Quattro palestinesi sono stati uccisi da fuoco israeliano in Cisgiordania e a Gaza

MEE e agenzie

sabato 22 dicembre 2018 Middle East Eye

Nelle ultime 24 ore quattro palestinesi, compresi due adolescenti, sono stati uccisi dal truppe israeliane in Cisgiordania

Fonti del ministero della Salute palestinese hanno affermato che le forze israeliane hanno sparato e ucciso tre palestinesi, tra cui un adolescente, nella Striscia di Gaza durante l’ultima delle proteste settimanali del venerdì. Giovedì notte le truppe israeliane hanno ucciso un altro adolescente nella Cisgiordania occupata.

Mohammed al-Jahjuh, 16 anni, stava partecipando alla Grande Marcia del Ritorno, una protesta di massa palestinese iniziata il 30 marzo per chiedere la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati.

“E’ stato colpito al collo da un proiettile sparato dai soldati israeliani,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.] il portavoce del ministero, Ashraf al-Qodra.

In seguito il ministero della Salute ha detto che all’inizio della giornata due uomini, di 28 e 40 anni, sono morti per le ferite riportate durante le proteste in due luoghi diversi lungo la barriera con Israele.

Il ministero della Sanità ha detto che sono stati feriti quattro paramedici. L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto il fuoco “in base alle regole d’ingaggio” in vigore dal momento in cui i palestinesi hanno iniziato le proteste.

Meno di 24 ore prima in Cisgiordania truppe israeliane hanno sequestrato il corpo del diciassettenne Qassem al-Abasi.

Il portavoce dell’esercito israeliano ha detto all’AFP che “i soldati hanno aperto il fuoco in direzione di un veicolo che stava cercando di oltrepassare una barriera militare nella regione di Ramallah, uccidendo uno degli occupanti.”

Abasi era di Gerusalemme est. L’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta sull’incidente.

In base alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU la Cisgiordania è occupata illegalmente da Israele. Ma dal 1967 Israele ha costruito insediamenti e sequestrato terra palestinese, ha edificato un muro di separazione ed autostrade che collegano le colonie senza attraversare i villaggi palestinesi.

Nelle ultime due settimane vicino a Ramallah palestinesi armati hanno sparato a morte a tre israeliani, due dei quali soldati dell’esercito. Israele ha ucciso cinque palestinesi, l’ultimo il 14 dicembre nel campo profughi di al-Jalazone.

Il 9 dicembre un bimbo è nato prematuro ed è morto dopo che la madre, una colona israeliana, mentre era in viaggio è rimasta ferita in una sparatoria nella colonia illegale di Ofra.

Venerdì scorso in Cisgiordania e a Gaza i palestinesi hanno protestato contro le operazioni militari israeliane in città della Cisgiordania.

Truppe israeliane e veicoli militari sono entrati nel centro di Ramallah, sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Anche se gli arresti di palestinesi in incursioni notturne da parte dell’esercito israeliano avvengono quasi quotidianamente, Israele ha intensificato le sue operazioni alla ricerca degli uomini armati palestinesi presumibilmente responsabili dell’uccisione dei soldati israeliani.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




‘Gli israeliani non vogliono ascoltare ciò che ho da dire’

Edo Konrad

14 dicembre 2018, +972

Nei mesi scorsi le autorità israeliane, insieme ai coloni estremisti, hanno trasformato Guy Hirschfeld in una specie di nemico pubblico a causa del suo attivismo nella Valle del Giordano. In un’intervista Hirschfeld parla della costruzione della solidarietà con i palestinesi, del perché il suo atteggiamento sfrontato lo ha trasformato in un obbiettivo e se le cose stanno peggiorando per gli attivisti di sinistra.

Che cosa si prova ad essere un bersaglio? Gli ebrei israeliani dissidenti e gli attivisti contro l’occupazione, in gran parte, sono stati abbastanza fortunati da evitare questa domanda per anni. Mentre le autorità israeliane hanno avuto pochi scrupoli a reprimere i palestinesi che sfidano apertamente la dittatura militare israeliana nei territori occupati, agli ebrei israeliani la loro ira è stata ampiamente risparmiata.

Questo sta cominciando a cambiare. Dagli interrogatori dello Shin Bet [servizi israeliani per la sicurezza interna, ndtr.] alla frontiera, agli attacchi coordinati a danno di importanti attivisti contro l’occupazione, alla delegittimazione delle Ong di sinistra, le autorità stanno rendendo sempre più difficile la vita degli ebrei israeliani che si espongono. Per gli attivisti più conosciuti, gli attacchi personali sono esibiti come medaglie: la prova che mettere a nudo le crudeltà dell’occupazione serve davvero a qualcosa.

Poi ci sono attivisti come Guy Hirschfeld, che hanno poco da guadagnare a diventare un obiettivo. Nei mesi scorsi a volte si è avuta la sensazione che il quarantanovenne Hirschfeld fosse il nemico pubblico n. 1 per le autorità israeliane in Cisgiordania – e in particolare per i coloni. Hirschfeld, a lungo membro di Ta’ayush – un’associazione israelo-palestinese di volontari di base creata durante la seconda Intifada, ed uno dei pochi gruppi di israeliani che mettono sistematicamente a rischio la vita in solidarietà con i palestinesi – passa molte giornate ad accompagnare i pastori palestinesi nella Valle del Giordano, dove vengono regolarmente aggrediti dai coloni o dall’esercito.

Se l’orientamento ideologico di Hirschfeld lo ha reso un bersaglio, il suo atteggiamento sfrontato, spesso scioccante, non gioca a suo favore. Le sue abituali critiche ai soldati, che spesso sfociano in insulti personali, unite ad un’irriverenza provocatoria verso le norme convenzionali (si riferisce normalmente ai coloni ideologici negli avamposti come a “terroristi”) hanno fatto sì che venisse preso di mira. Da quando nel 2009 si è unito a Ta’ayush, Hirschfeld è stato arrestato o detenuto 60 o 70 volte – 25 solo quest’anno.

Hirschfeld è un facile bersaglio, ma il suo caso è esemplare di una più vasta repressione contro attivisti israeliani di base, che lottano accanto ai palestinesi nei territori occupati. Quella repressione si è manifestata due anni fa, quando un gruppo di estrema destra ha tentato di distruggere il veterano di Ta’ayush, e mentore di Hirschfeld, Ezra Nawi. Oggi che Nawi è decisamente meno attivo, Hirschfeld è diventato il principale obbiettivo della destra.

Invece di intimidirlo, le tattiche intimidatorie non hanno fatto che renderlo ancor più senza remore. Negli ultimi due anni i suoi followers su Facebook sono arrivati a 4.000, compresi alcuni dei soldati e dei poliziotti israeliani che lo affrontano sulle aride colline della Valle del Giordano. Lui tiene un’accurata documentazione di ogni sua interazione con le autorità e i coloni e, a parte tre arresti per possesso di marijuana (Hirschfeld è autorizzato a usare cannabis a scopo medico), le sue continue riprese video hanno fatto sì che i suoi persecutori non lo abbiano mai potuto accusare di aver commesso reati. È anche un modo efficace per mostrare al mondo ciò che succede ai palestinesi nel nord della Cisgiordania.

Nei mesi scorsi le autorità hanno incominciato a vessarlo in modi nuovi e con maggiore frequenza. Lo scorso mese i funzionari gli hanno revocato la patente e sequestrato l’automobile per possesso di marijuana (un giudice gli ha restituito la patente e la macchina ed ha redarguito la polizia per averlo preso di mira unicamente a causa delle sue idee politiche). Alcune settimane prima, Hirschfeld ha ricevuto una telefonata minacciosa da un agente perché aveva chiesto alle forze di sicurezza di non partecipare alla demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’inizio di dicembre è stato costretto a scusarsi pubblicamente dopo che un video lo aveva ripreso mentre arringava un soldato etiope-israeliano, nei confronti del quale è stato accusato di atteggiamento razzista.

“Voglio chiarire tutto”, ha detto Hirschfeld la settimana scorsa in un’intervista nel suo appartamento, che si trova in un moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.] appena ad ovest di Gerusalemme. “L’esercito mente. Io dico la verità. Se fosse il contrario, sarei stato mandato in prigione molto tempo fa. Ecco perché hanno bisogno di inventarsi le cose e trovare dei modi per fermarmi.”

L’esercito e i coloni la definiscono un criminale e un anarchico.

“Eppure vado ancora in giro liberamente. Com’è possibile? Non avete idea di quante volte sono stato arrestato ingiustamente da soldati o poliziotti. Durante gli interrogatori gli mostro le prove video che contraddicono il motivo del mio arresto – e mi lasciano andare.”

“Questo fa sì che alcuni soldati comincino a fare domande. Quando lo fanno – è l’ultima volta che li vedo. L’esercito si assicura che non ci siano contatti tra di noi da quel momento in poi. Non vogliono che facciano domande.”

Hirschfeld dice di non aver nulla da nascondere. Al contrario: dice che più è trasparente, meno ha di che preoccuparsi. “Credo nella legge e nell’ordine. Per questo faccio sempre in modo di non violare alcuna legge. Questo fa infuriare l’esercito.”

Non ha paura di essere il prossimo Ezra Nawi?

“Questo è il loro scopo. Ai loro occhi, io sono il nuovo Ezra.”

Hirschfeld ritiene che siano le sue relazioni con i palestinesi della Valle del Giordano, come anche il suo atteggiamento sfrontato, a fare infuriare soldati e poliziotti. Se si parla con lui abbastanza a lungo, si ha l’impressione che la solidarietà con i palestinesi sia solo uno dei suoi obiettivi. La quantità di tempo che impiega parlando – o urlando – ai membri delle forze di sicurezza israeliane trasmette un diverso messaggio: lui vuole tentare di educarli. “Io dico in faccia ai soldati la verità, che sono sfruttati e fregati. La verità dà fastidio.”

