblicamente il boicottaggio di Israele ed ha creato gruppi in altre Nazioni per contrastare le attività e le argomentazioni del BDS.

Il ministero israeliano per gli affari strategici, che pare abbia stanziato un budget di 72 milioni di dollari per contrastare il movimento mondiale BDS, dice di non essere coinvolto nella conferenza. Tuttavia, The Guardian è a conoscenza che i suoi funzionari pubblici ed altro personale del ministero degli Esteri israeliano sono stati regolarmente in contatto con almeno una figura coinvolta nell’organizzazione dell’evento.

Secondo il sito web del gruppo, l’anno scorso il ministro degli Affari Strategici, Gilad Erdan, ha visitato l’EIPA per dare sostegno e tenere riunioni informative che in parte riguardavano “il contrasto alla narrazione del BDS”. “Come posizione ufficiale, il ministero ritiene il BDS antisemita per i suoi doppi standard e per la demonizzazione di Israele”, ha riferito una fonte vicina all’ufficio di Erdan.

Margrete Auken [del gruppo dei Verdi/Alleanza Libera Europea, ndtr.], vice-capo della delegazione del Parlamento Europeo per le relazioni con la Palestina, ha detto di non appoggiare il BDS. Tuttavia ha affermato: “Respingo i continui tentativi di assimilare questo movimento a guida palestinese all’antisemitismo”.

C’è un’evidente intenzione di mettere a tacere i sostenitori del BDS per proteggere le politiche illegali di annessione e spoliazione da parte del governo Netanyahu. La criminalizzazione e la repressione della legittima espressione della libertà di parola non possono essere accettate nelle nostre società.”

Durante l’estate le questioni relative all’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo hanno diviso il partito Laburista nel Regno Unito. Un ‘organizzatore della conferenza ha detto che le linee rosse “potrebbero creare difficoltà ai compagni del partito Laburista nelle elezioni europee che sostengono Jeremy Corbyn come il salvatore della socialdemocrazia.”

Ed ha aggiunto: “Dobbiamo stilare queste linee e fare in modo che le persone le firmino prima di queste elezioni, in modo che in seguito noi possiamo chiedergliene conto.”

Un altro segnale che una nuova battaglia su questa questione potrebbe essere in preparazione, è il fatto che l’ambasciatore israeliano presso l’Unione Europea, Aharon Leshno-Yaar, ha accusato la vice-capo del gruppo socialista nel Parlamento Europeo, Elena Valenciano, di avere “una strana ossessione nei confronti dello Stato ebraico”, dopo che lei aveva criticato le politiche israeliane.

Sono preoccupato per il crescente numero di episodi antisemiti in Europa negli ultimi tempi”, ha detto Yaar, citando rapporti sullo spionaggio iraniano in centri ebraici. “Il vostro silenzio su questi argomenti è assordante. State adottando una narrazione che ha un unico scopo – denigrare lo Stato democratico del popolo ebreo.”

Quest’anno le accuse del ministero di Erdan secondo cui l’Unione Europea ha finanziato Ong che supportavano il BDS e il terrorismo gli si sono ritorte contro, quando il capo della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, le ha definite “disinformazione”.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La frottola del giorno: l’antisemitismo e la negazione dell’autodeterminazione degli ebrei

Joel Doerfler

17 ottobre 2018, Mondoweiss

É difficile superare per la sua stupefacente miscela di sofisma e sfrontatezza [lett. chutzpah, in yiddish nel testo, ndtr.] l’affermazione della “Definizione operativa” dell’“International Holocaust Remembrance Alliance”  [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndtr.] (IHRA), secondo cui “negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, sostenendo ad esempio che l’esistenza della Stato di Israele è un’impresa razzista,” rappresenta un indicatore decisivo di antisemitismo.

Ma poiché questa affermazione ora è diventata un punto fermo sionista ripetuto all’infinito, e poiché il dipartimento di Stato e il ministero dell’Educazione degli USA hanno adottato la “Definizione operativa” dell’IHRA, mentre una legge di sensibilizzazione sull’antisemitismo, che include l’indicazione dell’IHRA, è attualmente in attesa al Congresso, è imperativo analizzare i vari modi in cui l’impiego del termine dell’IHRA “autodeterminazione” è pericolosamente equivoco.

