La mossa con cui Israele e USA immobilizzano la Palestina.

Rashid Khalidi

The Nation, 5 giugno 2017

L’occupazione israeliana è possibile solo grazie al sostegno incondizionato degli USA, ma il giorno del giudizio si avvicina.

In questo 50° anniversario della più lunga occupazione militare della storia moderna, c’è chi festeggia. È del tutto appropriato che questi festeggiamenti includano una sessione congiunta del Congresso americano con la Knesset israeliana, mediante una connessione video. È appropriato perché il controllo israeliano su Gerusalemme Est, sulla Cisgiordania, sulla Striscia di Gaza e sulle alture del Golan è possibile soltanto grazie al continuo sostegno ricevuto dagli USA a partire dal giugno 1967 e proseguito fino ad oggi. Questa quindi non è solo un’occupazione israeliana. In effetti, fin dall’inizio è stata un’impresa congiunta, un condominio israelo-americano, per così dire. Anche se le varie forme di violenza necessarie per mantenere un controllo straniero su quasi 5 milioni di persone sono state gestite interamente da Israele, il peso dell’operazione in termini di soldi, armi e diplomazia è stato sostenuto soprattutto dall’America.

Fino a che punto il sostegno americano sia la condizione sine qua non di questa cinquantennale occupazione si può vedere dalla differenza tra il modo in cui le conquiste di Israele del 1967 sono state trattate dall’amministrazione Johnson e successive, e il modo in cui il presidente Eisenhower reagì alle conquiste della guerra del 1956. In quest’ultimo caso, la reazione USA fu inequivocabile ed energica: pochi giorni dopo l’attacco israelo-anglo-francese all’Egitto, Washington fece approvare una risoluzione ONU che chiedeva l’incondizionato e immediato ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza e dal Sinai che aveva occupato. Sotto la forte pressione americana, Israele ubbidì a denti stretti nel giro di sei mesi.

Io stesso, quando avevo 18 anni, il 9 giugno 1967 fui testimone di un episodio che indicava quanto erano cambiate le cose dal 1956. Nel quarto giorno della guerra, ero seduto nella tribuna del pubblico al Consiglio di Sicurezza (mio padre lavorava per il Segretariato ONU e io ero a casa dopo il college). Vidi l’ambasciatore americano Arthur Goldberg fare ostruzionismo per ore, per impedire che il Consiglio obbligasse Israele a interrompere quella che sembrava un’avanzata inesorabile verso Damasco. Malgrado successive risoluzioni per una tregua del Consiglio di Sicurezza, e grazie al tacito sostegno degli USA, quell’avanzata non si fermò fino al giorno successivo.

Ma il peggio doveva ancora venire. Mentre nel 1956 passarono solo alcuni giorni prima che l’ONU intervenisse, ci vollero ben cinque mesi perché fosse approvata una risoluzione sulla guerra del 1967. E quando ciò avvenne, il 22 novembre 1967, la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza si ispirava essenzialmente ai desiderata di Israele, con l’indispensabile appoggio degli Stati Uniti. La risoluzione 242 non era affatto categorica, anzi: il ritiro di Israele dalle zone appena conquistate era subordinato al raggiungimento di confini “sicuri,” termine che si è dimostrato infinitamente flessibile nel vocabolario israeliano. Questa flessibilità ha permesso 50 anni di ritardo per quanto riguarda i territori occupati di Palestina e Siria. In aggiunta, nella sua versione inglese, la 242 non chiedeva il ritiro da tutta la terra presa nella guerra di giugno, ma solo “da territori occupati” durante il conflitto. Col largo sostegno americano, Israele è riuscita a far passare carrozza e cavalli attraverso quello che sembrava un piccolo varco.

Altre frasi della 242, come il passaggio che sottolinea “l’inammissibilità di acquisire territori con la guerra,” sembrano messe lì per bilanciare quelle importanti concessioni fatte alla posizione di Israele. Tuttavia, quali siano le parti veramente importanti della 242 è indicato da quella sessione congiunta del Congresso e della Knesset a cui accennavo, al culmine di 50 anni di accondiscendenza americana rispetto a un’occupazione che in pratica è coperta dai soldi, dalle armi e dall’appoggio diplomatico americano. Tra l’altro, questa è un’occupazione di cui il governo israeliano nega l’esistenza, e che il presidente americano non ha ritenuto degna di essere ricordata neanche una volta col suo nome durante la sua recente visita in Palestina e Israele.

Val la pena ricordare un altro punto cruciale della 242. All’inizio, il conflitto in Palestina era di tipo coloniale, tra la maggioranza palestinese indigena e il movimento sionista che cercava di ottenere la sovranità nel paese alle spese –e, alla fine, al posto– di quella maggioranza. La natura di questo conflitto era stata in parte riconosciuta dalla risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina in uno stato ebraico e uno arabo. Il primo avrebbe dovuto essere più grande del secondo, anche se a quel momento la proprietà ebraica di terra era meno del 7% del totale e gli arabi costituivano il 65% della popolazione e, in via di principio, avevano pieno diritto all’autodeterminazione in tutto il territorio di quello che giustamente consideravano ancora il loro paese.

La risoluzione 242 rappresentò un regresso anche rispetto al livello di bassa marea in cui si trovavano i palestinesi. Nel testo della risoluzione del 1967 non sono nominati né i palestinesi né il loro diritto a uno stato e al ritorno nelle loro case e nelle loro terre, cose che invece erano state confermate in precedenti risoluzioni, tutte appoggiate dagli Stati Uniti. C’è solo un blando riferimento a “una giusta soluzione del problema dei rifugiati.”

Ignorare arrogantemente la popolazione indigena, i suoi diritti e i suoi interessi è in effetti una tipica mossa coloniale, ed è quella che ha aperto la strada all’impresa israeliana d’insediamento coloniale che ha prosperato per 50 anni nei territori occupati. Va da sé che questo è avvenuto col pieno appoggio degli USA, anche se accompagnato da tiepide critiche. Il ministro degli esteri britannico Lord Balfour si era cimentato nella stessa manovra un secolo fa, non menzionando mai le parole ‘palestinese’ o ‘arabo’ nella sua famosa dichiarazione del 2 novembre 1917 in cui prometteva l’appoggio britannico per una “casa nazione” in una Palestina che all’epoca aveva una maggioranza araba del 94%.

Ignorando allo stesso modo i palestinesi e concedendo a Israele quello che voleva, la risoluzione 242 rappresentava così una rivoluzione diplomatica che era totalmente favorevole alla superpotenza regionale che si era appena ingrandita. Questa risoluzione, stilata dall’ambasciatore britannico Lord Carandon –che ripeteva il copione britannico di non prendere in considerazione i palestinesi– e fatta approvare dagli Stati Uniti, è diventata il banco di prova per la pace arabo-israeliana. Vista la sua origine perversa, non sorprende che questa mal concepita risoluzione non ha prodotto pace, ma è stata invece la foglia di fico per una interminabile occupazione militare delle terre di Siria e Palestina.

La scena a cui ho assistito il 9 giugno 1967 al Consiglio di Sicurezza era solo un indizio della grande svolta promossa dal presidente Johnson e dai suoi consiglieri entusiasti di Israele, tra cui Clark Clifford (che era stato determinante nel consigliare al presidente Truman di sostenere Israele nel 1947 e 1948), Arthur Goldberg, McGeorge Bundy, Abe Fortas, e i fratelli Walt ed Eugene Rostow. Costoro, insieme ad altri, avevano fatto in modo che, prima della guerra di giugno 1967, Israele ricevesse il preliminare via libera americano per sferrare il primo colpo contro gli eserciti arabi, cosa che non era stata fatta al tempo dell’avventura israeliana di Suez messa in atto nel 1956 insieme a Francia e Gran Bretagna. Alcuni di questi consiglieri ebbero un ruolo nella trattativa di quella che divenne la risoluzione 242.

Nel 1967 Israele aveva già cominciato a ricevere alcune consegne di armi americane, anche se vinse la guerra di quell’anno soprattutto con armi francesi e britanniche, così come aveva fatto nel 1956. All’indomani della sua schiacciante vittoria del 1967, Israele divenne un importante alleato nella Guerra Fredda, iniziando un rapporto molto più stretto con gli Stati Uniti e contro gli stati arabi che erano allineati con l’Unione Sovietica. Col passare del tempo, questa alleanza con Israele è diventata più stretta di quella con qualunque altra nazione; infatti l’aiuto militare è salito a più di 1 miliardo di dollari all’anno dopo il 1973, e a più di 4 miliardi annui oggi (e questo aiuto va a un paese relativamente ricco, con un reddito annuo pro capite di quasi 35.000 dollari). Dal 1967 Israele è stato coccolato dagli Stati Uniti, sia che le sue azioni aiutassero gli interessi USA sia che li danneggiassero. Questa intimità è arrivata al punto che esponenti politici di ambedue le parti competono uno con l’altro nel proclamare che non lasceranno “nemmeno uno spiraglio” tra le posizioni dei due paesi.

Nonostante le esaltazioni di questa unità di vedute tra dirigenti americani e israeliani per quanto riguarda il sostegno all’ininterrotto processo di occupazione e colonizzazione della Palestina, il giorno del giudizio si avvicina. Ce ne sono avvisaglie da tutte le parti. Intanto, il partito democratico è spaccato tra i dirigenti della vecchia guardia che sono ciecamente pro-israeliani e una base più giovane e più aperta che è in grado di vedere cosa sta veramente accadendo in Palestina. La risoluzione approvata il 21 maggio dal partito democratico della California è un segno dei tempi. Questa risoluzione condanna l’incapacità degli ultimi governi di ”fare passi concreti per cambiare lo status quo e dar luogo a un vero processo di pace”, al di là di qualche blanda critica all’occupazione. E continua disapprovando “gli insediamenti illegali nei territori occupati” e chiedendo una “giusta pace basata sulla piena eguaglianza e sicurezza sia per gli ebrei che per i palestinesi,” oltre ad “autodeterminazione, diritti civili, e benessere economico per il popolo palestinese.”

Cinquanta anni dopo l’euforia che in Israele e a Washington accompagnò l’inizio dell’occupazione, la nascita di un nuovo stato d’animo si può avvertire nei campus universitari, tra i più giovani –tra cui molti ebrei americani– le minoranze, alcune chiese, sinagoghe, associazioni accademiche, sindacati e la base del partito democratico. C’è naturalmente una potente e ben finanziata controffensiva verso questo risveglio, che ha connessioni con l’amministrazione Trump e con la dirigenza del partito democratico ed è riecheggiata dalla gran parte dei principali media. La si riconosce al colmo dell’isteria nei suoi tentativi di soffocare in molti stati il dibattito con mozioni anti-BDS (19 delle quali già convertite in legge), così come nel bando israeliano all’ingresso nel paese di sostenitori del BDS e alle leggi contro gli israeliani che appoggiano il BDS.

Ma anche se queste misure possono avere qualche effetto, non possono alla lunga sopprimere il disgusto che le politiche di Israele hanno prodotto in tanti americani e tanti cittadini di altri paesi. Il sostegno dall’esterno è stato sempre un elemento cruciale nella contesa sulla Palestina. Nei primi decenni dopo la dichiarazione Balfour, l’impresa sionista non avrebbe potuto imporsi senza l’aiuto determinante della Gran Bretagna. Allo stesso modo, Israele non avrebbe potuto mantenere per 50 anni la sua occupazione senza il supporto americano. La reazione quasi isterica alla crescita nel mondo di critiche all’occupazione militare israeliana di terre arabe e alla sua impresa coloniale, mostra che i leader israeliani e i loro sostenitori americani sono perfettamente consapevoli di queste nuove realtà. La tragedia è che ci son voluti quasi 70 anni dalla guerra del 1948 e 50 anni dal 1967 per arrivare a questo punto, che è solo l’inizio del cammino verso la piena uguaglianza, l’autodeterminazione, i diritti civili, la sicurezza e il benessere economico sia per gli ebrei israeliani che per i palestinesi.

Rashid Khalidi, “Edward Said Professor” di Studi Arabi alla Columbia University, è autore del recente Brokers of Deceit: How the U.S. Has Undermined Peace in the Middle East.

https://www.thenation.com/article/israeli-american-hammer-lock-palestine/

www.assopacepalestina.org

Traduzione di Donato Cioli




Il dibattito sulla legalità delle colonie: domande ricorrenti

Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun


I. Perché adesso?

Durante lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di due tipi di forze. Per un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente sbagliata. Questi sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”) del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste posizioni nelle reti sociali. Dall’altro, l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione, valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di questo ritorno.

La ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente” essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente” giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento – venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di discussioni giuridiche originali.

Ora quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo (intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.

Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese, ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.

A mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea) marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto, come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel 1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese legali opposte e totalizzanti. Al loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua storia.

La morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo la forza bruta.

Tuttavia, come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale; dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla terra. O, per usare una sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”, che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni giuridiche per proporre richieste inconciliabili.

II. Che cos’è la legge?

Passo a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie, iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di prendere in considerazione le questioni più importanti.

Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di Israele.

Per parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la “Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’ “autodeterminazione”. In base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514 (1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come diritto internazionale generale.

La dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde come il confine dello Stato di Israele. Il momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,” dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano di Israele.

Questa dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava il territorio in nome della Società delle Nazioni. La Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello informale e de facto, dagli USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo problema.

Nel 1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente, argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania: la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano “l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]

In ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità) nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre, come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.

