La Palestina accoglie positivamente il supporto dell’Unione Africana ai diritti palestinesi

Redazione di MEMO

21 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Il ministero palestinese degli affairi esteri e dei cittadini residenti all’estero ha accolto positivamente le decisioni che sono state prese nella dichiarazione finale della trentaseiesima sessione del vertice dell’Unione Africana (UA), tenutosi nella capitale etiope Addis Abeba, e in particolare il paragrafo relativo alla questione palestinese.

Il ministero ha ringraziato la UA e le Nazioni africane che hanno sostenuto la Palestina e hanno rifiutato la richiesta dello Stato di Israele di avere lo Stato di osservatore nell’organizzazione.

Nella sua dichiarazione di chiusura, l’UA ha confermato il pieno supporto delle Nazioni africane al popolo palestinese, guidato dal presidente Mahmoud Abbas, nella sua legittima lotta contro l’occupazione israeliana al fine di ristabilire i propri diritti inalienabili, incluso il diritto di autodeterminazione, il ritorno dei profughi e la costituzione di uno Stato indipendente e sovrano sui confini del 4 giugno 1967 con Gerusalemme Est come capitale.

I leader africani hanno anche rinnovato la loro richiesta di avviare un credibile processo politico per porre fine all’occupazione israeliana e per smantellare il suo regime di apartheid al fine di ottenere una pace giusta, complessiva e duratura in Medioriente per supportare gli sforzi dello Stato di Palestina per ottenere lo status di membro a pieno titolo delle Nazioni Unite e perché lo Stato di Israele venga ritenuto responsabile per i suoi crimini contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ai palestinesi di Gerusalemme serve molto di più che le condanne arabe

Jalal Abukhater

12 febbraio 2023 – Al Jazeera

I gerosolomitani affrontano occupazione e apartheid. Né forti dichiarazioni né promesse di denaro possono aiutarli.

Il 12 febbraio la Lega Araba ha tenuto una conferenza su Gerusalemme per dimostrare il sostegno degli arabi alla città occupata, suscitando grandi speranze dell’Autorità Palestinese (ANP). Il Presidente Mahmoud Abbas ha parlato delle sofferenze del popolo palestinese di Gerusalemme, dei loro diritti e della loro resilienza.

In vista dell’evento Fadi al-Hidmi, il ministro dell’AP per gli Affari di Gerusalemme, ha dichiarato che questa conferenza sarebbe stata “diversa” dalle precedenti, che avrebbe causato interventi che sarebbero stati avvertiti sul posto e che l’evento avrebbe messo la città occupata in cima all’“agenda araba”.

Ma questa nuova iniziativa della Lega Araba ha suscitato in molti gerosolomitani più che altro scetticismo. L’ultima volta che Gerusalemme è stata inclusa nel titolo di una loro riunione, il cosiddetto summit di Gerusalemme del 2018, per noi non è cambiato molto.

Il summit aveva rilasciato un comunicato dai toni forti in cui si respingeva il riconoscimento USA di Gerusalemme quale capitale di Israele e il trasferimento della sua ambasciata nella città occupata. Ciononostante solo due anni dopo parecchie nazioni arabe hanno firmato accordi di normalizzazione con quello stesso Israele sponsorizzato da quegli stessi USA.

Quei cosiddetti “Accordi di Abramo” danneggiano irrevocabilmente la causa palestinese e di riflesso Gerusalemme. Negli ultimi cinque anni successivi governi israeliani hanno accelerato l’ebraizzazione della città occupata con il deciso sostegno degli USA e la garanzia della normalizzazione con gli Stati arabi.

A Gerusalemme alcuni dei più brutali mezzi di pulizia etnica sono stati lo sfratto forzato e le demolizioni delle case, perpetrati contro gli abitanti palestinesi in violazione del diritto internazionale. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ci sono circa mille palestinesi che rischiano l’imminente minaccia di sfratto con vari pretesti giuridici. Le loro case saranno occupate da coloni israeliani o demolite.

Solo a gennaio sono state demolite dalle autorità israeliane 39 case e altri edifici civili palestinesi, spossessando circa 50 persone.

La spiegazione che il governo israeliano dà più spesso per questi atti criminosi è che gli edifici palestinesi non hanno i permessi rilasciati dallo Stato israeliano. Secondo le Nazioni Unite un terzo delle case palestinesi non ha queste autorizzazioni, il che mette a rischio di sfratto forzato in qualunque momento circa 100.000 abitanti.

Inutile dire il Comune di Gerusalemme raramente rilascia permessi ai palestinesi, mentre li rilascia prontamente agli ebrei israeliani e ai coloni ebrei. Dal 1967 sono state costruite oltre 55.000 unità abitative per ebrei nella Gerusalemme Est occupata.

L’anno scorso le autorità locali hanno approvato la costruzione di una nuova colonia illegale di 1.400 unità abitative in mezzo a due quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, Beit Safafa e Sur Baher, separandoli l’uno dall’altro. Questo è uno dei molti esempi di come Israele stia deliberatamente interrompendo la continuità territoriale palestinese ed eliminando ogni possibilità di realizzare la cosiddetta di soluzione dei due Stati che la Lega Araba continua a richiedere.

Lo Stato israeliano ha anche accelerato l’espansione delle infrastrutture che forniscono servizi alle colonie ebraiche illegali a Gerusalemme a scapito dei palestinesi.

Prendiamo per esempio la cosiddetta ‘Strada Americana’, un progetto di superstrada per collegare colonie illegali a sud, est e nord della Gerusalemme Est occupata. Attraverserà parecchi quartieri palestinesi come Jabal Al-Mukabber e causerà la demolizione di decine di case palestinesi.

Mentre sta intensificando lo sfratto forzato dei palestinesi nella Gerusalemme occupata, Israele sta anche facendo di tutto per rendere la vita invivibile a chi resta. In qualità di potenza occupante lo Stato israeliano ha l’obbligo, ai sensi del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani, di garantire il benessere della popolazione, ma non lo sta facendo.

Sebbene i palestinesi, proprio come gli israeliani, paghino le tasse allo Stato di Israele, essi non ottengono la stessa qualità di servizi. Infrastrutture e forniture essenziali in quartieri palestinesi sono trascurate poiché il comune israeliano di Gerusalemme alloca meno del 10% del suo budget agli abitanti palestinesi, che rappresentano più del 37% della popolazione della città.

Nel 2001 la Corte Suprema israeliana ha rilevato che a Gerusalemme Est le autorità israeliane stanno violando i loro obblighi giuridici di garantire un adeguato accesso all’istruzione ai palestinesi. Prevedibilmente nel ventennio successivo il problema non ha fatto che peggiorare e oggi, a causa della sistematica incuria israeliana, nelle scuole palestinesi mancano 3.517 aule.

Naturalmente i palestinesi non hanno strumenti legali per accertare la responsabilità delle violazioni da parte delle autorità israeliane. A loro non è permesso di votare alle elezioni politiche israeliane e di scegliere i propri rappresentanti. Al contempo il governo israeliano sta cercando di impedire loro di partecipare alla politica palestinese. Nel 2021, quando avrebbero dovuto tenersi le elezioni legislative palestinesi, Israele ha detto chiaramente che non avrebbe permesso agli abitanti palestinesi di Gerusalemme di votare.

I partiti politici palestinesi non possono agire liberamente a Gerusalemme. Si fa irruzione e si blocca ogni evento che si sospetti abbia dei legami con l’AP. Agli inizi di gennaio, per esempio, la polizia israeliana ha fatto un raid nel quartiere di Issawiya contro un comitato di genitori che si erano riuniti per discutere la carenza di insegnanti. Gli agenti israeliani li hanno informati che stavano interrompendo la riunione perché era “un summit terroristico”.