È stato il confronto con il soldato etiope all’inizio di questo mese che ha portato Hirschfeld a concludere che era il caso di cambiare atteggiamento. Nel video si vede Hirschfeld schernire il soldato che era in servizio in Cisgiordania, chiedendogli in modo retorico se scaricava la sua rabbia sui palestinesi a causa del razzismo che subiva in Israele. “Quell’esperienza mi ha insegnato che devo fare molta attenzione a come mi esprimo, ma la grande maggioranza dei soldati che portano avanti quotidianamente l’occupazione non provengono dai livelli più alti della società”, dice.

A volte lei esagera, forse è questo che fa arrabbiare tanta gente.

“Mi sono scusato per quel che ho detto, ma voglio chiarire una cosa: questa è la realtà in Israele. Qui non sono io quello che applica politiche razziste contro gli etiopi.”

“Voglio continuare a dimostrare a questi soldati che vengono usati da un sistema a cui non importa niente di loro. La realtà è che questi soldati sono burattini dei coloni radicali negli avamposti, che non sono niente altro che terroristi”, aggiunge. “La loro forma di terrorismo non ha bisogno di essere violenta; la loro semplice presenza è sufficiente per terrorizzare i palestinesi. Quando arriviamo noi, è più probabile che i coloni se ne vadano.”

La Valle del Giordano è spesso trascurata nelle discussioni sul destino dei territori occupati. La maggior parte degli israeliani non sa nemmeno che quella zona è sotto il governo militare -probabilmente in conseguenza del fatto che è scarsamente popolata, ha un numero relativamente piccolo di coloni, e dell’affermazione, tra i politici sionisti di entrambi gli schieramenti politici, che Israele non rinuncerà mai al controllo per la sicurezza su di essa.

Hirschfeld è convinto che la presenza di attivisti israeliani per i diritti umani nella Valle del Giordano non sia meno importante che nelle colline a sud di Hebron, dove Ta’ayush è attiva dai primi anni 2000. Nel 2016, dopo avere accompagnato per anni i palestinesi là, ha deciso che l’associazione doveva essere presente nella Valle del Giordano, una zona che lui dice stia subendo una pulizia etnica.

“Durante e dopo la guerra del 1967, Israele espulse decine di migliaia di palestinesi dall’area”, dice. “Oggi Israele sta cercando di rendere la vita insopportabile alla gente che è rimasta – per indurla ad andarsene.”

L’esercito israeliano distrugge sistematicamente le case ed altre strutture delle comunità di pastori palestinesi. Come dovunque nelle zone della Cisgiordania designate come area C, sotto pieno controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo del 1993, ndtr.], è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione. L’esercito ha dichiarato enormi appezzamenti di terreno “zone di addestramento”, quindi interdette ai pastori. I palestinesi sono privi di infrastrutture indispensabili come acqua corrente ed elettricità, mentre le vicine colonie sono collegate a tutti i servizi di base. Gli abitanti palestinesi subiscono arresti arbitrari e le loro attrezzature vengono spesso confiscate.

“Fanno di tutto per cacciarli via. Noi stiamo semplicemente cercando di aiutare queste comunità a sopravvivere.”

In che modo lo fate?

“Li accompagniamo ai loro terreni, li mettiamo in contatto con organizzazioni internazionali e per i diritti umani. Ci assicuriamo che l’esercito o i coloni non li disturbino quando portano le greggi al pascolo. Documentiamo tutto. Vogliamo dimostrare loro che esistono altri israeliani.”

“Ci sono anche situazioni più spinose. Per esempio, ci sono casi in cui l’esercito chiede a queste comunità di lasciare la zona in modo che (i soldati) possano fare addestramento. A volte lo fa senza dare il dovuto preavviso. Appena si presentano gli attivisti israeliani, tutto finisce. Dovete ricordare che l’occupazione è un’impresa criminale; nel momento in cui vi si fa luce, le autorità fanno molta più fatica a gestirla.”

Nonostante il suo disprezzo per le forze di sicurezza, Hirschfeld sa che spesso l’unico modo per garantire che le comunità palestinesi possano esercitare senza pericoli la pastorizia sta nel collaborare con l’esercito israeliano. “Non molto tempo fa ho ricevuto una telefonata da un comandante di battaglione che mi ha detto: ‘Stai facendo impazzire i miei soldati. Incontriamoci e parliamo.’ Allora ci siamo incontrati, dopodiché c’è stata una relativa tranquillità per alcuni mesi, almeno fino a quando si è insediato un nuovo comandante di divisione.”

I palestinesi che lavorano con Ta’ayush spesso si trovano a dover affrontare maggiori pressioni da parte delle autorità israeliane. Lei come si rapporta a ciò?

“Noi non ci rechiamo mai nelle comunità. Loro vengono da noi dopo che l’esercito, la polizia o i coloni iniziano ad angariarli. Cominciamo con qualche discorso di introduzione in cui io dico loro che le autorità cercheranno di convincerli a non lavorare con noi, specialmente all’inizio. Dico loro di dire all’esercito: ‘Noi saremmo felici che Ta’ayush non dovesse intervenire, ma abbiamo bisogno di un posto per pascolare.’ Noi diciamo loro che se riescono a superare quelle prime settimane, le molestie finiranno. A volte ci chiedono di smettere di intervenire. A volte insistono e alla fine hanno una possibilità di vincere. Al momento stiamo affrontando una situazione in cui le cose stanno peggiorando.”

Le aggressioni e le pressioni avvengono per lo più da parte dei coloni o delle autorità?

“Da tutti insieme. Recentemente abbiamo notato maggior collaborazione tra coloni, esercito e polizia. L’anno scorso è decisamente peggiorato.”

Le colonie israeliane nella Valle del Giordano risalgono agli anni ’70, ma recentemente vi sono più avamposti illegali popolati da coloni più giovani e più radicali.

“Attualmente vi sono circa 6.000 israeliani che vivono nella Valle del Giordano, per la maggior parte in colonie costruite negli anni ’70. Il governo intende incoraggiare la gente a spostarsi là per arrivare ad averne 10.000.”

“Non sappiamo chi sostiene finanziariamente questi avamposti (illegali persino in base alla legge israeliana), ma è chiaro che servono migliaia e migliaia di shekel [unità monetaria israeliana, corrispondente a un quarto di euro, ndtr.] per mantenerli e parte di quel denaro probabilmente proviene dai contribuenti israeliani. Scelgono la collocazione dell’avamposto in modo molto strategico, perché sanno che, dovunque decidano di stanziarsi, influenzeranno le comunità palestinesi intorno a loro.”

Lei li definisce terroristi. Perché sceglie questo termine?

“Impediscono agli allevatori di pascolare. Usano la violenza, uccidono il bestiame. Sono terroristi e l’esercito li protegge. Noi monitoriamo quegli avamposti fin dal giorno in cui sono stati creati.”

Ta’ayush è rimasta fedele ad un modello classico di organizzazione di base. Che cosa ha permesso al gruppo di rimanere attivo per così tanti anni?

“La dedizione, la fede nella giustezza della nostra strada e il fatto che siamo un po’ matti (ride). Siamo poche decine di persone che hanno fatto attivismo nelle colline del sud di Hebron e adesso nella Valle del Giordano. Lavoriamo entro i confini della legge e siamo decisi a proteggere la gente che ha bisogno del nostro aiuto. Se i palestinesi hanno bisogno di noi, molliamo tutto e andiamo.”

Vi sembra di essere in grado di spiegare la realtà che vedete in Cisgiordania all’israeliano medio?

“Io non ho più nessuna voglia di parlare agli israeliani. Loro non vogliono ascoltare quello che ho da dire. Non vogliono vederlo.”

Perché?

“Non sono capaci di fare i conti con la realtà. Gli israeliani non porranno fine all’occupazione. Probabilmente dovremo assistere a boicottaggi e pressioni internazionali perché essa finisca. In questo Paese c’è una mentalità da gregge e l’unico modo per superarla è attraverso la pressione dall’esterno.”

Le cose stanno andando peggio per gli attivisti di sinistra?

“Assolutamente. Oggi i coloni ideologici hanno preso il controllo dei corpi militari, stanno prendendo il controllo della polizia. Oggi sono loro che comandano, la loro ideologia è la legge del Paese.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Calo senza precedenti del numero di ebrei americani nei viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele

12 dicembre 2018, Middle East Monitor

Questo inverno si è registrato un evidente calo del numero di ebrei americani partecipanti ai viaggi del “Diritto al ritorno” in Israele. Lo ha riferito Haaretz, definendo “senza precedenti” “una riduzione di questa ampiezza, non correlata alle condizioni di sicurezza”.

Dalla sua istituzione nel 1999, l’Organizzazione del Diritto al ritorno ha portato 500.000 giovani ebrei da tutto il mondo in viaggi gratuiti in Israele.

Secondo il giornale, che cita alcuni operatori che gestiscono il viaggio-tipo del Diritto al ritorno, la riduzione varia dal 20 al 50% – a seconda dell’operatore- rispetto alla stagione invernale (che va da dicembre a marzo).

Una spiegazione di questo calo suggerita dagli operatori turistici è che i numeri “potrebbero riflettere il fatto ben documentato che i giovani ebrei americani stanno diventando sempre più indifferenti nei confronti di Israele e sempre meno interessati a visitare il Paese, nonostante i viaggi siano gratuiti. Haaretz ha osservato come “recenti studi hanno mostrato che gli ebrei nati negli anni 2000, che sono in massima parte progressisti, si sentano meno legati a Israele dei loro genitori e dei loro nonni perché percepiscono le politiche del Paese come antitetiche ai loro valori”.

In particolare -ha aggiunto il giornale- essi citano il trattamento, da parte di Israele, dei Palestinesi e dei richiedenti asilo.

Proprio la settimana scorsa, una petizione “firmata da 1500 studenti ebrei – che chiede che Diritto al ritorno includa nel suo itinerario relatori palestinesi in grado di affrontare la realtà dell’occupazione- è stata consegnata ai direttori della Hillel [organizzazione internazionale che si rivolge agli studenti universitari ebrei, ndtr.] in più di 30 campus in tutti gli Stati Uniti.”

L’esclusione di voci di Palestinesi e di cittadini palestinesi di Israele dal Diritto al ritorno contrasta con i nostri valori fondamentali.” ha detto la petizione.