(Noto di non avere qui lo spazio per discutere della legalità dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle colonie in ogni territorio occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross, rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è stata condotta. [2])

L’argomento principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile: l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità strettamente militari. Questo scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione, codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907: l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici, beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto” (art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di carattere permanente.

Di sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un “potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo – e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?

La risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il “popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un “potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria, inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.

Ma la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale, con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del territorio. E’ a suo beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà pubblica, e via di seguito.

L’argomentazione a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto all’autodeterminazione politica. Sebbene l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”

In effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo, che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione” : quello di “ terra nullius”, terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:

(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.

(2) L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.

(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.

Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius, dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno “un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.

Torniamo ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra: “Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa interpretazione considera i due termini, “deportazione” e “trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:

E’ intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.

Nelle parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato – e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.

III. E riguardo a Sanremo?

Uno degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata chiamata Iraq).

I quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato, un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto inspiegabile da un punto di vista giuridico.

In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato – in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato ebraico. Un confronto del Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo lo affermava esplicitamente.

Si potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,” un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.

Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di “incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.

La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo 80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.” I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” – un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.

Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80 semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus), ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano riconosciuto su di esso. In ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale degli Stati.

IV. E riguardo alla Risoluzione 242?

Un altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo determinativo prima della parola “territori” significa che la risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati – per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David del 1979. Simili argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione. Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione legittima così le colonie israeliane.

Queste argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme, un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la (controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.

In ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.

V. E riguardo ad Howard Grief?

Uno degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale. Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata definitivamente stabilita.

Gli autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.

Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati, al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con l’espressione latina “opinio juris”); 3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche internazionali.

Inoltre, poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati, dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato nella formula “prassi + opinio juris” – ricompare in forma solo leggermente differente in relazione all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:

Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:

  1. ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;

  2. ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;

  3. tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.

La polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è semplicemente un equivoco.

VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia

Come ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una “realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.

Inoltre, poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che [il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.

Bisogna menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein” [libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione militare di quello Stato.

Il progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti, dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.

Se alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.

1) Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla teoria che propose nel 1968.

2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).

Nathaniel Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto “Religione e Internazionalismo”.

Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).

(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)




Dietro allo sciopero della fame dei palestinesi ci sono inenarrabili vicende di sofferenza

Drssa Inas Abbad

Giovedì 27 aprile 2017 Middle East Eye

L’ inedita iniziativa non è solo un tentativo di migliorare le condizioni di detenzione, ma anche un appello a favore dei più elementari diritti umani e delle condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane.

La reazione israeliana allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi iniziato il 17 aprile è stata senza precedenti.

Lo sciopero della fame, che coinvolge più di 1.500 prigionieri palestinesi, intende evidenziare l’iniquità delle pratiche penitenziarie di Israele e chiedere un miglior trattamento dei detenuti, ma è stato accolto con richieste di condanne a morte dei prigionieri che vi partecipano.

Le reazioni hanno oltrepassato la pericolosità e il razzismo, compresi i commenti fatti dal membro della Knesset [il parlamento israeliano, net.] Oren Hazan, che ha affermato: “Non c’è nessuno problema, neppure se tutti i prigionieri dovessero morire in seguito allo sciopero. Dopotutto le prigioni sono sovrappopolate mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri.”

Ci sono anche state le dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman che, oltre a chiedere la loro condanna a morte, ha detto che i prigionieri che vi partecipano dovrebbero essere lasciati morire di fame.

In altri commenti i detenuti sono stati descritti come insetti velenosi che dovrebbero essere sterminati con il gas e per i quali dovrebbero essere istituiti campi di sterminio.

Quattro giorni dopo l’inizio dello sciopero, coloni israeliani hanno organizzato grigliate nei pressi della prigione di Ofer per provocare i detenuti, che a quel punto erano arrivati senza cibo o bevande per il tempo corrispondente a 12 pasti.

Solidarietà araba

Lo sciopero della fame è iniziato con la speranza di conquistare col tempo la solidarietà di tutte le fazioni palestinesi e delle forze nazionali e popolari.

Speravamo anche che, poco dopo, si sarebbe trasformato in un movimento di solidarietà araba, forse anche internazionale, con la causa dei prigionieri e con le loro richieste, esercitando pressione su Israele e obbligandolo ad accogliere le richieste legittime e relative ai diritti umani dei detenuti.

Scioperi della fame di massa possono avere un impatto molto maggiore di quelli di singoli individui. Inoltre non sono meno pericolosi e difficili se proseguono per troppo tempo, proprio come gli scioperi individuali.

Dopo circa una settimana di sciopero della fame, il corpo di un detenuto inizia a debilitarsi dopo che il suo peso si è ridotto di almeno cinque chili. Non bisogna dimenticarlo: nell’attuale sciopero tra i partecipanti vi sono minorenni, donne, anziani e malati.

I prigionieri in sciopero della fame soffrono più per i dolori che per la fame: mal di testa, dolori alle articolazioni, tremito e immobilità sono solo alcuni dei sintomi. La maggior parte degli scioperanti soffre di molti altri disturbi, come osteomalacia [fragilità ossea che provoca dolori muscolari, ndt.], cancro, reumatismi, difficoltà respiratorie, asma e altri disturbi che sono la conseguenza delle dure condizioni detentive, comprese torture e malnutrizione. In questi casi questi prigionieri necessitano di speciali trattamenti medici che vengono loro regolarmente negati.

In base ai rapporti pubblicati dal “Club dei Prigionieri Politici”, dal Dipartimento per gli Affari e la Libertà dei Prigionieri Politici e dall’Ufficio Statistico Centrale palestinese, ci sono 5.600 prigionieri politici nelle carceri israeliane, comprese 57 donne di cui 13 minorenni. Dopo 15 anni di prigione, il 16 aprile 2017 la detenuta con la più lunga carcerazione, Lina al-Jarbouni, è stata rilasciata dalle autorità israeliane.

E’ importante sapere che ci sono ancora 200 palestinesi che sono in prigione da prima della firma dell’accordo di pace israelo-palestinese (gli accordi di Oslo) nel 1993.

Alcuni dei detenuti sono stati in carcere più a lungo di qualunque altro prigioniero al mondo. Sono: Karim Younis e Maher Younis, detenuti dal gennaio 1984, così come Nael al-Barghouthi, che ha scontato 36 anni di carcere, 34 dei quali ininterrotti. E’ stato riarrestato nel 2014 poco dopo il suo rilascio. E’ stato uno dei prigionieri liberati come parte dell’accordo di scambio di prigionieri per il soldato israeliano GIlad Shalit.

Trattamento inumano

Lo sciopero della fame dei prigionieri politici non dovrebbe essere visto come un tentativo di migliorare le condizioni carcerarie. Non è affatto vero che i prigionieri vogliono solo avere migliori condizioni, come se accettassero di rimanere incarcerati così a lungo se queste condizioni rispettassero gli standard del XXI° secolo.

Di fatto, i prigionieri politici ricevono i trattamenti più inumani. Nelle prigioni delloccupazione sono ora presenti circa 500 detenuti politici che non sono mai stati imputati di niente. Sono attualmente trattenuti per un tempo che va dai tre ai sei mesi che sono sempre rinnovabili, ma alcuni sono detenuti da anni senza nessuna imputazione.

Ai prigionieri politici vengono in genere negate cure e regolari esami medici. In conseguenza di una tale negligenza, 13 persone – che sono considerate “martiri”- sono state vinte dalla malattia e sono morte in carcere. Ce ne sono altre oggi con urgente necessità di cure che sono state loro negate per anni.

Ai parenti sono state negate anche seconde visite della Croce Rossa. Le visite dei familiari attraverso la Croce Rossa sono state ridotte a una ogni quattro settimane. Tuttavia da quando è iniziato lo sciopero della fame, persino agli avvocati è stato vietato visitare i detenuti politici, a cui erano già state negate tutte le visite dei familiari come misura arbitraria presa contro di loro per lo sciopero della fame.

Molti detenuti politici sono stati posti in isolamento nelle prigioni di Al-Jalamah e Ilan nella regione di Beer Sheba e in altri luoghi. I loro beni personali sono stati requisiti, sono stati privati dei loro vestiti e hanno subito continui maltrattamenti nella forma di trasferimenti arbitrari tra una prigione e l’altra e di costanti perquisizioni nelle loro celle durante le quali sono stati percossi.

Alcuni di loro hanno perso uno o entrambi i genitori senza avere la possibilità di dare loro l’estremo saluto, come Mahmoud Abu Surur. Altri sono diventati padri mentre erano in carcere e non hanno potuto godere delle gioie della paternità, che è un diritto umano fondamentale, come Andan Muraghah e molti altri. Altri ancora non conoscono i loro nipoti, se non attraverso qualche fotografia che è consentito introdurre in prigione circa ogni mese.

Alcuni prigionieri sono confinati nelle celle del carcere e gli sono negate visite per molte settimane, forse anche mesi, come nel caso di Walid Maragah. Alcuni di quelli che provengono dalla Cisgiordania, come Nasir Abu Surur e Hasam Shahin e decine di altri, non possono ricevere visite perché alle famiglie viene negato il permesso di entrare in Israele, e quindi non possono andare a trovarli.

E a molti parenti le visite sono vietate perché si da il caso che essi stessi siano ex-detenuti politici. Agli ex-prigionieri politici spesso viene vietato visitare i loro figli o fratelli che sono incarcerati come detenuti politici.

Diritti umani fondamentali

I detenuti possono essere puniti negando loro l’accesso all’educazione e alla lettura. Solo di rado ad alcuni prigionieri è consentito continuare il loro percorso formativo durante la detenzione. Molti continuano queste attività di nascosto, il che implica molto tempo e molte sofferenze. Fanno uso di qualunque aiuto siano in grado di offrire le loro famiglie ed i loro compagni di detenzione, come nel caso di Marwan Barghouthi, Karm Younis, Walid Maraqah e Muhammad Abbad, che hanno titoli accademici che consentono loro di rendere questo servizio agli altri prigionieri.

E’ molto difficile far entrare libri, che i funzionari del carcere controllano attentamente e ne vietano molti. L’educazione dovrebbe essere un diritto umano garantito da ogni convenzione internazionale e dai diritti umani, ma non nelle prigioni di Israele.

I telefoni sono proibiti. Anche i messaggi scritti sono limitati e attentamente controllati. A volte prima di essere consegnati i messaggi tardano molte settimane, anche mesi. Alcuni non raggiungono mai i loro destinatari.

E alcuni dei detenuti politici in carcere da più tempo non sanno niente delle reti sociali, di internet e dei computer. Non hanno mai sentito parlare degli smartphone. Ad altri è stato rifiutato di telefonare ai propri genitori in punto di morte.

Questo è stato il caso di Muhammad, che ha perso suo padre, il professor Abd Al-Rahman Abbad. Il 25 maggio 2015 sua madre, al ritorno dalla visita in carcere, ha scoperto che il marito, da anni malato di cancro, era deceduto. La sua malattia gli ha impedito di fare visita a suo figlio per molti mesi prima della morte.

Richieste legittime

Di conseguenza, possiamo notare che le richieste dei prigionieri politici in sciopero della fame sono legittime e rispondenti ai diritti umani. Non sosterremo mai che le loro richieste legittimino la loro detenzione o che implichino che accettano la loro pluriennale incarcerazione.

Alcuni di loro sono già stati in carcere per più di metà della loro vita, come nel caso di Muhammad Abbad, Karim Younis, Maher Younis, Nael Barghouthi, Nasir Abu Surur e Muhammad Abu Surur, e la lista potrebbe continuare.

La domanda è: lo sciopero continuerà finché sarà ripristinata la dignità? O Israele farà ricorso all’alimentazione forzata come fece nel 1980 con i detenuti in sciopero della fame nel campo di detenzione di Nafha, nel deserto?

La dottoressa Inas Abad è una ricercatrice in scienze politiche, docente ed attivista politica di Gerusalemme est. Suo fratello, negli ultimi 16 anni detenuto in una prigione israeliana, è uno dei dirigenti dello sciopero della fame.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Marwan Barghouthi dalla prigione di Hadarim

Da AssopacePalestina

Articolo originale pubblicato sul NY Times il  16.4.2017

Dopo la pubblicazione dell’articolo Barghouthi è stato messo in isolamento!

“Dopo aver trascorso gli ultimi 15 anni in una prigione israeliana, sono stato sia un testimone, sia vittima, del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti di prigionieri palestinesi.

Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c’era altra scelta che resistere a questi abusi cominciando uno sciopero della fame.

Circa 1.000 prigionieri palestinesi hanno deciso di prendere parte a questo sciopero, che inizia oggi, giorno che qui celebriamo come Giorno dei prigionieri. Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza a disposizione. Esso infligge dolore esclusivamente a coloro che vi partecipano e ai loro cari, nella speranza che gli stomaci vuoti e il sacrificio aiutino il messaggio a risuonare al di là dei confini delle buie celle.

Decenni di esperienza hanno dimostrato che il sistema inumano di occupazione coloniale e militare israeliana punta a sfibrare lo spirito dei prigionieri e della nazione a cui appartengono, infliggendo sofferenze sui loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, utilizzando misure umilianti per costringere alla sottomissione. A dispetto di tale trattamento, non ci arrenderemo ad esso.

