Come la questione israelo-palestinese è arrivata al cuore della politica USA

Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico, Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza – e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele, chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10 anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele. E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata, spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan, una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’ [organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre, come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi, l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’ [importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno boicottato il suo intervento.

Le critiche ad Israele all’epoca di Obama non si limitavano al Congresso. Erano persino più aspre nei movimenti sociali progressisti, che a loro volta rassicuravano i democratici riguardo al fatto che la loro posizione anti Netanyahu era appoggiata dalla loro base elettorale.

Nel periodo in cui si è svolto lo scontro tra Obama e Netanyahu sull’Iran, sempre più gruppi per i diritti dei palestinesi hanno destinato risorse a Washington. Nel 2015 ‘Jewish Voice for Peace’ [Voce Ebraica per la Pace] (JVP), l’associazione di [ebrei di] sinistra di solidarietà con la Palestina, ha assunto il suo primo dipendente focalizzato sul Congresso.

“C’è stato l’attacco a Gaza del 2014, e allora improvvisamente siamo diventati molto, molto più grandi”, ha detto Rebecca Vilkomerson, che ha appena lasciato la carica di capo di JVP dopo 10 anni in carica. “Abbiamo deciso che avevamo abbastanza membri con abbastanza sezioni locali per cui non sarebbe stato inutile andare a fare questo genere di incontri (al Congresso)”.

Inoltre alla fine del 2014 ‘Defense for Children International-Palestine’ [associazione internazionale per la difesa dei bambini con sede a Ginevra, ndtr.] e l’ ‘American Friends Service Committee’ [associazione di quaccheri che si batte per la giustizia sociale, la pace, la riconciliazione tra i popoli, l’abolizione della pena di morte ed i diritti umani, ndtr.] hanno lanciato la campagna “Non è il modo di trattare un bambino”, un tentativo concentrato su Washington di spingere i parlamentari USA a esprimersi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti dei bambini palestinesi. Questo tentativo ha avuto successo, soprattutto presso la deputata Betty McCollum: con le sue proposte di legge e lettere che chiedevano attenzione per gli arresti israeliani di bambini palestinesi, è diventata il principale difensore dei diritti dei palestinesi al Campidoglio.

Tuttavia non tutti i gruppi della sinistra progressista lavoravano congiuntamente. ‘J Street’ [associazione di ebrei liberal moderatamente critici con Israele, ndtr.], per esempio, un gruppo fondato nel 2007, si è creato uno spazio a parte in Campidoglio: premere per uno Stato palestinese e per la fine dell’occupazione israeliana per consentire ad Israele di rimanere “ebreo e democratico”, secondo quanto afferma J Street. Ciò si opponeva a gruppi come JVP e ‘US Campaign for Palestinian Rights’ [coalizione di gruppi che lavorano per libertà, giustizia ed eguaglianza, ndtr.] (USCPR), i quali sostengono in pieno la strategia del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.] (BDS) – compreso il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – e il taglio degli aiuti militari statunitensi [ad Israele, ndtr.]. Eppure nel loro insieme, i gruppi da J Street a ‘US Campaign’ hanno introdotto una novità in un dibattito normalmente dominato soltanto dalla preoccupazione per la sicurezza di Israele.

“Anche se la parte avversa ha molte più risorse e migliori relazioni, i gruppi per i diritti dei palestinesi hanno svolto un duro e diligente lavoro per rendere visibile la propria presenza in Campidoglio, chiarendo che c’è un’altra prospettiva che i membri del Congresso devono riconoscere, anche se non sentono ancora la necessità di votare in quel senso”, ha detto a +972 un autorevole assistente parlamentare. “Ecco come riesci a spostare il dibattito. Si inizia a rendere più complessa la questione per la gente, e per troppi membri del Congresso la questione è stata semplice. Ciò sta cambiando.”