In un viaggio in Israele, noi dovremmo sperimentare la storia e la cultura del Paese, ma dovremmo anche sapere dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e ascoltare le voci di palestinesi che vivono sotto l’occupazione.”

(traduzione di Laura Forcella )




Da Marc Lamont Hill ai quaccheri, non è permesso criticare Israele

Jonathan Cook

Venerdì 7 dicembre 2018,Middle East Eye

Il licenziamento di Marc Lamont Hill da parte della CNN e l’indignazione nei confronti di Airbnb e dei quaccheri rivela una totale intolleranza verso le critiche

Per trent’anni il 29 novembre le Nazioni Unite hanno celebrato una giornata annuale di solidarietà con il popolo palestinese. Raramente questo avvenimento ha meritato anche solo un timido accenno da parte dei principali mezzi di comunicazione. Fino alla scorsa settimana.

Marc Lamont Hill, un illustre docente universitario statunitense e commentatore politico della CNN, si è ritrovato sommerso da uno tsunami di critiche per un discorso che ha tenuto alla sede ONU di New York. Ha chiesto la fine dello screditato modello di negoziati interminabili e futili di Oslo sul diritto dei palestinesi ad avere uno Stato – una strategia che è già ufficialmente arrivata a scadenza da due decenni.

Ha proposto di sviluppare al suo posto un nuovo modello di pace regionale basato su un solo Stato che offra uguali diritti a israeliani e palestinesi. Sotto una raffica di critiche secondo cui il suo discorso era antisemita, la CNN lo ha licenziato in tronco.

Il suo licenziamento ripropone recenti polemiche, ampiamente create ad arte per fronteggiare i tentativi da parte di alcune organizzazioni di prendere una posizione più concreta ed etica sul conflitto israelo-palestinese. Sia Airbnb, un sito per la prenotazione di alloggi, che il ramo britannico dei quaccheri, un insieme di movimenti religiosi cristiani, sono stati sommersi da grida di indignazione in risposta alle loro modeste iniziative. Lo scorso mese Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo sito tutte le proprietà situate in Cisgiordania in colonie ebraiche illegali su territorio palestinese. Poco dopo, i quaccheri hanno dichiarato che si sarebbero rifiutati di investire in compagnie che traggano profitto dal furto israeliano di risorse palestinesi nei territori occupati.

Entrambe le iniziative sono pienamente in linea con le leggi internazionali, che vedono il trasferimento della popolazione di una potenza occupante in territori occupati – la fondazione di colonie – come un crimine di guerra. Di nuovo, come per Hill, le due organizzazioni sono state duramente colpite da reazioni ostili, comprese accuse di malanimo e antisemitismo, soprattutto da parte di importanti, presunti progressisti, rappresentanti di gruppi dirigenti ebraici negli USA e in Gran Bretagna.

Ciò che questi tre casi dimostrano è come l’antisemitismo si sia rapidamente esteso a comprendere persino forme estremamente limitate di critica contro Israele e di appoggio ai diritti dei palestinesi. Questa ridefinizione avviene nel momento in cui Israele è guidato dal governo più estremista ed ultranazionalista della sua storia.

Queste due tendenze sono collegate tra loro. I casi in questione rivelano anche la crescente aggressività di una politica identitaria emotiva che è stata ribaltata – depoliticizzata per schierarsi con il forte contro il debole.

Esseri umani inferiori

Delle tre “polemiche”, il discorso di Hill ha proposto la maggiore rottura con l’ortodossia occidentale su come risolvere il conflitto israelo-palestinese – o almeno un’ortodossia definita dagli accordi di Oslo a metà degli anni ’90. Quegli accordi disponevano che, se i palestinesi avessero atteso pazientemente, un giorno Israele avrebbe concesso loro uno Stato su meno di un quarto della loro patria. Circa 25 anni dopo, i palestinesi stanno ancora aspettando e nel frattempo la maggior parte del loro previsto Stato è stata divorata da colonie d’insediamento israeliane.

Nel suo discorso Hill ha messo la spoliazione dei palestinesi da parte del movimento sionista nella corretta prospettiva – sempre più riconosciuta da accademici ed esperti – in quanto progetto colonialista di insediamento.

Ha anche correttamente osservato che la possibilità di una soluzione dei due Stati, se mai sia stata realizzabile, è stata usurpata dalla determinazione israeliana a creare un solo Stato, che privilegia gli ebrei, su tutta la Palestina storica. Nella Grande Israele, i palestinesi sono destinati ad essere trattati come esseri umani inferiori. Hill osserva che la storia suggerisce che c’è solo una possibile soluzione etica a tali situazioni: la decolonizzazione, che riconosca la situazione esistente di uno Stato unico, ma insista su uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Invece di sfidare Hill sulla logica inattaccabile del suo discorso, le critiche hanno fatto ricorso a dichiarazioni incendiarie. È stato accusato di utilizzare un linguaggio antisemita – quello utilizzato da Hamas – in riferimento ad un’azione internazionale per garantire “una Palestina libera dal fiume al mare.”

Con un doppio salto di falsa logica, Israele e i suoi sostenitori hanno sostenuto che Hamas utilizza la definizione [“dal fiume al mare”] per dichiarare la propria intenzione genocida di sterminare gli ebrei e che Hill ha ripetuto queste opinioni. Dani Dayan, console generale di Israele a New York, ha definito Hill “un razzista, un fanatico, un antisemita”, e ha paragonato le sue considerazioni a una “svastica dipinta di rosso”.

Ben Shapiro, un analista di Fox News, gli ha fatto eco, sostenendo che Hill ha chiesto “l’uccisione di tutti gli ebrei” nella regione. Allo stesso modo Seth Mandel, caporedattore del Washington Examiner [giornale e sito informativo conservatore, ndtr.] ha sostenuto che Hill avrebbe chiesto un “genocidio degli ebrei”.

Anche l’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione] (ADL), un’importante e teoricamente progressista organizzazione ebraica che sostiene di appoggiare un trattamento uguale per tutti i cittadini USA, ha stigmatizzato Hill sostenendo: “Queste richieste per [il territorio] ‘dal fiume al mare’ sono appelli a favore della fine dello Stato di Israele.”

Lo slogan del Likud “dal fiume al mare”

Di fatto l’espressione “dal fiume al mare” – in riferimento al territorio tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo – ha una lunga genealogia sia nel discorso israeliano che in quello palestinese. È solo un modo diffuso di riferirsi a una regione denominata un tempo Palestina storica.

Lungi dall’essere uno slogan di Hamas, è utilizzato da chiunque rifiuti la partizione della Palestina e sia a favore di uno Stato unico. Ciò include tutti i vari partiti dell’attuale governo israeliano.

In effetti lo statuto di fondazione del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu prevede esplicitamente un Grande Israele che neghi ai palestinesi qualunque speranza di uno Stato. Utilizza esattamente lo stesso linguaggio: “Tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana.”

Persino dopo che lo statuto è stato modificato nel 1999, in seguito agli accordi di Oslo, esso ha continuato a invocare un Grande Israele, dichiarando che “il fiume Giordano sarà il confine orientale permanente dello Stato di Israele.”

Il modello israeliano di apartheid

La differenza tra la posizione di Hamas e del governo israeliano da una parte e di Hill dall’altra è che Hill propone uno Stato unico che tratti tutti i suoi abitanti come uguali, e non che fornisca l’assetto per la dominazione di un gruppo religioso o etnico sull’altro.

In breve, a differenza di Netanyahu e dei dirigenti israeliani, Hill rifiuta un modello di occupazione permanente e di apartheid. A quanto pare ciò, secondo la CNN e l’ADL , è un delitto passibile di licenziamento.

Invece la CNN ha a lungo avuto tra i suoi collaboratori l’ex senatore USA Rick Santorum, benché costui abbia sostenuto che il territorio dal fiume al mare è “tutta terra israeliana” e usi un linguaggio che suggerisce il genocidio dei palestinesi.

L’assurdità degli attacchi contro Hill dovrebbe essere evidente quando si consideri che molti dei recenti attori principali del processo di pace – dall’ex-primo ministro israeliano Ehud Barak all’ex-segretario di Stato USA John Kerry – hanno avvertito che Israele sta per diventare un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Fanno questa previsione proprio perché una serie di governi israeliani ha categoricamente rifiutato di ritirarsi dai territori occupati.

Dato che sotto Donald Trump gli USA hanno abbandonato ogni prospettiva di uno Stato palestinese – realizzabile o meno –, Hill ha semplicemente evidenziato che il re è nudo. Ha descritto una verità che nessuno che possa cambiare la terribile situazione attuale sembra pronto a prendere in considerazione.

Diritto a resistere

Hill è stato anche accusato di antisemitismo perché appoggia metodi di pressione su Israele per porre fine alla sua intransigenza, che ha tenuto i palestinesi sotto occupazione per più di mezzo secolo.

Hill ha messo in evidenza il diritto di un popolo occupato a resistere al proprio oppressore, un diritto che tutte le capitali occidentali hanno ignorato e ora invariabilmente definiscono come terrorismo, persino quando gli attacchi dei palestinesi sono contro soldati israeliani armati che attuano un’occupazione militare.

Ma lo stesso Hill ha sostenuto una resistenza diversa, gandhiana, non violenta e una solidarietà con i palestinesi nella forma del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – precisamente il tipo di proteste internazionali che contribuì alla decolonizzazione del Sudafrica.

Il boicottaggio trasformato in orco

Negli ultimi anni e sotto la pressione del governo israeliano, i sostenitori dell’occupazione israeliana e gli Stati occidentali hanno trasformato il BDS in orco. La sua fondatezza non viene più dibattuta. Non è presentato come strategia per porre fine all’occupazione e neppure come mezzo per fare pressione su Israele per rendere più liberale un’ideologia che sostiene la supremazia etnica della maggioranza ebraica sul quinto della popolazione israeliana che è palestinese.

