Rabbini israeliani di accademia militare ripresi in un video mentre lodano Hitler

Jonathan Ofir

30 aprile 2019, Mondoweiss

Ieri il Canale 13 israeliano ha trasmesso delle registrazioni video di rabbini che insegnano nell’ accademia militare Bnei David, sostenuta dallo Stato, che si trova nella colonia di Eli in Cisgiordania. I rabbini elogiano l’ideologia nazista razzista di Hitler come “corretta al 100%”, criticandola solo per il fatto di non essere stata applicata alle persone giuste – cioè, gli ebrei dovrebbero essere la razza superiore e i non ebrei gli “untermenschen” [i subumani, in base alla teoria nazista, ndtr.].

Le affermazioni lasciano senza parole. L’intera trasmissione sottotitolata può essere vista in un video realizzato dal giornalista David Sheen.

Questi insegnanti mandano i giovani nell’esercito e sostengono queste idee da anni. Hanno stretti legami con parlamentari, in particolare con il rabbino Rafi Peretz, ora a capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, la nota coalizione con il partito kahanista “Potere Ebraico”, che è attualmente il principale candidato a diventare ministro dell’Educazione. L’accademia è legata anche a una yeshiva [università di studi ebraici, ndtr.], frequentata da molti studenti dopo il servizio militare.

Dovrebbe tornare la schiavitù

Si inizia con il rabbino Eliezer Kashtiel che deplora il fatto che la schiavitù sia stata abolita:

L’abolizione della schiavitù legale ha creato dei problemi. Nessuno è responsabile per quel bene di proprietà. Con l’aiuto di dio essa ritornerà. I goyim (non ebrei) vorranno essere nostri schiavi. Essere schiavo degli ebrei è la cosa migliore. Devono essere schiavi, vogliono essere schiavi. Invece di vagabondare per le strade, fare follie e farsi del male l’un l’altro, adesso sono schiavi, adesso la loro vita incomincia a diventare ordinata.”

In questo contesto per ‘goyim’ bisogna intendere i palestinesi.

Afferma che è a causa del fatto che loro hanno “problemi genetici” e sostiene che vogliono essere sotto occupazione:

Ci sono persone con problemi genetici intorno a noi. Chiedete a qualunque arabo medio dove vuole stare. Vuole stare sotto occupazione. Perché? Perché hanno problemi genetici, non sanno come governare un Paese, non sanno fare niente – guardate in che condizioni si trovano.”

Sì, siamo razzisti

Certamente si tratta di razzismo”, continua Kashtiel.

Forse non sappiamo che vi sono razze differenti? E’ forse un segreto? E’ falso? Che cosa ci si può fare? E’ la verità. Sì, siamo razzisti, crediamo nel razzismo.”

Kashtiel suggerisce che, poiché gli ebrei sono una razza superiore, possono “aiutare” quelle inferiori:

Giusto, ci sono delle razze nel mondo, le nazioni hanno caratteristiche genetiche, quindi noi (gli ebrei) dobbiamo pensare a come aiutarli. Le differenze razziali sono reali e questa è proprio la ragione per offrire aiuto.”

Uno studente chiede al rabbino: “Chi vi dà il diritto di decidere chi è chi?”

Kashtiel: “Posso vedere che le mie capacità sono molto più grandi delle sue.”

L’Olocausto sono l’umanitarismo e il pluralismo

Un altro rabbino, Giora Radler, afferma che l’Olocausto non è ciò che si pensa, non riguarda l’uccisione degli ebrei. Sono l’ umanitarismo e il pluralismo ad ucciderci realmente:

L’Olocausto in realtà non riguarda l’uccisione degli ebrei – quello non è l’Olocausto. Tutte queste giustificazioni che sostengono che si basava sull’ideologia o che è stato un sistema, sono ridicole. Il fatto che avesse una base ideologica, in un certo senso lo rende più morale che non se si trattasse di gente che ha ucciso altra gente senza motivo. L’ umanitarismo, tutta la cultura secolare sul fatto di avere fede nell’umanità, questo è l’Olocausto. L’Olocausto in realtà è essere pluralisti, credere nella ‘fede nell’umanità’. Questo è ciò che si definisce un Olocausto. Il Signore (sia benedetto il suo nome) grida da anni che l’esilio (ebraico) è finito, ma il popolo non lo ascolta, e quella è la sua malattia, una malattia che deve essere curata con l’Olocausto.”

In altre parole, l’Olocausto è avvenuto per dare una lezione agli ebrei – abbandonate il pluralismo, isolatevi nello Stato ebraico e dimenticate la “malattia” della diaspora.

Queste considerazioni sono state fatte durante una lezione intitolata “Riguardo all’Olocausto”.

La logica nazista era giusta

Radler: “La logica dei nazisti era giusta per loro stessi. Hitler dice che un certo gruppo nella società è il seme di tutte le disgrazie per tutta l’umanità, che a causa di ciò tutto il genere umano cadrà nell’abisso, che essi danneggiano l’umanità e perciò devono essere sterminati.”

Radler chiede a uno studente: “Questa ideologia ti sembra illogica? Pessima?”

Lo studente risponde: “Non sembra essere etica”.

Radler: “Mosè era cattivo come Hitler?”

Studente: “No.”

Radler: “Perché no? C’è una sola cosa al mondo che è veramente diabolica, ed è essere ipocrita. C’è differenza per te se ti uccidono con un coltello come hanno fatto ad Agag (il re amalechita che il profeta Samuele ‘ha tagliato a pezzi’) o se ti uccidono in una camera a gas?”

Hitler aveva ragione, “nel giusto al 100%”

Radler continua a parlare di Hitler ed ora aggiunge che la malattia non sono solo il pluralismo e l’ umanitarismo, ma anche il femminismo, e che Hitler aveva assolutamente ragione:

Cominciamo con la domanda se Hitler aveva ragione o no.”

Studente: “No.”

Radler: “(Hitler) è la persona più giusta. Ha senz’altro ragione in ogni parola che dice. La sua ideologia è giusta. C’è un mondo maschio che combatte, che ha a che fare con l’onore e la fratellanza dei soldati. E c’è il mondo debole, etico e femminile (che parla di) ‘porgere l’altra guancia’. ‘E noi (i nazisti) crediamo che gli ebrei portino avanti questa eredità, cercando, nei nostri termini, di guastare l’umanità intera, ed è per questo che sono i veri nemici.’ Ora, lui (Hitler) è al 100% nel giusto, a parte il fatto che stava dalla parte sbagliata.”

Quindi qui Radler sta emulando Hitler, citando le ragioni dei nazisti con approvazione. Secondo Radler l’unico errore dei nazisti è che non sapevano quale fosse la vera razza superiore, e chi fossero realmente gli ‘untermenschen’. I nazisti non potevano avere ragione, perché solo gli ebrei potevano essere superiori. Ma se ora gli ebrei applicassero questa teoria e ideologia della razza ai giorni nostri – cioè essenzialmente riguardo ai palestinesi, allora sarebbero davvero “al 100% nel giusto” – forse addirittura al 101%, perché avrebbero ancor più ragione di Hitler. 

Risposte

Sono parole grosse. Un vero giudeo-nazismo.

I rabbini sono stati contattati per una risposta e hanno cercato di insabbiare tutto come se si trattasse di un malinteso.

Il rabbino Kashtiel ha detto di essere “dispiaciuto e addolorato che una lezione sui diritti umani sia stata intesa all’opposto di ciò che era, un’interpretazione moderno-socialista di schiavitù.”

Il rabbino Radler ha detto che le sue parole sono state “citate fuori dal contesto” e che la lezione sull’Olocausto “cerca di spiegare la logica patologica di Hitler e le ragioni e motivazioni dell’Olocausto.”

Il parlamentare israelo-palestinese Ahmad Tibi ha risposto alla trasmissione: “In Germania sarebbe risultata più autentica.”

Ovviamente anche i politici sionisti israeliani si sono allarmati. Il parlamentare di centro Yair Lapid ha scritto su Twitter:

Questo non è ebraismo. Questi non sono valori. Persone che parlano in questo modo non sono degne di educare i giovani.”

Lapid ha chiesto di sospendere i finanziamenti dello Stato alla yeshiva “finché non verrano espulsi i rabbini razzisti”. Ma qui sorge un problema, perché l’ideologia di Lapid sostiene “il massimo di ebrei sul massimo di terra con il massimo di sicurezza e il minimo di palestinesi” e, benché Lapid ora specifichi che “sono state persone laiche a creare Israele”, in realtà la sua religione è il sionismo ultra-nazionalista e lui è solo la faccia leggermente più presentabile di quel giudeo-nazismo che vediamo provenire da Bnei David.

La leader del partito di sinistra [sionista, ndtr.] Meretz Tamar Zandberg:

L’accademia di Eli avrebbe dovuto essere chiusa da tempo e chiunque permetta che lo sciovinismo, l’omofobia e tutte le altre espressioni di odio che provengono da là portino avanti la follia, non si dovrebbe sorprendere delle orribili espressioni che sono uscite oggi di là.”

Zandberg ha detto di aver fatto richiesta al ministero dell’Educazione di smettere di finanziare l’accademia.

Ma la yeshiva e l’accademia di Eli sono ora strettamente legate al governo. È stato il rabbino capo della yeshiva, Eli Sadan, a fare campagna perché Rafi Peretz diventasse capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, ora principale candidato per il ministero dell’Educazione. A Peretz è stato permesso di parlare agli studenti prima delle elezioni, anche quando questo è stato impedito a Naftali Bennett (che finora è stato ministro dell’Educazione) e al primo ministro Netanyahu.

In altri termini, esiste un’intera realtà politica che è ancor più radicale sia di Netanyahu che persino di Bennett, che era considerato di estrema destra, uno che davvero parla di potere ebraico, con uno spirito apertamente fascista, letteralmente nazista. E questa ideologia è in procinto di ottenere un posto centrale nel governo israeliano. 

Non un lapsus

Come sottolinea anche il servizio di Canale 13, ciò che abbiamo ascoltato non è un lapsus:

Queste affermazioni sono state ripetute per anni a Bnei David. Non si tratta di un lapsus, ma di un programma politico.”