Peggio ancora, il governo israeliano ha anche ribadito che non è in alcun modo impegnato a rispettare lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme. Recentemente l’ambasciatore giordano è stato espulso con violenza dal complesso di Al-Aqsa dalla polizia israeliana, che ha deciso che non era autorizzato alla visita, nonostante il fatto che in base a un accordo riconosciuto a livello internazionale la Giordania abbia il diritto di amministrare quello stesso complesso e altri luoghi a Gerusalemme.

Secondo le norme della fondazione del waqf di Gerusalemme gestita dalla Giordania, ai non musulmani è permessa la visita ad Al-Aqsa solo in alcuni orari e solo se rispettano il luogo sacro. Ma negli ultimi anni si è assistito a un aumento di fedeli ebrei autorizzati dalla polizia israeliana a pregare ad Al-Aqsa, in violazione di tali norme. Contemporaneamente ai palestinesi musulmani provenienti da fuori Gerusalemme è regolarmente impedito di far visita ai loro luoghi sacri e di pregarvi.

Non sorprende neppure che, mentre si privano i palestinesi delle loro abitazioni, dei servizi e persino dell’accesso ai loro luoghi sacri, Israele stia anche inasprendo l’oppressione economica del popolo palestinese a Gerusalemme.

I gerosolomitani palestinesi sono afflitti da alti livelli di povertà e di insicurezza economica che si stanno solo aggravando. Si stima che a Gerusalemme Est il 77% dei palestinesi viva al di sotto della soglia di povertà a confronto del 23% degli abitanti ebrei di Gerusalemme Ovest.

A Gerusalemme le attività economiche palestinesi sono soffocate, poiché Israele aggrava il nostro isolamento dal resto della Palestina. Un sistema di muri e posti di blocco militari nega l’accesso a Gerusalemme a visitatori e clienti dalle vicine città gerosolomitane come Abu Dis, Al-Ram e Hizma così come dalla Cisgiordania e Gaza. Questo isolamento danneggia l’economia locale.

Inoltre i proprietari di attività palestinesi devono affrontare tasse esorbitanti senza alcun supporto dallo Stato israeliano o dall’AP. Secondo i media locali ciò ha causato in anni recenti la chiusura di almeno 250 negozi di proprietà palestinese.

In effetti Gerusalemme ha bisogno di aiuto anche finanziario. L’AP spera che la conferenza al Cairo aiuti a raccogliere fondi di cui c’è gran bisogno per sostenere i settori dell’istruzione, della salute e per dare all’economia locale una spinta essenziale con investimenti dall’estero.

Ma qualsiasi sostegno, se mai si materializzasse, porterebbe ai gerosolomitani solo un sollievo limitato e temporaneo. La nostra città soffre per la disoccupazione e l’apartheid. Abbiamo bisogno di iniziative sul fronte politico e ne abbiamo bisogno immediatamente. Forti condanne e comunicati non bastano.

È vero che noi gerosolomitani siamo famosi per la nostrasumud” (resilienza) e che, come durante la riunione della Lega Araba, essa dovrebbe essere celebrata in contesti internazionali. Ma sotto l’oppressione di uno spietato occupante stiamo raggiungendo i limiti della nostra sopportazione.

Jalal Abukhater, gerosolomitano, ha conseguito la laurea in Politica e Relazioni Internazionali presso l’università di Dundee.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione di Mirella Alessio)




A Gerusalemme non c’è nessuna spirale di violenza, solo un’oppressione mortale del mio popolo da parte di Israele

Jalal Abukhater

martedì 7 febbraio 2023 – The Guardian

Dalle demolizioni di case alla detenzione militare, la violenza che noi palestinesi affrontiamo quotidianamente riflette lo squilibrio di potere tra occupante e occupato

I bulldozer sono quasi quotidianamente in azione. Nei quartieri palestinesi di Gerusalemme, la mia città, le forze israeliane demoliscono case quasi ogni giorno. L’espropriazione e la discriminazione sono una realtà di lunga data qui nella parte orientale della città, da 56 anni sotto l’occupazione militare israeliana, ma con il nuovo governo israeliano di estrema destra Gerusalemme ha visto un picco di demolizioni: nel solo mese di gennaio sono stati distrutti più di 30 edifici.

Le notizie che giungono dalla nostra regione nelle capitali occidentali e nei media tendono a parlare prevalentemente di spargimenti di sangue e il popolo palestinese sta attraversando alcuni dei giorni più violenti, distruttivi e letali degli ultimi tempi. Nella Cisgiordania occupata il 2022 è stato l’anno più letale in quasi due decenni. A gennaio altri 31 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Disperazione, frustrazione e angoscia aleggiano su tutti noi come una nuvola scura. Ma i numeri da soli non esprimono la portata di questa crudeltà.

I numeri delle vittime e i luoghi comuni su spirali di violenza riportati da media male informati, prevenuti o servili non sono corretti o sufficienti per trasmettere lo squilibrio di potere tra un occupante e un occupato. La violenza a cui noi palestinesi siamo esposti quotidianamente non proviene solo dalle armi dell’esercito israeliano, ma è insieme profonda e strutturale.

Non ci sono cicli di demolizioni di case” o espulsioni per ritorsione” – i palestinesi non confiscano proprietà israeliane né imprigionano migliaia di israeliani con l’impiego di tribunali militari. Qualsiasi approccio che suggerisca una simmetria di potere o di responsabilità – è concettualmente e moralmente sbagliato.

Un microcosmo di questa violenza strutturale si trova proprio qui, nella mia città natale, Gerusalemme. Il mese scorso un palestinese armato ha ucciso sette israeliani nell’insediamento coloniale di Neve Yaakov nella Gerusalemme est occupata. Il ministro della sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, si è successivamente impegnato a intensificare le demolizioni delle case palestinesi costruite senza permessi, formulando tale mossa come una risposta all’attacco.

La maggior parte delle case palestinesi sono prese di mira per assenza di autorizzazione; infatti, nella mia città, almeno un terzo delle abitazioni palestinesi non dispone del rilascio di un’autorizzazione da parte di Israele, il che in qualsiasi momento pone a rischio di sfollamento forzato 100.000 residenti di Gerusalemme est occupata.

Infatti, dall’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967, praticamente non è stata condotta alcuna pianificazione pubblica riguardante i quartieri palestinesi. Nella parte orientale della città sono state costruite con ogni tipo di sostegno governativo cinquantacinquemila case per gli ebrei israeliani mentre per i palestinesi ne sono state costruite meno di 600. Questa politica ha assicurato non solo che i palestinesi avessero alloggi inadeguati, ma anche che nella città rappresentassero una minoranza.

Nonostante i palestinesi costituiscano oltre il 37% dei residenti di Gerusalemme, solo l’8,5% del terreno della città è destinato ai loro bisogni residenziali (e anche lì il potenziale edificabile è limitato). Tra il 1991 e il 2018, solo il 16,5% di tutti i permessi di costruzione di alloggi rilasciati dal comune di Gerusalemme hanno riguardato quartieri palestinesi nella zona est occupata e annessa illegalmente. La cosiddetta costruzione illegale o non autorizzata da parte dei palestinesi è una risposta alla cronica carenza di alloggi basata sulla discriminazione.