Invece si dice che sia una prova di antisemitismo e sempre più, di conseguenza, di volontà genocida. Il fatto che il movimento BDS stia prendendo piede nelle università occidentali e sia stato accettato da un notevole numero di giovani ebrei antisionisti è semplicemente ignorato. Invece la tendenza crescente è di dichiararlo fuorilegge e di trattarlo come preludio al terrorismo.

Quindi il discorso di Hill è stato un attacco diretto ai confini silenziosi del dibattito pubblico, fermamente sorvegliati dai sostenitori di Israele e dagli Stati occidentali per evitare discussioni sensate su come porre fine all’occupazione israeliana e ribadire il diritto dei palestinesi alla dignità e all’autodeterminazione.

La ragione per cui è così importante per i sostenitori di Israele far tacere qualcuno come Hill è che fa riferimento a una palese contraddizione.

Il suo discorso si riferisce precisamente al fatto che il sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele, è incompatibile con uguali diritti per i palestinesi nella loro patria storica. Implica che l’occupazione non sia un’aberrazione che ha bisogno di aggiustamenti, ma parte integrante della visione del movimento sionista di “ebraicizzare” la Palestina, della cancellazione della presenza palestinese in accordo con altri progetti di colonialismo di insediamento.

La prova che proteggere le aggressive ambizioni territoriali di Israele da esami più attenti sia il vero obiettivo delle critiche contro Hill – e non le preoccupazioni per una presunta ascesa di un “antisemitismo di sinistra” – è confermata dallo scalpore simile che ha circondato le iniziative veramente modeste prese dei quaccheri del Regno Unito e da Airbnb.

I quaccheri e gli investimenti etici

Alla fine dello scorso mese i quaccheri hanno annunciato che non investiranno più in nessuna impresa che tragga profitto dall’occupazione. L’iniziativa è parte della loro politica di “investimenti etici”, simile al loro rifiuto di investire nelle industrie degli armamenti e dei carburanti fossili.

I quaccheri rappresentano un piccolo gruppo di movimenti cristiani che ha storicamente aperto la strada in ogni epoca all’identificazione delle violazioni dell’etica.

Sono stati importanti nell’opposizione allo schiavismo negli USA e contro l’apartheid in Sudafrica, e hanno vinto il premio Nobel per la pace per il loro lavoro nel salvare ebrei e cristiani dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò ha incluso l’organizzazione del” Kindertransport” [lett.: trasporto di bambini, ndtr.] che portò 10.000 minori, per lo più ebrei, in Gran Bretagna.

Quindi non c’è da stupirsi che prendano l’iniziativa – che altre chiese inglesi sono state troppo timorose ad adottare – di penalizzare le imprese che traggono profitto dalla sottomissione e oppressione dei palestinesi nei territori occupati.

In effetti, invece di criticare i quaccheri inglesi per il boicottaggio di queste industrie, ci si potrebbe giustamente stupire perché ci abbiano messo tanto tempo per agire. Dopotutto l’occupazione militare israeliana esiste – così come cresce la sua progenie maledetta, le colonie, – da più di cinquant’anni. Le sue terribili violazioni sono ben documentate.

Importare divisione

Ma neppure il fatto che i quaccheri abbiano più volte dimostrato di essere dalla parte giusta della storia ha scosso le certezze delle organizzazioni ebraiche britanniche nel denunciare la congregazione. La più importante è stato il Board of Deputies [Consiglio dei Deputati], che rivendica a gran voce per se stesso lo status di rappresentante della comunità ebraica in Gran Bretagna.

Proprio per questa ragione i suoi continui attacchi contro il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, accusato di antisemitismo, sono stati considerati attendibili dai mezzi di comunicazione britannici.

Ma il Board ha dimostrato la sua vera natura con la denuncia contro i quaccheri, insinuando che la loro posizione sia stata motivata non dall’etica ma dall’antisemitismo. Ignorando la lunga storia dei quaccheri nel prendere posizioni etiche, il nuovo presidente eletto Marie van der Zyl ha sostenuto che Israele è stato “preso espressamente di mira” e che la dirigenza dei quaccheri ha un approccio “ossessivo e con i paraocchi.”

Paradossalmente ha accusato i quaccheri di rifiutarsi di “affrontare i pregiudizi e di promuovere la pace nella regione.” Invece i leader dei quaccheri hanno “scelto di importare un conflitto divisivo nel nostro Paese.” Di fatto sono il Board e altre importanti organizzazioni ebraiche che hanno importato questa stessa divisione in Gran Bretagna e negli USA, legando esplicitamente la loro identità ebraica alle azioni del terribile colonialismo di insediamento israeliano. I quaccheri stanno mettendo in evidenza che in un conflitto in cui una parte, Israele, è notevolmente più forte, non ci può essere una soluzione finché la parte più forte non dovrà far fronte a una pressione concreta.

D’altra parte il Board vuole intimidire e mettere a tacere i quaccheri proprio perché Israele possa così continuare ad essere libero di opprimere i palestinesi e rubare la loro terra attraverso l’espansione delle colonie. Non sono i quaccheri che sono antisemiti. Sono le principali organizzazioni ebraiche come il Board of Deputies che sono indifferenti – o addirittura tifose– di fronte a decenni di brutalità israeliana verso i palestinesi.

Il ruolo di Airbnb nell’aiutare i coloni

Allo stesso modo Airbnb è stato bombardato da critiche quando ha promesso il passo ancora più limitato di togliere dal suo sito circa 200 proprietà che si trovano nelle colonie in Cisgiordania che violano le leggi internazionali. Anzi, alcune di queste sono costruite in violazione anche delle leggi israeliane, benché Israele non faccia assolutamente alcun tentativo di applicare tali leggi contro i coloni.

Fino a poco tempo fa era ampiamente ammesso che le colonie sono un ostacolo insuperabile nel risolvere il conflitto israelo-palestinese attraverso una soluzione dei due Stati. Oltretutto le colonie, era sottinteso, per garantirne la protezione ed espansione, richiedevano una violenza ancora maggiore contro la popolazione nativa palestinese.

In fin dei conti questa è proprio la ragione per cui le leggi internazionali vietano di trasferire la popolazione di una potenza occupante nei territori occupati.

Airbnb stava chiaramente aiutando questi coloni illegali, creando una maggiore convenienza economica per gli ebrei a vivere su terra palestinese rubata. Questa motivazione economica è stata fondamento secondario di un’azione legale presentata negli USA la scorsa settimana da famiglie di coloni che sostengono si tratti di “una discriminazione religiosa.”

In realtà la decisione dell’impresa di abbandonare la Cisgiordania è stata il minimo che ci si potesse aspettare da loro. Malgrado ciò, anche così hanno fatto in modo di escludere dalla cancellazione le colonie ebraiche nella Gerusalemme est occupata, benché costituiscano la maggior parte della popolazione di coloni ebrei che utilizzano Airbnb.

Il doppio standard dell’ADL

Nonostante la mossa di Airbnb sia stata debole e molto in ritardo, essa è stata ancora una volta definita antisemita da importanti organizzazioni ebraiche negli USA, non ultima l’ADL.

L’ADL sostiene di “garantire la giustizia e un trattamento equo per tutti i cittadini,” una delle ragioni per cui ha avuto un ruolo attivo nel lottare per i diritti civili dei neri americani nell’epoca delle leggi Jim Crow [regole che imponevano la segregazione razziale negli Stati del Sud, ndtr.]. Ma come molte altre importanti organizzazioni ebraiche, le sue azioni dimostrano che, quando si tratta di Israele, essa è in realtà guidata da un progetto tribale, etnico, piuttosto che universale e basato sui diritti umani.

Invece di accogliere positivamente l’azione di Airbnb, ancora una volta ha sfruttato e degradato il significato di antisemitismo per proteggere Israele dalla pressione affinché ponga fine ai continui soprusi nei confronti dei palestinesi e al furto delle loro risorse.

Ha accusato l’impresa di “doppio standard” per non aver applicato la stessa politica a “Cipro settentrionale, in Tibet, nella regione del Sahara occidentale e in altri territori in cui un popolo è stato espulso.” Come ha evidenziato il commentatore di Forward [storico giornale della comunità ebraica americana, ndtr.] Peter Beinart, questo argomento è quantomeno ipocrita: “Non è stato colpevole l’ADL di ‘doppio standard’ quando i suoi dirigenti hanno marciato per i diritti civili degli afroamericani ma non per gli indiani americani, i cui diritti civili non sono stati garantiti dalle leggi federali fino al 1968?”

Israele costantemente sotto esame

Ciò che questi tre casi evidenziano è che, proprio quando le pessime intenzioni di Israele verso i palestinesi sono diventate ancor più esplicite e trasparenti, lo spazio ufficialmente consentito per criticare Israele ed appoggiare la causa palestinese viene deliberatamente e aggressivamente ridotto.

In un’epoca di telefoni con la telecamera, notizie che scorrono per 24 ore e reti sociali, Israele si trova sottoposto come mai prima a un controllo accurato e quotidiano. La sua dipendenza di lunga data dall’appoggio colonialista, la sua fondazione basata sul peccato della pulizia etnica, il razzismo istituzionalizzato che la minoranza di cittadini palestinesi deve affrontare, la sfrontata brutalità e la violenza strutturale della sua occupazione durata 51 anni sono largamente comprese, più di quanto fosse possibile anche solo un decennio fa.

Ciò è avvenuto nello stesso momento in cui altre gravissime ingiustizie storiche – contro le donne, le persone di colore, i popoli indigeni e la comunità LGBT – sono state messe in evidenza con l’adozione di un nuovo tipo di politiche identitarie popolari.

Negare ciò che è lampante

Israele dovrebbe essere chiaramente messo dalla parte di chi sbaglia in questa storia, eppure i governi occidentali e le principali organizzazioni ebraiche lo stanno risolutamente aiutando a negare ciò che è lampante, ribaltando quindi la realtà.

Pochi anni fa solo i più fanatici sostenitori di Israele sostenevano apertamente che l’antisionismo equivalesse ad antisemitismo. Ora gli antisionisti e i movimenti di solidarietà come il BDS sono acriticamente identificati nel discorso generale non solo come antisemiti, ma anche implicitamente come forma di terrorismo contro gli ebrei.