E Bnei David non è un’isola. Un’altra vicenda di un insegnante genocida delle forze di sicurezza riguarda il rabbino Dov Lior, della colonia di Kiryat Arba [colonia di fondamentalisti nazional religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.], che ha promosso il libro Torat Hamelech (‘La Torah del re’) del 2009, che sostiene l’uccisione dei bambini non ebrei poiché “è chiaro che cresceranno per farci del male”. Lior ha insegnato alle forze di polizia in un progetto speciale per reclute religiose denominato “Credenti nella polizia”. Tra l’altro gli autori del libro provengono dalla ‘Od Yosef Chai Yesiva’ nella colonia di Yitzhar, una yeshiva che è stata finanziata dalla fondazione della famiglia di Jared Kushner ( genero e consigliere di Trump, ndtr.] fino al 2011. Interpretazioni dell’Olocausto come punizione divina per i peccatori sono state espresse dall’ex rabbino capo sefardita Ovadia Yosef, che credeva anche che lo scopo dei non ebrei fosse di servire gli ebrei e paragonava i non ebrei agli asini.

È possibile che la summenzionata divulgazione di opinioni sconvolgenti possa provocare un certo temporaneo e circoscritto turbamento, ma questa ideologia è profondamente radicata e oggi è parte integrante di una fondamentale situazione politica israeliana. E’ chiaro che i rabbini considerano questa attenzione come una seccatura da parte di progressisti senza raziocinio, ed è probabile che la considerino al pari di uno sfortunato ‘Azarya’ – il soldato che tre anni fa è stato filmato mentre uccideva a distanza ravvicinata un palestinese immobilizzato e ha dovuto trascorrere alcuni mesi in prigione. Il problema per i sostenitori di Azarya non era l’assassinio, ma il video. E così queste persone potrebbero trovare il modo per uscire da questo disastro mediatico, ma continueranno a credere nella giustezza della supremazia ebraica.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger/scrittore che vive in Danimarca

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La corsa di Israele in Africa: vendere acqua, armi e menzogne

Ramzy Baroud

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele sta cercando di riscrivere la storia per entrare nei cuori dei cittadini africani, ma non ci riuscirà

Per anni, il Kenya è stato la porta di Israele verso l’Africa. Israele ha usato le forti relazioni politiche, economiche e di sicurezza tra i due Stati per espandere la sua influenza sul continente e mettere altre Nazioni africane contro la Palestina. Malauguratamente la strategia di Israele sembra, almeno in apparenza, avere successo: il sostegno storico e dichiarato dell’Africa alla lotta palestinese sulla scena internazionale sta diminuendo.

Il riavvicinamento del continente a Israele è una sventura, perché, per decenni, l’Africa è stata all’avanguardia nell’opporsi a tutte le ideologie razziste, incluso il sionismo, ideologia alla base della fondazione di Israele sulle rovine della Palestina. Se l’Africa cedesse alle lusinghe e alle pressioni israeliane e accettasse pienamente lo Stato sionista, il popolo palestinese perderebbe un partner prezioso nella lotta per la libertà e i diritti umani.

Ma non tutto è perduto.

Il mese scorso ho visitato Nairobi, capitale del Kenya, per partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani e cittadini comuni del Paese, nel tentativo di contrastare parte della propaganda imposta negli ultimi anni dalla macchina israeliana dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.]. Considerando il successo di Israele nel penetrare i vari strati della società keniota, volevo indagare se fosse ancora in qualche modo possibile una solidarietà.

Alla fine della mia visita sono rimasto piacevolmente sorpreso, poiché ho scoperto che la “storia del successo” di Israele in Kenya e nel resto dell’Africa è superficiale e l’affinità tra Africa e Palestina è troppo profonda perché sia facilmente sradicata da una qualsiasi “campagna d’immagine” da parte di Israele.

La lunga storia della solidarietà africana con la Palestina

Secondo l’analista politico israeliano Pinhas Anbari, la “campagna d’immagine in Africa” di Israele è iniziata dopo che Israele ha fallito nel convincere gli Stati europei a sostenere le sue politiche nei confronti dei palestinesi.

“Quando l’Europa espresse apertamente il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese”, ha detto Anbara, “Israele ha preso la decisione strategica di rivolgersi all’Africa”.

Ma il sostegno dell’UE a uno Stato palestinese e le critiche occasionali alle colonie ebraiche illegali nei territori occupati non sono state le uniche ragioni alla base della decisione di Israele di concentrarsi sull’Africa.

La maggior parte dei Paesi africani, come la maggior parte dei paesi del sud del mondo, ha votato a lungo a favore delle risoluzioni filo-palestinesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), contribuendo ulteriormente al senso di isolamento di Israele sulla scena internazionale. Di conseguenza, riconquistare l’Africa – “riconquistare” perché l’Africa non è sempre stata ostile a Israele e al sionismo – è diventato un modus operandi delle relazioni internazionali israeliane.

Il Ghana riconobbe ufficialmente Israele nel 1956, otto anni appena dopo la sua nascita, e iniziò una tendenza che continuò tra i Paesi africani negli anni seguenti. All’inizio degli anni ’70, Israele aveva conquistato una posizione forte nel continente. Alla vigilia della guerra arabo-israeliana del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici con 33 Paesi africani.

“La guerra di ottobre”, tuttavia, ha cambiato tutto. Allora, i Paesi arabi, sotto la guida egiziana, agivano, in certa misura, con una strategia politica unitaria. E quando i Paesi africani dovettero scegliere tra Israele, un Paese nato da intrighi coloniali occidentali, e gli arabi, che soffrivano per mano del colonialismo occidentale quanto l’Africa, scelsero naturalmente la parte araba. Uno dopo l’altro, i Paesi africani iniziarono a recidere i legami con Israele. Ben presto nessuno Stato africano tranne Malawi, Lesotho e Swaziland intrattenne relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.

In seguito, la solidarietà del continente con la Palestina è andata anche oltre. L’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala nel 1975, fu il primo organo internazionale a riconoscere su larga scala il razzismo intrinseco nell’ideologia sionista di Israele, adottando la Risoluzione 77 (XII) [di sostegno alla popolazione palestinese e forte condanna di Israele, ndtr]. La stessa risoluzione è citata nella risoluzione UNGA 3379, adottata nel novembre dello stesso anno, che stabiliva che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. La risoluzione 3379 è rimasta in vigore fino a quando non è stata revocata dall’Assemblea nel 1991, dietro una veemente pressione americana.

Purtroppo, la solidarietà dell’Africa con la Palestina ha iniziato a erodersi negli anni ’90. In quegli anni il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti ebbe un grosso slancio, dando luogo agli Accordi di Oslo e ad altri accordi che normalizzarono l’occupazione israeliana senza dare ai palestinesi i diritti umani fondamentali. Con molti incontri e strette di mano tra palestinesi e raggianti funzionari israeliani, presentati regolarmente sui media, molte Nazioni africane ebbero l’illusione che una pace duratura fosse finalmente a portata di mano. Alla fine degli anni ’90, Israele aveva riattivato i legami con ben 39 Paesi africani. Mentre i palestinesi perdevano sempre più terra grazie a Oslo, Israele ottenne molti nuovi alleati importanti in Africa e in tutto il mondo.

Eppure per Israele una “lotta per l’Africa” a tutto campo – come alleata politica, partner economico e cliente delle sue tecnologie della “sicurezza” e di armamenti – non si è manifestata apertamente che poco tempo fa.

La lotta di Israele per l’Africa

Il 5 luglio 2016, Benjamin Netanyahu ha dato il via alla corsa di Israele per l’Africa con una storica visita in Kenya, che ha fatto di lui il primo ministro israeliano a visitare l’Africa negli ultimi 50 anni. Dopo aver trascorso un po’ di tempo a Nairobi, dove ha partecipato al Forum economico Israele-Kenya accanto a centinaia di leader israeliani e kenioti, si è trasferito in Uganda, dove ha incontrato i leader di altri Paesi africani tra cui il Sud Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Tanzania. Nello stesso mese, Israele ha annunciato il ripristino dei rapporti diplomatici tra Israele e Guinea.

La nuova strategia israeliana è iniziata lì. Sono seguite altre visite ad alto livello in Africa e annunci trionfali su nuove joint venture e investimenti economici.

Tuttavia, il primo ministro israeliano ha presto rilevato come gli sforzi diplomatici ed economici per conquistare l’Africa fossero insufficienti. Quindi, si è arreso alla riscrittura della storia per migliorare la posizione di Israele nel continente.

Nel giugno 2017, Netanyahu ha preso parte alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che si tiene nella capitale liberiana Monrovia. “Africa e Israele godono di una naturale affinità”, ha affermato Netanyahu nel suo discorso. “Abbiamo, sotto molti aspetti, storie simili. Le vostre Nazioni hanno sofferto duramente sotto il dominio straniero. Avete vissuto guerre e massacri orribili. La nostra storia è molto simile.”

Con queste parole, Netanyahu ha cercato non solo di coprire la brutta faccia del colonialismo sionista e di ingannare gli africani, ma anche di derubare i palestinesi della loro storia.

Nonostante l’evidente falsità delle “storie simili” di Netanyahu, l’offensiva del fascino di Israele in Africa è proseguita di successo in successo. Nel gennaio di quest’anno, ad esempio, il Ciad, nazione a maggioranza musulmana e geograficamente la più importante dell’Africa centrale, ha stabilito legami economici con Israele.

Cercando di affermarsi come partner delle Nazioni africane, Israele ha fornito alcuni aiuti a beneficio degli africani, come la fornitura di tecnologie solari, idriche e agricole alle regioni bisognose. Tuttavia, questi contributi hanno avuto un alto costo.

Quando, ad esempio, nel dicembre 2016, il Senegal ha sottoscritto la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condannava la costruzione di insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, Netanyahu ha richiamato l’ambasciatore israeliano a Dakar e prontamente cancellato tutti i progetti di irrigazione a goccia del Mashav [l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale, ntr.] – i progetti erano stati precedentemente “ampiamente pubblicizzati come parte importante del contributo di Israele alla ‘lotta contro la povertà in Africa’ “.