Israele, la potenza occupante, ha violato il diritto internazionale in molti modi per quasi 70 anni, ma gli è stata garantita impunità per le proprie azioni. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, tra cui uomini, donne e bambini, non fanno eccezione.

Avevo solo 15 anni quando sono stato imprigionato per la prima volta. Avevo appena 18 anni quando un ufficiale israeliano mi ha costretto a divaricare le gambe mentre mi trovavo nudo nella stanza degli interrogatori, prima di colpire i miei genitali. Sono svenuto dal dolore, e la caduta conseguente ha lasciato una grande cicatrice che da allora segna la mia fronte. L’ufficiale mi prese in giro, dicendo che non avrei mai potuto procreare, perché dalla gente come me nascono solo terroristi e assassini.

Pochi anni dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana, conducendo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Invece dei dolci che di solito distribuiamo per celebrare simili eventi, ho distribuito agli altri prigionieri del sale. Quando aveva appena 18 anni, mio figlio a sua volta è stato arrestato e ha trascorso quattro anni nelle prigioni israeliane.

Il più anziano dei miei quattro figli è ora un uomo di 31. Eppure, io sono ancora qui, continuando questa lotta per la libertà insieme a migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e il sostegno di così tanti in tutto il mondo. L’arroganza dell‘occupante oppressore e dei suoi sostenitori li rende sordi a questa semplice verità: prima che riescano a spezzare noi, saranno le nostre catene ad essere spezzate, perché è nella natura umana rispondere al richiamo della libertà a qualsiasi costo.

Israele ha costruito quasi tutte le sue carceri all’interno dei propri confini, piuttosto che nel territorio occupato. In tal modo, ha illegalmente e forzatamente trasferito civili palestinesi in cattività, usando questa situazione per limitare le visite dei familiari e per infliggere sofferenze attraverso lunghi trasferimenti in condizioni crudeli. I diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale – tra cui alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti scioperi della fame – sono stati trasformati in privilegi che l’amministrazione penitenziaria può decidere di concedere o sottrarre.

I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subito torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi durante la detenzione. Secondo gli ultimi dati, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 a causa di tali azioni. I prigionieri palestinesi e le loro famiglie rimangono anche un obiettivo primario della politica di Israele di imposizione di punizioni collettive.

Nel corso degli ultimi cinque decenni, secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer, più di 800.000 palestinesi sono stati imprigionati da Israele – pari a circa il 40 per cento della popolazione maschile del territorio palestinese. Oggi, circa 6.500 sono ancora in carcere, tra i quali alcuni che detengono il triste primato dei più lunghi periodi di detenzione dei prigionieri politici al mondo. È difficile trovare una sola famiglia in Palestina che non abbia patito la detenzione di uno o più dei suoi componenti.

Come dar conto di questo assurdo stato di cose?

Israele ha stabilito un regime giuridico duale, una forma di apartheid giudiziaria, che garantisce potenziale impunità per gli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, mentre criminalizza la presenza e la resistenza palestinese. I tribunali di Israele sono una parodia della giustizia, palesi strumenti di occupazione coloniale e militare. Secondo il Dipartimento di Stato, il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è del 90 per cento circa.

Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha arrestato, ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, accademici, esponenti politici, militanti e familiari dei detenuti. Tutto con un unico obiettivo: seppellire le legittime aspirazioni di un’intera nazione.

Al contrario, le prigioni di Israele sono diventate la culla di un duraturo movimento per l’autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Libertà e la Dignità, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.

Le autorità israeliane e il servizio carcerario hanno trasformato i diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale in privilegi da concedere o sottrarre discrezionalmente. Israele ha provato ad etichettare tutti noi come terroristi per legittimare le sue violazioni, tra cui gli arresti di massa arbitrari, le torture, le misure punitive e le rigide restrizioni. Come parte dello sforzo di Israele di minare la lotta palestinese per la libertà, un tribunale israeliano mi ha condannato a cinque ergastoli e 40 anni di carcere in un processo farsa che è stato denunciato dagli osservatori internazionali.

Israele non è la prima potenza occupante o coloniale a ricorrere a tali espedienti. Ogni movimento di liberazione nazionale nella storia ricorda pratiche simili. Questo è il motivo per cui così tante persone che hanno lottato contro l’oppressione, il colonialismo e l’apartheid sono dalla nostra parte. La campagna internazionale per ‘la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi’ che l’icona anti-apartheid Ahmed Kathrada e mia moglie, Fadwa, hanno lanciato nel 2013 dalla ex cella di Nelson Mandela a Robben Island ha avuto il sostegno di otto vincitori del Premio Nobel per la Pace, 120 governi e centinaia di dirigenti, parlamentari, artisti e accademici di tutto il mondo.

La loro solidarietà smaschera il fallimento morale e politico di Israele. I diritti non sono elargiti da un oppressore. La libertà e la dignità sono diritti universali che sono connaturali all’umanità e devono essere goduti da ogni nazione e da tutti gli esseri umani. I Palestinesi non saranno un’eccezione. Solo porre fine all’occupazione potrà cessare questa ingiustizia e segnare la nascita della pace”.

Traduzione di Luigi Daniele

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La fase successiva nella guerra al BDS: perché Israele ha arrestato Omar Barghouti

Ramzy Baroud, Ma’an News30 marzo 2017

Lo Stato israeliano ha violato le leggi internazionali più di ogni altro Paese, tuttavia è stato raramente, se non mai, portato a rendere conto dei suoi crimini e dei sui abusi.

Le efficaci campagne di pubbliche relazioni di Israele attraverso partner mediatici occidentali ben disposti, insieme al costante lavoro e alle pressioni portate avanti dai suoi potenti sostenitori a Washington, Londra, Parigi ed altrove, hanno prodotto risultati magnifici.

Per un momento è sembrato che Israele fosse in grado di conservare l’occupazione e negare ai palestinesi i loro diritti indefinitamente, promuovendosi al contempo come “l’unica democrazia in Medio Oriente”.

Quelli che osavano sfidare questo paradigma distorto con la resistenza in Palestina erano eliminati o imprigionati; quelli che hanno sfidato Israele in pubblico ovunque nel mondo sono stati calunniati come “antisemiti” o “ebrei che odiano se stessi”.

Sembrava che le cose andassero avanti senza problemi per Israele. Con l’aiuto finanziario e militare americano-occidentale, le dimensioni, la popolazione e l’economia delle colonie illegali sono cresciute rapidamente. I partner commerciali di Israele sembravano dimenticare il fatto che i prodotti delle colonie fossero costruiti o coltivati su terra palestinese occupata illegalmente.

Quindi per molto tempo l’occupazione è stata molto redditizia, con poche condanne e pressioni. L’unica cosa che i dirigenti israeliani dovevano fare era rispettare il copione: i palestinesi sono terroristi, non abbiamo partner per fare la pace, Israele è una democrazia, le nostre guerre sono tutte fatte per auto-difesa, e via di questo passo. I media ripetevano all’unisono queste nozioni ingannevoli. I palestinesi, oppressi, occupati e diseredati, erano regolarmente demonizzati. Quelli che sapevano la verità sulla situazione dovevano affrontare il rischio di pronunciarsi apertamente – e di patirne le conseguenze – o rimanere in silenzio.

Ma, come si suol dire, “puoi prendere in giro tutti per un po’ di tempo, e alcuni per sempre, ma non puoi prendere in giro tutti per sempre.”

[Lo slogan] “Giustizia per i palestinesi”, che un tempo sembrava che fosse una “causa persa”, è stato massicciamente ripreso durante la Seconda Intifada (Rivolta) palestinese nel 2000.

Una crescente consapevolezza, dovuta all’impegno di molti intellettuali, giornalisti e studenti, ha visto l’arrivo in Palestina di migliaia di attivisti internazionali come parte dell’International Solidarity Movement (ISM).

Accademici, artisti, studenti, membri del clero e persone comuni sono venuti in Palestina e poi si sono sparsi in molte parti del mondo, utilizzando qualunque mezzo a disposizione per diffondere un messaggio concorde tra le loro numerose comunità.

E’ stato questo lavoro di base che ha reso possibile il successo del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Sorto nel 2005, il BDS è stato un appello delle organizzazioni della società civile palestinese alle persone di tutto il mondo perché partecipassero alla denuncia dei crimini israeliani e perché il governo e l’esercito israeliani e le imprese che traggono vantaggio dall’oppressione dei palestinesi ne fossero considerati responsabili. Sostenuto da un’ampia e crescente rete già consolidata, il BDS si è velocemente diffuso ed ha colto di sorpresa il governo israeliano.

Nell’ultimo decennio il BDS si è dimostrato in grado di resistere e ricco di risorse, aprendo nuovi canali e tribune per discutere di Israele, della sua occupazione, dei diritti dei palestinesi e della responsabilità morale di quanti appoggiano o ignorano le violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Ciò che più preoccupa Israele riguardo al BDS è quello che esso definisce il tentativo del movimento di “delegittimarlo”. Fin dalla sua creazione, Israele ha lottato per la legittimazione. Ma è difficile ottenere legittimazione senza rispettare le norme richieste ad un Paese per ottenerla. Israele vuole avere entrambe le cose: continuare la sua proficua occupazione, testare la sua nuova tecnologia bellica, arrestare e torturare, assediare ed assassinare e allo stesso tempo ottenere l’assenso internazionale.

Usando minacce, intimidazioni, taglio di fondi, gli Usa ed Israele hanno insistito, senza risultati, per far tacere le critiche a Israele, principale alleato degli Usa in Medio Oriente.

Solo qualche giorno fa un rapporto delle Nazioni Unite ha affermato che Israele ha istituito un “regime di apartheid”. Anche se l’autrice del rapporto, Rima Khalaf [a capo della Commissione ONU per l’Asia occidentale (ESCWA). Ndtr.], ha rassegnato le dimissioni in seguito a pressioni, il genio non può tornare nella bottiglia.

Progressivamente, il BDS è cresciuto fino a diventare l’incubatore di molte delle critiche internazionali a Israele. Il suo iniziale impatto ha riguardato artisti che rifiutano di esibirsi in Israele, poi imprese che hanno iniziato ad abbandonare le proprie attività in Israele, seguite da chiese ed università che hanno disinvestito dall’economia israeliana. Con il tempo Israele si è trovato a dover affrontare un’unica, grande sfida.

Quindi, cosa deve fare Israele?

Ignorare il BDS si è dimostrato pericoloso e costoso. Combattere il BDS è come scatenare una guerra contro la società civile. Peggio, più Israele tenta di distruggere il lavoro del BDS, più legittima il movimento, offrendogli nuovi spazi per il dibattito, per le notizie dei media e per la discussione pubblica.

Nel marzo 2016 una grande conferenza ha radunato insieme funzionari del governo israeliano, dirigenti dell’opposizione, esperti dei media, studiosi e persino personaggi dello spettacolo da Israele, dagli Usa e da altri Paesi. La conferenza è stato organizzata da una delle maggiori imprese mediatiche di Israele, Yediot Achronot. C’è stata una rara esibizione di unità tra i politici israeliani; centinaia di israeliani influenti e loro sostenitori che cercavano di costruire una strategia intesa a sconfiggere il BDS.

Sono state proposte molte idee.

Il ministro degli Interni israeliano, Aryeh Deri, ha minacciato di revocare la residenza [a Gerusalemme] a Omar Barghouti, cofondatore e una delle personalità più attive del BDS.

IIl ministro dell’Intelligence e dell’Energia Atomica, Israel Katz, ha invocato “un’eliminazione civile mirata” dei dirigenti del BDS, indicando in particolare Barghouti.

Il ministro della Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan, ha chiesto che gli attivisti del BDS “ne paghino il prezzo”.

La guerra contro il BDS è iniziata ufficialmente, benché il lavoro di base per la lotta fosse già in atto.

Il governo del Regno Unito aveva annunciato all’inizio dell’anno che era illegale “rifiutare di acquistare beni e servizi da imprese coinvolte nel commercio di armi, di combustibili fossili, prodotti per fumatori o nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.”

Quello stesso mese, il Canada ha votato una mozione che ha reso il BDS un reato.

Un paio di mesi prima, il Senato Usa ha approvato la legge ” Consapevolezza dell’Anti-Semitismo”, che ha accorpato la definizione di antisemitismo per includervi le critiche contro Israele nei campus Usa, molti dei quali hanno risposto positivamente all’appello del BDS.

Infine il Regno Unito ha adottato una definizione simile equiparando i crimini di vero e proprio odio antiebraico alle critiche a Israele.

Più di recente, Israele ha votato una legge che pone un bando all’ingresso in Israele di persone accusate di appoggiare il movimento BDS. Considerando che entrare in Israele è l’unico modo per raggiungere i Territori Palestinesi Occupati, il bando israeliano intende recidere il forte rapporto che mette in contatto i palestinesi con il movimento globale di solidarietà.

La campagna contro il BDS è infine culminata con l’arresto e l’interrogatorio dello stesso Omar Barghouti.

Il 19 marzo le autorità fiscali israeliane hanno arrestato Barghouti e lo hanno accusato di evasione fiscale. Così facendo Israele ha svelato la natura del prossimo passo della sua lotta, utilizzando tattiche diffamatorie e incolpando dirigenti di punta sulla base di imputazioni che sono apparentemente apolitiche per distogliere l’attenzione dall’imminente e pressante dibattito politico.

Insieme ad altri passi, Israele pensa che sconfiggere il BDS sia possibile con la censura, i divieti di ingresso e tattiche intimidatorie.