Il diritto dei palestinesi alla dignità e alla liberazione dal dominio oppressivo di Israele è di nuovo subordinato al diritto di Israele a perseguire incontrastato il suo progetto di colonialismo di insediamento – di espellere e sostituirsi alla popolazione nativa palestinese.

Non solo questo, ma ogni forma di solidarietà con i palestinesi oppressi è identificata come antisemitismo, solo perché i dirigenti ebrei negli USA e in GB hanno un asso nella manica: il diritto superiore a identificarsi con il progetto di colonialismo di insediamento israeliano e a essere al riparo da ogni critica alla loro posizione.

In questa forma profondamente perversa di politica identitaria, i diritti dello Stato di Israele, che possiede armi nucleari, e dei suoi sostenitori all’estero sono diventati armi a danno dei diritti della debole, dispersa, colonizzata e marginalizzata comunità palestinese.

Per decenni i sostenitori di Israele hanno ammesso che Israele avrebbe potuto essere oggetto di quelle che hanno definito “critiche legittime”.

Ma le reazioni a Hill, ai quaccheri e ad Airbnb rivelano che in pratica non ci sono critiche a Israele che siano considerate legittime e che, quando si tratta delle sofferenze dei palestinesi, le uniche posizioni accettabili sono rassegnazione e silenzio.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Spari mortali a Tulkarem: soldati israeliani feriscono mortalmente con un colpo alla testa da 80 metri di distanza Muhammad Habali (22 anni)

B’Tselem

11 dicembre

Martedì 4 dicembre 2018 verso mezzanotte circa 100 soldati israeliani hanno invaso la città di Tulkarem, in Cisgiordania. Alcuni di loro sono entrati in quattro case in zone diverse della città ed hanno fatto una breve perquisizione. Pochi giovani palestinesi si sono recati dove c’erano i soldati e gli hanno lanciato pietre. Le truppe hanno risposto con proiettili ricoperti di gomma e lacrimogeni.

A un certo punto durante la notte circa 30 soldati sono arrivati nella zona di via a-Nuzha, una strada che va da est a ovest nella parte occidentale di Tulkarem. Alcuni di loro si sono distribuiti lungo la strada a gruppi di tre o quattro. Gli altri sono entrati nel vicolo che si trova di fronte alla scuola superiore maschile “al-Fadiliyah” e hanno fatto irruzione in una casa. Più in là lungo la via, a circa 50 metri dai soldati, alcuni abitanti stavano fermi all’ingresso del ristorante a-Sabah e sulla strada adiacente. Uno di loro era Muhammad Habali, un ventiduenne del campo di rifugiati di Tulkarem con problemi mentali. Habali camminava avanti e indietro attraversando da un lato all’altro la strada.

Le riprese di quattro videocamere di sicurezza sistemate su tre diversi edifici lungo la strada mostrano che quella zona era assolutamente tranquilla e che non erano in corso scontri con i soldati.

https://www.btselem.org/video/20181211_killing_of_muhammad_habali_in_tulkarm#full

Presi insieme l’inchiesta di B’Tselem e questi video indicano che alle 2.25 del mattino un ufficiale e due soldati si sono diretti verso il ristorante a-Sabah e si sono fermati a circa 80 metri di distanza. Pochi secondi dopo i soldati hanno sparato quattro o cinque colpi verso i giovani che si trovavano davanti al ristorante e questi sono scappati. Habali, che nel video si vede mentre impugna un lungo bastone di legno – che aveva raccolto pochi minuti prima degli spari –, è stato l’ultimo ad andarsene. Dopo che aveva fatto alcuni passi, è stato colpito alla nuca da una distanza di circa 80 metri. Un altro proiettile ha colpito a una gamba M.H., di Tulkarem. Circa un minuto dopo gli spari, si vedono i tre soldati che si riuniscono agli altri nella zona e se ne vanno, senza fornire ad Habali o a M.H. una qualunque assistenza medica. Poi si sentono altri spari. Habali è stato portato all’ospedale a Tulkarem, dove è arrivato in stato di incoscienza, senza respirare e senza pulsazioni. I tentativi di rianimarlo sono falliti e poco dopo è stato dichiarato morto. M.H. è stato portato in ospedale su un’altra macchina e la radiografia ha mostrato un proiettile nella sua gamba sinistra.

K.A. (25 anni), un abitante di Tulkarem, si trovava nel vicolo di fronte al ristorante a-Sabah e stava guardando la scena. In una testimonianza rilasciata il 9 dicembre 2018 ha raccontato:

Stavo lì in piedi con altri ragazzi, compreso Muhammad Habali. Lo conoscevo. Aveva un bastone di legno in mano. Sapevamo che c’erano soldati nella zona. Poi, verso le 2.20, abbiamo visto tre soldati venire verso di noi. Abbiamo chiesto a Muhammad, che tutti chiamavano Za’atar, di tornare indietro perché avevamo paura per lui, di quello che sarebbe potuto succedere con i soldati lì. Ha fatto quello che gli abbiamo chiesto e ha cominciato ad andarsene. Improvvisamente abbiamo sentito uno sparo. I soldati che stavano venendo verso di noi avevano sparato.

Quando gli spari sono iniziati, ero all’inizio del vicolo di fronte al ristorante a-Sabah. Ci sono stati quattro o cinque spari, e uno di questi ha colpito Muhammad Habali. L’ho visto cadere in avanti e allora sono corso nel vicolo insieme ad altre persone. Poi i colpi sono cessati.

Sono corso fuori sulla strada ed ho gridato agli altri ragazzi di andare a prendere una macchina per poter portare via Habali. Sono stato il primo ad arrivare da lui. La sua testa stava sanguinando molto. L’ho preso per le spalle e l’ho trascinato per tre o quattro metri nel vicolo – facendo in modo che la sua testa non strisciasse per terra – perché avevo paura che i soldati gli sparassero di nuovo.

Dopo i colpi che hanno colpito Habali, ho sentito che sparavano in aria, ma non ho visto i soldati che hanno sparato.”

M.H., colpito a una gamba, ha ricordato in una testimonianza che ha concesso al ricercatore sul campo di B’Tselem Abulkarim Sadi il 4 dicembre:

Circa alle 2.30 ho visto tre soldati dirigersi a est dall’ingresso della scuola ‘al-Fadiliyah’ verso il posto in cui stavo con alcuni ragazzi. Hanno aperto il fuoco ed io ed altri ragazzi che stavano nei pressi dei caffè e del ristorante a-Sabah abbiamo cercato di scappare verso est.

Ho corso per circa 10 o 15 metri e improvvisamente ho sentito che qualcosa aveva colpito la mia gamba sinistra. Ho cominciato a sanguinare e ad avere una sensazione di formicolio. Ho cercato di nascondermi in una traversa per non essere colpito di nuovo. Ho chiamato alcuni ragazzi che erano lì vicino e uno di loro è arrivato e mi ha aiutato ad andare fino a una piazza vicina. Un uomo che stava passando con la sua macchina mi ha preso e portato al pronto soccorso dell’ospedale Thabet Thabet. Mi hanno fatto una radiografia alla gamba ed hanno trovato un foro d’entrata di un proiettile, ma non quello d’uscita, sotto il mio ginocchio sinistro. Ora sto aspettando in ospedale che mi tolgano la pallottola.

H.F., abitante di Tulkarem, è arrivato al ristorante per mangiare un boccone attorno alle 2.15. In una testimonianza rilasciata al ricercatore di B’Tselem Abdulkarim Sadi il 6 dicembre 2018 ha ricordato quello che è avvenuto dopo:

Stavo fuori sulla strada insieme ad altre persone a guardare i soldati. A un certo punto sono entrato al ristorante per ordinare del cibo. L’ho fatto andando fino all’ingresso quando ho sentito colpi di arma da fuoco. Mi sono girato e ho visto Muhammad Habali, noto come Za’atar, steso con la faccia a terra. Doveva essere stato colpito alla testa da un proiettile. L’ho filmato con il mio cellulare ed ho iniziato a chiamare gli altri ragazzi perché mi aiutassero a toglierlo dalla strada e a portarlo nel vicolo di fronte al ristorante, perché avevo paura che gli spari continuassero o che un’auto di passaggio potesse investirlo.

Quando ho osato fare un passo fuori, ho guardato verso i soldati che erano di fronte alla scuola “al-Fadiliyah” e li ho visti retrocedere verso piazza Khaduri. Ho sentito una serie di spari in aria. Dopo che i ragazzi si sono assicurati che i soldati se n’erano andati, hanno messo Muhammad Habali su una macchina. Sono andato in ospedale con lui, e in pochi minuti abbiamo raggiunto il pronto soccorso. I medici hanno cercato di dargli i primi soccorsi e di rianimarlo, ma era morto.

Dal posto in cui mi trovavo non ho visto nessun lancio di pietre prima che iniziassero a sparare. La gente stava solo lì in piedi a guardare i soldati che erano nei pressi della scuola “al-Fadiliyah”. Non so cosa stesse succedendo in altre parti della strada. Per quanto ne so là dei giovani potrebbero aver lanciato pietre o gridato contro i soldati.

Quando l’incidente è stato reso pubblico, l’esercito ha risposto sostenendo che nella zona “si erano determinati violenti disordini”, che “decine di palestinesi stavano lanciando pietre” e che i soldati “hanno risposto con mezzi per il controllo della folla e poi con proiettili veri.” Le riprese e le testimonianze dirette raccolte da B’Tselem da parte di persone che si trovavano nei pressi di Habali non mostrano assolutamente nessun indizio di una qualche manifestazione violenta, del lancio di pietre o dell’uso di mezzi per controllare la folla. Al contrario: si vedono i soldati camminare senza fretta, i palestinesi che parlano tra loro e poi i soldati che colpiscono a morte Habali alla testa da una distanza considerevole. Il colpo mortale non è stato preceduto da avvertimenti, non era giustificato e costituisce una violazione della legge.