Ma se il dibattito a Washington si è incentrato su Netanyahu, i movimenti sociali di sinistra non hanno focalizzato la principale attenzione sul leader israeliano. Al contrario, si sono concentrati su Israele stesso e hanno criticato l’intero regime che ha governato i palestinesi in modo simile ad uno Stato di apartheid, uno Stato che doveva essere boicottato – un messaggio diffuso dalle campagne BDS. I gruppi per i diritti dei palestinesi si sono alleati con i gruppi per i diritti dei migranti e per i diritti civili in campagne indirizzate a chi fa profitti con le carceri private, lanciando il messaggio che l’oppressione delle persone di colore nelle carceri è collegata all’oppressione dei palestinesi – soprattutto perché imprese come G4S [società privata britannica di servizi per la sicurezza, ndtr.] traggono profitto dall’incarcerazione di tutte quelle comunità. Sezioni di ‘Students for Justice in Palestine’ [organizzazione di attivisti studenteschi pro-palestinesi negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda, ndtr.] hanno formato coalizioni con comunità di colore nei campus universitari per spingere i dirigenti studenteschi ad appoggiare il disinvestimento dalle imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Molto di questo lavoro degli studenti è stato guidato dagli stessi palestinesi, un’eco del lavoro che gruppi come la ‘General Union of Palestinian Students’ [organizzazione gestita da studenti palestinesi che esiste fin dai primi anni ’20, ndtr.] hanno fatto nei campus USA a cominciare dalla guerra del 1967. Dopo gli Accordi di Oslo [del 1993], l’attivismo guidato dai palestinesi negli USA è venuto meno, in quanto è stata dedicata maggiore attenzione alla creazione di uno Stato a casa loro piuttosto che a creare un movimento globale anticoloniale. Ma, una volta falliti gli Accordi di Oslo, i capi delle organizzazioni palestinesi si sono reinseriti nel più ampio movimento di solidarietà. Questa rinascita ha raggiunto il suo apice in seguito all’invasione israeliana di Gaza nel 2008-2009.

“I palestinesi hanno iniziato ad essere più autocentrati, il che ha anche significato che sono aumentati i militanti palestinesi”, ha detto Andrew Kadi, a lungo organizzatore palestinese-americano e membro del comitato direttivo della USCPR.

Uno dei momenti più importanti per il movimento per i diritti dei palestinesi è stato nell’agosto 2016, quando ‘A Vision for Black Lives’, una piattaforma politica resa pubblica da gruppi collegati con il movimento ‘Black Lives Matter’, ha appoggiato il disinvestimento dal “complesso militare-industriale” di Israele ed ha accusato Israele di apartheid e genocidio. Per i gruppi per i diritti dei palestinesi la piattaforma politica è stata un eccellente esempio di come la lotta per la libertà dei neri e la lotta palestinese dovrebbero essere collegate. È stata una brillante affermazione della loro strategia “intersezionale”, che garantiva che i palestinesi difendessero i diritti dei neri negli USA, e viceversa, come parte di una più vasta spinta a collegare le lotte per la giustizia dei palestinesi e dei neri.

“Vi è ora una situazione in cui i movimenti sociali sono profondamente interconnessi”, ha detto Nadia Ben Youssef, direttrice delle attività di sostegno del Center for Constitutional Rights [Centro per i diritti costituzionali, organizzazione di sinistra per il patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.]. “Stiamo creando una politica coerente di giustizia sociale, per cui se tu hai un’opinione sulla giustizia razziale, sulla detenzione, sulla disuguaglianza in senso più generale, hai un’opinione anche sulla Palestina.”

Nel periodo dello shock delle elezioni del 2016, l’ampio schieramento di sinistra era arrivato a riconoscere che i diritti dei palestinesi avrebbero dovuto essere parte integrante del programma progressista. Linda Sarsour, un’importante attivista palestinese-americana, è stata uno dei volti della storica Marcia delle Donne contro Trump del gennaio 2017. Ma l’integrazione dei diritti dei palestinesi nel movimento progressista non è avvenuto senza polemiche. Gruppi filoisraeliani hanno attaccato Sarsour e il Movimento per le Vite dei Neri. Li hanno accusati di dirottare il movimento progressista verso un programma del tutto differente. Tuttavia è diventato insostenibile per i progressisti ignorare la Palestina.