Israele non solo si è servito così di progetti come questi per punire le nazioni africane quando queste abbiano mancato di fornire supporto cieco a Israele nei contesti internazionali, ha anche usato le sue nuove relazioni per trasformare l’Africa in un nuovo mercato per la vendita di armi.

Paesi africani come Ciad, Niger, Mali, Nigeria e Camerun, tra gli altri, sono diventati clienti delle tecnologie israeliane di “antiterrorismo”, gli stessi strumenti mortali attivamente utilizzati per reprimere i palestinesi nella loro eterna lotta per la libertà.

E tutto questo mentre Israele continua a promuovere la medesima mentalità razzista e coloniale che ha asservito e soggiogato l’Africa per centinaia di anni. La cosa sembra essere sfuggita ai leader africani che si sono messi in fila per ricevere sussidi e appoggio israeliani nella loro dubbia “guerra al terrorismo”. Inoltre, lo sfacciato razzismo anti-africano che impronta in generale la politica e la società israeliane non sembra avere alcuna conseguenza per il crescente fan-club di Israele in Africa.

Molti governi africani, compresi quelli di Nazioni a maggioranza musulmana, stanno dando a Israele esattamente ciò che vuole: un modo per uscire dal suo isolamento e legittimare l’apartheid.

“Israele si sta facendo strada nel mondo islamico”, ha detto Netanyahu durante la prima visita di un leader israeliano nella capitale del Ciad, Ndjamena, il 20 gennaio 2019. “Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita”.

I palestinesi e gli arabi, naturalmente, hanno una parte di colpa in tutto ciò, per aver abbandonato i loro alleati africani nell’ inseguimento insensato, dopo le promesse di Stati Uniti e Occidente, di una pace che non si è mai realizzata. La politica araba è enormemente cambiata dalla metà degli anni ’70. Non solo i Paesi arabi non parlano più con una sola voce e, quindi, non hanno una strategia unificata per quanto riguarda l’Africa o il resto del mondo, ma alcuni governi arabi stanno attivamente tramando con Tel Aviv e Washington contro i palestinesi. La conferenza economica del Bahrain, che si è tenuta a Manama dal 25 al 26 giugno, è stata l’ultimo di questi eventi.

La stessa leadership palestinese ha allontanato la propria attenzione politica dal sud del mondo, soprattutto dopo la firma degli Accordi di Oslo. Per decenni, l’Africa ha avuto poca importanza nei calcoli angusti e auto-referenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per l’ANP, solo Washington, Londra, Madrid, Oslo e Parigi avevano un’importanza strategica – un errore politico deplorevole sotto tutti gli aspetti. Questo errore storico deve essere corretto prima che la storia del successo di Israele escluda i palestinesi da qualsiasi influenza in Africa e nel resto del sud del mondo.

Eppure, nonostante i molti successi nell’attirare governi africani nella propria rete di alleati, Israele non è riuscito a entrare nei cuori degli africani, che ancora vedono la lotta palestinese per la giustizia e la libertà come un’estensione della propria lotta per la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani.

È vero, Israele ha ottenuto il sostegno di parte della classe dirigente in Africa, ma non è riuscito a conquistare il popolo africano, che rimane dalla parte dei palestinesi. Durante la mia visita di 10 giorni nel loro Paese, i kenioti di ogni estrazione sociale mi hanno dimostrato il loro sostegno alla Palestina nel modo più confortante, autentico e naturale. 

A Nairobi, studenti, accademici e attivisti per i diritti umani si rapportano al popolo palestinese non come osservatori esterni simpatizzanti della loro lotta, ma come partner in una battaglia collettiva per giustizia, libertà e diritti. La sanguinosa lotta del Kenya contro il colonialismo britannico, la sua orgogliosa guerra di liberazione e i molti sacrifici per ottenere la libertà sono un’immagine quasi speculare dell’attuale lotta palestinese contro un altro nemico coloniale e razzista.

La Palestina sarà sempre vicina al cuore di tutti gli africani a causa della dolorosa e orgogliosa storia di colonialismo e resistenza che condividiamo. Con questa considerazione, i palestinesi dovrebbero rendersi conto del fatto che Israele sta attivamente cercando di riscrivere la loro storia e privarli della solidarietà di popoli che forse comprendono la loro situazione meglio di chiunque altro.

Sarebbe un’ingiustizia morale alla quale non dovrebbe essere permesso di avere la meglio. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è editorialista noto a livello internazionale, consulente per i media e scrittore.

(traduz. di Luciana Galliano)




Irresponsabilità aziendale di TripAdvisor

Laith Abu Zeyad

28 luglio 2019 – Al Jazeera

TripAdvisor afferma di voler aiutare i rifugiati, ma trascura il proprio appoggio alle violazioni dei diritti umani.

Il 20 giugno, Giornata Mondiale per i Rifugiati, l’amministratore delegato di TripAdvisor Stephen Kaufer ha pubblicato un editoriale in cui chiedeva alle imprese di contribuire ad affrontare la crisi globale dei rifugiati e si impegnava a donare milioni di dollari alle organizzazioni umanitarie “per sostenere e aiutare i rifugiati a ricostruire la propria vita e a rivendicare il proprio futuro.”

È certamente una lodevole iniziativa, se solo non contraddicesse lo spirito di altre prassi dell’azienda. Mentre TripAdvisor ha deciso di aiutare i rifugiati in alcune parti del mondo, altrove – in particolare nei territori palestinesi occupati – contribuisce alle sofferenze della popolazione locale, che è all’origine di una delle più grandi comunità di rifugiati al mondo.

Negli ultimi 70 anni le spietate politiche israeliane di confisca della terra, colonizzazione illegale e spossessamento, accompagnate da una violenta discriminazione, hanno inflitto enormi sofferenze ai palestinesi, privandoli dei loro diritti fondamentali. Anche TripAdvisor ha avuto parte in queste continue violazioni.

Nel gennaio 2019 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato ‘Destinazione Occupazione’, che illustra come le compagnie leader mondiali del turismo online – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – contribuiscano e traggano profitto dal mantenimento, sviluppo ed espansione delle colonie illegali israeliane. In base al diritto internazionale tali attività costituiscono dei crimini di guerra.

TripAdvisor è il secondo sito web (dopo Google) più visitato dai turisti stranieri che arrivano in Israele, con oltre un quarto delle persone (più di 800.000) che dicono di aver consultato il sito prima del loro arrivo per le attrazioni turistiche, le escursioni, i ristoranti, i caffè, gli hotel o gli appartamenti in affitto.

Durante la nostra campagna abbiamo chiesto a Kaufer di smettere di inserire nei propri annunci, o promuovere, proprietà, attività e attrazioni situate nelle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. TripAdvisor ha risposto sostenendo che “ l’inserimento negli annunci su TripAdvisor di una proprietà o di un’azienda non costituisce la nostra approvazione nei confronti di quella struttura”. Eppure la compagnia trae profitto da annunci che includono quelle che si trovano in colonie illegali israeliane.

TripAdvisor e altre compagnie cercano di difendere la loro posizione sostenendo che la questione delle colonie illegali israeliane è troppo politica, per cui loro non possono prendere posizione in merito. Comprendiamo che le aziende non hanno il compito di risolvere le questioni politiche, ma hanno la responsabilità di garantire che non provochino danni o non contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

È forse difficile per i lettori immaginare l’impatto sui diritti umani del turismo e di altre attività aziendali in Palestina, ma è molto concreto per le persone che vivono sotto occupazione israeliana. Per esempio abbiamo scoperto che TripAdvisor ha segnalato con grande evidenza, fungendo da agenzia di prenotazioni, la ‘Città di Davide’, una nota attrazione turistica situata a Silwan, un quartiere palestinese nella Gerusalemme est occupata. Il sito è gestito da un’organizzazione chiamata ‘Fondazione Elad’, che è sostenuta dal governo israeliano e lavora per aiutare i coloni israeliani a trasferirsi in quell’area.

Silwan ospita circa 33.000 palestinesi. Ora vi vivono parecchie centinaia di coloni, per di più in insediamenti rigorosamente protetti. Israele ha trasferito i suoi cittadini nel quartiere fin dagli anni ’80. Questo ha comportato numerose violazioni di diritti umani, compresi l’espulsione e il trasferimento forzati di abitanti palestinesi.

Negli ultimi 10 anni almeno 233 palestinesi sono stati espulsi da Silwan. Molto recentemente, il 10 luglio, la polizia e le forze di sicurezza israeliane hanno cacciato dalla loro casa nel quartiere una famiglia di cinque palestinesi, compresi quattro bambini.

Incoraggiando attivamente gli utenti a visitare la ‘Città di Davide’ e a fare tour guidati del luogo, TripAdvisor ha promosso l’attività di Elad e tratto profitto da ogni prenotazione fatta attraverso il sito.

Se TripAdvisor avesse condotto almeno un’elementare valutazione del rischio della propria attività nelle, o con le, colonie israeliane, avrebbe scoperto che quelle inserzioni contribuiscono a sostenere una situazione illegale che è intrinsecamente discriminatoria e viola i diritti umani dei palestinesi. È stupefacente che una compagnia multimiliardaria (che sostiene di essere il sito di viaggi più visitato al mondo, con più di 450 milioni di visitatori al mese) o non abbia posto tale doverosa attenzione riguardo alle proprie operazioni in Israele e nei territori palestinesi occupati, o lo abbia fatto, ma abbia deciso di proseguire ugualmente le proprie attività.

Anche altre compagnie di turismo digitale hanno inviato messaggi ambigui sui diritti umani. Nell’aprile 2019 Airbnb ha annunciato che, in seguito ad una class-action da parte di avvocati israeliani ,avrebbe revocato una precedente decisione di eliminare le offerte nelle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata. La compagnia ha affermato che avrebbe donato i profitti derivanti da questi annunci a “organizzazioni non-profit impegnate negli aiuti umanitari che si occupano di persone in diverse parti del mondo.”