I mezzi di comunicazione hanno anche informato che l’esercito ha iniziato un’inchiesta dell’Unità Investigativa della Polizia Militare (MPIU) riguardo a quanto avvenuto. Però, nonostante il suo nome, il “sistema di applicazione delle leggi militari” non fa indagini su avvenimenti in cui i soldati abbiano ucciso palestinesi, con l’obiettivo di nascondere la verità. Non lavora in modo da chiedere conto alla catena di comando responsabile delle uccisioni o per evitare che questi casi si ripetano. Il sistema intende principalmente salvare le apparenze e far tacere le critiche, in modo che i soldati possano continuare ad usare una forza letale senza pagare nessun prezzo per le loro azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Settant’anni e una brutta storia

Vercelli C., Israele 70 anni. Nascita di una Nazione, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, 12,90 €.

Amedeo Rossi

Questo libro merita una recensione solo per una ragione: è una chiara dimostrazione del perché non sia possibile instaurare un dibattito serio neppure con i filo-israeliani di “sinistra” (Vercelli, autore di vari libri su Israele, è un collaboratore de “Il Manifesto”).

Il sottotitolo fa riferimento, in modo involontariamente ironico, ad un famoso film americano del 1915, “The born of a Nation”, un capolavoro del cinema ma anche un’esaltazione del razzismo. Non è certo la nota predominante del libro, che in quarta di copertina viene definito “una ricostruzione puntuale e obiettiva”, ma neppure questa è la descrizione corretta di questo lavoro.

Il punto di vista dell’autore viene chiarito in primo luogo dall’uso del lessico: i problemi con i palestinesi sono definiti “frizioni”, questi ultimi in genere indicati genericamente come “arabi” o “arabo musulmani”, la pulizia etnica del ’48 “fuga”, la Cisgiordania sarebbe “Giudea e Samaria”, le colonie israeliane sono definite “insediamenti”, “stanziamenti”, in un caso (Gilo) “quartiere”.

Vercelli assume, senza renderlo mai esplicito, esclusivamente il punto di vista sionista e israeliano, facendo eco a tutti i luoghi comuni ormai smentiti dalla storiografia. Dei nuovi storici israeliani in bibliografia compaiono solo Tom Segev e il libro di Benny Morris “Vittime”, di cui però non cita i passaggi che mettono in dubbio la lettura degli avvenimenti dal punto di vista israeliano.

Ecco alcuni degli esempi più evidenti a un lettore informato di questa posizione dell’autore.

Secondo Vercelli “l’ostilità delle popolazioni arabe” verso i sionisti era dovuta al fatto che queste ne vedevano la presenza “come una crescente intrusione che, in prospettiva, poteva portare all’espropriazione delle terre e alla limitazione delle possibilità di lavoro.” Inoltre sarebbe stato particolarmente ostile “il ceto medio urbano” che “dovette confrontarsi con la concorrenza ebraica in campo commerciale, artigianale e della piccola industria.” L’autore liquida così quello che fu un tipico processo colonialista di espulsione dei contadini e di creazione di un mercato della terra in un contesto di economia agraria tradizionale, che determinò un aumento vertiginoso dei prezzi, una crisi dell’agricoltura, l’inurbamento dei coltivatori espulsi dalle campagne, la creazione di un‘ economia e di un mercato paralleli che escludevano la popolazione nativa, come aveva preconizzato lo stesso Herzl, padre del sionismo. Tutto ciò grazie anche al favore del potere mandatario inglese, che nel libro invece non viene evidenziato.

Negli anni ’30 i flussi dell’immigrazione ebraica in Palestina sarebbero stati incentivati dalla chiusura delle frontiere USA, ma anche in questo caso viene ignorato l’intervento dei dirigenti sionisti che si attivarono per promuovere questa chiusura. In merito Enzo Sereni, dirigente sionista, affermò: “Non abbiamo nulla di cui vergognarci nel fatto che abbiamo usato la persecuzione degli ebrei in Germania per l’edificazione della Palestina.” Di questo non c’è traccia nella ricostruzione qui proposta.

Altrettanto avviene riguardo alle tattiche terroristiche messe in atto da tutte le milizie sioniste, a cui Vercelli dedica solo un accenno ed una foto dell’esplosione dell’hotel King David, ma la didascalia non dice che ci furono 97 morti e 58 feriti. Vengono totalmente ignorate le centinaia di vittime arabe di attacchi terroristici sionisti, oppure l’uccisione del mediatore Onu conte Bernadotte, e il fatto che alcuni primi ministri israeliani, come Begin, Shamir e Rabin, erano stati capi o militanti di gruppi che praticavano il terrorismo indiscriminato contro i civili.

Ancora più grave è la versione accolta nel libro riguardo alla guerra del ’48, da cui è nato lo Stato di Israele. Ad esempio la questione dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene così spiegata : i profughi sarebbero stati “popolazioni civili coinvolte nei combattimenti e fuggite dai loro luoghi di residenza.” Inoltre, secondo Vercelli, questo esodo sarebbe stato incentivato dalla “propaganda dei paesi arabi… che garantivano una vittoria certa sugli ebrei”. “Nondimeno,” concede l’autore, “da parte sionista l’interesse ad avere territori abitati in grande maggioranza da popolazione ebraica era nell’ordine delle cose.” Viene liquidato in questo modo il processo di pulizia etnica e con esso il lavoro degli studiosi palestinesi e dei nuovi storici israeliani, compreso il già citato Benny Morris. Certo, dal punto di vista sionista ciò era “nell’ordine delle cose” per la semplice ragione, non menzionata nel testo, che anche nei territori destinati dal piano di spartizione dell’ONU al futuro Stato di Israele la maggioranza della popolazione era araba. Vercelli cita solo la strage di Deir Yassin, troppo nota per essere ignorata, ma non le decine di massacri perpetrati dalle milizie sioniste e le centinaia di villaggi distrutti durante la guerra. Ma definisce la cacciata degli ebrei dai Paesi arabi “un brutale meccanismo di ritorsione” e “una massiccia espulsione.”

A questo proposito, pur dedicando alcune analisi interessanti alle caratteristiche della società ebreo-israeliana, il libro ignora i molti episodi di discriminazione di carattere tipicamente eurocentrico e colonialista cui furono sottoposti gli ebrei arabi, dal rapimento di bambini di famiglie yemenite all’ emarginazione territoriale nelle zone di confine. Nel 1949 comparve su Haaretz, giornale progressista, un articolo in cui si affermava che gli ebrei di lingua araba: “Sono appena meglio del livello di arabi, negri e berberi della regione.” Un’immagine molto diversa da quella di una società felicemente multietnica, dinamica, che presterebbe “particolare riguardo ai diritti civili.” Basti pensare al trattamento riservato in Israele ai lavoratori immigrati, ai richiedenti asilo, in generale ai non ebrei. Vercelli ignora anche la condizione di inferiorità giuridica a cui sono soggetti i cittadini arabo-israeliani, sottoposti all’amministrazione militare fino al 1966, espropriati delle terre e discriminati da più di 50 leggi e regolamenti, definiti sbrigativamente nel libro “diversi vincoli e numerose limitazioni” che avrebbero provocato “un misto di diffidenza ed estraneità”. Gli “attriti” con gli “arabo musulmani” (ma ci sono anche gli “arabo-cristiani”) avrebbero determinato in “alcuni arabi” il senso di appartenenza “a quell’identità palestinese” maturata nei campi profughi “come nei Territori a maggioranza palestinese, a est e a sud di Israele”.

Grazie alla guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, da cui altre centinaia di migliaia di palestinesi secondo il libro sarebbero “fuggite”, “la nozione di spazio [degli ebrei israeliani]…si svincolò dalle dimensioni asfittiche legate a una piccola porzione di territorio quale era lo Stato del 1948.”

Il libro non accenna neppure al metodico, pianificato e progressivo processo di espropriazione ed oppressione imposto alle comunità locali dai vari governi israeliani, rispetto alla quale i palestinesi manifesterebbero una “crescente indisponibilità”, non dovuta a fatti concreti ed oggettivi ma al “senso di discriminazione”. Allo stesso modo il libro minimizza, parlando di qualche centinaio di vittime, le responsabilità (riconosciute persino da un’inchiesta parlamentare israeliana) dell’esercito e dell’allora ministro della Difesa Sharon nella strage di Sabra e Shatila durante la guerra contro il Libano; la Prima Intifada sarebbe scoppiata perché “[I giovani palestinesi] si sentivano vittime di un’ingiustizia,”; la Seconda dalla “disillusione” e dal “malessere della popolazione palestinese”, che portarono ad una radicalizzazione, attribuita al successo dei gruppi islamisti, senza spiegarne le cause. Sensazioni, opinioni, emozioni soggettive. Quanto infine al fatto che nel nuovo contesto mediorientale “Israele non può dare risposte di merito ai problemi degli altri paesi della regione, ma si confronta, inevitabilmente, con gli effetti prodotti dalla loro persistenza,” andrebbe chiesto conto all’autore degli sviluppi diplomatici che vedono Israele allineato sempre più esplicitamente con i peggiori regimi arabi.

 Si potrebbe proseguire, ma credo che quanto scritto finora dia sufficientemente conto del tenore di questo libro. Si tratta di un’opera celebrativa (come testimonia il notevole apparato iconografico) ed elogiativa che esalta l’impresa sionista con un approccio solo apparentemente neutrale, la cui lettura è utile più per analizzare l’ideologia dell’autore e dei suoi sodali filo-israeliani che per il suo valore storiografico.

 




I palestinesi celebrano il quarantesimo “Giorno della Solidarietà Internazionale”

Al Jazeera

30 novembre 2018

Il governo palestinese afferma che la comunità internazionale dovrebbe essere ritenuta responsabile perché consente la prosecuzione dell’occupazione israeliana

Personalità palestinesi hanno invitato la comunità internazionale a celebrare il “Giorno Internazionale di Solidarietà con il Popolo palestinese” applicando le risoluzioni dell’ONU che chiedono la fine dell’occupazione israeliana, così come ad esprimere il proprio sostegno alla lotta palestinese per avere uno Stato.

