Donne disarmate su una piccola imbarcazione adesso sono una minaccia alla sicurezza d’Israele?

Mercoledi 5 Ottobre, ore 18 Middle East Monitor

Innanzitutto la nostra preoccupazione va alla sicurezza delle donne imbarcate sulla Zeytun che è stata intercettata ieri dalla marina militare israeliana in acque internazionali.

Israele, come sappiamo, ha il record di violenze contro imbarcazioni civili, non solo quelle che hanno tentato di rompere il blocco illegale di Gaza, ma prende di mira anche i pescatori palestinesi.Tutti noi- la popolazione palestinese e i suoi sostenitori a livello internazionale- tirano un sospiro di sollievo se non ci sono feriti da segnalare. La barca ha compiuto una missione esclusivamente umanitaria: infrangere simbolicamente l’assedio di Gaza.

Sarebbe una bella cosa vedere i media occuparsi di tutta la faccenda, senza tenere in considerazione l’affermazione israeliana che la barca e le donne a bordo pongono una minaccia alla sicurezza nazionale dello Stato. Tale affermazione, naturalmente, è assolutamente insensata; Israele è così insicuro da essere minacciato da donne disarmate su una piccola imbarcazione?

Dato il primato israeliano di attacchi ai civili, gran parte delle informazioni dei media si è incentrata su se e come Israele avrebbe bloccato l’imbarcazione in acque internazionali. In qualunque altro luogo ciò verrebbe condannato come un atto di pirateria, ma Israele non ne paga le conseguenze..

Il paradosso è che Israele continuerà ad essere lodato come “l’unica democrazia del Medio Oriente” mentre continua a trattare con disprezzo il diritto internazionale. Coloro che resistono, o provano a porre termine all’occupazione militare israeliana della Palestina affrontano la riprovazione e l’accusa di terrorismo.

È tempo che la comunità internazionale imponga sanzioni al colpevole di questa storia, lo Stato sionista di Israele. Le sanzioni non dovrebbero colpire solamente le merci provenienti dalle colonie illegali, ma anche quelle imprese che traggono profitti dall’occupazione, ovunque esse si trovino. E devono essere bloccate le forniture di armi e munizioni.

Tentativi internazionali quali quello della Flottiglia delle donne verso Gaza sono del tutto pacifici; non vi è nulla di sinistro o di subdolo in quello che hanno programmato di fare. In questo caso, donne di tutto il mondo vogliono abbracciare le sorelle e i bambini palestinesi in solidarietà con la loro lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione.

I politici dell’Europa, delle Americhe, dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania devono sapere che se forniscono aiuto materiale, politico o militar, a Israele e alla sua occupazione, la marea della pubblica opinione gli si riverserà contro. Ciò spiega perché tentativi come quello della Flottiglia delle donne a Gaza sono un successo anche se non infrangono il blocco. Temendo un’imbarcazione piena di donne disarmate, Israele ha già perso la guerra d’immagine; la credibilità delle sue dichiarazioni circa “la sicurezza nazionale” ha subito un ulteriore colpo. Il mondo sa che il blocco di Gaza è immorale; ora lo sanno anche Israele e i suoi politici

Questo è il testo di una dichiarazione pubblica scritto da attivisti italiani solidali con la Palestina

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( traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Shimon Peres è stato un uomo di pace?

Haaretz

Gideon Levy – 28 settembre 2016

Se Israele è sull’orlo di un abisso morale, allora Peres ha una responsabilità in questo. Se è un Paese che va verso l’apartheid, lui ne è stato un socio fondatore. Bisogna dire la verità: Shimon Peres voleva la pace, ma non ha mai visto i palestinesi come uguali agli ebrei.

E’ stato il mio maestro politico personale per quattro anni, giorno e notte. Non si è mai comportato come un insegnante, ma ho imparato molto da lui, su cosa fare, ma anche su cosa non fare. Ero molto giovane, e lui era già Shimon Peres. Ci siamo separati con sentimenti contrastanti.

Era l’ultimo degli israeliani di un tempo. Che cos’è “israeliano” per voi? Una volta era Shimon Peres. Ora Miri Regev [ex generale di brigata e portavoce dell’esercito israeliano, attuale ministra della Cultura e dello Sport, molto discussa per le sue iniziative censorie. Ndtr.] rappresenta l’essenza israeliana molto più di lui. Ma quando Israele ha voluto essere rappresentato come un Paese che vuole la pace, aveva Peres.

Quando era ancora importante essere accettati- Peres. Quando dire che uno era stato una guida era ancora rispettabile – Peres. Quando parlare di libri era ancora ammirato – Peres. Quando almeno un simulacro di chiaroveggenza e di modestia erano ancora importanti – Peres. Era un Paese diverso. E’ morto ieri [27 settembre. Ndtr.], ma quell’Israele è morto molto tempo fa. Non è sicuro che fosse così splendido come tendiamo a descriverlo.

Il suo Israele era un Paese di grandi risultati, ma anche di ombre e menzogne. Non lo si può incoronare come una figura stupenda, come tutto il mondo sta facendo ora, senza descrivere anche il suo Paese. Se Peres è stato un eroe della pace, allora lo Stato di Israele è un Paese che desidera la pace. C’è qualcuno che lo crede? Non lo si può chiamare un occupante, un depredatore, un paria, chiamando allo stesso tempo Peres un gigante della pace.