Per iniziare dalla cosa più ovvia: se negare agli ebrei il “diritto all’autodeterminazione” è prova di antisemitismo, allora come dovremmo chiamare la negazione dello stesso diritto agli autoctoni che hanno vissuto in Palestina per secoli? Il partito Likud di Netanyahu non ha mai appoggiato uno Stato palestinese sovrano. Cosa ancora più sintomatica, tuttavia, la grande maggioranza degli israeliani che hanno appoggiato un qualche tipo di “soluzione dei due Stati” lo ha fatto per ragioni puramente pragmatiche e non per una questione di “diritti”. Chi l’ha proposta ha sostenuto che i due Stati avrebbero eliminato la “minaccia demografica” al carattere ebraico di Israele; che avrebbe ridotto il livello di violenza e favorito la pace; che uno Stato palestinese avrebbe consentito ad Israele di continuare (sic) ad essere democratico. Quello che tutti questi argomenti in apparenza “illuminati” condividono è il presupposto che Israele (cioè, gli ebrei israeliani) debbano concedere, per il proprio interesse, una qualche sorta di Stato a (qualche) palestinese. L’idea che i palestinesi abbiano un “diritto” a uno Stato, un diritto derivante dal principio dell’autodeterminazione nazionale, e l’ammissione che un simile diritto, come ogni altro diritto, non sia da “concedere” o da “negoziare” da parte degli ebrei israeliani (o di chiunque altro), non è mai entrata in questo discorso.

C’è veramente una sorprendente ipocrisia nel sostenere che la negazione di un diritto ebraico all’”autodeterminazione” sia perfidamente antisemita, mentre la negazione dello stesso diritto ai palestinesi sia giustificabile o irrilevante.

Ma questa è solo una parte del problema.

Secondo l’IHRA un segno rivelatore che la negazione del diritto degli ebrei all’autodeterminazione sia una manifestazione di perfido antisemitismo è fornito quando la negazione è accompagnata dall’affermazione che lo Stato di Israele è un’”impresa razzista”. Qui la logica è, a dir poco, confusa. C’è gente che sostiene che gli ebrei europei, nordafricani, etiopi, yemeniti, nordamericani ed irakeni non possiedono un “diritto all’autodeterminazione” in Palestina, eppure nega che il sionismo e lo Stato di Israele siano un’”impresa razzista”. Queste persone sono antisemite? Ce ne sono altre che affermano che gli ebrei del mondo hanno, di fatto, il diritto all’autodeterminazione nazionale in Palestina, eppure insistono sul fatto che il progetto sionista sia stato sistematicamente “razzista” nella pratica. Queste persone sono antisemite? E ce ne sono altre ancora che credono sia che Israele sia razzista e che gli ebrei del mondo non abbiano nessun diritto all’autodeterminazione in Palestina. Sostenere entrambe queste opinioni è più antisemita che sostenerne solo una? Perché?

La verità è che non c’è niente in ognuna di queste opinioni che sia di per sé antisemita, se intendiamo l’antisemitismo come è sempre stato concepito, cioè come odio accanito contro gli ebrei e la convinzione che gli ebrei siano congenitamente malvagi e una minaccia per tutti.

L’affermazione secondo cui i “popoli” hanno un “diritto all’autodeterminazione” è relativamente recente. È stata parte del nuovo discorso nazionalista che è emerso nell’Europa centro-orientale durante il XIX° secolo; ha avuto una diffusione planetaria grazie a Woodrow Wilson [presidente degli USA dal 1913 al 1921, ndtr.] e, in chiave diversa, da Lenin alla fine della Prima Guerra Mondiale, ed è stata più o meno sancita come principio della vita internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tra gli altri contesti, è stata esplicitamente espressa nella risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale dell’ONU che afferma che “tutti i popoli hanno il diritto di determinare liberamente, senza interferenze esterne, il proprio status politico e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale… e (che) ogni Stato ha il dovere di rispettare questo diritto.”

Mentre è molto stimolante l’idea di un “diritto” all’autodeterminazione nazionale, c’è anche molto da dire riguardo al concetto secondo cui esso è oscuro e problematico. I problemi più ovvi riguardano la difficoltà: a) di accertare cosa costituisca un “popolo”; b) di determinare l’identità di quei particolari “popoli” che dovrebbero legittimamente esercitare il loro presunto “diritto”; c) di specificare cosa significhi che “un popolo” possieda un proprio Stato.

Nessuno di questi problemi è facilmente risolvibile.

I baschi dovrebbero essere considerati un “popolo” che possiede un diritto all’autodeterminazione nazionale? Lo dovrebbero essere i bretoni? Gli aborigeni australiani? I sioux Lakota? Gli afroamericani? E gli ebrei? Cosa li rende esattamente un “popolo” nello stesso modo in cui lo sono, per esempio, i norvegesi?