Il giorno, che l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha celebrato dal 1978, cade il 29 novembre, data in cui nel 1947 l’ONU ha adottato la risoluzione 181, il piano di partizione della Palestina.

“La comunità internazionale non può continuare a condannare la violazione dei diritti dei palestinesi e la distruzione della soluzione dei due Stati senza agire per porre fine a questa situazione illegale,” ha detto giovedì Riyad Mansour, l’ambasciatore palestinese all’ONU.

“La grande distanza tra le nostre nobili convinzioni e l’orrenda situazione sul terreno deve essere rapidamente colmata prima che sia troppo tardi per i palestinesi, per gli israeliani e per la regione nel suo complesso,” ha aggiunto.

Da quando sono stati fondati nel 1945, l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza hanno adottato una serie di risoluzioni riguardanti Israele/Palestina – la grande maggioranza delle quali non sono state applicate dai successivi governi israeliani.

L’ambasciatore di Israele all’ONU, Danny Danon, ha definito le risoluzioni una “presa in giro”. “Quelle risoluzioni si prendono gioco dei palestinesi, proprio il popolo che l’ONU sostiene di difendere,” ha detto.

“Non portano i palestinesi verso il futuro, ma li tengono rinchiusi nel passato.”

Il governo palestinese, come anche l’ONU, sostiene la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, con Gerusalemme est come capitale dei palestinesi.

I palestinesi accusano Israele di danneggiare le prospettive di costituzione di uno Stato palestinese sovrano attraverso la continua costruzione illegale di colonie solo per ebrei nei territori occupati.

In un comunicato Hanan Ashrawi, membro del Consiglio Nazionale Palestinese, ha affermato che “le sofferenze, la spoliazione, l’espulsione e la persecuzione del popolo palestinese sono iniziate quando venne fondato lo Stato di Israele sulla terra della Palestina storica.”

“La solidarietà non è solo un’astratta manifestazione di empatia,” ha detto. “Al contrario, è un impegno attivo, positivo e concreto.”

Yousef al-Mahmoud, portavoce del governo palestinese, ha sostenuto che la comunità internazionale dovrebbe essere ritenuta responsabile di consentire da decenni la prosecuzione dell’occupazione israeliana.

“Il silenzio internazionale sull’occupazione e sui suoi crimini non fa che incoraggiare Israele a continuare a violare le risoluzioni e le leggi internazionali,” ha detto Mahmoud.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa vogliono i palestinesi dalla comunità internazionale?

Haidar Eid

21 novembre 2018, Middle East Monitor

Due giorni prima dell’attacco criminale di Israele nella Striscia di Gaza avevo scritto un articolo in cui cercavo di spiegare esattamente cosa vogliono i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, dalla comunità internazionale. Ho sostenuto che mentre intraprendiamo il nostro lungo cammino verso la libertà, siamo giunti alla conclusione che non possiamo più fare affidamento sui governi; che solo la società civile è in grado di mobilitarsi per l’applicazione del diritto internazionale e per la fine dell’inaudita impunità israeliana.

Ci ispiriamo al movimento anti-apartheid. La mobilitazione della società civile è stata efficace alla fine degli anni ’80 contro il regime di apartheid del Sudafrica bianco, e può fare la stessa cosa a sostegno di una giusta pace in Palestina. Niente può davvero costringere Israele a rispettare il diritto internazionale tranne le persone di coscienza e la società civile.

Affermavo anche che senza l’intervento della comunità internazionale, che è stata efficace contro l’apartheid in Sudafrica, Israele continuerà a perpetrare i suoi crimini di guerra e contro l’umanità. Questo è esattamente ciò che è successo solo due giorni dopo quell’articolo, quando l’apartheid israeliano ha lanciato un massiccio attacco violando – come nel 2009, 2012 e 2014 – un cessate il fuoco non dichiarato con i gruppi di resistenza palestinesi a Gaza, mediato dall’Egitto.

In effetti, a Gaza non ci interessa più la sterile opposizione al processo di normalizzazione avviato dal trattato di Camp David e dagli accordi di Oslo, e consolidato dagli Sceicchi del Golfo. Piuttosto, siamo interessati a elaborare il tipo di reazione che potrebbe effettivamente sconfiggere i diversi livelli del sistema di oppressione sionista: occupazione, pulizia etnica e apartheid. Nel momento in cui la comunità internazionale – società civile e governi – deciderà di agire così come ha fatto contro il sistema di apartheid in Sudafrica, Israele dovrà rimettersi alla voce della ragione – rappresentata dall’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS ), sostenuto da oltre 170 organizzazioni della società civile e approvato da quasi tutte le forze politiche influenti nella Palestina storica e nella diaspora.

La domanda urgente, quindi, è quanto a lungo il mondo tollererà il palese razzismo costituzionale di Israele? Sappiamo per certo che ci sono voluti trent’anni perché la comunità internazionale ascoltasse la chiamata dei popoli oppressi del Sud Africa. Quanto tempo dovranno aspettare i popoli oppressi della Palestina?

I recenti successi del BDS sono ciò che chiediamo dal 2005. Per i palestinesi nella Striscia di Gaza è difficile capire come, nonostante la politica di pulizia etnica di Israele e gli ultimi crimini di guerra commessi contro di noi, nonostante i crimini di guerra continuamente documentati da importanti organizzazioni per i diritti umani, e nonostante la colonizzazione israeliana e l’apartheid, per alcune onorate società e istituzioni internazionali gli affari con Israele rimangano normali “as usual”.

Non è chiarissimo a quelle società, dopo tutti questi anni e dopo le migliaia di rapporti da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani, che a milioni di palestinesi vengono negati i diritti fondamentali all’istruzione, alla libera circolazione, al lavoro e alle prestazioni sanitarie? Siamo privati di una vita normale a causa degli oltre 600 posti di blocco militari israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, dell’assedio medievale di Gaza e della discriminazione ufficiale dell’apartheid verso i cittadini palestinesi nella stessa Israele. Per dirla senza mezzi termini, siamo discriminati perché non siamo ebrei, così come i neri sudafricani venivano discriminati semplicemente perché non erano bianchi

La tendenza sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Nelle carceri israeliane sono detenuti migliaia di palestinesi condannati da tribunali militari; centinaia di loro sono detenuti senza accusa né processo. Tutte le attendibili organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno riferito dettagliatamente in che modo le forze israeliane prendano di mira deliberatamente studenti e istituzioni educative palestinesi, incluse le scuole gestite dall’ONU. Gli studiosi e i ricercatori non dovrebbero essere avvezzi a maneggiare tali rapporti?

Consideriamo nostro diritto aspettarci che le persone di coscienza si uniscano a noi nella lotta contro l’apartheid di Israele, boicottando il regime razzista e militarizzato e le istituzioni che lo fanno prosperare. I palestinesi sono un popolo oppresso senza Stato. Sempre di più facciamo affidamento sul diritto internazionale e sulla solidarietà, per la nostra stessa sopravvivenza.

Ciò che vogliamo, quindi, è l’applicazione del diritto internazionale per porre fine all’occupazione militare israeliana nelle terre arabe occupate nel 1967, per combattere la colonizzazione e l’apartheid di Israele sancite dalle leggi contro la popolazione indigena della Palestina dal 1948, e per consentire il ritorno legittimo dei rifugiati palestinesi vittime di una pulizia etnica quando nelle loro terre fu creato Israele. È una richiesta di por fine allo Stato di Israele? Il boicottaggio dell’apartheid significava porre fine al Sud Africa come nazione, o porre fine alle peggiori forme di razzismo di Stato?

Israele è uno Stato di insediamento coloniale e di apartheid, e gli strumenti usati contro l’apartheid in Sudafrica possono essere modello per la nostra lotta contro l’apartheid di Israele. Trasformare Israele da Stato etno-religioso e di apartheid in un’istituzione autenticamente democratica dovrebbe essere l’obiettivo di ogni persona che crede nella democrazia liberale.

Con le pressioni della comunità internazionale, attraverso una campagna BDS sul modello della Campagna contro l’Apartheid che ha posto fine al razzismo in Sud Africa, crediamo che si possa convincere Israele a liberarsi delle sue strutture di oppressione. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è un embargo sulle armi a Israele per fermare il continuo spargimento di sangue a Gaza.

La campagna BDS tende a ripristinare i diritti democratici del popolo palestinese. Crediamo che le lotte del popolo palestinese nella stessa Israele, nei territori occupati dal 1967 – la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est – così come nella Diaspora siano una cosa sola. Questo è il motivo per cui crediamo che un approccio alternativo basato sui diritti, anziché sull’apparente “pace” di Oslo basata sulla normalizzazione, possa rappresentare per tutti i palestinesi una soluzione che garantisce la pace con giustizia, vale a dire con il diritto al ritorno e all’uguaglianza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Luciana Galliano)




Un attivista palestinese imprigionato per essere andato in bicicletta nel suo villaggio

Oren Ziv

14 novembre 2018, +972

Un tribunale militare israeliano ha condannato Abdullah Abu Rahma, un noto difensore dei diritti umani, a 110 giorni di prigione per essere andato in bicicletta durante una protesta contro l’occupazione due anni fa.

Mercoledì un tribunale militare israeliano ha condannato il noto attivista palestinese Abdullah Abu Rahma a quattro mesi di prigione per due accuse relative una corsa in bicicletta per celebrare la giornata della Nakba [la “Catastrofe”, cioè l’espulsione dei palestinesi da quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele nel 2048, ndtr.] del 2016.

Abu Rahma, uno dei più noti leader della lotta popolare contro il muro di separazione, è stato condannato alcune settimane fa per aver violato, nel maggio 2016, un ordine di zona militare chiusa e aver intralciato un soldato durante una corsa a Bil’in, il suo villaggio. Centinaia di ciclisti palestinesi e internazionali avevano preso parte alla cosiddetta “corsa del ritorno”, partita da Ramallah e terminata nel villaggio della Cisgiordania.

Comunque le forze di sicurezza israeliane avevano invaso il villaggio ancor prima che la corsa iniziasse. Abu Rahma era stato arrestato mentre cercava di spiegare ai soldati che si trovavano sulla sua terra. Era stato gettato a terra, arrestato e detenuto per 11 giorni.