Più di recente, Ben-Gvir e il vicesindaco di Gerusalemme, Aryeh King, hanno annunciato l’imminente demolizione di un edificio abitativo a Wadi Qaddum, Silwan [quartiere di Gerusalemme est, ndt.], sulla base del fatto che è stato costruito su un terreno destinato a “sport e tempo libero”, e non ad uso residenziale. Una volta iniziata, sauna demolizione di grandi dimensioni, con lo sfollamento di circa 100 residenti. Solo negli ultimi 10 anni a Gerusalemme Est sono stati demoliti 1.508 edifici palestinesi, facendo sì che 2.893 persone, metà delle quali minorenni, restassero senza casa.

Anche la Cisgiordania occupata è segnata da una realtà brutale.

Nella cosiddetta Area C (60% della Cisgiordania) [sotto il temporaneo completo controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo del 1993, ndt.] non è consentita quasi alcuna costruzione palestinese. Le autorità israeliane demoliscono costantemente case, strade, cisterne, pannelli solari e altro ancora di proprietà palestinese. Gli insediamenti coloniali, considerati illegali dal diritto internazionale, sono in espansione, mentre i palestinesi sono confinati in enclavi frammentate.

Con l’aumento del numero di demolizioni ed espulsioni a Gerusalemme e in Cisgiordania sono minacciate intere comunità. Ma dovremmo ricordare che il costo più evidente è a livello individuale: il singolo nucleo famigliare che perde tutto ciò che ha al mondo. I muri crollano, i bambini piangono e i genitori si affrettano a capire cosa fare o dove andare dopo. È una catastrofe ed è continua.

La mancanza di un’autorizzazione impossibile da ottenere non è l’unico pretesto per demolire proprietà palestinesi; le autorità di occupazione israeliane stanno anche distruggendo o sigillando le case come forma di punizione collettiva, severamente vietata dal diritto internazionale. Gli atti di espulsione forzata di una popolazione occupata costituiscono un crimine di guerra. E’ una crudeltà incredibile.

Queste demolizioni ed evacuazioni sono una parte della violenza strutturale che noi palestinesi affrontiamo ogni giorno. Questo governo israeliano può mettere in atto nuove crudeli manifestazioni dell’occupazione, ma le basi sono state gettate dalle coalizioni che si sono succedute al governo dal 1967, dai laburisti al Likud.

Ecco perché noi palestinesi non ci sentiamo sollevati per la folla di israeliani che protestano contro le riforme giudiziarie proposte. Per decenni le nostre terre sono state confiscate e le persone sfollate da politici israeliani eletti di vari partiti, con approvazione da parte di ogni livello del sistema giudiziario. Occupazione e politiche razziste ci sono state imposte da chi si trova all’interno dell’attuale coalizione di governo e da molti che attualmente ne stanno fuori.

Questa violenza è la nostra realtà e affrontare una tale realtà è un primo passo necessario nella nostra lotta per la dignità e la giustizia. Incolpare le vittime o chiudere il dialogo [con loro] non farà che prolungare la nostra sofferenza. Non è una spirale di violenza, è un sistema di apartheid e deve essere trattato come tale dal mondo esterno.

Jalal Abukhater è un giornalista di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo anni di inerzia diplomatica, cosa può offrire l’ICJ[ Corte Internazionale di Giustizia ndt] ai palestinesi?

Hugh Lovatt

1 gennaio 2023 – +972 Magazine

Il voto delle Nazioni Unite favorevole alla richiesta di una sentenza sull’occupazione è un atto d’accusa sull’incapacità di portare Israele di fronte alla giustizia e comporta sia rischi che opportunità.

Questo è stato un anno difficile e sanguinoso per i palestinesi, che hanno sopportato i dodici mesi più letali in Cisgiordania dal 2005 insieme ad una continua emarginazione sulla scena internazionale. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tuttavia, ha offerto loro una vittoria dell’ultimo minuto, avviando la richiesta di una sentenza ad alto rischio da parte della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sulla legalità della prolungata occupazione israeliana dei territori palestinesi. Il voto del 30 dicembre da parte degli Stati membri ha anche chiesto alla Corte di delineare le responsabilità dei Paesi nel porre fine all’occupazione che Israele ha rafforzato profondamente dal 1967. La risposta della Corte potrebbe arrivare già nell’estate del 2023.

Funzionari palestinesi ed esperti di diritto internazionale stavano contemplando un simile passo da diversi anni. Ma la decisione di procedere sembra in gran parte dettata dalla crescente frustrazione del presidente Mahmoud Abbas per l’attuale inerzia diplomatica, il disimpegno degli Stati Uniti e l’elezione di un governo di estrema destra in Israele. Sebbene il parere consultivo non vincolante rischi di non essere all’altezza delle aspettative palestinesi, potrebbe comunque rappresentare un’importante pietra miliare negli sforzi per chiedere conto a Israele ai sensi del diritto internazionale della sua pluridecennale violazione dei diritti dei palestinesi.

L’ICJ è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, con sede a L’Aja. Istituito nel 1945, è composto da 15 giudici eletti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza. Il tribunale decide sulle controversie tra Stati e può anche fornire pareri consultivi su questioni di diritto internazionale.

Ciò a differenza della Corte Penale Internazionale (ICC), anch’essa con sede a L’Aja, che processa individui per crimini internazionali come genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma. Dal marzo 2021 l’ICC ha portato avanti le proprie lunghe indagini su possibili crimini di guerra commessi nei territori occupati e si avvarrà senza dubbio delle deliberazioni dell’ICJ.

Questa non è la prima volta che l’ICJ approfondisce il conflitto israelo-palestinese. In un parere storico del 2004 la Corte ha ritenuto che la costruzione del muro di separazione israeliano in Cisgiordania e il relativo quadro giuridico avessero de facto annesso il territorio occupato ostacolando il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Di conseguenza, i giudici dell’ICJ hanno chiesto a Israele di smantellare la sua barriera e di fornire un risarcimento ai palestinesi come stabilito dal Registro dei danni delle Nazioni Unite (UNRoD). Israele ha rifiutato di conformarsi alla sentenza e ha persino attaccato l’ultimo richiamo come “arma di distruzione di massa palestinese nella loro guerra santa di demonizzazione di Israele”.

L’ipocrisia dell’Occidente

Gli Stati Uniti e Paesi europei come il Regno Unito e la Germania, che hanno votato contro la decisione, sostengono che sarebbe inappropriato per l’ICJ inserirsi in una disputa bilaterale su una questione così controversa senza il consenso di Israele. Questo è diventato un argomento standard che è stato utilizzato anche nel caso del parere espresso nel 2004, e di nuovo nel 2019 in un caso diverso, quando l’Assemblea Generale ha chiesto un parere della Corte Internazionale di Giustizia sulle conseguenze legali del controllo continuato del Regno Unito sulle isole Chagos nell’Oceano Indiano (che il Regno Unito ha separato dalle Mauritius prima di concedere a queste ultime l’indipendenza nel 1968). I giudici della Corte hanno regolarmente e fermamente respinto tali argomentazioni politiche e ci si può aspettare che lo facciano ancora.

Gli oppositori affermano inoltre che i deferimenti all’ICJ (e all’ICC) danneggiano la prospettiva di rilanciare i negoziati israelo-palestinesi e raggiungere una soluzione a due Stati. Tuttavia, la prima sentenza dell’ICJ nel 2004 non ha impedito i successivi colloqui, anche in vista della conferenza di Annapolis del 2007, durante la quale sono stati compiuti progressi sulle questioni relative allo status finale. Da allora, le prospettive di un significativo processo di pace sono svanite a causa dell’erosione della soluzione dei due Stati, in gran parte a causa dell’incontrollata attività di colonizzazione ed espropriazione dei palestinesi da parte di Israele. Sotto il nuovo governo israeliano queste dinamiche negative sono destinate ad accelerare.