Airbnb, come TripAdvisor, mentre cerca di mostrare preoccupazione per le popolazioni bisognose attraverso un piano di responsabilità aziendale, non può continuare ad ignorare che la sua attività con le colonie israeliane illegali è contraria alle norme fondamentali delle leggi internazionali sui diritti umani,

Nessuna somma di denaro in donazioni cancellerà il danno che stanno commettendo nei territori palestinesi occupati e sicuramente nessun profitto a breve termine dovrebbe valere il prezzo della collaborazione con crimini di guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Laith Abu Zeyad è responsabile delle campagne su Israele/Palestina per Amnesty International.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“È l’inferno”: l’incubo burocratico dei palestinesi di Gerusalemme est

Dall’inviato di MEE – Wadi Al-Joz

Mercoledì 24 luglio 2019 – Middle East Eye

Secondo gli abitanti e i loro avvocati, i funzionari dell’ufficio del ministero degli Interni israeliano ritardano deliberatamente le pratiche per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme

Il quartiere di Wadi al-Joz (“valle delle Noci”) a Gerusalemme est occupata ospita un ufficio dell’autorità del ministero degli Interni israeliano che si occupa della popolazione e dell’immigrazione.

Registrare una nascita o un decesso? Chiedere un passaporto o una carta d’identità? È il solo luogo che offre questi servizi a circa 300.000 abitanti palestinesi di Gerusalemme est.

Nella maggior parte dei Paesi questi servizi di base sarebbero forniti senza problemi – o almeno non troppi. Ma per i palestinesi di Gerusalemme est ottenere dei servizi essenziali è una dura lotta.

Secondo gli abitanti e i loro avvocati i funzionari israeliani dell’ufficio ritardano deliberatamente le cose per rendere la vita dei palestinesi insopportabile al punto tale da spingerli a lasciare Gerusalemme.

È l’inferno. È proprio l’inferno”, confessa Erez Wagner, coordinatore di “HaMoked: Center for the Defence of the Individual” [Centro per la Difesa dell’Individuo], un’organizzazione di Gerusalemme che all’inizio di quest’anno si è presentata davanti alla Corte Suprema israeliana per cercare di migliorare delle condizioni che giudica “disumane”.

Il tribunale ha stabilito che gli uffici del ministero a Gerusalemme ovest dovrebbero fornire alcuni servizi ai palestinesi di Gerusalemme est; tuttavia, spiega, anche questa concessione non ha provocato che pochi cambiamenti concreti sul terreno.

Le sfide che gli abitanti devono affrontare nell’ufficio non sono che una tessera del più vasto mosaico dell’occupazione israeliana che da decenni fa della vita dei palestinesi a Gerusalemme est un incubo burocratico.

A causa dell’occupazione israeliana, in atto dal 1967, ogni palestinese nato a Gerusalemme est non beneficia che dello status di residente temporaneo, il che fa sostanzialmente di lui un apolide.

Eppure persino restare aggrappati a questo status temporaneo rappresenta una sfida. Tra gli altri ostacoli giuridici, i palestinesi di Gerusalemme devono provare in continuazione che la città è il “centro della loro vita”, presentando decine di documenti, soprattutto contratti di affitto, buste paga, bollette dell’elettricità e dell’acqua, ma anche versando delle imposte.

I bambini devono essere registrati come abitanti di Gerusalemme est per poter frequentare le scuole locali e beneficiare di un’assicurazione sanitaria, mentre i matrimoni devono essere registrati perché le coppie possano vivere insieme a Gerusalemme est.

Tutti questi servizi sono disponibili unicamente nell’ufficio, il che pone i palestinesi decisi a restare a Gerusalemme est di fronte a una scelta difficile: assumere un avvocato o fare la coda.

Umiliazione

Sotto a un torrido sole o alla pioggia battente, a Wadi al-Joz lunghe code di persone di ogni età, tra cui neonati, anziani e disabili, si snodano regolarmente davanti alle porte dell’ufficio del ministero.

Non è previsto niente per fare ombra e non c’è a disposizione nessun posto a sedere o gabinetto. Molti preferiscono andarci prima dell’alba per prendere posto nella coda, e non è raro vedere persone che svengono. Secondo HaMoked, persone malate che non possono rimanere in piedi per ore rinunciano a servizi essenziali.

Ma, spiega Fida Abbasi, che vive nel quartiere di Silwan a Gerusalemme est, le ore d’attesa, spesso passate vicino a guardie che tendono a umiliare quelli che fanno la coda, non sono che la punta dell’iceberg.

Una volta all’interno [dell’ufficio], i palestinesi devono poi attraversare porte metalliche dove uomini e donne vengono separati. In seguito le guardie israeliane li chiamano uno alla volta per passare sotto al metal detector e sottoporli a una minuziosa perquisizione delle borse. Se una persona ha una bottiglia d’acqua, ne deve bere un sorso davanti alle guardie.

È come una base militare. Non si può fare nessuna foto e a volte le guardie confiscano la nostra bottiglia d’acqua o altri oggetti”, dice Fida Abbasi a Middle East Eye.

Nel 2018 il governo israeliano ha lanciato un’applicazione telefonica in ebraico e ha obbligato i palestinesi a usare questa procedura per prendere appuntamento per ottenere ogni tipo di servizio al ministero.

Ma gli unici appuntamenti disponibili sono proposti in un periodo di tempo da sei mesi a un anno, spiegano gli abitanti a MEE. Nel contempo, quelli che cercano di entrare senza appuntamento sono bloccati dalle guardie alle porte d’ingresso.

Nell’agosto 2018 sono stati arrestati quattro impiegati dell’ufficio di Wadi al-Joz sospettati di aver intascato varie centinaia di migliaia di shekel [unità di moneta israeliana, ndtr.] in cambio di tempi di attesa più corti. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli investigatori hanno scoperto che gli impiegati avevano prenotato centinaia di appuntamenti e li avevano venduti a parecchie centinaia di shekel l’uno.

Nell’impossibilità di ottenere un appuntamento in tempo utile o di utilizzare l’applicazione per l’incapacità di capire l’ebraico, numerosi palestinesi fanno ricorso a un’assistenza giuridica e pagano fino a 500 dollari per essere assistiti per il semplice fatto di prendere un appuntamento o compilare dei moduli. 

Quelli che hanno i mezzi per incaricare un avvocato pagano circa 5.000 dollari per recuperare il proprio status di residenti e circa 10.000 dollari per registrare vari bambini.

Una lotta infinita

Per quelli che non possono pagare a Gerusalemme est occupata esistono delle organizzazioni come il “Community Action Center” [Centro per l’Azione Comunitaria], che offrono aiuto giuridico gratuito ai palestinesi. 

Mohammad al-Shihabi, che dirige il centro, può elencare innumerevoli esempi di persone venute a cercare aiuto per delle pratiche burocratiche israeliane rese intenzionalmente difficili.

Spiega che la maggior parte dei casi riguarda la registrazione di bambini e “ricongiungimenti familiari”, una pratica imposta da Israele ai palestinesi di Gerusalemme est che sposano una persona palestinese della Cisgiordania o di un’altra nazionalità.

Sostiene che all’ufficio del ministero dell’Interno a Wadi al-Joz i palestinesi sono sottoposti a un esame minuzioso, sono interrogati come se fossero di fronte ad agenti dei servizi di intelligence e sono vittime di un trattamento autocratico.

Due persone titolari dello status di residenti a Gerusalemme aiutate da Mohammed al-Shihabi hanno avuto un bambino in Cisgiordania per ragioni indipendenti dalla loro volontà; tuttavia i funzionari del ministero hanno respinto la richiesta di registrazione del bambino presentata dalla coppia. La loro risposta alla madre in lacrime è stata la seguente: “Chi è responsabile di questo errore merita il peggio.”

Cita anche l’esempio di una donna di Gerusalemme est che fino al loro divorzio nel 1994 ha vissuto a Gaza con suo marito gazawi. Quando è tornata a Gerusalemme con uno dei suoi figli, i funzionari israeliani si sono rifiutati di concederle il diritto di residenza perché aveva vissuto a Gaza.

Ora vive in città senza carta d’identità né conto bancario né assistenza sanitaria, nonostante sia proprietaria di due alloggi a Gerusalemme e vi abbia vissuto senza interruzione per 25 anni.

MEE ha cercato di intervistare parecchi palestinesi che vivono a Gerusalemme est in merito alle loro difficoltà con il ministero degli Interni, ma sono stati molti quelli che hanno rifiutato per timore di rappresaglie.

Il ministero degli Interni in cifre

Rami Saleh, responsabile del “Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center” [Centro per l’Aiuto Giuridico e i Diritti Umani di Gerusalemme], riferisce che, secondo le cifre che gli sono state fornite dal ministero, tra il 2013 e il 2018 su un totale di 9.966 richieste di dichiarazioni di nascita presentate all’ufficio di Wadi al-Joz ne sono state approvate 7.236.

Le altre, gli è stato spiegato, sono ancora all’esame. E su un totale di 3.236 richieste di ricongiungimento familiare, solo 1.534 sono state approvate. Saleh si è rivolto al ministero per chiedere perché un solo ufficio serva parecchie centinaia di migliaia di palestinesi, mentre i residenti israeliani di Gerusalemme possono recarsi in un qualunque ufficio del Paese e ricevere rapidamente il servizio.

Gli è stato risposto che gli impiegati dell’ufficio del ministero a Wadi al-Joz sono più abituati ad avere rapporti con i residenti temporanei.

All’inizio di quest’anno le autorità israeliane hanno aperto un altro ufficio del ministero al check point militare di Qalandia, che separa Gerusalemme dalla città di Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia i servizi forniti sono ridotti e sono a disposizione solo in giorni e orari specifici.

Una portavoce del ministero degli Interni israeliano ha dichiarato a MEE che sono al corrente dei problemi dell’ufficio di Wadi al-Joz e che nel corso degli ultimi due anni hanno cercato di migliorare la situazione, soprattutto fornendo servizi all’ufficio di Qalandia e autorizzando la prenotazione di appuntamenti attraverso l’applicazione che, ha precisato, fornisce le opzioni di appuntamento entro un lasso di tempo di qualche settimana e non di parecchi mesi.

Ha aggiunto che il ministero stava pensando di aprire un altro ufficio a Gerusalemme est. “Ci preoccupiamo davvero di questo problema e lavoriamo per trovare delle soluzioni perché gli abitanti di Gerusalemme est possano beneficiare di un servizio migliore, più rapido”, ha affermato la portavoce in un’e-mail.