Tuttavia la guerra di Israele contro il BDS è destinata a fallire e, come diretto risultato di questo fallimento, il BDS continuerà ad espandersi.

Israele ha mantenuto la società civile mondiale all’oscuro per decenni, vendendole una versione fuorviante della realtà. Ma nell’era dei media digitali e dell’attivismo su scala globale la vecchia strategia non mantiene più le sue promesse.

Nonostante quello che appare nel caso di Barghouti, il BDS non si indebolirà. E’ un movimento decentralizzato con reti locali, regionali, nazionali e globali sparse in centinaia di città in tutto il mondo.

Diffamare una persona, o un centinaio di persone, non modificherà il crescente movimento del BDS.

Israele si renderà presto conto che la sua guerra contro il BDS, contro la libertà di parola e di espressione, non può essere vinta. Si tratta di un tentativo inutile di imbavagliare una comunità globale che ora lavora all’unisono da Città del Capo, in Sudafrica, a Uppsala, in Svezia.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Centinaia di israeliani e palestinesi in corteo a Gerusalemme contro l’occupazione israeliana.

Nir Hasson 1 Aprile., 2017 | Haaretz

La dimostrazione è stata fatta alcune ore dopo un attacco all’arma bianca a Gerusalemme, di cui gli organizzatori dicono che “ si è trattato di un doloroso richiamo al prezzo dell’occupazione”

Centinaia di palestinesi e israeliani hanno preso parte a un corteo a Gerusalemme contro l’occupazione.

L’evento di sabato è il primo di una serie organizzata da “Standing Together” ( Stiamo insieme), un movimento che raccoglie associazioni pacifiste e partiti di sinistra, per sottolineare i cinquant’anni dalla guerra dei Sei Giorni.

In un comunicato il movimento afferma che il motivo della mobilitazione “è protestare contro il continuo controllo di Israele sui territori e in particolare su Gerusalemme Est e per una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli”

Sabato mattina nella Città Vecchia di Gerusalemme un palestinese è stato ammazzato dopo aver ferito con un coltello due civili e un poliziotto

Uno degli organizzatori, Itamar Avneri, ha detto che l’incidente “ è stato un doloroso richiamo al prezzo dell’occupazione. Auguriamo una pronta guarigione ai feriti e speriamo di non assistere più a simili incidenti o atti di panico nelle strade della città. Questo deve finire”.

Il corteo si è mosso da Gan Hasus nel centro della città e si è concluso nella Città Vecchia con un comizio vicino alla porta di Jaffa.

La deputata della Knesset Zehava Galon, presidente del partito Meretz, rivolta al corteo ha detto: “Non possiamo mettere da parte il conflitto con i palestinesi, quando le fiamme lambiscono un barile pieno di esplosivo. L’attacco all’arma bianca nella Città Vecchia evidenzia come sia un’illusione privare un’intera popolazione dei diritti e dell’autodeterminazione senza che la disperazione si trasformi in un orribile odio e violenza.”

Mohammed Abu Hummus, capo del comitato popolare di Isawiyah a Gerusalemme Est, ha esortato ”chiunque creda nel popolo palestinese ad opporsi al governo razzista israeliano.” Ha aggiunto: “La sinistra deve farsi avanti e dare una mano, mobilitarsi nelle strade e chiedere il cambiamento”.

Avi Buskila, direttore di Peace Now, ha manifestato speranza nell’unità: “Il governo della destra dei coloni e dell’occupazione vuole che l’odio prevalga nei cuori e domini nelle strade, che gli ebrei odino gli arabi, i mizrahim [ebrei originari dei Paesi arabi. ndtr.] gli aschenaziti [ebrei di origine europea. ndtr.], i militanti di destra disprezzino quelli di sinistra, Ofakim odi Tel Aviv. Hanno paura perché sanno che vinceremo, tutti, ebrei e palestinesi, gerosolimitani e abitanti di Tel Aviv, mizrahim e askenaziti, etiopi e russi, donne e uomini, tutti insieme vinceremo”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Un sondaggio: la maggioranza degli israeliani ebrei è contraria alla fine di 50 anni di occupazione militare

28 marzo, 2017 Maannews

Betlemme (Ma’an) È stato reso noto un nuovo sondaggio del Jerusalem Center for Public Affairs[centro di ricerche indipendente israeliano con sede a Gerusalemme, ndt.] che rivela che la maggioranza degli israeliani si oppone a qualunque forma di ritiro israeliano dalla Cisgiordania occupata, mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, in contrasto con il diritto internazionale e con gli annosi negoziati internazionali di pace.

Il sondaggio, condotto su un campione di 521 israeliani ebrei di età superiore ai 18 anni, viene considerato rappresentativo dell’opinione degli adulti israeliani ebrei sul pluridecennale conflitto israelo-palestinese.

In base ai risultati del sondaggio, l’adesione degli israeliani ad un ritiro militare dalla Cisgiordania sotto occupazione israeliana, ora al suo cinquantennale, è gradualmente diminuita negli ultimi 12 anni, con una percentuale di quelli che sostengono il ritiro come parte di un accordo di pace che è passata dal 60% nel 2005 ad appena il 36% nel 2017.

Riguardo al completo ritiro da tutto il territorio della Cisgiordania occupata, il 77% degli israeliani si oppone a una simile decisione. Nel contempo, sempre in riferimento al ritiro dai territori, ma escludendo i grandi blocchi di colonie israeliane costruite sul territorio palestinese in violazione al diritto internazionale, la maggioranza degli israeliani (il 57 %) è ancora contraria.

Tuttavia, qualora venissero annessi ad Israele i blocchi delle colonie illegali e il futuro Stato palestinese rimanesse demilitarizzato, l’opposizione al ritiro israeliano dai territori palestinesi scenderebbe leggermente (44%).

Per quanto riguarda la valle del Giordano, un’area della massima importanza per il territorio palestinese e per qualunque futuro Stato palestinese, uno schiacciante 81% di israeliani afferma che sarebbe importante che il governo israeliano continuasse ad esercitare la sua sovranità su quel territorio.

Il sondaggio rivela anche che gli israeliani hanno un’aspettativa a lungo termine e consistente nella conservazione del pieno controllo della sicurezza sulla Cisgiordania occupata: il 76% degli intervistati dal sondaggio condivide il fatto che le autorità israeliane continuino a mantenere il controllodella Cisgiordania in base a varie considerazioni riguardo alla sicurezza.

Mentre il 79% degli israeliani ritiene che sia importante mantenere Gerusalemme unita sotto il controllo di Israele, il 52% si oppone a qualsiasi divisione tra “settori ebraici e arabi”. Alla domanda sullo status di Gerusalemme Est occupata e della sua possibile inclusione nello Stato di Palestina come capitale, l’opposizione alla divisione di Gerusalemme sale al 59%.

La grande maggioranza degli israeliani (l’83%) è contraria al trasferimento ai palestinesi della moschea di Al-Aqsa – nota tra gli ebrei come il Monte del Tempio.

Il destino di Gerusalemme è stato per decenni un punto nodale del conflitto israelo-palestinese, con numerose tensioni conseguenti alle minacce israeliane riguardo alla status dei siti religiosi non ebraici nella città e alla “giudeizzazione” di Gerusalemme Est mediante la costruzione di colonie e di massicce demolizioni di case.

In un contesto di violenza quotidiana dell’esercito israeliano e con l’escalation delle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi, i palestinesi sono rimasti delusi dai tentativi di risolvere il conflitto che continua da decenni, avendo perso in molti la speranza in qualunque soluzione politica.

Il governo israeliano ha anche approvato rapidamente leggi che secondo l’opinione di molti critici sono specificatamente volte a un’annessione graduale della Cisgiordania occupata.

Lo scorso mese la Knesset ha approvato la legge di regolarizzazione degli avamposti, che stabilisce che qualunque colonia costruita in Cisgiordania “in buona fede” – senza sapere che la terra su cui è stata costruita è proprietà privata palestinese, possa essere ufficialmente riconosciuta da Israele in attesa di prove risibili per il sostegno del governo al suo insediamento e di qualche forma di compensazione ai proprietari palestinesi.

Nel frattempo, deputati israeliani di destra della Knesset hanno anche proposto un disegno di legge per l’annessione della grande colonia di Maale Adumim. Maale Adumim è la terza più grande colonia per numero di abitanti, comprendente un grande striscia di terra che s’insinua profondamente nel distretto di Gerusalemme della Cisgiordania occupata. Molti israeliani la considerano un sobborgo israeliano di Gerusalemme, nonostante sia situata sul territorio occupato palestinese in violazione del diritto internazionale.

Mentre gli esponenti della comunità internazionale hanno riposto la soluzione del conflitto israelo-palestinese sulla interruzione delle colonie illegali israeliane, al contrario i dirigenti israeliani hanno chiesto a gran voce un aumento delle costruzioni delle colonie nella Cisgiordania occupata e alcuni hanno sostenuto la loro completa annessione.

Numerosi attivisti palestinesi hanno criticato la soluzione a due Stati come insostenibile e improbabile per raggiungere una pace duratura, proponendo invece uno Stato binazionale con uguali diritti per israeliani e palestinesi.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’orrendo nuovo divieto di ingresso di Israele dice al mondo: state lontani se non siete d’accordo con noi

Allison Kaplan Sommer – 8 marzo 2017, Haaretz

La nuova legge contro il BDS segna un drastico cambiamento nelle relazioni di Israele con il resto del mondo, inviando il messaggio che molti di quelli che sono in profondo disaccordo con l’occupazione non sono più ospiti graditi.

A prima vista il radicale divieto di ingresso in Israele approvato lunedì notte dalla Knesset non cambia essenzialmente niente. Le autorità israeliane sui confini o negli aeroporti hanno già una totale discrezionalità nel tenere fuori chiunque e molti potenziali visitatori sono stati messi su una lista nera e rimandati indietro perché ritenuti ostili ad Israele.

Non c’era bisogno di questa legge, che definisce l’appoggio al boicottaggio di qualunque istituzione israeliana o di qualunque area sotto il suo controllo come criterio per impedire l’ingresso come visitatori.

Ma in realtà cambia tutto. La dichiarazione che fa e il messaggio che manda – che quelli che sono talmente contrari all’occupazione da scegliere di non comprare prodotti delle colonie non sono più visitatori graditi per vedere e conoscere il Paese – segnano un drastico cambiamento nei rapporti di Israele con il resto del mondo.

Storicamente quelli che credono nell’importanza di Israele per il mondo, nonostante i conflitti ed i problemi, hanno sempre sostenuto “vedere per credere”.

Mi includo in quel gruppo. Quando ho incontrato chiunque nel mondo che volesse discutere delle politiche di Israele, persino quelli che facevano obiezioni sulla stessa esistenza dello Stato come risultato dell’occupazione, la mia risposta è sempre stata la stessa: una sfida e un invito.

“Beh, sei stato in Israele?” chiedo loro nel momento opportuno di una conversazione, che la mia controparte sia di destra o di sinistra, appassionatamente a favore delle colonie o contro l’occupazione.

Il più delle volte la risposta è “no”: la persona in questione non è mai stata né in Israele né in Palestina e basa la sua posizione politica su quello che è stato visto da altri o gli è stato raccontato. Allora gli dico: “Bene, vieni e guarda con i tuoi occhi. Poi decidi.”

La mia convinzione è che finché uno non è stato qui, non ha visto e provato quello che succede in questa nazione disperatamente complessa e non arriva alle sue conclusioni in base a quello ha visto con i propri occhi e ascoltato da israeliani e palestinesi reali nel loro contesto domestico, il valore della sua opinione è limitato.

In più, il solo fatto che spenda tempo e denaro per fare il viaggio mi convince che gli importi veramente. In fin dei conti il contrario dell’amore non è l’odio – ma sono la presa di distanza e l’indifferenza.

Finora il governo israeliano e quelli che lo appoggiano hanno condiviso questo approccio. Il governo israeliano e le organizzazioni non governative che lo appoggiano hanno investito milioni – probabilmente miliardi – con l’assunto che il Paese ed i suoi cittadini raccontano la loro storia al meglio e quelli che vogliono convincere devono essere portati qui.

E’ la convinzione che sottolinea “Birthright Israel” [“Eredità Israele”, organizzazione no profit che propone 10 giorni gratis in Israele a giovani di origine ebraica] ed è la ragione per cui il governo finanzia viaggi per opinionisti, celebrità dello spettacolo e dello sport in visita.

Questa è la ragione per cui le organizzazioni di ebrei americani dell’AIPAC, le federazioni ebraiche e J Street [organizzazione di ebrei statunitensi moderatamente critica verso il governo israeliano. Ndtr.] portano mediatori politici da Washington per visitare il Paese e parlare con la gente, invitandoli a testimoniare e a partecipare ai liberi, aperti e dinamici dibattiti nella società israeliana.

Tutti questi programmi si basano sull’assunto che quello che sta succedendo sul terreno è molto più ricco di sfumature degli slogan urlati nelle manifestazioni nei campus americani o nelle riunioni delle organizzazioni.

Mentre la nuova legge colpisce tutti – ebrei e non ebrei – i suoi effetti sulla nuova generazione nella relazione Israele-Diaspora saranno di certo particolarmente profondi.

Riconoscendo che molti nella loro comunità sono in contrasto con le politiche del governo israeliano, molte delle principali organizzazioni ebraiche americane hanno spostato il proprio discorso dalla “difesa di Israele” all’ “impegno per Israele”, nel tentativo di avvicinare le persone di ogni tendenza ideologica al Paese.