Sullo sfondo della guerra della Russia contro l’Ucraina l’opposizione occidentale al ricorso palestinese al diritto internazionale suona ancora più in malafede. L’Europa in particolare ha fatto riferimento con entusiasmo alle norme internazionali nel respingere l’invasione e l’annessione del territorio ucraino da parte della Russia. Ciò include sanzioni di vasta portata insieme a una proposta dell’UE riguardo l’istituzione di un tribunale speciale per perseguire i crimini russi in Ucraina. Gli Stati occidentali hanno inoltre sostenuto i procedimenti dell’Ucraina contro la Russia.

Come voterà questa volta l’ICJ?

Ovviamente non c’è modo di sapere con certezza cosa deciderà l’ICJ. Ma la sua passata giurisprudenza in casi simili allude sia a rischi che a opportunità per i palestinesi.

Prendiamo, ad esempio, l’attuale elenco dei giudici dell’ICJ, due dei quali si sono opposti in passato ad interventi giudiziari. Durante l’udienza relativa alle Chagos la giudice statunitense Joan Donoghue ha sostenuto che l’ICJ avrebbe dovuto astenersi perché il Regno Unito non aveva acconsentito a una “soluzione giudiziaria” della sua controversia bilaterale con le Mauritius. Sebbene la sua all’epoca fosse una visione isolata, nel frattempo Denoghue è diventata la presidente della Corte.

Allo stesso modo, nel 2004 il giudice francese Ronny Abraham, nella sua precedente veste di rappresentante legale della Francia, ha esortato l’ICJ ad astenersi dall’udienza sul muro perché non sarebbe stata “propizia” alla ripresa del dialogo. Anche se queste opinioni potrebbero non influenzare la maggioranza dei giudici, Israele si avvarrà senza dubbio di qualsiasi dissenso di questo tipo per sfidare l’autorevolezza di un futuro giudizio.

Passando alla sostanza, la corte potrebbe estendere la sua precedente conclusione riguardo un’annessione de facto per comprendere, come minimo, tutta l’Area C [sotto esclusivo controllo israeliano, ndt.] (quasi il 60% della Cisgiordania) data la significativa estensione delle infrastrutture coloniali e l’esistenza di una legislazione nazionale israeliana sull’area dal 2004. Tuttavia, è meno chiaro se la Corte si spingerebbe fino a descrivere ciò come un’annessione de jure in assenza di una proclamazione ufficiale della sovranità israeliana, o una fine formale dell’amministrazione militare israeliana del territorio.

Un’incognita ancora più grande è se l’ICJ sceglie di ribadire le conclusioni, in numero crescente, da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani e degli esperti di diritto internazionale, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, secondo cui Israele ha imposto un sistema di apartheid contro i palestinesi. La scelta di non farlo darebbe senza dubbio energia alla campagna di Israele per diffamare, come antisemiti, coloro che usano tale terminologia.

Eppure il tribunale potrebbe ancora togliere il terreno da sotto i piedi dell’occupazione da parte di Israele, stabilendo che il suo persistente controllo non è né temporaneo né giustificato da necessità militari, ed è quindi diventato illegale e richiedendogli di porre immediatamente fine all’occupazione. Ciò si allineerebbe a giudizi espressi in altri casi, come le sue conclusioni del 1971 secondo cui la presenza del Sudafrica in Namibia, dove aveva replicato un sistema di apartheid, era illegale e doveva cessare immediatamente. Allo stesso modo nel 2019, quando invitò il Regno Unito a porre fine alla sua “amministrazione illegale” delle Chagos e restituire il territorio alle Mauritius.

Richiamare Israele a rispondere delle sue responsabilità

Tuttavia è soprattutto sulla questione delle responsabilità dello Stato che i palestinesi potrebbero rimanere delusi. La Corte ha storicamente evitato di approfondire troppo la questione, preferendo lasciarla all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. È quindi altamente improbabile che aderisca alla richiesta di Abbas di un “regolamento delle Nazioni Unite per la protezione internazionale del popolo palestinese”.

Invece, come ha fatto nel 2004, la Corte potrebbe limitarsi a un appello generale agli Stati membri affinché collaborino con le Nazioni Unite per porre fine alla situazione illegale creata da Israele. In tale prospettiva ci si può anche aspettare che riaffermi il dovere degli Stati terzi di non riconoscere o sostenere tali violazioni del diritto internazionale. Questo principio giuridico è sancito dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è una pietra miliare di lunga data della politica dell’UE di differenziazione tra Israele e i suoi insediamenti.

L’ICJ non può costringere Israele a porre fine alla sua occupazione attraverso il suo parere consultivo. L’applicazione della legge internazionale in ultima analisi spetta ai membri delle Nazioni Unite, in particolare quelli con un seggio nel Consiglio di Sicurezza. Ma invece di dare ascolto alla prima sentenza della Corte gli Stati Uniti e gli Stati europei hanno cercato di proteggere il progetto di colonizzazione da parte di Israele da qualsiasi meccanismo di responsabilità internazionale – non solo l’ICC e l’ICJ, ma anche il database delle imprese con legami con gli insediamenti coloniali del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il ritorno della Palestina all’ICJ, il tribunale di ultima istanza, circa 20 anni dopo, è di per sé un atto d’accusa contro il continuo fallimento dell’Occidente nel chiedere conto a Israele del suo comportamento illegale.

Sebbene oggi la volontà internazionale sia gravemente carente, i precedenti storici possono offrire un po’ di conforto ai palestinesi riguardo gli sviluppi futuri. La sentenza dell’ICJ del 1971 ha inferto un duro colpo alle rivendicazioni illegali del Sud Africa sulla Namibia e, sebbene ci siano voluti quasi altri due decenni, alla fine ha segnato la fine del regime di apartheid attraverso il quale [il Sud Africa] ha soggiogato il territorio e la sua gente. E anche con l’equilibrio del potere internazionale saldamente a suo favore il rifiuto da parte del Regno Unito della sentenza della Corte del 2019 si è rivelato sempre più insostenibile. Londra alla fine, anche se a malincuore, è stata costretta ad aprire delle trattative con le Mauritius per la consegna delle Isole Chagos. Con il tempo il peso crescente della riprovazione giuridica internazionale potrebbe rivelarsi altrettanto inevitabile per Israele.

Hugh Lovatt è un consulente politico del programma Medio Oriente e Nord Africa presso il Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR).

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché il New York Times non è al passo coi tempi su Israele-Palestina

Maha Nassar

21 dicembre 2022 – +972 Magazine

Un recente editoriale che critica il nuovo governo israeliano riflette gli stessi punti ciechi che hanno afflitto per decenni il giornale americano più autorevole.

Sabato scorso il comitato di redazione del New York Times ha fatto notizia nel pubblicare un articolo intitolato “L’ideale di democrazia nello Stato ebraico è in pericolo”. Pur ribadendo il proprio sostegno a Israele e alla soluzione dei due Stati l’editoriale avverte che il nuovo governo israeliano, che sarà guidato dal partito di destra Likud e comprende partner di estrema destra come Sionismo Religioso, Otzma Yehudit (Potere Ebraico) e l’anti-LGBTQ Noam rappresenta una “minaccia significativa” per il futuro del Paese e “potrebbe rendere militarmente e politicamente impossibile lo sviluppo di una soluzione a due Stati”.

Rispondendo via Twitter, il primo ministro entrante Benjamin Netanyahu si è offeso per quello che ha descritto come un “parere infondato” del comitato. Accusando il giornale di “demonizzare Israele da decenni”, ha criticato l’editoriale come tentativo di minare il suo governo eletto e di “delegittimare l’unica vera democrazia in Medio Oriente e il miglior alleato dell’America nella regione”.