Tuttavia Erez Wagner, l’avvocato di HaMoked, dichiara che i cambiamenti apportati non hanno eliminato la maggior parte degli ostacoli contro i quali si scontrano i palestinesi di Gerusalemme est.

Sottolinea che ogni palestinese che va all’ufficio di Qalandia deve attraversare il check-point per due volte – e anche in quel caso viene fornita solo una serie limitata di servizi.

A Gerusalemme ovest, continua, dove ci sono degli uffici del ministero meno affollati e dove la Corte Suprema ha ordinato al ministero di fornire dei servizi ai palestinesi di Gerusalemme est, gli uffici non hanno ancora apportato delle modifiche sostanziali.

La maggior parte dei servizi, compresi il rinnovo dei permessi di soggiorno e le dichiarazioni di nascita, non viene fornita, gli impiegati non parlano arabo e molti di loro, ignorando l’ordine del tribunale, finiscono per rispedire i palestinesi all’ufficio di Wadi al-Joz.

Il fatto che, nonostante i tentativi del tribunale, non sia cambiato niente sul terreno non stupisce Rami Saleh.

Non sorprende che rifiutino le richieste che cercano di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi,” dichiara.

Abbiamo a che fare con un’entità colonialista che cerca di stremare gli abitanti palestinesi di Gerusalemme e non di allentare le restrizioni che sono loro imposte.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Muoiono e basta’: villaggio palestinese soffocato da discarica della colonia israeliana

Megan Giovannetti, Ramallah, Cisgiordania occupata
24 luglio 2019 –
Middle East Eye

Il flusso d’acqua fognaria vicino al villaggio di Bruqin ha avuto effetti devastanti sulla salute e sui mezzi di sussistenza dei palestinesi.

Seduti fuori dalla casa di Ahmed Abdulrahman nella valle di Al-Matwa, l’umidità dell’estate rende intollerabile l’odore di escrementi umani.

Le colonie israeliane e gli stabilimenti industriali sulle colline circondano tutta la vallata. Un flusso costante di acque fognarie scorre verso la valle.

Le zanzare non ci fanno dormire. Siamo preoccupati per il diffondersi di malattie, specialmente per i bambini”, commenta Adbulrahman, 62 anni, al Middle East Eye, la faccia cupa e stanca. Sua moglie è una dei tanti residenti a cui negli ultimi tre anni è stato diagnosticato un tumore.

Le valli di Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata, tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus – raccolgono acqua di scarico non trattata sia dai residenti palestinesi di Salfit che da quelli israeliani delle colonie illegali di Ariel e Barkan.

Secondo una relazione del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono nelle valli sono esposti ad “acque di scarico non depurate, contenenti virus, batteri, parassiti e metalli pesanti tossici dannosi per la salute di esseri umani e animali”.

Il flusso tossico ha avuto un effetto devastante sulla salute e sui mezzi di sostentamento dei palestinesi di quell’area – e mentre le autorità israeliane hanno negato ogni responsabilità, numerosi studi hanno denunciato con preoccupazione gli effetti a lungo termine di questo disastro ambientale e sanitario.

Muoiono e basta’

L’intero villaggio di Bruqin si estende attraverso la valle di Matwa, i versanti delle colline punteggiati di case.

Stando sulla cima, Murad Samara, impiegata comunale a Bruqin e volontaria per la Medical Relief Society, indica le case in cui qualcuno che conosce è malato o morto di una malattia presumibilmente correlata al flusso di scarico fognario.

Ci tiene a sottolineare la loro età: un uomo sui cinquanta in quella casa è morto di cancro cinque anni fa; una ragazza di quindici anni in quell’altra ha avuto un collasso nel cortile della sua scuola l’anno scorso e due mesi dopo è morta di un’altra forma di cancro in stato terminale.

Ogni giorno scopriamo che qualcuno che conosciamo è malato” dice Ammar Barakat, 37 anni, che ha vissuto da vicino l’impatto dell’inquinamento sulla sua famiglia e sulla comunità di Bruqin, uno dei villaggi più colpiti nel distretto di Salfit.

Suo fratello è deceduto due anni fa per un cancro diagnosticato troppo tardi. Il vicino di casa di Ammar, Farou Barakat, vive nella sua abitazione con 24 figli. La moglie di Farouq, Maye, è costantemente preoccupata per la salute dei suoi figli e figliastri.

Suo figlio più piccolo ha un anno e mezzo e soffre di problemi respiratori, mentre Rasha, che ha tre anni, è affetta da leucemia da quando ne aveva uno.

Qui è normale essere malati” dice Maye Barakat. “L’odore, l’acqua, qui tutto è cattivo”.

Se già solo la fogna non trattata ha un impatto notevole sulla salute pubblica, i rifiuti chimici tossici delle industrie circostanti che penetrano nella falda acquifera rappresentano una minaccia addirittura peggiore.

Nel 2017 B’Tselem ha denunciato lo sfruttamento delle terre palestinesi da parte dello Stato d’Israele riguardo al trattamento dei rifiuti prodotti non solo nelle colonie illegali ma anche all’interno della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, quindi all’interno di Israele, ndtr.].

Nella relazione si afferma che gli insediamenti di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti a conduzione israeliana nel territorio occupato della Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano olio esausto e rifiuti elettronici considerati troppo pericolosi per essere trattati in Israele in base alle sue leggi di protezione ambientale, e vengono quindi trasferiti nel territorio palestinese occupato dove tali regolamentazioni non sono in vigore.

I tubi scoperti vicino a queste zone industriali sono sotto gli occhi di tutti, con le acque di scarico che si riversano nelle valli di Matwa e Atrash.

Osservando il miscuglio di liquami tossici che scorre accanto alla sua casa, Ammar Barakat commenta sconsolato: “Sul serio, viviamo all’inferno”.

Per Abdulrahman Tamimi, dottore dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara:

Le persone di questi specifici villaggi [vicino agli stabilimenti industriali] hanno le stesse caratteristiche cliniche, le stesse malattie” spiega. “Se ne può dedurre facilmente che lì c’è qualche problema. Ultimamente vediamo molte persone entrare in ospedale con il cancro… che è una condizione davvero rara in giovane età, tra i 20 e i 25 anni”, continua Tamimi.

I casi che vede spaziano dal cancro ai polmoni a quello alle ossa, ma in ogni caso si tratta di forme molto aggressive. Per svariati motivi di carattere sociale ed economico, spesso Tamimi visita i pazienti quando ormai è troppo tardi.

Dopo la diagnosi vivono per tre mesi e poi muoiono. Muoiono e basta. Non vengono mai nei primi stadi della malattia”, racconta Tamimi al Middle East Eye.

Tre anni fa il comune di Bruqin ha costruito una tubatura per cercare di alleviare i problemi più palesi causati dal flusso fognario, come l’odore e le zanzare. Ma tali sforzi si sono dimostrati insufficienti.

Il villaggio di Bruqin si estende su un’area di 10 chilometri lungo la valle di Matwa, mentre la tubatura è lunga solo due chilometri. Inoltre, molto spesso i rifiuti solidi la intasano.

Le tubature non hanno risolto alcun problema perché si intasano e iniziano a perdere, creando un mare di liquami dannosi per la nostra terra”, dice Abdulrahman, il cittadino di Bruqin la cui moglie è affetta dal cancro.

Due mesi fa, la sua terra è stata sommersa da acque di scarico filtrate dai tubi intasati. Abdulrahman racconta che 22 dei suoi 50 ulivi sono morti o si sono ammalati in seguito all’inondazione, con i rami completamente spogli a due mesi dalla stagione di raccolta.

Temiamo che le olive che raccoglieremo quest’anno non siano commestibili perché le acque di scarico contengono anche i rifiuti chimici delle industrie”, dice Abdulrahman al Middle East Eye.

Stima che perderà all’incirca 2.000 shekels (circa 510 €) per i danni causati al raccolto di quest’anno – per non parlare del rischio a lungo termine di perdere circa metà del suo uliveto.

L’inondazione non rovina solo la sua terra, ma disgrega anche la sua famiglia. Le mogli dei suoi figli e vicini lasciano le case quando c’è un’esondazione, e portano i bambini altrove.

Se ne vanno un mese fin quando i liquami non vanno via, poi tornano” dice Abdulrahman, “ma dopo un mese le acque ritornano e loro se ne vanno di nuovo”.

Il problema principale è l’occupazione’

In una dichiarazione ufficiale al Middle East Eye, il comune di Ariel respinge ogni responsabilità dell’insediamento israeliano per la crisi ecologica e sanitaria nell’area di Salfit.

Tutto lo scarico fognario della città passa attraverso un impianto di depurazione e tutto ciò che si riversa da Ariel è acqua già trattata”, si legge nella dichiarazione.

Tuttavia, B’Tselem afferma che l’impianto di depurazione nella colonia di Ariel “ha cessato l’attività nel 2008”.

Il comune della colonia ha continuato a dare la colpa esclusivamente ai palestinesi – chiamati spesso semplicemente “arabi” dagli israeliani.

Sfortunatamente, le comunità arabe adiacenti non trattano i loro scarichi fognari, soprattutto nell’area di Salfit” prosegue la dichiarazione. “Le loro fogne scorrono direttamente nel Wadi [torrente, ndtr.] e penetrano nelle falde acquifere montane, contaminando l’acqua e attentando alla salute di tutti.”

Il problema principale è l’occupazione, perché non abbiamo alcun potere” sostiene sicura Samara, l’impiegata comunale.

Samara ci spiega che il comune e la città di Salfit hanno tentato di creare un impianto di depurazione delle acque reflue per servire il distretto sin dal 1989.

I due progetti del 2000 e del 2009, finanziati da fondi europei, fallirono perché le autorità israeliane si rifiutarono di rilasciare i permessi edilizi per costruire l’impianto sul territorio di Matwa, essendo esso situato nell’area C della Cisgiordania e dunque sotto il totale controllo militare israeliano.

Il progetto del 2009 fu accolto da un ultimatum di Israele, che avrebbe concesso i permessi per un impianto finanziato dalla Germania solo se esso avesse purificato anche gli scarichi di Ariel.