Pochi anni fa, durante una sessione sull’ “Impegno per Israele” in una conferenza di un’organizzazione ebraica, ho parlato di questo con Akiva Tor, capo dell’ufficio di questioni ebraiche mondiali al ministero degli Esteri.

Mi ha detto che, anche se “impegnarsi” non è sempre un’esperienza armoniosa e piacevole, lui pensava che molti israeliani preferissero questo piuttosto che la distanza e la disaffezione.

“Ci è del tutto chiaro che questo è il significato della parola “relazione”. Non sempre è facile:”

Ora per la prima volta Israele sta rifiutando gli ebrei della Diaspora che sono impegnati, che hanno un rapporto con Israele, che si preoccupano del suo destino in modo così profondo che stanno cercando di fare qualcosa in proposito, nella forma della scelta attiva di non appoggiare le colonie.

Con questa nuova legge il messaggio ai giovani ebrei ed al resto del mondo non è più: “Venite, guardate con i vostri occhi, discutiamone – anche con una discussione in cui io cerco di cambiare il vostro punto di vista. Sappiamo che è complicato, ma non interrompiamo la nostra relazione.”

Invece è: “Statevene lontani. Se non siete d’accordo con noi, qui non c’è posto per voi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Editoriale// Netanyahu, secondo le sue stesse parole

Haaretz 6 marzo 2017

Sarebbe opportuno che Netanyahu dichiarasse all’opinione pubblica che crede nella soluzione dei due Stati, che è disposto ad un compromesso sui territori e comprende che l’espansione delle colonie deve essere fermata.

Il documento redatto dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu e pubblicato da Haaretz domenica (Netanyahu ha offerto al leader dell’opposizione Herzog di insistere insieme per un’iniziativa di pace regionale – e poi ha fatto marcia indietro”, di Barak Ravid), è una buona notizia per gli israeliani che credono nella soluzione dei due Stati.

Il documento aveva il fine di rendere possibile la formazione di un governo di unità con il partito Laburista per avviare un accordo di pace regionale. Dal documento emerge che Netanyahu sostiene una soluzione diplomatica che comprende un compromesso territoriale, riconosce il popolo palestinese ed il suo diritto all’autodeterminazione e accetta che Israele debba interrompere l’attività di espansione delle colonie. Inoltre segnala che Netanyahu assume una visione positiva dello spirito generale dell’iniziativa di pace araba.

La dichiarazione di Netanyahu rivela che il primo ministro e il suo principale e rumoroso alleato della coalizione, Habayit Hayehudi (Casa Ebraica), che sostiene l’annessione dei territori occupati, hanno un’ampia divergenza ideologica. I membri di Casa Ebraica stanno approfittando di questa divergenza per condurre un’ingannevole campagna pubblicitaria, sostenendo che l’opinione pubblica ha abbandonato la soluzione dei due Stati e sogna invece l’annessione ed una nazione unica con due sistemi giuridici.

Negli ultimi anni in Israele si è sviluppata una cultura politica di basso profilo, in base alla quale i partiti politici devono mentire sui loro veri punti di vista diplomatici, o almeno essere il più possibile vaghi riguardo alla propria volontà di accettare un compromesso territoriale. Il ricordo dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin è un valido deterrente per chiunque pensi di contestare questa posizione. Sembra che anche l’alleanza tra il Likud e Casa Ebraica sia basata su questo tipo di menzogna.

Il risultato è che si crea una dinamica distruttiva: il partito dei coloni trascina a destra il governo, mentre il partito al potere è costretto a dimostrare, attraverso leggi e dichiarazioni, di essere più di destra, più estremista, più aggressivo e addirittura più razzista. Questo significa che un partito con soli otto seggi alla Knesset, che rappresenta una popolazione che vive in gran parte, se non del tutto, in un territorio al di fuori della sovranità dello Stato di Israele, sta imponendo una tragica e storica direzione, in base ai suoi propri interessi, che sono contrari a quelli della popolazione che vive all’interno di Israele nella sua totalità.

E’ possibile che Netanyahu abbia scritto il documento per prendere tempo fino al termine della presidenza di Barak Obama, oppure che abbia incominciato a preoccuparsi delle ripercussioni politiche di un processo diplomatico di così ampia portata. Ma se non è così e il documento rappresenta davvero la sua intenzione, allora sarebbe opportuno che dichiarasse all’opinione pubblica che crede nella soluzione dei due Stati, che è disposto ad un compromesso sui territori e comprende che l’espansione delle colonie deve essere fermata. Ciò renderebbe più facile riportare Israele sulla via della normalità e tendere la mano in pace ai nostri vicini. La stessa mano potrebbe dare l’addio al partito dei coloni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La tormenta gialla in Israele

Nota redazionale: Nel giugno 2016 lo scrittore peruviano e premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ha scritto una serie di reportage dalla Palestina per il quotidiano spagnolo “El País”. Dal suo viaggio è stato tratto anche il documentario “Cinco días con Mario” (“Cinque giorni con Mario”).

I redattori di Zeitun non condividono alcune affermazioni contenute in questi testi per quanto riguarda i giudizi su Israele (tra cui ad esempio le notazioni finali sulle virtù del Paese, che ignorano il fatto che il 20% dei cittadini israeliani, soprattutto non ebrei, si trova sotto il livello di povertà ed il razzismo che colpisce tuttora gli ebrei sefarditi e quelli etiopi: vedi http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4753118,00.html; https:// en. wikipedia. org/wiki/Racism_in_Israel) e su alcuni degli scrittori che vengono qui definiti “pacifisti” (Grossman e Oz, che in varie occasioni hanno appoggiato le iniziative militari di Israele). Ritengono tuttavia importante tradurre e diffondere questi reportage, sia per l’autorevolezza dell’autore, sia perché contengono una esplicita denuncia dell’occupazione israeliana.

Le traduzioni che seguono includono due articoli di presentazione scritti dal giornalista de “El País” Juan Cruz e i reportage di Vargas Llosa.

Mario Vargas Llosa visita la Cisgiordania e scrive del dramma dei territori occupati

El País – Gerusalemme, 19 giugno 2016

Juan Cruz

L’agenda degli impegni di Mario Vargas Llosa, che ha 80 anni, è stata quasi quella di un inviato di guerra, e lui stesso la presenterà divisa in vari episodi su “El País” attraverso la pubblicazione di vari reportage a partire dal 30 giugno. Inoltre l’esperienza è stata raccolta da “El País TV” in un documentario che sarà trasmesso anche dalla rete del giornale.

Infatti l’esperienza è stata molto intensa. Sia la sua che la nostra, che l’abbiamo potuto accompagnare. Abbiamo visto come si alzava alle 4 del mattino per assistere alle code dei lavoratori palestinesi che devono attendere ore davanti al cancello implacabile in un checkpoint per entrare a lavorare in Israele, o come saliva e scendeva dalle strade o dai sentieri o dalle grotte impraticabili dei villaggi in cui i palestinesi resistono, o come si andava a cercare le informazioni di cui aveva bisogno per poi redigere il suo racconto. Avendo assistito al suo modo di fare non solo si capisce come ha fatto a scrivere alcuni dei suoi libri più famosi, ma anche come mantiene in forma la sua idea dell’impegno dello scrittore con la realtà. Non è affatto frequente che un premio Nobel della letteratura, autore di romanzi come “Conversazione nella ‘cattedrale'” o “La festa del caprone”, si dedichi a un esercizio di questo tipo.

David Grossman è uno dei grandi scrittori israeliani. Era un giovane giornalista della radio ufficiale nel 1987 quando decise di abbandonare la routine delle notizie per addentrarsi nel dramma provocato dagli insediamenti dei coloni nei territori occupati della Palestina fin dalla guerra del 1967.

In 20 anni nessuno scrittore vi si era avvicinato. Ora un’alta percentuale di israeliani non sa cosa succede in quella zona, dove si sviluppa quella che allora Grossman (Gerusalemme, 1954) vide come un’aggressione ai diritti umani. La situazione è peggiorata. Il risultato di quella visita fu un libro, “Il vento giallo”, che commosse milioni di lettori e provocò la sua espulsione dalla radio e l’ostilità di alcuni dei suoi colleghi. Quest’opera di Grossman è servita a far in modo che ora un gruppo di scrittori diano seguito con i propri testi all’esperienza drammatica dello scrittore israeliano. Tra questi c’è il premio Nobel Mario Vargas Llosa, che ha appena finito di rivisitare i territori occupati della Cisgiordania.

Ci furono comandanti dell’esercito, principale responsabile di quell’aggressione ai diritti umani dei palestinesi, che consigliarono ai propri ufficiali di leggere anche “Il vento giallo”. Yehuda Shaul, che ora ha 33 anni, non ha avuto bisogno che glielo consigliassero i suoi superiori: lo lesse quando era ancora sergente operativo a Hebron, una delle metafore della politica di colonizzazione israeliana, e trovò che quello che raccontava Grossman sulla discriminazione razziale, politica e civile dei palestinesi doveva essere denunciato.

Egli, con Miki Kratsman, ebreo argentino, che arrivò in Israele a 12 anni e qui è diventato fotografo e professore, ha creato “Breaking the silence” (Rompere il silenzio) il 12 marzo 2004. Formata da soldati di leva, l’organizzazione decise di raccogliere testimonianze anonime di militari la cui identità mantengono segreta. Lo scandalo è stato tanto grande quanto le minacce che ora si sono intensificate contro di loro. Con la tranquillità di un veterano (ha 57 anni), Miki Kratsman dice che il livello di questa repressione aumenterà. E le prove che ne hanno a “Breaking the silence” sono schiaccianti. “Però non ci arrendiamo. Vinceremo,” dice Shaul.

“La lotta è contro le colonie. Non è contro Israele”, continua: “Sono un patriota, un sionista, la mia è una famiglia conservatrice, ho 10 fratelli, alcuni sono coloni; non andrei dove ci sono coloni, ma non voglio che i miei nipoti crescano senza di me né io voglio vivere senza di loro. Per cui vado a trovarli.” La sua è una lotta etica: né lui né Miki né le circa 50 persone che costituiscono il loro gruppo, né i mille collaboratori che in un modo o nell’altro partecipano alla loro lotta (molti dei quali militari che hanno testimoniato il lato oscuro del loro lavoro), sono contro lo Stato di Israele. Vogliono che finisca la discriminazione contro i palestinesi.

 Rappresaglie

I documenti che denunciano le forze armate sono stati controllati dalla censura militare. Non hanno niente da temere in merito alla legittimità della loro lotta, però questo non basta per essere sicuri che non patiranno rappresaglie.

Questa lotta ha molto a che vedere con quel libro di Grossman. Per dargli continuità, questo lettore che è stato militare e ora confessa di non essere pacifista (“darei la mia vita per Israele”) ha concepito un progetto a cui lui e i suoi dedicano una passione irrefrenabile: convocare scrittori da tutto il mondo perché testimonino quello che Grossman ha già scritto tempo addietro. Il libro uscirà nel maggio 2017 in tutto il mondo e non ha ancora un titolo. Allora sarà passato mezzo secolo di occupazione.

Mario Vargas Llosa è uno di loro. Collaboratore de “El País”, reporter in Iraq, in Israele e in altre parti del mondo, ha attraversato in quest’ultima settimana quei territori occupati per condividere le informazioni che hanno sia i palestinesi espulsi dalla loro terra, che vivono una vita stentata in alcuni villaggi o città (come Hebron) che ora sono luoghi tanto fantasmatici come il “Pedro Páramo” di Juan Rulfo [scrittore messicano. Il romanzo si svolge in un villaggio fantasma. Ndtr.], sia quelli che sono coloni di quegli stessi territori.

Il libro di Grossman si intitolava “Il vento giallo” perché in Israele il giallo è il colore dell’odio. Quello che adesso vuole “Breaking the silence” è sradicare questo colore dalle relazioni difficili, politicamente impossibili, umanamente degradanti tra israeliani e palestinesi, questi ultimi condannati a vivere all’ultimo posto della storia.

 Il colore dell’odio

Alcuni dei rappresentanti di BTS (come lo stesso Shaul, come Morial Rothman-Zecher, un giovane di 26 anni che ha studiato Scienze Politiche, ha rinunciato al servizio militare ed ha pagato per questo) parlano arabo e cercano di smentire quel colore di odio che segna lo stupore con cui quasi 40 anni fa Grossman ha disegnato il corpo e l’anima di questo conflitto.

Loro hanno invitato Vargas Llosa (e Colm Tóibín, Colum McCann [scrittori irlandesi. Ndtr] e fino a 26 autori tra poeti, narratori o saggisti di tutto il mondo, compresi Israele e Palestina) perché vedano questa lotta etica e ottengano le testimonianze degli abitanti dei territori occupati. Questi scrittori stanno arrivando.

L’autore de “La zia Giulia e lo scribacchino” ha raccontato a “El País TV” che la prima volta che è venuto in Israele è stato nel 1974, ” e allora ero ancora di sinistra”. Quell’Israele lo affascinò, perché esprimeva ideali di giustizia sociale che facevano parte dell’ideologia della sinistra di cui egli faceva parte. Il fenomeno delle colonie ha smentito in seguito quell’immagine.