Quasi tutte le forme di protesta sono illegali per i palestinesi che vivono sotto il governo militare israeliano in Cisgiordania.

Mercoledì il giudice militare israeliano maggiore Haim Baliti ha accettato che Abu Rahma inizi a scontare la pena a metà dicembre, in modo da “corsa del ritorno”,dare il tempo alla difesa di fare appello sia contro la sentenza che contro la condanna.

Baliti ha anche applicato parte di una sentenza sospesa con la condizionale relativa a una precedente condanna per la partecipazione a un’altra protesta un anno prima. La sentenza sospesa è stata rimessa in vigore dall’attuale condanna. Abu Rahma sconterà un totale di 110 giorni in un carcere militare israeliano.

Abdullah è un difensore dei diritti umani”, ha detto dopo il pronunciamento della sentenza Gaby Lasky, la sua avvocatessa. “Si oppone in modo non violento all’occupazione – ecco ciò che fa di lui un obiettivo così importante. Finché si trova in prigione non può essere attivo sul campo.”

Queste punizioni per la resistenza nonviolenta in corso indicano che il tribunale militare non è una corte di giustizia; il suo unico scopo è mantenere l’occupazione e impedire ogni resistenza contro di essa”, ha aggiunto Lasky.

Abu Rahma, che nel 2010 ha avuto il riconoscimento di “difensore dei diritti umani” impegnato nella nonviolenza, è uno dei principali leader nella lotta contro il muro ed ha contribuito a guidare le proteste popolari a Bil’in iniziate nel 2005.

Ha trascorso oltre un anno in carcere per il suo ruolo nelle proteste di Bil’in e ora sta affrontando un’altra serie di accuse perché avrebbe danneggiato il cancello della barriera di separazione nel villaggio dove vive.

Nel 2010, la rivista +972 ha nominato Abu Rahma suo “personaggio dell’anno” per il suo ruolo nel “movimento di opposizione ben organizzato, nonviolento e di base a Bil’in – che riunisce sostenitori palestinesi, israeliani e internazionali in una lotta comune”.

Sono arrabbiato e addolorato per la decisione”, ha detto Abu Rahma alla fine dell’udienza. “Questo non è un vero tribunale – è un tribunale politico. Ne pagherò il prezzo, ma questa punizione mi darà coraggio per continuare a sostenere il popolo dovunque sia – che è il mio dovere come palestinese – finché finirà l’occupazione e otterremo l’indipendenza.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




In violazione dei diritti umani, Netanyahu sostiene la pena di morte per i palestinesi

Ramzy Baroud

14 novembre 2018, Palestine Chronicle

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, appartenente alla destra, sta intensificando la sua guerra al popolo palestinese, anche se per ragioni quasi interamente legate alla politica israeliana. Ha appena dato il via libera a una legge che renderebbe più facile per le corti israeliane emettere condanne a morte contro i palestinesi accusati di compiere atti “terroristici”.

La decisione di Netanyahu è stata presa il 4 novembre, ma la disputa sul tema è in corso da qualche tempo.

Il disegno di legge sulla pena di morte è stato il grido di battaglia del partito “Israel Beiteinu” (“Israele casa nostra”, ndtr.), guidato dal politico israeliano ultranazionalista Avigdor Lieberman, attuale ministro della Difesa, durante la sua campagna elettorale del 2015.[Lieberman si è dimesso per contrasti con Netanyahu sulla tregua con Hamas, accettata di fatto dal primo ministro. Ndt]

Ma quando Lieberman ha tentato di far passare il disegno di legge alla Knesset israeliana (il parlamento) subito dopo la formazione dell’attuale governo di coalizione nel luglio 2015, il progetto è stato clamorosamente sconfitto con 94 voti contro 6, e Netanyahu stesso a opporsi.

Da allora è stato battuto più volte. Tuttavia, l’umore politico in Israele si è spostato tanto da obbligare Netanyahu ad accogliere le richieste dei politici più aggressivi, i falchi nel suo governo.

Quando la coalizione di Netanyahu si è fatta più audace e instabile, il primo ministro israeliano si è unito al coro. È tempo di “cancellare il sorriso dalla faccia dei terroristi”, ha detto nel luglio 2017, mentre visitava l’insediamento ebraico illegale di Halamish, a seguito dell’uccisione di tre coloni. All’epoca, chiese la pena di morte per i “casi gravi”.

Alla fine, la posizione di Netanyahu sul problema si è evoluta fino a diventare una copia carbone di quella di Lieberman. Quest’ultimo aveva fatto della “pena di morte” una delle principali precondizioni per unirsi alla coalizione di Netanyahu.

Lo scorso gennaio, la proposta di legge di “Israel Beiteinu” è stata approvata durante la lettura preliminare alla Knesset. Mesi dopo, il 4 novembre, la legge è stata approvata dai legislatori israeliani in prima lettura con il sostegno di Netanyahu stesso.

Lieberman ha vinto.

Questo riflette la realtà delle correnti in lotta nella politica israeliana, con il primo ministro israeliano, da lungo tempo in carica, sempre più attaccato, con accuse provenienti sia dall’interno della sua coalizione che da fuori, di essere troppo debole nella gestione della resistenza a Gaza.

C’è anche il cerchio che si stringe nelle indagini della polizia sulla corruzione di Netanyahu, della sua famiglia e dei suoi più stretti collaboratori, e al leader israeliano non resta che picchiare sui palestinesi ad ogni minima occasione di mostrare la propria bravura.

Persino il leader dell’ex partito laburista, Ehud Barak, sta tentando di rispolverare la sua fallita carriera di politico confrontando le proprie passate violenze contro i palestinesi con la presunta debolezza di Netanyahu.

Netanyahu è “debole”, “impaurito” e non è in grado di prendere provvedimenti risolutori per tenere a freno Gaza, “quindi dovrebbe tornare a casa”, ha detto di recente Barack in un’intervista alIa TV israeliana Channel 10.

Confrontando il proprio presunto eroismo con la “resa” di Netanyahu alla resistenza palestinese, Barack si è vantato di aver ucciso “più di 300 membri di Hamas (in) tre minuti e mezzo”, quando era Ministro della Difesa del Paese.

La sinistra dichiarazione di Barack si riferisce all’omicidio di centinaia di abitanti di Gaza, tra cui donne, bambini e neo-cadetti di polizia, avvenuto a Gaza il 27 dicembre 2008, inizio di una guerra che uccise e ferì migliaia di palestinesi e preparò il terreno per altre, altrettanto letali, guerre a seguire.

Quando commenti così inquietanti sono fatti da una persona considerata nel lessico politico di Israele una “colomba”, si può solo immaginare la violenza del discorso politico di Netanyahu e della sua coalizione estremista.

In Israele, le guerre – così come le leggi razziste mirate ai palestinesi – sono spesso il risultato di manovre politiche israeliane. Incontrastati da un partito forte e imperterriti alle accuse delle Nazioni Unite, i leader israeliani continuano a mostrare i muscoli, ad appellarsi al loro elettorato radicalizzato e a marcare il proprio terreno elettorale a spese dei palestinesi.

La Legge sulla pena di morte non fa eccezione.

Il disegno di legge, una volta acquisito come legge israeliana, sarà applicato solo ai palestinesi, perché in Israele il termine “terrorismo” si riferisce quasi sempre agli arabi palestinesi, e difficilmente, se mai, agli ebrei israeliani.

Aida Touma-Suleiman, cittadina palestinese di Israele e fra i pochi membri arabi della Knesset, come la maggior parte dei palestinesi capisce bene le intenzioni del disegno di legge.

La legge è “destinata principalmente al popolo palestinese”, ha detto ai giornalisti lo scorso gennaio. “Non sarà certamente mai impugnata contro gli ebrei che commettono attacchi terroristici contro i palestinesi “, essendo il disegno di legge redatto e sostenuto dall’estrema destra del paese.

Infine, il disegno di legge sulla pena di morte deve essere compreso nel più ampio contesto del crescente razzismo e sciovinismo di Israele, che sta scalzando qualsiasi debole appello alla democrazia presente in Israele fino a poco tempo fa.

Il 19 luglio di quest’anno, il governo israeliano ha approvato la “Legge dello Stato Nazione” ebraico che designa Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”, svalutando apertamente i cittadini arabi palestinesi del Paese, la loro cultura, lingua e identità.

Come molti hanno temuto, l’auto-definizione razzista di Israele sta ora ispirando una serie di nuove leggi che mirano ulteriormente ai palestinesi, abitanti nativi del paese, sempre più marginalizzati.

La legge sulla pena di morte sarebbe la ciliegina sulla torta in questa orribile e incontrastata agenda israeliana che oltrepassa le linee di partito e unisce la maggioranza dei cittadini e dei politici ebrei del Paese in un’ininterrotta festa dell’odio.

Certamente, Israele ha già giustiziato centinaia di palestinesi in quelli che sono noti come “assassinii mirati” e “neutralizzazioni”, uccidendone anche di più a sangue freddo.

Quindi, in un certo senso, la proposta di legge israeliana, una volta divenuta legge, cambierà ben poco delle sanguinose dinamiche che muovono il comportamento di Israele.

Tuttavia, l’esecuzione di palestinesi perché resistono alla violenta occupazione israeliana evidenzierà ulteriormente il crescente estremismo della società israeliana e la crescente vulnerabilità dei palestinesi.

Proprio come la “Legge dello Stato Nazione”, la legge sulla pena di morte contro i palestinesi esibisce la natura razzista di Israele e sancisce il totale disprezzo per le leggi internazionali, una realtà dolorosa che dovrebbe essere urgentemente e apertamente messa in discussione dalla comunità internazionale.

Quelli che sinora si sono permessi di “lavarsene le mani” mentre Israele brutalizzava i palestinesi, dovrebbero immediatamente rompere il silenzio.

A nessun governo, nemmeno a Israele, dovrebbe essere permesso di farsi razzista e violare i diritti umani in modo così spudorato e senza assumersene alcuna responsabilità.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(traduzione di Luciana Galliano)