L’Autorità Nazionale Palestinese denunciò la proposta in quanto avrebbe rappresentato un riconoscimento de facto di Ariel come una colonia legittima, mentre per le leggi internazionali non lo è.

Benché un cartello nuovo di zecca sul territorio di Bruqin annunci un nuovo tentativo di costruire un depuratore finanziato dalla Cooperazione Finanziaria Bilaterale Tedesca entro il 2022, anche se i lavori venissero terminati entro la scadenza stabilita gli effetti di decenni di esposizione alle acque tossiche potrebbero essere irreversibili.

Danni irreversibili

Il dottor Mazin Qumsiyeh, professore di genetica e biologia molecolare all’Università di Betlemme nonché noto attivista, ha aperto la strada allo studio degli effetti a lungo termine e intergenerazionali dovuti all’esposizione ai rifiuti tossici.

Qumsiyeh e un team di dottorandi hanno raccolto campioni di sangue di un gruppo di controllo e di due gruppi di confronto in due studi separati – uno che analizza i palestinesi provenienti da Bruqin nel 2013 e uno del 2016 sui cittadini di Idhna, un altro villaggio palestinese pericolosamente vicino a una zona industriale israeliana.

I risultati mostrano un numero significativo casi di rottura cromosomica nelle cellule dei residenti vicini alle zone industriali rispetto al gruppo di controllo. La rottura cromosomica o altri danni al DNA aumentano le probabilità di infertilità, malformazioni congenite alla nascita e cancro.

Le prove sono schiaccianti, non si può trattare semplicemente di una differenza casuale tra i campioni (del gruppo di test e di controllo)”, dichiara Qumsiyeh a Middle East Eye.

Questa è una scoperta molto significativa che indica che la presenza di questi impianti industriali è ciò che causa questi danni.”

Anche se Qumsiyeh crede che “questa possa essere un’arma importante per affrontare Israele nei tribunali internazionali”, i residenti di Bruqin come i Barakat desiderano soluzioni più immediate.

Gran parte dei palestinesi pensa alla liberazione dall’occupazione”, sostiene Ammar Barakat. “Tutto ciò che chiedo io è aria pulita. Fino ad allora, non posso pensare a nient’altro.”

(Traduzione di Maria Monno)




La forza della legge versus la legge della forza: una recensione di ‘Justice for some’ di Noura Erakat

Richard Falk

16 luglio 2019 – Mondoweiss

JUSTICE FOR SOME Law and the Question of Palestine [GIUSTIZIA PER ALCUNI. Diritto e questione palestinese]

Di Noura Erakat Pag. 352, Stanford University Press, $30.00

Non pretendo di avvicinarmi a questo libro con mente aperta. Per dirla più chiaramente, riconosco con qualche orgoglio di aver sostenuto ‘Justice for some’ ancor prima della sua pubblicazione, e il mio commento compare in quarta di copertina. Inoltre due mesi fa ho partecipato ad una presentazione del libro all’università George Mason, dove Noura Erakat è docente.

Il mio intendimento in questa recensione non è di fare una serena valutazione dei punti di forza e di debolezza del libro, ma piuttosto di consacrarlo come contributo importante e dotto alla letteratura critica volta a risolvere il conflitto israelo-palestinese secondo i dettami della giustizia piuttosto che attraverso un continuo affidarsi alla forza muscolare dell’oppressione, come ribadito dalla geopolitica. E quindi cogliere questa opportunità per invitare ad una attenta lettura di ‘Justice for some’ da parte di tutti coloro che si interessano alla lotta palestinese e di chi è curioso di [sapere] come il diritto agisca pro e contro il benessere umano, come dimostrato dal suo utilizzo in una serie di circostanze storiche e sociali.

Erakat si concentra sulle storture del militarismo e della geopolitica che sono state inflitte al popolo palestinese nel suo complesso, portando i lettori a rendersi conto di come ‘diritto’ e ingiustizia abbiano troppo spesso agito insieme per decenni. Erakat offre ai lettori questa dissertazione giurisprudenziale critica e illuminante, ma non si ferma qui. ‘Justice for some’ fa anche ricorso a una metodologia costruttivista nel seguente senso: mentre Israele ha abilmente utilizzato le leggi per opprimere il popolo palestinese, il testo di Erakat spiega ai lettori anche come il diritto possa essere, e sia, utilizzato in nome della giustizia, servendo la causa dell’emancipazione dei palestinesi come parte integrante della continua lotta per l’emancipazione del popolo palestinese.

In un certo senso, la mia partigianeria a favore della lotta palestinese è simile a quella di Erakat, che chiarisce fin dalla prefazione che la sua intenzione è di descrivere l’oppressione territoriale e nazionale dei palestinesi nel modo più trasparente possibile attraverso l’ottica delle leggi e dei diritti umani e di condannare l’uso da parte di Israele di sistemi, procedure e tattiche giuridiche per portare avanti crudelmente il progetto sionista a spese dei palestinesi.

Justice for some’ rappresenta una importante tendenza negli studi [giuridici], che cerca di affiancare l’obbiettività accademica con l’esplicito impegno etico e politico. Questo accorpamento di obbiettivi potrebbe apparire adeguato quando si tratta di un conflitto così aspro come quello israelo-palestinese, ma non è stato molto adottato nell’insegnamento prevalente. Il canone accademico nei testi di studio continua a privilegiare una posizione neutrale o di presunta obbiettività riguardo alle implicazioni politiche, che non è altro che una maschera professionale indossata da accademici ingenui o cinici che non intendono assumersi la responsabilità delle proprie opinioni personali.

Ancor peggio, l’influenza sionista sul discorso accademico e mediatico su questo argomento è talmente forte che qualunque frase esplicita contenuta nel libro di Erakat è censurata, autocensurata e attaccata come ‘di parte’. Per il pensiero dominante l’originalità di Erakat e la sua convincente analisi nella migliore delle ipotesi vengono ignorate, oppure ridicolizzate. Autori come lei sono sovente attaccati in quanto rappresentanti del cosiddetto ‘nuovo anti-semitismo’, cioè una qualifica usata per screditare i testi e gli autori che criticano le politiche e le prassi di Israele, confondendo malignamente le critiche con l’odio verso gli ebrei. Questa distorta equazione ci offre una definizione dei discorsi d’odio che equivale a emettere una sentenza di morte contro la libertà di espressione. E’ una vergogna nazionale che le istituzioni legislative americane a livello statale e federale si bevano un simile veleno!

E’ difficile comunicare l’originalità giurisprudenziale di Erakat senza discuterne in modo ampio, ma ci proverò. Molto nasce dalla sua ardita asserzione: ‘Io sostengo che il diritto è politica.” (4) Con questo intende, per dirlo in termini grossolani, che ‘la forza delle leggi’ dipende dalla ‘legge della forza’, cioè i diritti giuridici senza la possibilità di applicare a un certo livello la legge restano senza effetto, oppure l’insidioso effetto è di dare copertura legale a comportamenti disumani. Oppure, come Erakat dice attraverso una metafora, la politica procura il vento di cui la vela ha bisogno perché la nave vada avanti.

Allo stesso tempo, quando discute dei diritti e delle strategie palestinesi, Erakat ribadisce che il richiamo alla ‘forza’ non implica affidarsi o invitare alla violenza. La sua affermazione strategica di nonviolenza diventa esplicita quando parla in termini di approvazione dell’importanza della campagna BDS, come anche nel suo sostegno ai vari tentativi di criticare Israele alle Nazioni Unite o altrove.

Soprattutto Erakat argomenta in modo persuasivo ch Israele è stato più abile dei palestinesi a fare uso efficace del diritto, in parte perché ha il vento in poppa per via dei suoi legami con la geopolitica, specialmente con gli Stati Uniti, ma anche perché gli esperti giuridici israeliani hanno svolto il loro ‘lavoro legale’ meglio dei palestinesi. Il libro di Erakat può essere letto come uno stimolo ai palestinesi perché facciano un miglior uso di ciò che lei chiama ‘opportunismo basato su principi giuridici’ (19)

In senso più ampio, Israele, per via degli appoggi geopolitici e del controllo sul dibattito è riuscito ad ottenere che i suoi più flagranti crimini internazionali, compreso l’uso eccessivo della forza, le punizioni collettive e il terrorismo di Stato, siano ‘legalizzati’ sotto la dicitura ‘sicurezza’ e ‘autodifesa’, prerogative a tempo indeterminato intrinseche alla nozione stessa di Stato sovrano. Al contrario, i palestinesi che esercitano un diritto di resistenza del tutto giustificabile, persino quando è diretto contro obbiettivi militari, sono criminalizzati a livello internazionale e il loro comportamento è stigmatizzato come ‘atti di terrorismo’. Il più sinistro imbroglio ‘legale’ di Israele è stato sfidare ripetutamente e in modo flagrante il diritto internazionale senza subire alcuna conseguenza negativa. Questa dinamica di sfidare le leggi può essere illustrata dal disconoscimento da parte di Israele del parere consultivo della Corte Internazionale del 2004, nonostante l’accordo di 14 giudici su 15 (qualcuno si sorprende che l’unico contrario fosse il giudice americano?) che la costruzione del muro di separazione sul territorio palestinese occupato viola le norme fondamentali del diritto umanitario internazionale, comprese le Convenzioni di Ginevra del 1977.

Inoltre Erakat merita apprezzamento perché mantiene uno stile accademico senza al contempo moderare le parole o lasciarsi intrappolare nel linguaggio giuridico spesso confuso. Il problema del linguaggio è cruciale nella sua interpretazione delle contraddizioni tra legge e giustizia che hanno privato il popolo palestinese, e la sua nazione, dei diritti fondamentali per oltre un secolo. Erakat è chiara come pochissimi docenti di diritto internazionale nel dire che le questioni in discussione possono essere correttamente valutate solo se pienamente contestualizzate storicamente e ideologicamente.

Secondo Anthony Anghie [professore di diritto all’università di Singapore, ndtr.] e diversi altri, Erakat ritiene essenziale mostrare che le radici del moderno diritto internazionale riflettono un quadro normativo che è servito a legittimare il colonialismo europeo e le sue pratiche. Estende provocatoriamente questa generalizzazione ad Israele, identificandolo come l’ultimo Stato “coloniale di insediamento” che è stato creato. Aggiungerei che Israele è stato fondato nonostante la potente tendenza anticolonialista che si è mossa in un’unica direzione a partire dal 1945.