Nonostante l’importante riconoscimento dell’editoriale dei pericoli della coalizione di estrema destra israeliana, come lettrice (e critica) di lunga data del New York Times ho comunque trovato l’articolo una perfetta riflessione sui punti ciechi che ancora affliggono il “giornale più autorevole.” In effetti l’ostinato rifiuto del comitato di includere nei suoi editoriali le prospettive palestinesi, nonostante gli assordanti inviti a farlo, lo porta a dare una interpretazione essenzialmente errata della realtà sul campo e, di conseguenza, fa sì che il giornale mantenga una comprensione deplorevolmente obsoleta di Israele-Palestina.

Pensiero unico e “da entrambe le parti”

Due anni fa ho pubblicato su +972 un’analisi che documentava la storica esclusione delle voci palestinesi dalle pagine di opinione di quattro importanti quotidiani e riviste americani: The Washington Post, The Nation, The New Republic e The New York Times. Sebbene il Times non fosse il peggiore, il suo curriculum è comunque spaventoso. Dei 2.490 articoli di opinione sui palestinesi che il giornale ha pubblicato tra il 1970 e il 2019 solo 46 sono stati scritti da palestinesi, una media inferiore al 2%.

E l’altro 98%? Secondo i database che ho consultato, la stragrande maggioranza è stata scritta dagli editorialisti del giornale e dai membri del comitato di redazione. È difficile sapere dove finiscano le opinioni di un gruppo e inizino quelle dell’altro; questo perché, secondo il sito web del Times, il comitato di redazioneè composto da giornalisti d’opinione che si affidano a ricerche, dibattiti e competenze individuali per raggiungere una visione condivisa su questioni importanti”. (È significativo che l’editoriale di domenica abbia citato un recente articolo di Thomas Friedman, editorialista e commentatore di lunga data sul Medio Oriente, che ha ripreso gran parte delle posizioni del comitato.)

Data questa coincidenza tra i giornalisti d’opinione e il comitato di redazione – e la mancanza tra loro di editorialisti palestinesi o arabi – non sorprende che sia emersa una sorta di pensiero unico. E questo pensiero unico colloca costantemente Israele, le opinioni e le prospettive israeliane al di sopra di quelle dei palestinesi.

Lo conferma una ricerca per parola chiave degli editoriali del Times che parlano di palestinesi. Tra il 1970 e il 2019, la parola pace” è apparsa 1.112 volte, ma giustizia” è apparsa solo 86 volte; terrore” è stato menzionato 649 volte, ma occupazionesolo 219 volte; la sicurezza di Israele” è stata invocata 90 volte, ma la libertà palestinese” è stata menzionata solo tre volte. Anche se le ricerche per parole chiave da sole non raccontano l’intera storia, ci aiutano a farci un’idea del tenore generale della copertura del Times: negli ultimi cinquant’anni Israele è stato senza dubbio presentato dai redattori del Times come uno stretto alleato, mentre i palestinesi sono stati costantemente inquadrati come un “problema”.

Ma per i palestinesi e per i loro alleati nella regione e nel mondo la Palestina non è un problemada risolvere per Israele, ma una causa per cui lottare. Dal 1948 lo Stato israeliano ha impedito ai palestinesi di vivere nella loro patria con libertà e dignità, vietando ai rifugiati di tornare alle loro case, discriminando i cittadini palestinesi all’interno di Israele e tenendo milioni di palestinesi sotto occupazione militare. Se c’è un problema da risolvere, il problema è quel regime.

Questo semplice fatto sembra essere sfuggito alla redazione del Times. Piuttosto che riconoscere la violenza sistemica, la discriminazione e la colonizzazione perpetrate da Israele contro i palestinesi, il comitato incolpa “entrambe le parti” per una situazione ampiamente asimmetrica. Ad esempio, l’editoriale di sabato attribuisce in parte lo spostamento a destra dell’elettorato israeliano ad “autentiche preoccupazioni per la criminalità e la sicurezza, specialmente dopo gli episodi di violenza tra arabi ed ebrei israeliani dello scorso anno”. Non fa menzione della violenza della polizia israeliana – a volte in collaborazione con milizie di vigilanti, anche negli insediamenti coloniali della Cisgiordania – a cui i cittadini palestinesi sono stati sottoposti durante quel periodo né della campagna di arresti di massa e punizioni collettive contro le comunità arabe nei mesi successivi.

Allo stesso modo, l’editoriale afferma che “le speranze per uno Stato palestinese si sono affievolite sotto la pressione combinata della resistenza di Israele e della corruzione, l’inettitudine e le divisioni interne palestinesi”. Questo “da entrambe le parti” può dare l’apparenza di un equilibrio, ma non riflette una realtà in cui Israele detiene il potere politico, economico e militare quasi totale sulla vita di ogni palestinese, in un sistema che un numero crescente di studiosi, organizzazioni per i diritti umani ed esperti legali definiscono di apartheid.

Prendiamo, ad esempio, il fatto che centinaia di case palestinesi vengono demolite ogni anno dai bulldozer israeliani per far posto agli insediamenti coloniali ebraici, ma non viceversa. O che centinaia di palestinesi sono minacciati di essere espropriati della loro terra a causa di una “zona per esercitazioni” militari israeliana, mentre gli abitanti israeliani non hanno tali paure. O che i palestinesi nei territori occupati debbono attraversare posti di blocco israeliani militarizzati con permessi o documenti d’identità rilasciati da Israele, ma nessun israeliano è costretto attraversare un posto di blocco palestinese. O che centinaia di migliaia di palestinesi sono stati arrestati e detenuti nelle carceri israeliane dal 1967, ma che non esiste un tale sistema di incarcerazione di massa imposto agli israeliani. O che i tribunali militari israeliani condannano i palestinesi con una percentuale superiore al 99%, ma nessun israeliano ha dovuto essere processato in un tribunale palestinese. Non ci sono “entrambe le parti” in tutto ciò.

Promuovere un quadro di giustizia

Questa ostinata insistenza nell’incolpare entrambe le parti riflette un “quadro di pace” profondamente imperfetto che ha dominato per decenni la lettura internazionale di Israele-Palestina. Questo quadro è incentrato sulla politica dell’identità e ignora la violenza strutturale che lo Stato perpetra contro i gruppi oppressi. Si concentra invece su atti di violenza spettacolare commessi da quei gruppi in risposta all’oppressione che devono affrontare, li incolpa per l’escalation del conflitto, quindi li usa per giustificare la violenza repressiva inflitta dalle forze armate più potenti.

Molti degli editoriali del Times degli ultimi 30 anni, dall’avvento degli Accordi di Oslo, sono improntati ad un quadro di pace. Trattano israeliani e palestinesi come aventi pari potere quando chiaramente non è così. Lodano Israele per i piccoli aggiustamenti alla sua violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi, ma rimproverano i leader e la società palestinesi per gli atti di violenza compiuti a loro volta. Se la redazione del Times oggi suona antiquata, è perché la sua visione del mondo rimane bloccata agli anni ’90.

Più di recente stiamo assistendo al riemergere di quello che può essere definito un “quadro di giustizia”. Questo quadro presta maggiore attenzione a tutte le forme di violenza strutturale che le comunità affrontano, indipendentemente dalla loro identità. Piuttosto che parlare delle persone come problemi, i fautori pongono al centro le esperienze degli oppressi e lavorano per smantellare le strutture che li sovrastano.