Ciò è diventato ancor più evidente quando dirigenti progressisti come Ilhan Omar, eletta nel 2016, ha sposato la lotta a favore di qualunque cosa, dall’assistenza sanitaria per tutti al Green New Deal fino all’eliminazione dell’occupazione israeliana. L’impostazione di politica estera di Omar si concentra sulla smilitarizzazione e sui diritti umani, senza fare eccezione riguardo al trattamento di Israele verso i palestinesi.

L’elezione di Trump ha esasperato la politica sulla Palestina negli USA. La sua stretta alleanza con Netanyahu ha allontanato i democratici da Israele. I regali di Trump alla destra israeliana – il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, il silenzio dell’amministrazione sulle colonie israeliane e il riconoscimento delle alture del Golan come territorio israeliano – lo hanno ulteriormente legato a Netanyahu, un problema per coloro che credono nell’importanza di una relazione bipartisan con lo Stato ebraico.

Trump ha perseguito anche un’altra strategia che ha portato la questione israelo-palestinese al centro del dibattito americano: definendo “antisemiti” suoi accesi oppositori come Omar e Tlaib, parte di un tentativo di spaccare il partito democratico, fa perdere elettori ebrei ed eccita la sua base di destra.

“Avete visto il partito repubblicano cercare di trasformarlo in un’arma politica, una questione spinosa. Diventa una questione di guerra culturale, come l’aborto o l’immigrazione”, ha detto Logan Bayroff, il portavoce di J Street. “Questo provoca la loro base elettorale, che non sono ebrei americani ma sono tanti elettori evangelici, che stanno guidando il programma [di Trump].”

La decisione di Netanyahu nello scorso agosto di vietare a Omar e Tlaib di recarsi in Israele-Palestina con una delegazione del Congresso faceva parte della strategia di Trump di dipingerle come nemiche di Israele e dell’America. Facendo in modo di creare un contrasto internazionale da prima pagina, Trump ha portato avanti i suoi piani di fare di Omar e Tlaib i volti del partito democratico, una strategia che lui reputa vincente nei confronti delle persone preoccupate della corsa a sinistra dei democratici.

Ma quella decisione ha avuto anche un effetto boomerang. Omar e Tlaib hanno tenuto un’eccezionale conferenza stampa dopo che è stato comunicato il divieto, in cui hanno parlato ad un pubblico di tutta la Nazione dell’indecenza dell’occupazione e di come Israele fa del male ai palestinesi. È stata, in una sola settimana, una sintesi di come la Palestina sia passata dai margini al centro della politica americana. A destra viene usata come questione controversa, mentre a sinistra viene amplificata dai parlamentari progressisti che vedono la Palestina come parte del loro più vasto programma di giustizia sociale.

Per quei democratici che vogliono mantenere l’alleanza USA-Israele così com’è, la decisione di Netanyahu di bandire Tlaib e Omar è stata inquietante ed ha solo incrementato il loro desiderio di vedere Netanyahu lasciare l’incarico e vincere qualcuno come Benny Gantz, il capo del partito Blu e Bianco [coalizione di centro-destra che ha vinto le ultime elezioni in Israele, ndtr.]. Ai loro occhi, ciò permetterebbe ai democratici di tornare alle loro consuete posizioni su Israele: appoggiare i negoziati tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese senza la seccatura di un Netanyahu sfacciatamente di parte che danneggia il rapporto tra USA ed Israele.

Ma mentre un incarico di formare un nuovo governo a Gantz potrebbe dare un attimo di respiro a questi democratici dopo il caos dell’era Netanyahu-Trump, non porrà fine alla messa in discussione progressista del consenso di Washington a Israele.

“Moltissimi democratici si illudono che il problema sia solo Bibi (Netanyahu). Ma non dovremmo fare troppe personalizzazioni”, ha detto l’importante consigliere democratico al Congresso. “Sì, Bibi è particolarmente dannoso, sfacciato nel suo approccio di parte, ma, come Trump, Bibi è il prodotto di una reale tendenza politica in Israele. Rappresenta un elemento illiberale con cui i democratici devono fare i conti se prendono sul serio i valori che professano.”