Erakat è parimenti pronta a sostenere che la prolungata occupazione israeliana della Palestina dopo il 1967 è diventata ‘annessione’. Avanza anche l’opinione che il modo in cui Israele controlla il popolo palestinese attraverso la frammentazione politica e gli strumenti legislativi sia una forma di ‘apartheid’. Negli approcci critici e costruttivisti evitare gli eufemismi giuridici è di centrale importanza per la fondamentale impresa di liberare i meccanismi giuridici dalle macchinazioni degli Stati. Ciò che fa il linguaggio veritiero è guardare attraverso la finzione giuridica per illuminare le questioni morali in gioco. Questa chirurgia linguistica è un prerequisito per fare chiarezza sulla relazione tra la legge e la giustizia e l’ingiustizia, non solo relativamente alla Palestina, ma in rapporto a particolari questioni, sia che coinvolgano migranti internazionali, minoranze vittime di violenza o popoli a cui si nega l’autodeterminazione.

Justice for some’ mi ha aiutato a rendermi conto che questo significato fondamentale della legge come strumento inevitabilmente politicizzato di controllo e resistenza può essere in contrasto con l’idea che io ho precedentemente evidenziato nei miei scritti giuridici, che il vero significato delle norme giuridiche può essere colto soltanto attraverso la loro corretta interpretazione. Su questa base ho argomentato la contrarietà alla guerra in Vietnam, contestando che il ruolo dell’America implicasse l’uso della forza in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, che stabiliscono i criteri per l’uso della forza, e che questo argomento era giuridicamente superiore alle giustificazioni avanzate dal governo USA e dai suoi apologeti.

Questo paradigma normativo (o ermeneutico) riflette la retorica del diritto internazionale ed il modo in cui gli avvocati abitualmente affrontano una controversia, incluse le modalità del ragionamento giuridico usate dai giudici nei tribunali sia all’interno degli Stati che a livello internazionale per spiegare e giustificare le proprie decisioni. Si può applicare in particolar modo all’uso del diritto internazionale nell’arte di governare per approvare o meno un comportamento contestato, riflettendo indirettamente l’intensità dei venti politici che gonfiano le vele della nave dello Stato, ma anche la raffinatezza e le motivazioni di chiunque stia difendendo una causa, e per chi.

Sullo sfondo di questa interpretazione, ciò che Erekat cerca e riesce a fare, più che l’interpretazione emancipatoria delle norme giuridiche, riguarda il metterci in grado di afferrare il nesso manipolatorio sotteso al dibattito giuridico internazionale e che plasma i modelli politici di controllo e resistenza. Il paradigma normativo è complementare e di sottofondo, in quanto lo scopo principale di Erakat è sviluppare meglio di quanto facciano gli approcci tradizionali un esaustivo fondamento logico per un paradigma politico e normativo che corrisponda alla realtà della lotta palestinese, e di altre lotte simili, per i diritti fondamentali, in particolare quello dell’autodeterminazione. Questi paradigmi non si contraddicono necessariamente l’un l’altro, ma poggiano su differenti funzioni del diritto e e dei giuristi in vari contesti, e da un punto di vista giurisprudenziale possono essere considerati complementari. Il lavoro di Erakat si preoccupa non tanto di comprendere come sia il mondo, quanto di come dovrebbe essere governato e di come il diritto e la professione giuridica possano (o non possano) far sì che ciò accada. In questo senso lo spirito che caratterizza il libro di Noura Erakat richiama alla mente il famoso detto di Karl Marx: “I filosofi finora hanno interpretato il mondo in vari modi; la questione è cambiarlo.”

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’università di Princeton. È autore o co-autore di 20 libri e curatore editoriale di altri 20. Nel 2008 il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHRC) ha nominato Falk Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967” per un periodo di 6 anni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La “crisi ambientale” di Israele è colpa sua

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

7 luglio 2019 – Al Jazeera

La distruzione da parte di Israele dell’ambiente nei territori palestinesi ora minaccia le vite israeliane.

La crescente crisi umanitaria di Gaza viene finalmente percepita in Israele come un problema pressante che richiede un’azione “chiara ed immediata”. Tuttavia non è l’impatto della crisi sulla popolazione di Gaza che desta l’allarme a Tel Aviv, ma il potenziale danno ambientale che la perdurante povertà di Gaza può causare ad Israele.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele.”

Ci si aspetterebbe che qualunque rapporto sulla situazione ambientale a Gaza si concentrasse sul fatto che quasi due milioni di palestinesi nella Striscia vivono in condizioni disumane a causa del blocco israeliano che dura ininterrottamente da 12 anni e dei continui attacchi militari devastanti, che rendono l’area “inabitabile entro il 2020” [secondo un documento ONU del 2015, ndtr.].

Invece il rapporto presuppone che gli abitanti del luogo siano gli unici responsabili dell’imminente catastrofe ambientale a Gaza, che sta minacciando la sicurezza e il benessere dei cittadini israeliani. Anche il giornale israeliano Haaretz, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sulla presentazione, ha trattato la questione come problema di sicurezza nazionale.

Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. L’occupazione, la colonizzazione, lo spossessamento e l’aggressione contro la Palestina e i palestinesi hanno provocato un tale danno ambientale che ora anche l’occupante israeliano ne sta soffrendo.

Inquinare Gaza

In questo momento la situazione ambientale a Gaza è certo tragica, ma non sono i palestinesi che l’ hanno causata. Né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali ne sono le cause principali. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni hanno documentato dettagliatamente come e perché il principale colpevole sia Israele, i suoi violenti attacchi a Gaza ed il suo spietato assedio.

Consideriamo la questione delle acque reflue non trattate che finiscono in mare, che causano problemi agli israeliani che vanno al mare e agli impianti di desalinizzazione. Il motivo per cui le acque reflue vengono smaltite in questo modo “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio.

Le acque reflue non trattate sono parte della più ampia crisi idrica di Gaza. Come correttamente sottolinea il rapporto, gli abitanti di Gaza fanno uso eccessivo della falda acquifera sotto la Striscia, che è divenuta sempre più inquinata da acqua di mare e prodotti chimici e che costituisce l’unica fonte di acqua pulita per gli abitanti a causa della separazione non voluta dalla Cisgiordania.

La ragione per cui i palestinesi di Gaza non sono in grado di creare un adeguato sistema di gestione dell’acqua ancora una volta non è una loro responsabilità. Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture idriche, comprese le tubature dell’acqua, i pozzi e altre strutture, e l’estenuante assedio israeliano ha impedito alle autorità locali di ripararle e di costruire un impianto di desalinizzazione.

Il problema dell’acqua a Gaza non è soltanto una seccatura per gli israeliani, ma una potenziale causa di epidemie per i palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono già raddoppiate le patologie diarroiche, raggiungendo livelli epidemici, mentre anche la salmonella e la febbre tifoidea stanno aumentando.

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”. Come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati.

Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, che di nuovo sono legati all’occupazione israeliana e all’aggressione contro i palestinesi.

L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele. Il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua.

Anche i ripetuti attacchi israeliani con pesanti bombardamenti sulla Striscia hanno contribuito all’inquinamento. Vi sono prove che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

Inoltre le armi usate nelle operazioni militari israeliane hanno contaminato l’ambiente di Gaza con metalli pesanti come tungsteno, mercurio, cobalto, bario e cadmio, che notoriamente causano cancro, malformazioni congenite, infertilità, ecc.

Colonialismo e devastazione ambientale

Che Israele, che è orgoglioso perché avrebbe “fatto fiorire il deserto”, sia il responsabile di un gravissimo disastro ambientale in quello stesso “deserto”, non sorprende molto. Posto che si tratta di un progetto di colonialismo di insediamento, il supersfruttamento della terra colonizzata a scapito dell’ambiente e della popolazione locale è parte intrinseca del suo modus operandi.

Certamente, tutta la terra che Israele ha preso ed occupato ha subito in un modo o nell’altro un degrado ambientale, e i suoi effetti dannosi vengono opportunamente scaricati sulla terra, sui villaggi e sulle città palestinesi.

L’aggressiva prassi israeliana di costruzione di insediamenti non solo ha sradicato, segregato e spossessato centinaia di migliaia di palestinesi, ma ha anche danneggiato l’ambiente. Ha causato un eccessivo consumo di acqua, che non solo ha significativamente ridotto l’accesso all’acqua per i palestinesi, spingendo alcuni a parlare di “apartheid dell’acqua”, ma ha anche impoverito le risorse idriche in generale.

L’uso aggressivo di acqua per l’agricoltura – per lo più da parte di coloni illegali in Cisgiordania – ha causato l’impoverimento delle falde acquifere ed una drastica riduzione dei livelli del lago di Tiberiade e del fiume Giordano.

Israele inquina la terra palestinese anche utilizzandola letteralmente come discarica. È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni palestinesi.

Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente senza alcun riguardo per la salute dei palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi. Questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Tutte queste attività che danneggiano l’ambiente in cui vive il popolo palestinese si vanno accumulando nel tempo. Oggi mettono a rischio le vite dei palestinesi, ma domani minacceranno anche le vite degli israeliani.

Se Israele continua a trattare la questione come “un problema di sicurezza” non lo risolverà mai, perché alla sua base vi è la logica distruttiva di un’impresa coloniale che cerca di sfruttare sia la terra che la popolazione senza riguardo per la natura ed il benessere degli esseri umani.

In altri termini, Israele non otterrà mai la sicurezza – dell’ambiente o di altro – finché continuerà ad opprimere i palestinesi, ad occupare la loro terra e a devastare l’ambiente. L’aria, l’acqua e l’ambiente israeliano nel suo complesso non saranno mai immuni dai disastri perpetrati da Israele nella Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, consulente dei media, scrittore.