È anti-basco o antisemita affermare che baschi ed ebrei non sono “popoli” che possiedono un “diritto” politico-territoriale all’autodeterminazione? Quali criteri possono e dovrebbero essere invocati per risolvere questi interrogativi?

L’esistenza come popolo” non è complessa solo in teoria. Il “diritto all’autodeterminazione” è rispettato solo in modo molto selettivo nell’attuale mondo della politica internazionale. Ci sono circa 35 milioni di kurdi che vivono in una zona confinante tra gli attuali Turchia, Iraq, Iran e Siria. La maggior parte di queste persone vede se stessa come “kurdi”. Nessuno di essi è ora in grado di esercitare, de jure, il proprio “diritto” all’autodeterminazione nazionale. E neppure i tibetani, né gli Igbo della Nigeria, né i ceceni, e via di seguito. Che razza di definizione dovremmo assegnare a quanti si oppongono a che lo possano fare?

E poi c’è la domanda: cosa comporta l’esercizio del “diritto all’autodeterminazione”, nel senso di cosa ciò “consente”? Per esempio, i polacchi per etnia dovrebbero essere intesi come “proprietari” della Polonia? È il loro Stato, tale per cui i cittadini polacchi che non sono etnicamente polacchi sono di fatto “ospiti”, ben accolti o meno, della “famiglia” nazionale polacca? Pochi anni fa, la maggior parte degli analisti credeva che questa specie di nazionalismo volkisch [nel senso di etno-nazionalismo, ndtr.], “integralista”, fosse una cosa del passato. Ma ora non più. Come hanno osservato molti commentatori, il nazionalismo razzista e nativista è spaventosamente rinato, non solo in posti come l’Ungheria e la Polonia, ma anche nell’America di Trump. E come ha giustamente osservato Eva Illouz [sociologa e docente israeliana, ndtr.], “Israele è, di fatto, da molto tempo all’avanguardia del modello a cui queste nazioni aspirano: sostenere la cittadinanza in base all’affiliazione etnico-religiosa” e combattere decisamente “la diluizione etnica, religiosa e razziale del loro Paese attraverso l’immigrazione o i diritti universali.”

Anni, anzi decenni, prima dell’approvazione alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] della malvagia legge dello “Stato-Nazione”, lo Stato di Israele si è considerato, nelle parole di Shlomo Sand [storico israeliano, ndtr.], “la proprietà collettiva degli ‘ebrei del mondo’, credenti o meno, piuttosto che un’espressione istituzionale della sovranità democratica dell’insieme dei cittadini che vi vivono.” Eppure nello strano universo morale dell’IHRA, mettere in discussione il “diritto del popolo ebraico” ad esercitare la propria “autodeterminazione” in un modo così evidentemente reazionario costituisce una “delegittimazione” – e la “delegittimazione” è una prova di antisemitismo. Le implicazioni sono francamente bizzarre. Come ha evidenziato Nathan Thrall [scrittore, giornalista ed analista statunitense, ndtr.], in base a questa logica quanti sostengono “l’opinione secondo cui Israele dovrebbe essere uno Stato di tutti i suoi cittadini, con uguali diritti per ebrei e non ebrei” sarebbero di per sé catalogabili come antisemiti che delegittimano [Israele], e “praticamente tutti i palestinesi (e una gran parte degli ebrei ultraortodossi di Israele, che si oppongono al sionismo per ragioni religiose) sarebbero (allo stesso modo) colpevoli di antisemitismo, perché vogliono che ebrei e palestinesi continuino a vivere in Palestina ma non in uno Stato ebraico.”

Il principio dell’autodeterminazione nazionale è chiaramente problematico. Ovunque ci sono pochissime persone coerenti nell’appoggiare la sua applicazione. La Sinistra ha storicamente avuto la tendenza a promuovere principi internazionalisti e a guardare con diffidenza alla maggior parte delle manifestazioni di irredentismo nazionalista o di particolarismo atomizzante, eppure hanno anche appoggiato entusiasticamente le lotte anticoloniali di liberazione nazionale in Algeria, Vietnam, Angola, Mozambico e Palestina. La Destra storicamente ha teso ad appoggiare la perpetuazione dei regimi coloniali dominati dai bianchi, percepiti in patria con invocazioni nativiste di purezza razziale, e sostenuto nozioni essenzialiste di “appartenenza al popolo”, ma si è anche trovata a disagio con l’idealismo universalista di Wilson. Durante gli anni ’90 sia la Sinistra che la Destra sono parse per lo più confuse su come rispondere alla disintegrazione della Yugoslavia e dell’URSS e dalla conseguente creazione di un gran numero di nuovi Stati-Nazione. Effettivamente, in ultima analisi pare che posizioni e atteggiamenti riguardanti il “nazionalismo” e l’”autodeterminazione nazionale” dipendano dal contesto, cambino nel tempo e non siano sempre coerenti.