Né lui né quelli che lo hanno invitato mettono in dubbio lo Stato di Israele; egli dirà, nelle puntate del suo reportage (che iniziano a pubblicarsi ne “El País” dal prossimo giovedì 30 giugno [2016]), come ha visto questo problema ed altri sollevati dalla questione cruciale delle colonie.

Quello che “Breaking the Silence” mette in discussione, e per questo l’organizzazione lavora perché finisca l’odio tra palestinesi ed israeliani, è che ci siano cittadini condannati a vivere come esseri senza diritti elementari nel territorio comune, in Cisgiordania, a Gerusalemme, in tutte le zone in cui i coloni ricevono una protezione negata ai palestinesi espulsi dalle loro terre.

Il libro che ha ispirato questa lotta è “Il vento giallo”. Il nuovo libro, al quale lavora “Breaking the Silence” e per questo hanno invitato Vargas Llosa e gli altri, deve ancora essere definito. Abbiamo prospettato allo stesso Grossman, che tanto ha segnato Shaul e i suoi compagni, se quel vento potrebbe essere adesso una tempesta: “Sì, probabilmente”, ha affermato.

Qui il giallo è il colore dell’odio. Persino i più ottimisti credono che Israele viva la continuazione pericolosa di una lunga tormenta gialla. “Breaking the Silence” è nato per rompere il silenzio che ha stimolato questo odio. E insiste nel voler rompere l’origine di questa tormenta.

Vargas Llosa racconta “i disastri dell’occupazione”.

El País-30 giugno 2016

di Juan Cruz

Il Nobel racconta l’esperienza del suo incontro con la realtà dei territori occupati in Cisgiordania.

Gideon Levy, uno dei maggiori giornalisti israeliani, ha apostrofato Mario Vargas Llosa, quando lo ha visto con il notes in mano, mentre entrava a Hebron, questo luogo che l’occupazione israeliana ha trasformato in una luce spenta.

Cosa ci fai tu qui?

Poi i due si sono messi a camminare per Hebron fino ad arrivare ad un promontorio sul quale un circolo culturale palestinese ha ricevuto il premio Nobel e i suoi accompagnatori intorno a un vecchio ulivo a cui era avvolto uno striscione di tela: “Free Palestine”. Il Nobel ha preso il suo libretto degli appunti, con in testa il cappello che lo proteggeva dal sole, e ha preso nota di quello che stava ascoltando. Non si è mai separato del suo block notes. Prendeva appunti con l’impegno e la costanza di un reporter perso in un buco del mondo. Voleva sapere quello che succede per poterlo raccontare a una società che, come gli hanno detto, sa di Israele e Palestina solo quando ci sono attentati, intifada e scontri che iniziano con lanci di pietre o coltelli e finiscono con tumulti che poi diventano le prime pagine dei giornali o dei servizi televisivi in tutto il mondo.

Lì gli hanno raccontato questa parte del problema. Quando la conversazione è diventata più informale ed erano le sette di sera ad Hebron, i palestinesi, gli israeliani che accompagnavano Vargas Llosa e noi giornalisti de “El País” che lo abbiamo seguito in questo viaggio abbiamo visto, sul computer di uno dei palestinesi, il finale della partita Repubblica Ceca -Spagna, quello del gol di Piqué.

Tutti, compreso Gideon, anche se all’inizio era convinto che la Repubblica Ceca fosse la Spagna (“Come gioca male la Spagna” ha detto), hanno applaudito il gol del catalano. Quando stavano tornando a Gerusalemme, per continuare il viaggio, il Nobel Vargas Llosa, , ha ricevuto un altro saluto da Gideon Levy, che si congedava:

– Grazie, Mario, per essere venuto a raccontarlo.

Glielo hanno detto altre volte. Però questa volta glielo diceva un giornalista che conosce molto da vicino sia quello che il governo israeliano ha fatto nei territori occupati (ha lavorato in stretto contatto con Simon Peres, ex-presidente di Israele) sia quello che pensa la società civile (intellettuali, scrittori) di entrambi i lati (israeliani, palestinesi) su questo dualismo di odio da una parte e di odio dall’altra che si è andato costruendo durante più di mezzo secolo in questa parte difficile del Medio Oriente, come un muro che qualcuno vuole rompere. Tra costoro, quelli che hanno invitato Vargas Llosa a fare questo viaggio, che vogliono mitigare un odio che ormai sembra eterno.

“Buchi neri”

Il premio Nobel peruviano è stato varie volte in Israele e in Palestina, come in Iraq o in Afghanistan o in Congo, cercando “in quei buchi neri del mondo”, come dice Carlos Granés, uno dei suoi esegeti, “le radici dei conflitti, per cercare di aiutare a capirli, al di fuori di quei difficili abissi.”

Dieci anni fa il Nobel peruviano ha conosciuto Yehuda Shaul, che all’epoca era un giovane ex-sergente israeliano di ventitre anni che aveva contribuito a fondare ” Breaking the silence” (Rompere il silenzio), un’organizzazione inconsueta in questo Paese in guerra: sergente proprio a Hebron, Yehuda aveva annotato nella sua mente le atrocità a cui le autorità civili israeliane obbligavano i militari in servizio nei territori occupati e volle mettere insieme commilitoni che avevano provato lo stesso orrore di fronte alle nefandezze che avevano visto.

Nel suo “Pietra di paragone” di quest’ultima domenica, Vargas Llosa ne “El País” ha raccontato questo incontro e quello che ne è seguito fino a culminare nella visita che da domani racconterà qui.

Le sue cronache si intitolano “I disastri dell’occupazione” e si pubblicheranno il 1, il 2 e il 3 luglio, su due pagine in cui i lettori seguiranno i suoi incontri nei territori occupati e anche nei confini interni (i checkpoint) di questo territorio tanto complicato… Inoltre www.elpais.com offrirà da questa sera un documentario realizzato dall’equipe de “El País Video” in cui si raccolgono le esperienze del Nobel. Egli ha detto che uno scrittore non ha altro potere che la sua parola, e se questa gli serve per far conoscere quello che succede nei posti che ha visitato, onora il suo impegno morale.

Il giornalista e scrittore peruviano Alonso Cueto (a cui Vargas ha dedicato il suo ultimo romanzo, “Cinque angoli”) diceva ieri a proposito del giornalismo del Nobel: “Fa giornalismo in modo appassionato, come i suoi romanzi: continua a pensare che le parole sono azioni, e scrivere per lui è un’attestazione etica. E va in luoghi pericolosi, come l’Iraq, come l’Afghanistan, come questi territori in cui ha viaggiato ora, perché le persone che vivono vicino al pericolo rappresentano l’umanità in senso morale.” Granés aggiunge: “Va in luoghi di conflitti dalla cui soluzione dipende in buona misura il futuro del mondo.”

Questo era ciò di cui lo ringraziava Gideon Levy, che fosse lì a raccontarlo.

I giusti di Israele

Molti israeliani dedicano i propri sforzi a denunciare le ingiustizie sofferte dai palestinesi, senza preoccuparsi delle minacce, degli insulti o delle accuse di tradimento

El País

Mario Vargas Llosa – 26 giugno 2016

Yehuda Shaul ha 33 anni ma ne dimostra 50. Ha vissuto e vive con tale intensità che divora gli anni, come fanno i maratoneti con i kilometri. E’ nato a Gerusalemme, in una famiglia molto religiosa ed è uno di 10 fratelli. Quando l’ho conosciuto, 11 anni fa, portava ancora la kippah [il copricapo tipico degli ebrei osservanti. Ndtr.]. Era un giovane patriota, che deve essere stato molto bravo nell’esercito quando faceva il servizio militare perché, dopo i tre anni obbligatori, Tsahal [l’esercito israeliano. Ndtr] gli ha proposto di continuare un corso per reparti speciali ed è rimasto un anno in più a fare il militare, come sergente. Al ritorno alla vita civile, come molti altri giovani israeliani, ha viaggiato in India, per schiarirsi le idee. Lì ha riflettuto e ha pensato che i suoi compatrioti ignorassero le cose orribili che l’esercito commetteva nei territori occupati e di avere l’obbligo morale di farglielo sapere.

Per questo Yehuda e un fotografo, Miki Kratsman, il 1 marzo 2004 hanno fondato Breaking the Silence (Rompendo il silenzio), un’organizzazione che si dedica a raccogliere testimonianze di soldati congedati e in servizio (la cui identità rimane segreta). In incontri e pubblicazioni destinate a informare il pubblico, in Israele e all’estero, presentano la verità su quanto avviene in tutti i territori palestinesi che sono stati occupati dopo la guerra del 1967. (L’anno prossimo saranno passati 50 anni di occupazione). Prima di essere resi pubblici, i testi ed i video vengono controllati dalla censura militare, perché Yehuda e i suoi circa 50 collaboratori non vogliono violare la legge. Le testimonianze raccolte superano il migliaio.

Fino a relativamente poco tempo fa, grazie alla democrazia che regnava nel Paese per i cittadini israeliani, Breaking the Silence poteva operare senza problemi, anche se molto criticata dai settori nazionalisti e religiosi. Però da quando è entrato in carica l’attuale governo – il più reazionario ed estremista della storia di Israele – si è scatenata una durissima campagna contro i dirigenti dell’associazione, accusandoli di essere dei traditori e chiedendo che siano messi fuorilegge, in Parlamento, da parte di ministri e leader politici e sui giornali. Sulle reti sociali abbondano gli insulti e le minacce contro i suoi fondatori. Yehuda Shaul non si lascia intimidire e non pensa di fare alcuna concessione. Dice di essere un patriota e un sionista e di essersi impegnato in quello che fa non per ragioni politiche ma morali.

Nella millenaria storia ebraica c’è una tradizione che non si è mai interrotta: quella dei giusti. Quegli uomini e quelle donne che, di tanto in tanto, emergono nei momenti di transizione o di crisi e fanno sentire la propria voce, controcorrente, indifferenti all’impopolarità e ai pericoli che corrono agendo in quel modo, per esporre una verità o difendere una causa che la maggioranza, accecata dalla propaganda, la passione o l’ignoranza, si rifiuta di accettare. Yehuda Shaul è uno di loro, ai giorni nostri. E, per fortuna, non è l’unico.

C’è ancora, imperterrita, la giornalista Amira Hass, che se n’è andata a vivere a Gaza per soffrire sulla sua carne le miserie dei palestinesi e documentarle giorno dopo giorno nelle sue cronache su “Haaretz” [attualmente Amira Hass vive a Ramallah, in Cisgiordania. Ndtr.] . Devo a lei aver passato, qualche anno fa, nell’asfissiante e sovraffollata trappola per topi che è la Striscia, una notte indimenticabile in casa di una coppia di palestinesi che si dedica al lavoro sociale. E il suo collega Gideon Levy, instancabile scrittore, che incontro, dopo parecchio tempo, sempre a lottare per la giustizia con la penna in mano, anche se con l’animo meno forte di una volta perché attorno a lui si riduce ogni giorno di più il numero dei difensori della razionalità, della convivenza e della pace e crescono senza tregua i fanatici delle verità uniche e del Grande Israele che avrebbe niente meno che l’appoggio di Dio.

Però in questo viaggio ne ho conosciuti altri, non meno limpidi e coraggiosi. Come Hanna Barag che, alle cinque del mattino, all’incrocio di Qalandia, pieno di cancellate, videocamere e soldati, mi ha mostrato l’agonia dei lavoratori palestinesi che, pur avendo il permesso ed il lavoro a Gerusalemme, devono aspettare ore ed ore prima di poter andare a guadagnarsi da vivere. Hanna e un gruppo di donne israeliane si piazzano tutte le mattine all’alba di fronte a queste recinzioni, per denunciare i ritardi ingiustificati e protestare contro gli abusi che vi si commettono. “Cerchiamo di arrivare fino agli alti gradi,” mi dice, indicando i soldati, “perché questi non ci stanno neanche a sentire.” E’ un’anziana minuta e piena di rughe, ma nei suoi occhi chiari brillano una luce e una dignità accecanti.

Ed è un giusto, benché neppure lo sospetti, anche il giovane Max Schindler, che ho conosciuto a Susiya, un villaggio miserabile nelle montagne a sud di Hebron; è molto timido e devo tirargli fuori a forza cosa ci fa lì, circondato da bambini affamati, in questo luogo fuori dal mondo a cui i coloni delle vicinanze vengono a tagliare gli alberi e a distruggere i raccolti, e a volte a picchiare gli abitanti, e sulle cui misere case pesa un ordine di demolizione. E’ un volontario che è venuto a vivere – o meglio a sopravvivere – a Susiya per qualche mese e dedica il proprio tempo a insegnare l’inglese agli abitanti del paese. “Vorrei che sapessero che c’è un altro Israele,” mi dice, indicando gli abitanti.

Sì, ci sono i giusti, molti, anche se non sono tanti da vincere le elezioni. La verità è che, da anni, le perdono, una dietro l’altra. Ma non si lasciano abbattere da queste sconfitte. Sono medici ed avvocati che vanno a lavorare nei villaggi semi-abbandonati e a difendere le vittime dei soprusi nei tribunali, o giornalisti, o attivisti dei diritti umani che registrano le violenze ed i crimini e li espongono all’opinione pubblica.