Alex Kane è un giornalista che vive a New York, il cui lavoro su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA è stato pubblicato su VICE News, The Intercept, The Nation, In These Times ed altri giornali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rovesciamento della politica di Obama? La dichiarazione di Pompeo sulle colonie israeliane è un fatto già noto

Dania Akkad

19 novembre 2019 – Middle East Eye

Middle East Eye prende in esame le affermazioni del Segretario di Stato USA per separare i fatti dalle interpretazioni

Lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che, dopo quello che ha descritto come un’analisi accurata, l’amministrazione Trump ritiene che le colonie israeliane costruite nella Cisgiordania occupata non siano una violazione delle leggi internazionali.

Come hanno rilevato gli osservatori, non è mai stato precisato chi abbia effettuato lo studio, quanto tempo ci sia voluto e se ci siano stati dissensi; né lo è stata l’esatta motivazione dei tempi dell’annuncio – solo due giorni prima del termine ultimo entro il quale il premier israeliano incaricato Benny Gantz doveva formare una coalizione di governo.

Nella dichiarazione durata 15 minuti, Pompeo ha proceduto a esporre il nuovo corso della politica USA riguardo alle colonie israeliane, che, ha affermato, è “il rovesciamento dell’approccio dell’amministrazione Obama” e l’allineamento a quello dell’amministrazione di Ronald Reagan.

Ma è vero? Middle East Eye riflette su questi punti ed una serie di altri presentati dal Segretario per separare i fatti dalle interpretazioni.

L’amministrazione Trump sta invertendo l’approccio di quella di Obama nei confronti delle colonie israeliane.”

Pompeo ha dato il via alla sua dichiarazione affermando che l’amministrazione Trump sta “invertendo” l’approccio dell’amministrazione Obama nei confronti delle colonie, una linea che molte agenzie di stampa USA hanno preso per buona ed hanno accolto. Ma qual è stato esattamente il punto di vista di Obama sulle colonie?

Verso la fine della sua presidenza, poche settimane prima che Trump assumesse l’incarico, la sua [di Obama, ndtr.] amministrazione si astenne – tra molti applausi – su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il blocco di tutti gli insediamenti israeliani nei territori occupati. Come dissero i suoi collaboratori al Washington Post, Obama non doveva più presentarsi alle elezioni, e non aveva quindi niente da perdere.

Cinque anni prima, ha raccontato martedì a Democracy Now [rete di notizie e commenti progressista USA, ndtr.] Noura Erakat, avvocato per i diritti umani e giurista palestinese, la storia era stata diversa. Nel febbraio 2011 l’amministrazione Obama fece uso del suo primo veto al Consiglio di Sicurezza ONU contro una risoluzione che condannava le colonie israeliane.

Sì, disse all’epoca l’ambasciatrice all’ONU Susan Rice, gli USA rifiutano “nei termini più decisi” la legittimità della continua costruzione di colonie israeliane, ma la risoluzione rischiava di “rendere più intransigenti le posizioni di entrambe le parti.”

Sicuramente l’amministrazione Obama fece sì che Israele ci pensasse due volte prima di costruire colonie. Basta vedere l’incremento nell’edificazione dopo che Trump ha assunto la presidenza, descritto come potenzialmente “la maggior valanga di costruzioni da anni.”

Ma, come evidenzia Erakat, come tutte le amministrazioni USA negli ultimi 50 anni, quella di Obama ha detto cose contraddittorie. Mentre si è astenuto sulla risoluzione del 2016, solo pochi mesi prima Obama ha accettato di concedere a Israele una cifra record di 3,8 miliardi di dollari di aiuti all’anno per dieci anni – il più grande accordo di questo tipo tra gli Usa e qualunque altro Paese.

Quindi quello che ora stiamo vedendo non è un radicale stravolgimento della politica estera USA sulla questione delle colonie e sulla Palestina, ma piuttosto il suo culmine,” ha detto Erakat martedì.

Tuttavia nel 1981 il presidente Reagan dissentì da questa conclusione e affermò di non credere che le colonie fossero intrinsecamente illegali…Dopo aver attentamente studiato ogni aspetto del dibattito giuridico, questa amministrazione è d’accordo con il presidente Reagan.”