Perciò, cosa di tutto ciò ha a che vedere con l’”antisemitismo”? Bene, se c’è una linea di pensiero coerente nell’attuale mantra sionista è che la negazione del “diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nazionale” è antisemita perché invocata in modo “selettivo” (leggi: pregiudiziale). Gli ebrei sarebbero stati trattati in modo diverso da tutti gli altri popoli. Israele è “preso di mira” con un atteggiamento particolarmente critico, con riprovazione e delegittimazione. E perché? Antisemitismo del XXI° secolo.

Lasciando perdere il fatto che il troppo noto ritornello sionista riguardo al “prendere di mira” è sempre stato estremamente discutibile, per non dire in malafede, è piuttosto azzardato insinuare, salvo nei sogni deliranti di Alan Dershowitz [docente di diritto internazionale statunitense e strenuo difensore di Israele, ndtr.], che qualcuno sostenga l’opinione che tutti i “popoli” del mondo abbiano il diritto all’autodeterminazione nazionale salvo gli ebrei! Ma questo sembra proprio ciò che sta sostenendo l’attuale argomentazione conclusiva sionista.

Tuttavia, tornando al mondo reale, il governo israeliano e i suoi alleati stanno tirando fuori tutti gli spot propagandistici nel frenetico e criminale tentativo di eliminare sia le critiche che la resistenza attiva alle politiche israeliane riguardo ai palestinesi. Nell’attuale campagna sta giocando un ruolo importante la minaccia spettrale di un “Nuovo Antisemitismo” capeggiato da quanti difendono i diritti dei palestinesi. (Il reale antisemitismo di Orban e dei suoi consimili è sminuito o ignorato). E nell’inventare questa “nuova” specie di minaccia antisemita, i suoi sostenitori hanno tentato senza vergogna di avvolgere Israele nel mantello dei principi universalistici, invocando il linguaggio wilsoniano dell’”autodeterminazione”.

I propagandisti, gli utili idioti, i compagni di viaggio e chi ci crede davvero, che fanno questo discorso, stanno lanciando spaghetti concettuali contro il muro, nella speranza che qualcuno vi si attacchi. È importante che noi impediamo che ciò avvenga.

Su Joel Doerfler

Joel Doerfler è da molto tempo un docente indipendente di storia. Vive a New York.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il “nuovo antisemitismo”

Neve Gordon

4 gennaio 2018, London Review of Books

Poco dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel settembre 2000 sono diventato attivista del movimento politico ebreo-palestinese chiamato “Ta’ayush”, che conduce un’attività non violenta diretta contro l’assedio militare israeliano della Cisgiordania e di Gaza. Il suo obiettivo non è solo protestare contro le violazioni dei diritti umani da parte di Israele, ma di unirsi al popolo palestinese nella sua lotta per l’autodeterminazione. Per alcuni anni ho passato la maggior parte dei fine settimana con “Ta’ayush” in Cisgiordania; durante la settimana avrei scritto delle loro attività per la stampa locale ed internazionale. I miei articoli attirarono l’attenzione di un professore dell’università di Haifa, che scrisse una serie di interventi accusandomi prima di essere un traditore e un sostenitore del terrorismo, poi più tardi di essere un “Judenrat wannabe” [lett. “Sostenitore del Consiglio ebraico”, cioè gli ebrei che collaborarono con il nazismo, ndt.] e un antisemita. Le accuse iniziarono a circolare sui siti web della destra; ricevetti minacce di morte e parecchi messaggi di odio via mail; all’amministrazione della mia università arrivarono lettere, alcune da parte di importanti finanziatori, che chiedevano che venissi licenziato.

Ho citato questa esperienza personale perché, benché persone all’interno di Israele e all’estero abbiano espresso preoccupazione per il mio benessere e mi abbiano offerto il loro appoggio, la mia sensazione è che nel loro sincero allarme per la mia sicurezza, abbiano perso di vista qualcosa di molto importante riguardo all’accusa di “nuovo antisemitismo” e a chi sia, in ultima analisi, il loro bersaglio.