Per esempio c’è un’associazione di fotografi, formata da ragazze e ragazzi molto giovani, che fissano in immagini tutti gli orrori dell’occupazione. Mi seguono ovunque vado e non gli importa di camminare in mezzo alla spazzatura puzzolente e di scottarsi per il calore nel deserto, se possono documentare con immagini tutto quello che l’Israele ufficiale nasconde e i benpensanti non vogliono sapere. Ma, benché i giornali ufficiali non pubblichino le loro foto, loro le espongono in piccole gallerie, in pannelli nelle strade, in pubblicazioni semiclandestine. Quanti sono? Migliaia, ma non abbastanza da cambiare questo movimento dell’opinione pubblica che sta spingendo sempre più Israele verso l’intransigenza, come se essere la prima potenza del Medio Oriente – e, a quanto pare, la sesta del mondo – fosse la miglior garanzia per la sua sicurezza.

Sanno che non è così, che, al contrario, trasformarsi in un Paese coloniale, che non ascolta, che non vuole negoziare né fare concessioni, che crede solo alla forza, ha fatto sì che Israele perda l’ aura prestigiosa e onorevole che aveva e che il numero dei suoi avversari e dei suoi critici, invece di diminuire, aumenti ogni giorno.

Due giorni prima di partire, ho cenato con altri due giusti: Amos Oz e David Grossman. Sono scrittori magnifici, vecchi amici ed entrambi infaticabili difensori del dialogo e della pace con i palestinesi. I tempi che affrontano sono difficili, ma non si lasciano abbattere. Scherzano, discutono, raccontano aneddoti. Dicono che, tirando le somme, nessuno potrebbe vivere fuori da Israele. Gideon Levy e Yehuda Shaul, che sono anche loro lì, si dichiarano d’accordo. Finalmente, per fortuna, è la prima volta, in tutti i giorni in cui sono stato qui, che un gruppo di israeliani concorda totalmente su qualcosa.

I villaggi condannati

Il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In questo primo articolo si concentra su alcuni villaggi del sud della Cisgiordania

El País

Mario Vargas Llosa – 1 luglio 2016

“Il principale problema di Israele è uno solo, le colonie in Cisgiordania, cioè l’occupazione dei territori palestinesi”, mi dice Yehuda Shaul. “L’anno prossimo sarà passato mezzo secolo. Però c’è una soluzione e la vedrò messa in pratica prima di morire.”

Rispondo al mio amico israeliano che bisogna essere molto ottimisti per credere che un giorno più o meno vicino i 370.000 coloni che si trovano nella terra invasa della Cisgiordania – veri bantustan che circondano i 2.700.000 abitanti delle città palestinesi e le separano le une dalle altre – possano andarsene da lì in nome della pace e della coesistenza pacifica. Però Yehuda, che lavora instancabilmente per far conoscere quello che la grande maggioranza dei suoi concittadini si rifiuta di vedere, la tragica situazione in cui vivono i palestinesi della sponda occidentale del Giordano, mi dice che forse sarò meno scettico dopo il viaggio che faremo insieme, domani, verso i villaggi palestinesi delle montagne a sud di Hebron.

Ci siamo già stati sei anni fa, noi due, tra queste montagne sul confine della Cisgiordania. Ed è vero, il villaggio di Susiya, che allora aveva 300 abitanti e sembrava destinato a scomparire come altri della zona, ora ne ha 450, perché, nonostante le calamità di cui continua ad essere vittima, un buon numero di famiglie che erano fuggite sono tornate; anche loro, come Yehuda, godono di un ottimismo a prova di atrocità.

Perché le persecuzioni di cui sono vittime Susiya e i villaggi vicini da molti anni non sono terminate, al contrario. Mi mostrano la recente demolizione delle case, i pozzi di acqua riempiti di pietre e spazzatura, gli alberi tagliati dai coloni e persino i video delle aggressioni di costoro – con armi e bastoni – contro gli abitanti che hanno potuto riprendere, così come gli arresti ed i maltrattamenti che ricevono dall’IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano. Ndtr.]). Nella casa comunale, una delle poche abitazioni ancora in piedi, chi fa le veci del sindaco, Nasser Nawaja, mi mostra gli ordini di demolizione che, come spade di Damocle, pendono sulle costruzioni ancora non distrutte dai bulldozer dell’occupante. Le formalità vanno rispettate: questa zona è stata scelta per esercitazioni militari dell’IDF ed i villaggi dovrebbero sparire (ma non le colonie né gli avamposti dei coloni che sorgono dappertutto nei dintorni). A volte il pretesto è che le fragili abitazioni sono illegali, perché non hanno il permesso di costruzione. “E’ una cosa da pazzi – mi dice Nasser -; quando chiediamo permessi edilizi per costruire o ripristinare i pozzi d’acqua ce li rifiutano, e poi ci demoliscono le case perché sono state costruite senza autorizzazione.” In questo villaggio, come negli altri dei dintorni, i contadini e i pastori non vivono in case ma in fragili tende costruite con teloni e lamiere o nelle grotte – ce ne sono molte nella zona – che i soldati non hanno ancora reso inutilizzabili riempiendole di pietre e spazzatura.

Nonostante tutto, gli abitanti di Susiya e di Yimba, i due villaggi che ho visitato, continuano a stare lì, resistendo alle persecuzioni, appoggiati da alcune ONG e da organizzazioni israeliane di solidarietà, come “Breaking the Silence” (“Rompere il silenzio”), di cui Yehuda è membro e che mi ha invitato qui. A Susiya ho conosciuto un giovane molto simpatico, Max Schindler, ebreo statunitense; è venuto come volontario a vivere qualche mese in questo luogo ed insegna inglese ai bambini del villaggio. Perché lo fa? “Perché vedano che non tutti gli ebrei sono uguali.” In effetti, ce ne sono molti come lui – i giusti di Israele – che li aiutano a presentare ricorsi ai tribunali, che vengono a vaccinare i bambini, che protestano contro le sopraffazioni, e tra questi, scrittori come David Grossman e Amos Oz, che firmano manifesti e si mobilitano chiedendo di porre fine agli abusi e che si lascino vivere in pace questi villaggi.

“850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani fanno la guardia nella Città Vecchia blindata.”

Una dichiarazione di questo tipo, promossa da loro, qualche mese fa ha salvato- per il momento – dalla distruzione Yimba, un villaggio antichissimo, anche se sono state demolite 15 case. Ora sta aspettando un’ultima decisione della Corte Suprema sulla sua esistenza. Ha un’enorme grotta, ancora indenne, che, mi garantiscono, è dell’epoca romana. Allora il villaggio si trovava ai bordi del sentiero – si può ancora seguire il suo tracciato nell’aspro deserto di pietre, polvere e stoppie che ci circonda – che portava i pellegrini alla Mecca; allora Yimba era prospero grazie ai suoi negozi per i rifornimenti e i ristoranti. Ora la sua antichità nasconde un rischio: che, siccome si tratta di un luogo archeologico, le autorità israeliane decidano che debba essere spopolato perché gli archeologi possano recuperare i tesori storici del suo sottosuolo. Le lamentele sono le stesse che ho sentito a Susiya: “Appena riescono a cacciarci con questo pretesto, arriveranno i coloni; loro sì che possono convivere con i resti archeologici senza alcun problema.”

Come a Susiya, ho visitato Yimba circondato da bambini scalzi e scheletrici, che tuttavia non hanno perso l’allegria. Una bambina, soprattutto, con occhi birichini ride a crepapelle quando vede che non sono capace di pronunciare il suo nome arabo come si deve.

Basta esaminare una mappa dei territori occupati per capire la ragione delle colonie: circondano tutte le grandi città palestinesi e bloccano i contatti e gli scambi, allo stesso tempo stanno espandendo la presenza israeliana e scomponendo e frazionando il territorio che si suppone dovrebbe occupare il futuro Stato palestinese fino a renderlo impossibile. C’è una chiara intenzione in questa strategia: con la proliferazione delle colonie rendere irrealizzabile quella soluzione dei due Stati che, tuttavia, i dirigenti di Israele dicono di accettare. Sennò non si capisce perché tutti i governi, di centro, di sinistra e di destra, con l’unica eccezione dell’ultimo governo di Ariel Sharon, che nel 2005 ritirò le colonie israeliane da Gaza, abbiano permesso, e continuino a farlo, l’esistenza e l’espansione sistematica di colonie illegali – laiche, socialiste e molte di religiosi ultrà – che sono un motivo permanente di frizione e danno la sensazione ai palestinesi di vedere ridursi progressivamente il già ridotto spazio della Cisgiordania che hanno a disposizione.

Non ho la pretesa di leggere nella mente nascosta dell’elite politica israeliana. Ma basta seguire nella mappa il modo in cui negli ultimi decenni le occupazioni illegali ed il famoso “muro di Sharon” stanno mutilando i territori palestinesi, per avvertire in questo una politica tacita o esplicita che non ha mai cercato di affrontare queste occupazioni e, semmai, le stimola e le protegge. Non è solo un motivo costante di scontri con i palestinesi, è una realtà che fa pensare a molti che ormai sia impossibile mettere in pratica la formazione di due Stati sovrani, una cosa che, tuttavia, come una giaculatoria priva di verità, nient’altro che chiasso, l’ONU e i governi occidentali ancora promuovono.

Probabilmente, tra le spoliazioni che queste colonie comunque comportano, nessun caso è tanto drammatico come i cinque insediamenti eretti nel cuore di Hebron: 850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani montano la guardia nella Città Vecchia, che è stata blindata, le sue strade “sterilizzate” (secondo la definizione ufficiale) – chiusi tutti i suoi negozi, le porte d’ingresso delle case, tutte le attività commerciali – in modo che camminare da quelle parti è percorrere una città fantasma, senza gente e senz’anima. Undici anni fa sono andato a zonzo per queste strade morte; l’unica cosa che è cambiata è che sono scomparsi gli insulti razzisti contro gli arabi che ne decoravano i muri. Però dappertutto compaiono sempre le barriere con i soldati e continua la proibizione agli arabi di circolare in macchina nelle strade del centro, il che li obbliga a fare lunghissimi giri attraverso i campi per passare da un quartiere all’altro. Gli israeliani che mi accompagnano – sono quattro – mi dicono che il peggio di tutto è che ora ormai nessuno parla più dell’orrore rappresentato da Hebron e delle terribili ingiustizie che lì si commettono contro 200.000 abitanti in apparenza per proteggere 850 invasori.

I bambini terribili

Il premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In un secondo reportage il Nobel descrive, attraverso quello che ha ascoltato in un tribunale militare israeliano che giudica palestinesi dai 12 ai 17 anni di età che attentano contro la sicurezza, come funziona un sistema per “prevenire il terrorismo seminando il panico.”

El País

Mario Vargas Llosa – 1 luglio 2016

Salwa Duaibis e Gerard Horton sono due giuristi – lei palestinese, lui anglo-australiano -, membri di un’istituzione umanitaria che controlla il modo di agire dei tribunali militari incaricati di giudicare in Israele giovani dai 12 ai 17 anni che attentano contro la sicurezza del Paese. La mattinata che ho passato con loro a Gerusalemme è stata una delle più istruttive tra quelle che ho trascorso.

Lo sapevate che nel 2012 non è stato assassinato neanche un colono delle colonie della Cisgiordania? E che la media dei crimini contro i membri delle colonie negli ultimi cinque anni è solo di 4,8 all’anno, il che significa che i territori occupati sono più sicuri per loro di quanto lo siano New York, Città del Messico e Bogotà per i loro abitanti? Se si tiene conto che in Cisgiordania i coloni sono circa 370.000 (se si aggiungono quelli di Gerusalemme est sarebbero mezzo milione) e i palestinesi 2.700.000, non c’è nessun dubbio: si tratta di uno dei posti meno violenti del mondo, nonostante le sparatorie, le demolizioni, le azioni terroristiche e gli scontri di cui parlano i giornali.

“Senza dubbio un grande successo delle Forze di Difesa di Israele (IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.])” dice Gerard Horton. “Bisogna far loro i complimenti per questo?” Una cosa del genere si ottiene solo con un piano intelligente, freddo e messo in pratica in modo metodico. In cosa consiste questo piano per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti? In un programma di intimidazione sistematica, astutamente concepito e messo in atto in modo impeccabile. Si tratta di mantenere questa popolazione giovane, dai 12 ai 17 anni, psicologicamente instabile. Per lei ci sono tribunali speciali che i giuristi dell’organizzazione tengono sotto controllo. Il metodo consiste nel “dimostrare la presenza” dell’IDF in modo massiccio, la “cauterizzazione della coscienza” e “operazioni simulate di disturbo della normalità.” Questo gergo esoterico si può riassumere in una frase semplice: prevenire il terrorismo seminando il panico. (Questo metodo è diverso da quello applicato agli adulti e, soprattutto, ai sospetti terroristi: in questo caso si includono assassinii selettivi, torture, lunghissime pene detentive e demolizioni e confisca delle case).