Durante un’intervista con il New York Times nel febbraio 1981, in effetti Ronald Reagan disse di non credere che le colonie fossero illegali, ma affermò anche qualcosa di più in seguito – e le azioni della sua amministrazione furono qualcosa di completamente diverso.

Un giornalista disse che sembrava ci fosse un’accelerazione nella costruzione di colonie in Cisgiordania: “Lei è d’accordo? E, in secondo luogo, la vostra è una politica equilibrata in Medio Oriente?”, chiese il giornalista a Reagan.

Reagan disse che, mentre era in disaccordo quando l’amministrazione del suo predecessore Jimmy Carter aveva definito le colonie come illegali perché, in base a una risoluzione ONU che lasciava la Cisgiordania aperta a tutti, “non sono illegali”, egli riteneva che costruirle fosse “una pessima idea”.

Venne così citato: “Penso che forse ora con questa corsa a edificarle e il fatto di spostarsi all’interno [della Cisgiordania] nel modo in cui lo fanno sia una pessima idea, perché, se continuiamo con lo spirito di Camp David per cercare di arrivare a una pace, forse questo, in questo momento, è inutilmente provocatorio.”

Martedì un ex- consigliere giuridico del ministero degli Esteri israeliano ha detto a Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] che, nonostante le sue considerazioni e altre dichiarazioni pubbliche di fonti ufficiali, che si rifiutarono di prendere posizioni giuridiche sulle colonie, durante la sua [di Reagan, ndtr.] amministrazione a porte chiuse i funzionari USA continuarono a dire che le colonie erano illegali.

La stessa proposta di pace di Reagan nel 1982 chiedeva il congelamento [delle costruzioni] sia nelle colonie esistenti che di nuove colonie. La proposta – presentata in una lettera – venne subito respinta da una risoluzione adottata all’unanimità dal governo del primo ministro israeliano Menachem Begin. Begin disse alla radio israeliana che era il suo “giorno più triste come primo ministro”.

La costruzione di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con le leggi internazionali.”

Mentre Pompeo insiste che la legalità delle colonie israeliane è stata attentamente studiata e che, dopo aver esaminato “tutti gli aspetti della discussione giuridica”, l’amministrazione ha concluso che le colonie non sono “incompatibili con le leggi internazionali”, egli non spiega mai davvero esattamente come.

Evidenzia le differenze tra le posizioni dell’amministrazione Trump e le precedenti presidenze, sostiene che il sistema legale israeliano “offre la possibilità di opporsi alle attività di colonizzazione” (asserzioni che un palestinese potrebbe trovare gravemente fuorvianti) e afferma che prendersela con le colonie non ha contribuito agli sforzi per la pace. Ma nelle dichiarazioni di Pompeo non viene mai pienamente chiarito in che modo le colonie non violerebbero più le leggi internazionali, soprattutto le Convenzioni di Ginevra – definite dopo la Seconda Guerra Mondiale per garantire un trattamento umano ai civili durante un conflitto.

In particolare, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, una potenza occupante “non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” L’Assemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia hanno affermato che le colonie israeliane violano la convenzione che sia gli USA che Israele hanno ratificato. Quindi, cos’è cambiato ora?

E quali sono le conseguenze se le leggi internazionali non contano più? Martedì il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che il “farsesco annuncio” di Pompeo darà via libera non solo al progetto di colonizzazione illegale di Israele, ma aprirà la via ad altre violazioni dei diritti umani in tutto il mondo.

E infine – in conclusione – definire la costruzione di insediamenti civili incompatibile con le leggi internazionali non ha funzionato. Non ha fatto progredire la causa della pace.”

Forse, come ha detto Pompeo, definire le colonie come illegali non ha fatto avanzare la causa della pace. Ma indiscutibilmente non lo hanno fatto neppure il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan; il taglio ai fondi destinati all’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aiuto e il Lavoro (UNRWA), l’ente dell’ONU che fornisce aiuto a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi; la chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington; il sostegno a un “accordo del secolo” che marginalizza una delle due parti per la quale è stata pensata come una soluzione.