Ci viene detto che il “nuovo antisemitismo” prende la forma della critica del sionismo e delle azioni e delle politiche di Israele, e si manifesta spesso nelle campagne per rendere responsabile il governo israeliano della violazione delle leggi internazionali, con il recente esempio del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). In questo sarebbe diverso dal “tradizionale” antisemitismo, inteso come l’odio per gli ebrei in quanto tali, l’idea che gli ebrei siano naturalmente inferiori, la convinzione che ci sia una cospirazione mondiale degli ebrei o il controllo ebraico del capitalismo, ecc. Il “nuovo antisemitismo” differisce anche dalla forma tradizionale nelle affiliazioni politiche dei suoi presunti responsabili: mentre siamo abituati a pensare che gli antisemiti siano politicamente di destra, i nuovi antisemiti sarebbero, agli occhi dei loro accusatori, soprattutto politicamente di sinistra.

La logica del “nuovo antisemitismo” può essere formulata come un sillogismo: 1) l’antisemitismo è odio verso gli ebrei; 2) essere ebrei vuol dire essere sionisti; 3) di conseguenza l’antisionismo è antisemitismo. L’errore riguarda la seconda proposizione. Le affermazioni secondo cui il sionismo si identifica con l’ebraismo, o che una simile equazione possa essere fatta tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, sono false. Molti ebrei non sono sionisti. E il sionismo ha molte caratteristiche che non sono in nessun modo insite o caratteristiche dell’ebraicità, ma piuttosto sono emerse dalle ideologie nazionaliste e del colonialismo di insediamento durante gli ultimi trecento anni. La critica del sionismo o di Israele non è necessariamente il prodotto di un’animosità verso gli ebrei; al contrario, l’odio verso gli ebrei non implica necessariamente l’antisionismo.

Non solo, ma è possibile essere sia sionista che antisemita. La prova di ciò è fornita dalle affermazioni di suprematisti bianchi negli USA e da politici dell’estrema destra in tutta Europa. Richard Spencer, un esponente di spicco dell’alt-right [“destra alternativa”, l’estrema destra statunitense che ha contribuito all’elezione di Trump, ndt.], non ha nessun problema nel definirsi come un “sionista bianco” (“come cittadino israeliano” ha spiegato a un intervistatore della televisione israeliana Channel 2, “che ha un senso di appartenenza ad una Nazione e ad un popolo, alla storia e l’esperienza del popolo ebraico, lei dovrebbe avere rispetto per uno come me, che prova gli stessi sentimenti nei confronti dei bianchi…Voglio che noi abbiamo una patria sicura per noi stessi. Proprio come voi volete una patria sicura in Israele”), mentre pensa anche che “gli ebrei sono ampiamente sovra rappresentati in quello che si potrebbe chiamare l’“establishment”.’ Anche Gianfranco Fini dell’Alleanza Nazionale italiana e Geert Wilders, leader del Partito Olandese della Libertà, hanno professato la propria ammirazione per il sionismo e per l’etnocrazia “bianca” dello Stato di Israele, pur esprimendo chiaramente le proprie opinioni antisemite in altre occasioni. Tre cose che attraggono questi antisemiti verso Israele sono: primo, il carattere etnocratico dello Stato; secondo, un’islamofobia che ritengono Israele condivida con loro; terzo, le politiche assolutamente dure di Israele verso i migranti di colore dall’Africa (nelle ultime di una serie di misure destinate a obbligare immigrati eritrei e sudanesi a lasciare Israele, sono state introdotte norme, all’inizio di quest’anno, che impongono ai richiedenti asilo di depositare il 20% dei loro averi in un fondo che gli verrà restituito solo se, e quando, lasceranno il Paese).

Se sionismo ed antisemitismo possono coincidere, allora – in base alla legge di contraddizione – l’antisionismo e l’antisemitismo non sono riducibili uno all’altro. Ovviamente è vero che in certi casi l’antisionismo può effettivamente sovrapporsi in parte all’antisemitismo, ma questo di per sé non ci dice molto, dato che una grande varietà di opinioni e di ideologie possono coincidere con l’antisemitismo. Si può essere capitalisti, socialisti o libertari ed essere anche antisemiti, ma il fatto che l’antisemitismo si possa unire con ideologie così diverse così come con l’antisionismo non ci dice praticamente niente su questo o su di esse. Eppure, nonostante la chiara distinzione tra l’antisemitismo e l’antisionismo, parecchi governi, così come gruppi di studio e organizzazioni non governative, insistono ora sulla nozione secondo cui l’antisionismo è necessariamente una forma di antisemitismo. La definizione adottata dall’attuale governo del Regno Unito offre 11 esempi di antisemitismo, sette dei quali includono critiche a Israele – una manifestazione concreta del modo in cui la nuova concezione dell’antisemitismo è diventata un’opinione accettata. Qualunque critica rivolta contro lo Stato di Israele assume ora le tinte dell’antisemitismo.