L’esercito ha un ufficiale dell’intelligence per ogni zona della Cisgiordania e un’efficiente catena di informatori comprati con corruzione o ricatti, grazie ai quali compila liste dei giovani che partecipano alle manifestazioni contro l’occupazione e tirano pietre alle pattuglie israeliane. Le operazioni si svolgono in genere di notte, con soldati mascherati che si fanno precedere da un rumore assordante, lanciando a volte granate stordenti durante le irruzioni nelle case, rompendo oggetti, dando ordini e gridando, con l’obiettivo di spaventare la famiglia, soprattutto i bambini. Le perquisizioni sono imprevedibili, minuziose e complesse. Tappano gli occhi e mettono le manette al giovane o al bambino denunciato; se lo portano via steso sul pavimento del veicolo, mettendogli sopra i piedi o dandogli qualche calcio per spaventarlo. Nel centro per gli interrogatori lo lasciano per terra per cinque o dieci ore, per demoralizzarlo e spaventarlo con l’incerta attesa al buio. L’interrogatorio segue regole precise: consigliargli che si dichiari colpevole di tirare pietre, in modo che passerà solo due o tre mesi in carcere; in caso contrario, il processo può essere lungo, sette o otto mesi, e, se dichiarato colpevole, potrebbe anche essere condannato ad una pena peggiore. Reso debole in questo modo, gli si può proporre che faccia l’informatore. Se non è abbastanza disponibile, lo si avverte che potrebbe essere violentato o torturato, qualcosa a cui non è necessario arrivare, tranne in casi eccezionali. Per qualcuno, basta avvertirlo che il suo comportamento potrebbe obbligare l’esercito ad arrestare le persone a lui più care, la madre o una sorella, per esempio. In qualche caso il giovane o il bambino accetta la proposta; e quasi sempre esce da quell’esperienza piegato, confuso, sgomento e vergognandosi di se stesso. Secondo quelli che hanno ideato il metodo, questo stato d’animo riduce la sua pericolosità potenziale e lo fa diventare vulnerabile. E non è impossibile che questo penoso stato d’animo si trasmetta al resto della famiglia.

Per questo non è tanto importante identificare i colpevoli del lancio di pietre: l’obiettivo è introdurre nelle case e in tutti i villaggi, attraverso i bambini e gli adolescenti, insicurezza e preoccupazioni costanti. Oppresse dal timore di essere vittime di queste perquisizioni, in piena notte, con distruzioni di stoviglie, letti e utensili, che si portino via figli, fratelli o nipoti, le angosciate famiglie diventano meno pericolose. I divieti insensati, i continui coprifuoco, le improvvise ordinanze, che alterano la routine e aumentano lo spavento quotidiano, perseguono questo stesso scopo. La confusione ed il disordine impediscono, o per lo meno scoraggiano, le congiure. Grazie alle modalità improvvise e scenografiche delle perquisizioni e a tutta la messa in scena che le accompagna, la popolazione in genere rimane psicologicamente priva di mezzi per organizzarsi ed agire; in questo modo si riduce il rischio che rappresentino un serio pericolo per quelle colonie tanto ben armate, e, soprattutto, strategicamente tanto ben posizionate.

Gli abitanti dei villaggi e delle città aggrediti e frammentati dagli insediamenti ricevono divieti tassativi di mettere piede nel territorio delle colonie, il che li obbliga a fare lunghi percorsi per comunicare tra loro. I coloni, invece, sono collegati da moderne strade che in genere possono utilizzare solo i cittadini israeliani. L’isolamento dei villaggi e delle città palestinesi e la possibilità di comunicare rapidamente delle colonie è un’altra garanzia di sicurezza. E’ vero che, a volte, vengono commessi crimini orribili contro i coloni, però, se si va a verificare una statistica inumana, le vittime sono meno numerose di quelle che nel resto del mondo sono causate dagli incidenti stradali. Israele dimostra così che nel XXI° secolo si può essere un Paese colonialista ed al contempo molto sicuro.

Cosa succede quando questi bambini e giovani sono infine consegnati ai giudici? Per saperlo, accompagnato da Gerard Horton e Salwa Duaibis, ho passato qualche ora in un carcere nei dintorni di Gerusalemme, dove sono in attività i tribunali minorili presieduti da giudici militari. Entrare nell’aula del tribunale è un impegno lungo: bisogna sottomettersi a perquisizioni e percorrere corridoi recintati e con telecamere che mi hanno ricordato quello che ha rappresentato entrare, ed uscire, dalla Striscia di Gaza.

Ancora più interessante dei processi è stato chiacchierare con le madri ed i padri, o fratelli e sorelle, dei giovani palestinesi che erano processati. Una signora del villaggio di Beit Fajjar mi racconta che suo figlio, di 15 anni, ha passato sette mesi in carcere e che, la notte che i soldati lo hanno arrestato, hanno rotto tutto quello che c’era in casa. Ciononostante, i suoi occhi luccicano di allegria e sorride tutto il tempo: suo figlio ha terminato la condanna e spera che tra un minuto o un’ora (o due o tre) il giudice la chiami e le dica che se lo può riportare a casa.

Nessun’altra tra le persone che sono nell’aula dimostra la stessa gioia. Un uomo alto e malaticcio mi racconta che ha due figli in prigione – uno di 15 e l’altro di 17 anni – e che non è ancora riuscito a vederli. Ci mette tre giorni ad arrivare dal suo villaggio e non è neanche sicuro che oggi potrà parlare con loro. Lo accompagna una figlia, molto giovane e timida, che è stata picchiata dai soldati la notte che sono entrati rompendo a pedate la porta di casa sua, perché si era dimenticata di fargli vedere il cellulare che aveva in tasca e con cui forse li stava registrando.

I processi sono rapidi. Il o la giudice, in uniforme militare, parlano in ebraico e un ufficiale li traduce in arabo. Gli avvocati utilizzano l’arabo e sono tradotti in ebraico. Gli accusati, giovani semirapati e vestiti di nero, ascoltano in silenzio come si decide il loro destino. Improvvisamente, una ragazza, sorella di uno dei detenuti, si mette a piangere. Dal banco degli accusati, lui la implora con gli occhi e le mani di tranquillizzarsi, il suo pianto potrebbe peggiorare le cose.

La morte lenta di Silwan

In questo articolo descrive come avanzano le colonie in un quartiere di Gerusalemme est

El País

Mario Vargas Llosa – 2 luglio 2016

A differenza di altri quartieri di Gerusalemme, assolutamente puliti come quelli di una città svizzera o scandinava, gli abitanti palestinesi di Silwan, situato a est e limitrofo alla Città Vecchia e alla moschea di Al-Aqsa, rigurgita di spazzatura, pozzanghere puzzolenti e rifiuti. Temo che tanta sporcizia non sia casuale, ma piuttosto parte di un piano a lungo termine per cacciare progressivamente i 30.000 palestinesi che vivono ancora qui e rimpiazzarli con israeliani.

I coloni hanno iniziato ad infiltrarsi nel quartiere 11 anni fa dalla zona di Batan Al-Hawa. Quello che fino ad allora sembrava poco meno che casuale – gruppi di famiglie ultrareligiose che riuscivano a sistemarsi in una casa scelta a caso – ha preso le caratteristiche di un’operazione pianificata e con un chiaro obiettivo. I coloni che si sono installati nel quartiere di Silwan appartengono a due movimenti religiosi: Elad e Ateret Cohanim. Sono distribuiti in circa 75 case e non sono molti: circa 550. Ma si tratta di una testa di ponte, che, senza ombra di dubbio, continuerà a crescere. Il giorno successivo la mia visita al quartiere, è stato annunciato che le autorità di Israele avevano autorizzato la costruzione di un edificio nel quartiere per ospitare nuovi coloni di Ateret Cohanim.

Per sapere dove si trovano gli insediamenti basta guardare in alto: le bandiere israeliane, sventolando nella lieve brezza mattutina, indicano che hanno costituito un cerchio, come nel sud delle montagne di Hebron, all’interno del quale tutto il quartiere sta rimanendo incarcerato.

I modi con cui queste famiglie si impossessano di una casa sono diversi: sostenendo di possedere documenti antichi secondo i quali i proprietari erano ebrei; comprando un edificio attraverso un prestanome arabo; con atti ostili e minacce contro chi lo occupa fino a farlo scappare; presentando una denuncia nei tribunali perché decidano la demolizione di una casa in quanto non costruita con i necessari permessi, o, in casi estremi, approfittando di un viaggio o del fatto che i proprietari o gli inquilini sono usciti di casa per installarvisi a forza. Una volta che i coloni sono entrati, il governo israeliano manda la polizia o l’esercito a proteggerli, perché, chi potrebbe metterlo in dubbio, quelle gocce d’acqua degli invasori in mezzo a quel pelago di palestinesi sono in pericolo. Le gocce si trasformeranno in ruscelli, laghi, mari. I coloni religiosi che hanno messo radici qui non hanno fretta: l’eternità sta dalla loro parte. Così si sono progressivamente estese le enclave israeliane in Cisgiordania trasformandola in una groviera; così stanno crescendo anche nella Gerusalemme araba.

Si rispettano le forme, come nel resto della nazione: Israele è un Paese molto civile. A Batan Al-Hawa ci sono 55 famiglie palestinesi minacciate di espulsione, perché vivono in case che non hanno i documenti che ne garantiscano la proprietà e 85 immobili con ordine di demolizione, poiché, come al solito, sono state costruite senza ottenere i permessi adeguati.

Quando chiedo a Zuheir Rajabi, abitante e avvocato difensore palestinese del quartiere, che mi guida in questo percorso, se ha fiducia nell’onorabilità e nella neutralità dei giudici che devono pronunciarsi in merito, mi guarda come se fossi ancora più imbecille della mia domanda. “Abbiamo forse un’alternativa?”, mi risponde. E’ un uomo sobrio, che è stato varie volte in carcere. Ha tre figli di sette, nove e tredici anni che sono stati tutti e tre arrestati qualche volta. E una figlia, Darìn, di sei anni, che cammina attaccata a una delle sue gambe. La sua casa è circondata da due insediamenti ed ha ricevuto molte proposte di acquisto, per somme superiori al suo prezzo reale. Ma lui dice che non la venderà mai e che morirà nel quartiere; le minacce dei suoi vicini non lo spaventano.

Gli chiedo se i coloni installati a Silwan hanno figli. Sì, molti, ma escono molto di rado e generalmente scortati da poliziotti, soldati o dalla guardia privata che protegge gli insediamenti. Penso alla vita reclusa e terribile di quelle creature, chiuse in quelle case rubate, e a quella dei loro genitori e nonni, convinti che, perpetrando le ingiustizie che commettono, mettano in pratica un progetto divino e si guadagnino il paradiso. Naturalmente il fanatismo religioso non è patrimonio esclusivo di una minoranza di ebrei. Sono fanatici anche quei palestinesi di Hamas e della Jihad Islamica che si fanno a pezzi facendo scoppiare bombe in autobus o ristoranti, lanciano colpi di artiglieria sui kibbutz o cercano di accoltellare i soldati o pacifici passanti, senza capire che quei crimini servono solo ad allargare il solco, già molto grande, che separa e rende ostili le due comunità.

Improvvisamente, nel nostro girovagare per Silwan, Zuheir Rajabi mi indica un edificio di vari piani. E’ stato occupato tutto dai coloni, meno uno degli appartamenti, in cui rimane contro ogni avversità una famiglia palestinese di sette persone. Finora hanno resistito, nonostante il fatto che gli interrompano l’acqua, l’elettricità, che debbano suonare il campanello ai coloni per poter entrare ogni volta che escono in strada e, persino, che, quando aprono la finestra, li bombardino di spazzatura.

Mentre chiacchieriamo, senza che me ne sia reso conto, siamo stati circondati da ragazzini. Chiedo se qualcuno di loro è stato arrestato qualche volta. Quello che alza la mano ha una faccia birichina e sfrontata: “Io, quattro volte”. Ogni volta è stato solo un giorno e una notte; lo hanno accusato di tirare pietre ai soldati ed egli ha negato e negato e alla fine gli hanno creduto, per cui non lo hanno processato. Si chiama Samer Sirhan e suo padre ha avuto uno scontro con un colono, che gli ha sparato con la pistola e lo ha lasciato per la strada gravemente ferito. Nessuno lo ha soccorso per tutto il resto della notte e al mattino è morto, dissanguato.

Racconto queste storie tristi perché credo diano un’idea del problema più scottante che Israele deve affrontare: quello delle colonie, la crescente occupazione dei territori palestinesi che lo ha trasformato in un Paese coloniale, prepotente, e che ha fatto tanti danni all’immagine positiva e persino esemplare che ha avuto per molto tempo nel mondo.

Rimangono ancora molte cose di Israele da ammirare. Essersi trasformato, grazie al lavoro faticoso dei suoi abitanti, in un paese del primo mondo, con un livello di vita molto alto ed aver praticamente eliminato la povertà nella società israeliana grazie a politiche intelligenti, progressiste e moderne. E la maggior impresa che può vantare a proprio favore: aver integrato decine e decine di migliaia di ebrei provenienti da culture e costumi molti diversi, di lingue differenti, in una società in cui, nonostante l’unità della lingua ebraica che ne è il comune denominatore, coesistono fraternamente tutte, preservando la propria diversità (ditelo, sennò, al milione di russi che sono arrivati negli ultimi anni nel Paese).

Dalla prima volta che sono venuto in Israele, a metà degli anni ’70 del secolo scorso, ho sviluppato un grande affetto per questo Paese. Credo però che sia l’unico posto nel mondo in cui mi sento un uomo di sinistra, perché nella sinistra israeliana sopravvive l’idealismo e l’amore alla libertà che sono scomparsi in essa in buona parte del mondo. Con dolore ho visto come, negli ultimi anni, l’opinione pubblica locale stesse diventando ogni volta più intollerante e reazionaria, il che spiega che Israele abbia ora il governo più ultra nazionalista e religioso della sua storia e che le sue politiche siano ogni giorno sempre meno democratiche. Denunciarle e criticarle non è per me solo un dovere morale; è, allo stesso tempo, un atto di amore.

Gerusalemme, giugno 2016.

(Traduzione di Amedeo Rossi)