Romana Rubeo è una scrittrice e traduttrice freelance che vive in Italia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Turista americana maltrattata ed arrestata da agenti della polizia di frontiera israeliana mentre cerca di andare a un matrimonio a Ramallah

Laura Comstock

2 luglio 2019 – MondoWeiss

Il 1 luglio ho cercato di attraversare il confine tra Giordania e Israele per visitare luoghi storici e partecipare a un matrimonio a Ramallah. Ero stata invitata in Cisgiordania da una mia docente universitaria che si dà il caso sia palestinese. Ci eravamo separate al posto di controllo di frontiera sul lato giordano e il mio bagaglio era stato caricato sul suo autobus, mentre io ho dovuto rimanere indietro in Giordania ed aspettare l’autobus turistico.

Sono arrivata sul lato israeliano alle 15,30 ed ho aspettato di raggiungere il controllo passaporti. Quando ho spiegato le ragioni della mia visita in Israele al poliziotto di frontiera, sono stata immediatamente interrogata sulla storia della mia famiglia e mi è stato chiesto delle mie intenzioni in Israele. Non volevo far altro che visitare i principali luoghi di interesse, partecipare al matrimonio e tornare in Giordania entro due settimane.

Quando li ho informati che quella notte sarei stata con la mia docente universitaria a Ramallah il loro atteggiamento è completamente cambiato e sono diventati estremamente ostili.

Allora sono stata interrogata e tre agenti di frontiera mi hanno gridato contro con dietro di me una lunga fila di altri turisti americani. Sono stata immediatamente arrestata senza spiegazioni e il mio passaporto mi è stato tolto.

Dato che le mie valige erano già in Israele, avevo con me solo lo zaino e la pattuglia di frontiera ha fatto pesanti commenti su di me, affermando: “Come pensi di poter sopravvivere solo con una borsa?” Ho gentilmente spiegato agli agenti che le mie cose erano già passate dal posto di controllo di confine con la mia compagna di viaggio e che mi stavano aspettando.

Questa risposta non gli è bastata, e hanno fatto commenti ancora più pesanti riguardo alla quantità di denaro che avevo nel portafoglio. I soldi (50 dinari giordani) che avevo nel portafoglio sarebbero stati totalmente privi di importanza dato che in Israele avevo intenzione di utilizzare la mia carta di credito. Mi hanno obbligata a stare seduta da sola senza dirmi cosa stesse accadendo dopo che ho fornito loro indirizzi e informazioni sulla mia compagna di viaggio.

Dopo circa tre ore sono stata informata dal soldato di guardia che dovevo essere rispedita in Giordania senza le mie cose. Nelle mie borse avevo medicine importanti di cui non posso fare a meno, ma il controllo di frontiera e i soldati non se ne sono preoccupati e hanno fatto volgari apprezzamenti sulla mia necessità delle medicine, di occhiali da vista e lenti a contatto.

La ragione che mi hanno dato è stata: “È improbabile che qualcuno ti abbia invitata a un matrimonio qui e che tu non sia organizzata, per cui per la sicurezza di Israele sei rimandata in Giordania.”

Non so bene come partecipare a un matrimonio e fare turismo siano una ragione perché venga negato l’ingresso in un Paese.

La villania del personale israeliano al posto di controllo del ponte Re Hussein è stata ingiustificabile e una macchia nera sull’esercito e sul governo israeliani. Sono anche stata obbligata a farmi prendere le impronte digitali e mi hanno fatto sentire come una criminale e coperta d’insulti, finché sono stata messa a forza su un autobus di ritorno al lato giordano, dove sono stata trattata molto gentilmente dalla polizia e mi è stato garantito che sarei tornata ad Amman sana e salva.

Nessun essere umano dovrebbe sopportare scherno e intimidazioni solo perché viaggia. Ho contattato l’ambasciata USA per informarli di questo problema.

Sono disgustata e amareggiata per il fatto che un Paese preferisca disumanizzare le persone invece di lasciare che si spostino liberamente. Quello che è avvenuto oggi è stato solo un assaggio di quanto i palestinesi devono subire ogni giorno.

Laura Comstock è una studentessa esperta di storia e studi sul Medio Oriente all’università Bloomsburg. I suoi interessi di ricerca si concentrano sui rapporti delle minoranze in Medio oriente, principalmente in Egitto e nella Palestina occupata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il prezzo pagato dai mizrahim per fare il militare nell’esercito israeliano

Orly Noy

29 maggio 2019 – +972 Magazine

I mizrahim sono costretti a fare il lavoro sporco dell’occupazione, scontrandosi faccia a faccia con i loro sottoposti palestinesi in Cisgiordania. Le cose non dovrebbero andare per forza così.

È difficile sapere con certezza che tipo di considerazioni siano alla base della crisi crescente tra il primo ministro Benjamin Ntanyahu e Avigdor Liberman. Una crisi che potrebbe portare alle elezioni anticipate se i due non dovessero riuscire a formare una coalizione insieme.

Ma c’è qualcosa di quasi ridicolo nel fatto che i due non riescano a trovare un accordo su un problema che, sotto tutti i punti di vista, è uno dei più grandi inganni collettivi del nostro dibattito pubblico: la coscrizione forzata degli israeliani ultraortodossi.

La truffa parte dal concetto che si possa persino avere il coraggio di definire quello israeliano come un “esercito del popolo” grazie alla coscrizione forzata dei suoi cittadini. La parola “popolo” naturalmente si riferisce ai soli cittadini ebrei di Israele: i palestinesi cittadini di Israele non vengono comunque presi in considerazione.

Ma persino tra gli israeliani ebrei la coscrizione forzata è lungi dall’attirare consensi. Come afferma il professor Yagil Levy nei suoi studi sulla relazione tra esercito, politica e società israeliani, l’obbligo all’arruolamento degli ultraortodossi, la maggioranza dei quali si rifiuta di servire le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.], rappresenta il crollo della definizione stessa di “armata del popolo”. E mentre tale termine si svuota sempre più di ogni significato reale, la pretesa incessante di arruolare tutti gli ebrei israeliani ha fatto fare carriera a una quantità di politici cinici e opportunisti.

Non c’è motivo dunque per non estendere il discorso anche al tema della coscrizione forzata degli altri gruppi della società israeliana, inclusi i mizrahim (ebrei provenienti dai paesi arabi e/o musulmani).

Assieme alla menzogna dell’“armata del popolo”, l’etica militaristica di Israele ha aiutato a rafforzare l’illusione del ruolo dell’esercito come grande strumento livellatore della società israeliana, come un vero e proprio biglietto d’ingresso all’israelianità. Ma l’inseguimento costante dei mizrahim – che comincia nei quartieri dimenticati e nelle città in sviluppo nella periferia del paese e continua con il fatto che molti adolescenti mizhrai vengano mandati a studiare negli istituti professionali – prosegue anche nelle IDF.

Lì, molti vengono mandati a prendere parte alle operazioni di polizia e ai combattimenti contro i palestinesi nei territori occupati, mentre gli israeliani di classe medio-alta tendono più a servire negli ospedali o nelle unità speciali. Così come per le opportunità di istruzione, nell’esercito i mizrahim vengono inviati nelle zone periferiche a fungere da forza lavoro in nero, agli ultimi posti della gerarchia. Tutto ciò si è solo intensificato con il blitz organizzato dalla comunità nazional-religiosa per la conquista delle più alte cariche dell’esercito.

È vero che nelle IDF i mizrahim hanno una maggiore possibilità di mobilità sociale che consente loro di salire la scala sociale fino ai vertici, se confrontato ad altre istituzioni legali o politiche di Israele, ma questa è solo l’altra faccia della stessa tragica medaglia: è un sistema in cui possibilità di ascesa sociale sono inestricabilmente legate alla de-arabizzazione dell’identità mizrahi, adottando nel frattempo come modello l’immagine del mista’arev (soldati travestiti da arabi). Questa è in parole povere la storia dei mizrahi vis a vis con il sionismo da almeno settant’anni: oppressione e discriminazione a causa della componente araba dell’identità mizrahi, con la promessa che, disfacendosi di ogni traccia di arabicità fino a sviluppare un ardente odio verso gli arabi, le loro chance di entrare nel giro dei privilegiati aumentino.
Questa dinamica distruttiva è stata una parte significativa del processo grazie al quale un’ampia fetta della comunità mizrahi ha abbracciato politiche aggressivamente di destra (
a cui hanno contribuito anche i disastri commessi dalla sinistra israeliana). Ma nell’esercito, questa dinamica prende una piega ancora più tragica: l’arruolamento come arma di autodistruzione dell’identità mizrahi. Per esempio, tale tattica si riscontra nella adozione dei mizrahi come mita’arevim, militari che vengono spediti nei territori occupati e usano il loro aspetto di arabi per fare la guerra agli arabi, usati dunque contro la loro stessa arabicità.

Questa tendenza può essere anche vista nell’uso della lingua araba nell’esercito. Come sottolineato dal dott. Yoni Mendel in una petizione degli israeliani mizrahi contro la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”, l’arabo in Israele è stato sottoposto a un processo di “trasformazione in questione di sicurezza”: deprivandolo della sua legittimità culturale, l’arabo è stato portato via a tutti quegli ebrei mizrahi che desideravano distinguersi dalle connotazioni negative che erano state cucite loro addosso. Nel frattempo, all’arabo era stata conferita legittimità solo in contesti di “sicurezza nazionale” – come i problemi di intelligence o di hasbara. Ovvero, i mizrahim distruggono la loro stessa identità araba utilizzando l’arabo allo scopo di combattere “l’altro arabo”.

L’attacco all’identità mizrahi all’interno dell’esercito è ormai un processo inevitabile nell’ambito di quel sistema. Il tentativo di provare e mettere in pratica un cambiamento dall’interno dell’esercito stesso significherebbe lavorare per assicurare ai soldati mizrahi di poter fare la scalata sociale fino a sedere in quelle stanze con l’aria condizionata da cui si inviano a fare il lavoro sporco coloro che si trovano in una posizione inferiore nella piramide sociale. Gli ultraortodossi capiscono bene che l’arruolamento corromperà l’identità e i valori fondamentali della loro comunità, e stanno quindi conducendo una strenua battaglia contro questo. Non c’è alcun motivo per cui i mizrahim non dovrebbero pensarla allo stesso modo su cosa la coscrizione provochi sulla loro comunità.

Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in lingua ebraica su Local Call.

(Traduzione di Maria Monno)