Tale quadro sta diventando saliente specie negli Stati Uniti, grazie al lavoro di organizzazioni per la giustizia sociale e movimenti come Black Lives Matter. Queste forze hanno spinto sostenitori progressisti come il New York Times a prestare maggiore attenzione alle voci che vengono incluse e a quelle che continuano ad essere emarginate. Tali principi stanno lentamente trapelando anche nel modo in cui i media americani si occupano di Israele-Palestina. Lo abbiamo visto in evidenza durante gli eventi del maggio 2021: dei 27 articoli di opinione pubblicati sul Times quel mese sei erano di palestinesi, tra cui quelli della regista di Gerusalemme Rula Salameh e degli scrittori di Gaza Refaat Alareer e Basma Ghalayini.

A suo merito, il Times ha recentemente assunto più giornalisti palestinesi e arabi, tra cui Hiba Yazbek e Raja Abdulrahim. La loro cronaca è stata cruciale nel portare voci, esperienze e prospettive palestinesi a lettori che altrimenti non vi avrebbero avuto accesso. Il Times ha anche continuato a pubblicare editoriali di palestinesi, tra cui due recenti articoli dell’avvocata palestinese di Haifa Diana Buttu e uno del direttore generale di Al-Haq Shawan Jabarin.

È bello vedere una maggiore rappresentanza palestinese nella redazione notizie e nelle pagine editoriali. Ma questi cambiamenti non sono sufficienti finché la maggior parte delle opinioni presentate sul Times continuano a essere prodotte da progressisti filo-israeliani come Thomas Friedman e conservatori come Bret Stephens. Come abbiamo visto con l’editoriale di sabato, quando si parla di Israele-Palestina la redazione del Times soffre ancora dell’assenza di voci palestinesi. E di conseguenza i suoi membri si aggrappano ancora a miti vecchi e screditati sulla democrazia israeliana e su un futuro a due Stati.

Il comitato di redazione del Times è da molto tempo in ritardo quando si tratta di riconoscere ciò che sta accadendo sul campo in Israele-Palestina. Mentre le loro posizioni divengono sempre meno aderenti alla realtà forse i membri del comitato finalmente ascolteranno – ascolteranno davvero – ciò che i palestinesi hanno sempre sostenuto.

La Dott.ssa Maha Nassar è Professoressa Associata presso la School of Middle Eastern and North African Studies dell’Università dell’Arizona. È autrice di Brothers Apart: Palestines Citizens of Israel and the Arab World [Fratelli separati: cittadini palestinesi di Israele e del mondo arabo] (Stanford University Press, 2017).

Twitter: @mtnassar.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mondiali 2022: come i tifosi arabi dicono la verità a Israele sulla Palestina

Emile Badarin

2 dicembre 202-Middle East Eye

Rifiutando le interviste ai giornalisti israeliani, i tifosi arabi si rifiutano di conferire legittimità al sistema di apartheid dello Stato israeliano.

I giornalisti israeliani sono accorsi a Doha questo mese per coprire la Coppa del Mondo, alcuni trasformandola in una missione per far “parlare con Israele” l’opinione pubblica araba. Ma nelle frequenti interazioni catturate tramite i social media, i tifosi hanno cortesemente rifiutato l’offerta in modi diversi.

Alcuni si sono rifiutati di dialogare; altri hanno sottolineato il loro impegno per la causa palestinese; altri si sono semplicemente allontanati dopo aver capito che il giornalista proveniva da Israele.

La politica del riconoscimento ispira la “missione giornalistica” israeliana in Qatar e altrove. Questi giornalisti, come gran parte dell’opinione pubblica israeliana e dei media occidentali, sembrano essersi convinti che la Palestina e i palestinesi siano scomparsi dalla coscienza araba a causa dei mutamenti geopolitici in tutto il mondo arabo.

Per gli “esperti” israeliani e occidentali questi cambiamenti geopolitici hanno rappresentato una versione ridotta della fine della storia in Medio Oriente. Generalmente considerano la presunta “scomparsa” dei palestinesi come un fattore positivo che ha consentito nel 2020 i cosiddetti Accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Stati arabi.

Forse non c’è occasione migliore per raccogliere i frutti della normalizzazione di una Coppa del Mondo ospitata da uno Stato arabo che ha temporaneamente permesso ai media israeliani di viaggiare liberamente e informare dal Qatar, anche se questo non ha legami ufficiali con Israele. Sembra che alcuni giornalisti israeliani si siano presi la briga di dimostrare che non sono stati solo i regimi arabi a riconciliarsi con – o meglio, a capitolare davanti al progetto coloniale sionista, ma anche la popolazione araba.

In questo senso l’atto di “parlare a Israele” è interpretato come una forma di riconoscimento, o almeno un potente indicatore di avvicinarsi sempre più verso l’evanescente punto finale del colonialismo di insediamento in Palestina. Punto finale che richiede la legittimazione della sovranità di Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo [cioè su tutta la Palestina storica, ndt.] e la deportazione della popolazione indigena.

In Qatar hanno trovato l’opposto. Sebbene Israele abbia ottenuto il riconoscimento di alcuni regimi arabi, inclusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non è riuscito assolutamente a ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica araba.

Espropriazione dei palestinesi

Parlare con Israele” in questo contesto ha lo scopo di ottenere un riconoscimento popolare che legittimerebbe e normalizzerebbe la struttura del colonialismo d’insediamento israeliano che continua a espropriare i palestinesi. Pertanto, rifiutandosi di parlare, i cittadini arabi inviano un chiaro messaggio a coloro che sono al potere in Medio Oriente e in Occidente: sono contrari alla normalizzazione senza giustizia, indipendentemente da quanti accordi di “pace” firmi Israele con i regimi arabi.

Invece di “parlare” i tifosi arabi hanno mostrato uno specchio davanti alle telecamere israeliane, ricordando agli spettatori ciò che hanno ostinatamente tentato di dimenticare: la Palestina. Ciò ricorda ai giornalisti israeliani e al loro pubblico il colonialismo di insediamento, la pulizia etnica, l’occupazione, i rifugiati palestinesi e la Nakba (catastrofe) in corso dal 1948. I tifosi del Marocco alludevano a questo quando hanno dispiegato una bandiera della Palestina al 48° minuto della partita Marocco-Belgio.

Ciò che sorprende è lo shock israeliano nel vedere riflesso, nonostante il passare del tempo, l’indignazione per la violenza e la costruzione di Israele sulla terra rubata ai palestinesi che non è svanita.

Questa è la stessa realtà coloniale che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha mostrato instancabilmente al mondo, fino a quando un cecchino israeliano le ha sparato uccidendola lo scorso maggio, un omicidio che è stato ripreso dalle telecamere. Inoltre non è un caso che un anno prima, nel maggio 2021, Israele abbia distrutto la torre dei media di Gaza che ospitava diverse agenzie di stampa internazionali che informavano dall’enclave assediata.

Come i tifosi di calcio in Qatar, Abu Akleh e i suoi colleghi giornalisti in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e altrove hanno alzato degli specchi che hanno riflesso la brutta immagine del colonialismo israeliano che i popoli arabi non hanno né dimenticato né perdonato. Mentre Abu Akleh è stata uccisa e il mondo non può più vedere il riflesso di Israele attraverso la sua macchina fotografica, non è stato possibile reprimere i messaggi dei tifosi in Qatar.

Coscienza distorta

Di conseguenza, alcuni giornalisti israeliani sembrano essersi rivolti alla narrativa del vittimismo per respingere l’immagine inquietante del colono, il che richiede creatività e autoinganno. È notevole la rapidità con cui alcuni sono ricorsi al “manuale” sionista, presentando il loro fallimento nell’ottenere una “buona parola” su Israele come una manifestazione di odio arabo e musulmano e un desiderio di “cancellare (gli israeliani) dalla faccia della terra”.