Nel solo giorno in cui l’amministrazione Trump ha aperto la sua nuova ambasciata a Gerusalemme, il 14 maggio 2018, 68 persone di Gaza sono state uccise o hanno subito ferite letali a causa delle quali sono in seguito morte, mentre protestavano contro l’iniziativa durante la Grande Marcia del Ritorno.

È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” ha detto a Middle East Eye il direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, il dottor Medhat Abbas, che quel giorno ha curato circa 500 feriti.

In che modo le iniziative che l’amministrazione Trump ha preso dal giorno del suo insediamento abbiano protetto “la sicurezza e il benessere di palestinesi e israeliani,” come Pompeo invita le due parti a fare, è un’altra delle cose che non ha chiarito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Sono le colonie, stupido: l’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Per otto anni gli USA hanno messo in guardia Netanyahu che la sua politica avrebbe avuto un costo, ma lui ha preferito tenersi buona la lobby delle colonie piuttosto che fare un piano di azione. Può dare la colpa solo a se stesso.

Haaretz

Di Barak Ravid – 24 dicembre 2016

Solo un’ora dopo il voto di venerdì al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Ben Rhodes, consigliere del presidente Barak Obama, ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha spiegato perché gli Stati Uniti non hanno posto il veto sulla risoluzione riguardante le colonie. Rhodes ha risposto alle domande per un’ora, ma le sue osservazioni possono essere riassunte in questo modo: abbiamo messo in guardia Netanyahu per otto anni che questo è ciò che sarebbe successo. Non ci ha ascoltati: ora può dare la colpa solo a se stesso.

La descrizione di Rhodes è esatta. Il fatto che gli USA si siano astenuti non dovrebbe sorprendere nessuno, soprattutto non il primo ministro israeliano. Il vecchio luogo comune a proposito di quello che si può prevedere non è mai stato così vero. Infatti, è stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu che lo ha scritto sul muro con le sue iniziative negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi. La risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è una sua sconfitta personale.

Dalle ultime elezioni, e soprattutto l’anno scorso, il governo di Netanyahu ha condotto una politica di notevole accelerazione della costruzione nelle colonie, demolizione di case palestinesi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio della Cisgiordania sotto totalmente controllata da Israele. Ndtr.] e di autorizzazione di colonie illegali. La saga riguardante l’evacuazione di Amona [avamposto illegale dei coloni che la Corte Suprema israeliana ha ordinato di evacuare. Ndtr.] e la legge nota come “Legge della regolarizzazione” [legge che intende legalizzare retroattivamente Amona ed altri avamposti. Ndtr.] è l’apice di questa tendenza. Netanyahu, insieme al ministro dell’Educazione Naftali Bennett e della Giustizia Ayelet Shaked, ha fatto tutto il possibile per spingere Obama al Consiglio di Sicurezza.

Durante tutti questi mesi la comunità internazionale non è stata per niente indifferente. Il rapporto del Quartetto sulla pace in Medio Oriente, reso pubblico in luglio, ha messo in guardia proprio sui punti inclusi nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Da allora, praticamente ogni settimana, il Dipartimento di Stato USA ed i ministri degli Esteri delle potenze occidentali hanno diramato condanne sempre più severe della politica di colonizzazione del governo israeliano, avvertendo che minacciava di seppellire la soluzione dei due Stati. Ogni mese il Consiglio di Sicurezza ha tenuto un incontro nel quale ha chiesto ai rappresentanti di molti Paesi di prendere decisioni relative alle colonie.

Netanyahu lo sapeva. Ha ricevuto una serie di documenti riservati dal ministero degli Esteri e dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale che lo avvertivano di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a cui gli USA non avrebbero posto il veto. Lui stesso lo ha dichiarato pubblicamente e in discussioni riservate dozzine di volte negli ultimi mesi e lo ha citato dalla tribuna dell’ONU in settembre. Netanyahu sapeva anche molto bene quanto fossero precari i rapporti con Obama e quanto scarsa fosse la sua capacità di influenzarne le decisioni.