Un esempio singolare ma molto efficace del “nuovo antisemitismo” ha avuto luogo nel 2005 durante il ritiro di Israele da Gaza. Quando sono arrivati i soldati per evacuare gli ottomila coloni che vivevano nella zona, alcuni di questi hanno protestato mettendo sui vestiti stelle gialle e insistendo che “non sarebbero andati come pecore al macello”. Shaul Magid, il titolare della cattedra di “Studi ebraici” all’università dell’Indiana, sottolinea che così facendo i coloni hanno dato dell’antisemita al governo e all’esercito israeliani. Ai loro occhi il governo ed i soldati meritavano di essere chiamati antisemiti non perché odiano gli ebrei, ma perché stavano mettendo in atto una politica antisionista, danneggiando il progetto di fondazione del cosiddetto “Grande Israele”. Questa rappresentazione della decolonizzazione come antisemita è la chiave per una corretta comprensione di quello che è in gioco quando la gente viene accusata del “nuovo antisemitismo”. Quando il professore dell’università di Haifa mi ha bollato come antisemita, non ero io il vero bersaglio. Gente come me viene regolarmente attaccata, ma siamo considerati dalla macchina del “nuovo antisemitismo” scudi umani. Il vero obbiettivo sono i palestinesi.

C’è una certa ironia in questo. Storicamente la lotta contro l’antisemitismo ha inteso promuovere pari diritti e l’emancipazione degli ebrei. Quelli che denunciano il “nuovo antisemitismo” desiderano legittimare la discriminazione e la sottomissione dei palestinesi. Nel primo caso qualcuno che desidera opprimere, dominare e sterminare gli ebrei è bollato come antisemita; nel secondo, chi vuole partecipare alla lotta per la liberazione dal dominio coloniale è bollato come antisemita. In questo modo, ha osservato Judith Butler [nota filosofa statunitense di origine ebraica, ndt.], “un desiderio di giustizia” è “ridefinito come antisemitismo”.

Il governo israeliano ha bisogno del “nuovo antisemitismo” per giustificare le sue azioni e per proteggerle dalla condanna interna ed internazionale. L’antisemitismo è effettivamente utilizzato come un’arma, non solo per soffocare il discorso – “non importa se l’accusa è vera”, scrive Butler, il suo intento è “causare sofferenza, provocare vergogna, e ridurre l’accusato al silenzio” – ma anche per sopprimere una politica per la liberazione. La campagna non violenta del BDS contro il progetto coloniale e la violazione dei diritti da parte di Israele è etichettata come antisemita non perché i fautori del BDS odino gli ebrei, ma perché esso denuncia l’oppressione del popolo palestinese. Ciò evidenzia un ulteriore aspetto inquietante del “nuovo antisemitismo”. Convenzionalmente, chiamare qualcuno “antisemita” vuol dire mettere in evidenza e condannare il suo razzismo; nel nuovo caso, l’accusa di “antisemita” è utilizzata per difendere il razzismo e per appoggiare un regime che mette in atto politiche razziste.

Oggi la questione è come conservare una nozione di anti-antisemitismo che rifiuti l’odio contro gli ebrei, ma non promuova l’ingiustizia e l’espropriazione nei territori palestinesi o in qualunque altro luogo. C’è una via d’uscita dal dilemma. Possiamo opporci a due ingiustizie in una volta. Possiamo condannare i discorsi di odio ed i crimini contro gli ebrei, come quelli di cui siamo stati testimoni recentemente negli USA, o l’antisemitismo dei partiti politici di estrema destra europei, e allo stesso tempo denunciare il progetto coloniale di Israele ed appoggiare i palestinesi nella loro lotta per l’autodeterminazione. Ma per portare avanti questi compiti congiuntamente, bisogna prima rifiutare l’equazione tra antisemitismo e antisionismo.

(traduzione di Amedeo Rossi)