Non solo in Israele, ma in tutto il mondo del colonialismo d’insediamento europeo, il senso di vittimismo tra i coloni è un veicolo per rivendicare un’innocenza che galleggia in una coscienza distorta che rappresenta l’anormale e l’ingiusto come normale e giusto.

In questa prospettiva, Israele è solo un altro Stato “normale”- se non l’unico Stato civile e rispettoso dei diritti umani in Medio Oriente, indipendentemente dal fatto che secondo Human Rights Watch ha varcato la soglia dell’apartheid – che ha relazioni “normalizzate” con diversi Stati arabi: uno Stato che gli arabi dovrebbero ammirare, con cui fare amicizia e guardare come un esempio.

Affinché questa normalità immaginaria abbia un senso gli israeliani devono vivere il mito sionista della terra senza popolo per un popolo senza terra. Pertanto devono attivamente dimenticare che i palestinesi esistono davvero, anche dopo un secolo di espropriazione ed eliminazione da parte del colonialismo d’insediamento sionista. L’ironia di far dimenticare continuamente i palestinesi è che li rende più presenti.

Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ha sostenuto la necessità di dire la verità al potere nella lotta contro la segregazione razziale e l’ingiustizia. Ma cosa succede se il parlare stesso può essere trasformato in un veicolo per togliere potere e spogliare?

Tentando di far parlare il popolo arabo con Israele i giornalisti hanno cercato un riconoscimento popolare che conferisse legittimità normativa all’apartheid e all’ingiustizia israeliane. Rifiutarsi di parlare è un atto di resistenza. Paradossalmente [il rifiuto di parlare, ndt.] sta dicendo la verità al potere dei regimi arabi, di Israele e del resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Gli ebrei australiani stanno cambiando idea su Israele. E hanno bisogno di una voce nuova

Antony Loewenstein

12 novembre 2022 – The Sunaday Morning Herald

 

L’establishment ebraico ha espresso il proprio sdegno in seguito al recente annuncio del governo di Albanese che non avrebbe più riconosciuto Gerusalemme Est come capitale di Israele, riportando Canberra nel consesso globale dopo la decisione di Scott Morrison nel 2018 di imitare Donald Trump,

L’opinione pubblica ha sentito i portavoce ebrei delle organizzazioni sioniste condannare il governo per la sua presunta indifferenza e ignoranza. Anche il governo israeliano ha criticato la decisione, dicendo che sperava che l’Australia avrebbe gestito “altre questioni più seriamente e professionalmente”.

Questi critici speravano che protestando avrebbero dissuaso il governo di Albanese dal riconoscere lo Stato palestinese, una delle promesse preelettorali, o dal criticare troppo veementemente le politiche del governo israeliano.

L’Australia è stata per molto tempo fra i principali sostenitori di Israele e, nonostante il recente polverone, l’era Albanese non promette un cambiamento radicale. La decisione su Gerusalemme sembra più che altro una nota a marginale. Allo stesso modo riconoscere la Palestina sarebbe un piccolo passo, sebbene sia importante che l’Australia dimostri di considerare i palestinesi come esseri umani che meritano l’uguaglianza dei diritti.

Dopotutto Israele sta occupando illegalmente il territorio palestinese da oltre 55 anni. Il 2022 è destinato a essere il più letale per i palestinesi in Cisgiordania dal 2005. Israele sta accelerando la demolizione di case palestinesi e l’esercito israeliano è apertamente complice dei coloni ebrei in Cisgiordania. La fondazione di colonie è aumentata vertiginosamente.

Riportando la notizia su Gerusalemme inizialmente molti dei media australiani hanno ignorato le comunità palestinesi o arabe, intervistando solo esponenti ebrei. È stato solo alcuni giorni dopo che si è cominciato a chiedere ai palestinesi quali fossero le loro posizioni riguardo a Gerusalemme.

Ciò è un riflesso del potere politico in Australia sul conflitto israelo-palestinese: chi ce l’ha e chi no.

Quali sono le organizzazioni ebraiche che affermano di parlare per la comunità in Australia? Come sono state elette e chi garantisce loro legittimità? Molte parlano solo per se stesse, altre sono finanziate privatamente eppure quasi tutte parlano all’unisono.

L’obiettivo chiave della lobby israeliana è fare la guardia pretoriana dello Stato ebraico. Ogni opposizione è condannata come un tradimento e deve essere demonizzata. L’ho sperimentato di persona: messaggi di odio, minacce di morte e tentativi per far pressione sul mio editore nel 2006 affinché mandasse al macero il mio primo libro, il best-seller My Israel Question.

I principali gruppi cosiddetti sionisti, dall’Australia/Israel and Jewish Affairs Council [Consiglio degli Affari Australia/Israele ed Ebraici] (AIJAC) all’Executive Council of Australian Jewry [Consiglio Esecutivo dell’Ebraismo Australiano], si sono fossilizzati e sono incapaci di ammettere che stanno difendendo un Israele immaginario, un Paese “democratico” che esiste solo nelle loro menti. Una Nazione che occupa brutalmente 5 milioni di palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non-cittadini soggetti a un governo militare che non possono votare in un’elezione israeliana, per definizione non è una democrazia.

Praticamente le principali organizzazioni per i diritti umani nel mondo, inclusi Human Rights Watch e Amnesty International e le principali associazioni israeliane hanno pubblicato rapporti che descrivono il sistema di apartheid dello Stato di Israele.

Le opinioni degli ebrei australiani su questi temi stanno cambiando, eppure ciò è raramente rispecchiato dalle loro associazioni comunitarie o dai principali media. Molti giovani ebrei votano per i Verdi, nonostante la vecchia generazione consideri il partito troppo favorevole ai diritti dei palestinesi.

Una ricerca del 2021 finanziata da Plus61J, organo di stampa ebraico, ha rivelato che il 62% dei circa 3500 intervistati sosteneva allo stesso modo gli israeliani e i palestinesi, l’11% era più a favore degli israeliani e il 19% più per i palestinesi. Il sostegno a favore dei palestinesi era particolarmente pronunciato fra i giovani tra i 18 e i 24 anni.

Queste cifre dovrebbero preoccupare l’establishment ebraico locale poiché seguono un trend simile a quello visto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, con numeri crescenti di giovani ebrei contrari a Israele. L’ex presidente USA Donald Trump ha accelerato questo spostamento sia appoggiando acriticamente il progetto coloniale israeliano durante il suo mandato che accusando recentemente gli ebrei americani di non essergli sufficientemente grati per il suo sostegno allo Stato ebraico. Un’inchiesta del 2021 fra gli ebrei americani ha rilevato che il 22% degli intervistati concorda sul fatto che “Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi” e il 25% che “Israele è uno Stato di apartheid”.

Le elezioni israeliane di questo mese, con l’incremento del sostegno a partiti di estrema destra, illiberali, anti-LGBT e antipalestinesi, hanno causato ulteriori grattacapi ai più intransigenti sostenitori di Israele in Australia e nel resto del mondo. Prima delle elezioni, Jeremy Leibler, presidente della Federazione Sionista d’Australia, ha detto che l’aumento del “razzismo” del politico di estrema destra Itamar Ben-Gvir era pericoloso poiché è un politico con un’“ideologia di odio”.

Eppure non sono altro che nodi che finalmente vengono al pettine. Per decenni l’estrema destra israeliana è stata de facto al potere con Benjamin Netanyahu, ora in ottima posizione per un ritorno in carica come primo ministro, avendo stretto vari accordi in anni recenti per legittimare a livello politico e persino nel cuore del governo politici che sostengono apertamente la pulizia etnica dei palestinesi.