Invece di fare un piano d’azione, Netanyahu si è occupato di Amona, Amona e ancora Amona. Invece di cambiare politica per evitare una disfatta diplomatica e un danno a livello internazionale per Israele, Netanyahu ha preferito tenersi buona la lobby dei coloni per poter sopravvivere politicamente. Sapeva che avrebbe pagato un prezzo per le sue azioni, ma ha agito come se tutto andasse bene. Una persona che sa tutto questo e continua con la stessa politica è affetto da una mancanza di discernimento e di responsabilità, o è semplicemente un giocatore d’azzardo compulsivo.

Solo mercoledì Netanyahu ha fatto un’apparizione arrogante sulla sua pagina Facebook privata. Di fronte alla camera da presa, il primo ministro di Israele ha superato se stesso nell’autocelebrazione, informando tutti quelli che lo guardavano che la posizione internazionale di Israele non era mai stata migliore. Quarantotto ore dopo si è scoperto che le parole di Netanyahu erano avulse dalla realtà.

Netanyahu ha ragione quando afferma che Israele è corteggiato da molti Paesi, ma sbaglia e si inganna riguardo a quanto pesino duramente su Israele 50 anni di occupazione. Una solida maggioranza di Paesi che hanno votato per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è anti-israeliana o antisemita. Il messaggio del loro voto è semplice: sono le colonie, stupido.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza rivela ancora una volta quanto chiaro e netto sia il consenso internazionale contro le colonie. Non si tratta solo di Obama. Ha votato a favore [della risoluzione] il governo inglese di destra del primo ministro Theresa May e del ministro degli Esteri Boris Johnson.  Lo stesso hanno fatto i governi di Spagna e Russia, del presidente Vladimir Putin, buon amico di Netanyahu, e la Cina, di cui Bennett e altri ministri dicono che non si interessa dei palestinesi ma solo della tecnologia israeliana, e la Nuova Zelanda, il cui capo del governo di destra, Bill English, nel 2003 aveva attaccato il ministro degli Esteri del suo Paese per aver abbracciato Yasser Arafat.

Il primo ministro si consolerà sicuramente per il fatto di essere riuscito a portare dalla sua parte la persona che il prossimo mese sarà presidente degli USA. Non è sicuro che si tratti di una cosa di cui possa essere fiero. Netanyahu ha ingannato Donald Trump e gli ha provocato la prima sconfitta diplomatica.  Tranne che il presidente egiziano, nessun altro leader di un Paese del Consiglio di Sicurezza ha tenuto conto di Trump.

Dopo questo episodio, Netanyahu è in debito con Trump persino prima che quest’ultimo inizi il suo mandato. E’ in debito per averlo fatto perdere. E Trump non ama perdere. Anche la risposta del presidente eletto è interessante: Trump non ha attaccato la risoluzione, né ha difeso le colonie: lo ha fatto con una dichiarazione piuttosto laconica.

Prima e dopo il voto, il primo ministro si è lasciato andare ad una campagna di attacchi contro Obama che sembrano notizie false su un sito delirante della destra negli USA. L’accusa più stravagante è stata che Obama era parte di una cospirazione con i palestinesi, ha di fatto abbandonato Israele e l’ha colpito alle spalle. Sì, lo stesso Obama che solo poche settimane fa ha dato ad Israele 38 miliardi di dollari in aiuti per la sicurezza. Netanyahu non ha osato dire di Putin, May o del presidente cinese Xi Jinping  neppure un decimo di queste cose. Ci sono molti precedenti di presidenti americani che si sono astenuti all’ONU su risoluzioni riguardanti Israele. Non ci sono precedenti del modo in cui Netanyahu ha agito nei confronti di Obama.

Netanyahu può cercare di accusare Obama, Mahmoud Abbas, la sinistra e persino il tempo o il mufti per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma ciò non potrà eliminare la disfatta diplomatica di venerdì. Alla fine, è successo per responsabilità di Netanyahu.

E’ ad avvenimenti del genere che l’ex-primo ministro e ministro della Difesa Ehud Barak faceva riferimento quando ha parlato di uno tsunami diplomatico. Barak lo ha anche riassunto bene sul suo account Twitter durante il fine settimana: “Sconfitta senza precedenti al Consiglio di Sicurezza. Il primo ministro deve cacciare il suo ministro degli Esteri.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)