Dov’era lo sdegno dell’establishment ebraico riguardo a questa situazione prima della scorsa settimana? Al contrario, ha passato anni avallando il programma di colonizzazione israeliano e utilizzando come arma l’accusa di antisemitismo contro chi criticava la politica israeliana.

Al momento c’è solo un’alternativa possibile per quei gruppi ebraici che sono o silenti o paralizzati davanti all’estrema destra. Il New Israel Fund (NIF) è un’organizzazione progressista, sionista [statunitense no profit, ndt.] che si esprime contro l’estremismo e crede in una “democrazia per tutti i suoi cittadini”. Comunque, a parte NIF, non ci sono qui enti autorevoli non-sionisti paragonabili all’influente Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento BDS. Fra i membri Noam Chomsky, Tony Kushner e Naomi Klein, ndt.] negli USA a offrire una visione più equilibrata.

La comunità ebraica locale ha fallito troppo a lungo nel sostenere davvero i diritti di tutti gli ebrei e delle minoranze dando la priorità invece alle forme più estreme di sionismo. È ora di essere responsabili e che voci nuove e più illuminate migliorino la nostra società multiculturale.

Molti ebrei della diaspora sentono che la propria identità è legata al destino dello Stato ebraico. Ma cosa succede quando quella Nazione occupa in modo arrogante un altro popolo per decenni? La comunità ebraica deve aprire la propria mente e creare coalizioni oltre la ristretta visione sionista del mondo.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente vissuto a Gerusalemme Est fra il 2016 e il 2020. Il suo prossimo libro è: The Palestine Laboratory: How Israel Exports The Technology Of Occupation Around The World [Il laboratorio Palestina: come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione nel mondo].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israeliani, prendete atto: la resistenza armata all’occupazione è legale, non è terrorismo

Orly Noy

13 settembre 2022 – Middle East Eye

Nonostante ciò che afferma il diritto internazionale, l’opinione pubblica israeliana ha interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una legittima lotta palestinese per la liberazione nazionale.

È improbabile che più di una manciata di ebrei in Israele sappia riferire correttamente quante incursioni abbia effettuato l’esercito israeliano la settimana scorsa in città palestinesi della Cisgiordania, quanti arresti abbia compiuto, o quante persone abbia ucciso.

Al tempo stesso è improbabile che vi sia stata più di una manciata di israeliani che non fosse a conoscenza della sparatoria su un autobus di soldati nella Valle del Giordano, avvenuta domenica 4 settembre.

Spari di palestinesi contro soldati israeliani –invece che israeliani che sparano a palestinesi – non è solo un inquietante episodio di “un uomo che morde un cane”, che ribalta l’ordine consueto richiedendo di essere raccontato dettagliatamente; in tutti quei reportage l’evento è stato definito come attacco terroristico ed i palestinesi armati come terroristi.

Non una parola sul fatto che gli spari erano rivolti contro un esercito occupante e sono avvenuti in una terra occupata.

I media israeliani hanno un ruolo chiave nel formare l’opinione pubblica al servizio della macchina di propaganda del potere, mantenendo l’opinione pubblica israeliana nella totale ignoranza dei fatti più importanti.

L’opinione pubblica israeliana, in generale, ha completamente interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una lotta palestinese per la liberazione nazionale che sia legittima.

Analogamente alla radicale rimozione dalla coscienza israeliana della linea dell’armistizio del 1949, conosciuta anche come Linea Verde – al punto che la sola menzione della sua esistenza da parte della municipalità di Tel Aviv provoca minacce del Ministero dell’Educazione – anche la costante etichettatura di ogni lotta palestinese come terrorismo occulta l’importante distinzione ai sensi del diritto internazionale tra un’azione che prende di mira dei combattenti ed una diretta contro civili.

Un diritto legittimo

Il fatto è che il diritto internazionale riconosce il diritto legittimo di un popolo di lottare per la propria libertà e per la “liberazione dal controllo coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, come confermato, per esempio, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1990.

L’uso della forza per ottenere la liberazione è legittimo. Il modo in cui viene usata la forza è disciplinato dalle leggi di guerra, il cui scopo principale è proteggere i civili non coinvolti da entrambe le parti.

I colpi sparati nella Valle del Giordano non erano diretti contro civili e non possono essere considerati un’azione terroristica. Sono stati un atto di resistenza contro un potere occupante, in una terra occupata.

Il regime israeliano e i suoi ossequiosi portavoce, i media israeliani, trattano ogni azione contro le forze di occupazione in una terra occupata esattamente come se fossero azioni contro civili nel cuore di Tel Aviv: atti terroristici perpetrati da terroristi.

Questa equiparazione non solo nega un fondamento legale o morale all’azione; è anche contraria agli interessi dei cittadini di Israele.

Le leggi di guerra pertinenti sono finalizzate anzitutto e soprattutto a proteggere i civili che non partecipano al ciclo di violenza e a circoscrivere tale violenza a chi effettivamente combatte.

Tuttavia Israele non riconosce la categoria di combattenti palestinesi: dal punto di vista israeliano ogni forma di resistenza, anche nonviolenta, alla sua occupazione ed oppressione costituisce un pericolo alla sicurezza che è facilmente riconosciuto come terrorismo, come quando recentemente Israele ha dichiarato che le sei più importanti ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche.

Questa è una doppia distorsione da parte di Israele. Se da un lato tratta tutte le azioni palestinesi, anche quelle dirette contro soldati, come atti di terrorismo, dall’altra Israele descrive ogni azione israeliana contro i palestinesi come legittima, anche quando quei palestinesi sono civili.

Tipica brutalità

Come esempio particolarmente vergognoso di questa politica, considerate le conclusioni finali pubblicate dall’esercito israeliano riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh. L’esercito ha inizialmente sostenuto che Abu Akleh è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco palestinesi, una palese menzogna che è stata smascherata da una serie di organi di stampa che hanno esaminato minuziosamente le prove. La versione riveduta che l’esercito ha pubblicato in seguito è anch’essa lontana dall’essere coerente con le prove.

Il Procuratore Generale dell’esercito ha annunciato che non sarebbe stata aperta alcuna inchiesta, nonostante l’agghiacciante ammissione che Abu Akleh, che indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come giornalista, è stata colpita a morte da un soldato che usava un fucile di precisione con mirino telescopico – che ingrandisce il bersaglio di quattro volte.

Altrettanto deprecabile la risposta israeliana alla richiesta americana davvero modesta di “riconsiderare” le procedure dell’esercito in Cisgiordania riguardo a quando è consentito aprire il fuoco.

Non che l’esercito smetta di assassinare persone innocenti, Dio non voglia, né che interrompa le incessanti irruzioni nelle città della Cisgiordania, gli arresti di massa, i prelevamenti notturni dei bambini dai loro letti – soltanto che si sforzi un po’ di più, se non è troppo difficile, di evitare altri casi simili.

I potenti Stati Uniti preferiscono non trovarsi coinvolti in casi del genere perché può succedere che la vittima abbia cittadinanza americana, come nel caso di Abu Akleh.

Israele, che ha risposto con la solita brutalità, non è disposto neppure all’atto formale di accettare a parole questa modesta richiesta. Il Primo Ministro Yair Lapid si è affrettato a dire agli americani che “nessuno ci imporrà le regole di ingaggio”.

Con lo stesso spirito il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato: “Il capo di stato maggiore, e lui solo, decide e continuerà a decidere le politiche di ingaggio.”

In altri termini, Israele mette sull’avviso gli americani, in realtà il mondo intero: nessuno dirà mai a Israele quanti, chi, quando, dove o come uccideremo. E la questione è chiusa, fino alla prossima volta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Orly Noy è la direttrice di B’Tselem – Centro israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei territori occupati.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)