Se Israele è sull’orlo di un abisso morale, allora Peres ha una responsabilità in questo. Se è un Paese che va verso l’apartheid, lui ne è stato un socio fondatore.

Lo Stato era Peres e Peres era lo Stato, almeno fino a una certa misura. E’ stato una presenza fissa del panorama per tutti questi anni e in tutti gli incarichi di responsabilità. Guardate lui e vedrete noi.

Noi vogliamo tanto la pace ma facciamo molto poco per ottenerla. Egli era il volto presentabile del Paese ma anche quello ingannevole. Gli israeliani ora lo stanno ricordando con affetto; quanto è meraviglioso aver avuto un tale uomo. Anche questi leader mondiali che stanno arrivando per il suo funerale domani elogeranno affettuosamente il suo contributo alla pace.

Ma quale pace? Quest’uomo ci ha dato il reattore nucleare di Dimona e l’operazione “Sinai” [la partecipazione di Israele alla guerra di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser. Ndtr.] nel 1956, Nazaret Alta e Ofra [due colonie israeliane in Cisgiordania. Ndtr.], le industrie militari ed aerospaziali israeliane – per cui, quanta pace (e giustizia) ha realmente portato e quanta occupazione e colonizzazione?

Non ci sono dubbi che lui ha voluto la pace ed ha lavorato per questo. Ma si è fermato a metà strada ignorando il problema delle colonie durante il processo di Oslo, e non ci sono mezze misure per la pace. Non è solo la destra ad essere responsabile per questo fallimento.

Era un uomo notevole. L’ampiezza del suo sapere era più vasta di quella della maggioranza dei suoi contemporanei, come il suo fascino personale. Non abbiamo mai avuto un politico più curioso ed elegante, né un miglior conversatore. Andrò oltre: era anche un uomo onesto, certo non meno dei suoi colleghi. E nessuno poteva parlare di pace come lo ha fatto lui: persino il Mahatma Ghandi ne ha parlato meno di lui.

Nei lontani anni ’70 Peres stava già dicendo in ogni discorso: “E’ impossibile governare su un altro popolo contro la sua volontà.” All’epoca mi ha commosso. Ma durante i decenni seguenti, quando era al comando, questa dichiarazione è rimasta nei colloqui di partito. Che cos’ha fatto per porre fine all’occupazione? Ha contribuito moltissimo a Israele – alla sua sicurezza, alla sua prosperità – ma non alla sua giustizia. Per cui non dite che era un uomo di pace.

Voleva la pace. Chi non la vuole? Ma si deve dire la verità, anche in momenti difficili; non ha mai concepito i palestinesi come uguali agli ebrei, e sicuramente non con gli stessi diritti.

Dopo anni passati insieme a David Ben-Gurion forse era troppo difficile formulare un approccio diverso. I diritti umani e le leggi internazionali non lo interessavano, e le sofferenze dei palestinesi non lo commuovevano.

Quando il presidente degli USA Barak Obama lo loderà domani come un uomo di pace, si potrà avere il vago sospetto che egli possa essere la copia esatta di Peres. Com’è piacevole lodare Peres.Perché, al di là di tutto, Peres era il campione del desiderio israeliano di “andare con e sentirsi senza”. Dell’affermare quanto siamo fantastici. Ora non è rimasto più nessuno a dirlo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu ha ragione: effettivamente l’occupazione può andare avanti per sempre

Haaretz

di Gideon Levy – 25 settembre 2016

Diamo a Cesare quel che è di Cesare: il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ragione. Ha ragione quando dice che Israele ha il mondo in tasca. Ha ragione quando dice che Israele ha un brillante futuro alle Nazioni Unite. Ha ragione quando appare molto sicuro di sé, allegro e ottimista come mai prima, sicuramente non come primo ministro. Ha ogni ragione per sentirsi così. Netanyahu ha ragione – ed è un disastro.

Siamo delusi. E’ scoraggiante per chiunque abbia creduto nel mondo, nel presidente Barak Obama o nell’Europa, che abbia creduto nel potere dell’impatto dell’opinione pubblica sui governi in Occidente. E’ desolante per chiunque abbia creduto che non ci sarebbe più stato colonialismo nel XXI secolo, che una brutale occupazione militare non sarebbe continuata fino alla sua terza generazione. Tutte le profezie catastrofiche che sono state la fonte di speranza per chi ha creduto che l’occupazione israeliana dovesse terminare sono svanite

Ci hanno promesso pressione internazionale e sanzioni; l’isolamento internazionale e la fine degli aiuti degli USA; boicottaggio e ostracismo. Invece abbiamo un’occupazione che non è mai stata così radicata e un Israele che non è mai stato così forte.

Ci avete promesso che non sarebbe andata avanti per sempre, ma abbiamo scoperto che è vero il contrario. E quanto. Perché? Perché Israele può farlo, perché è forte; perché Israele è ben lungi dall’essere isolato. Ammettiamolo, l’occupazione israeliana è più radicata che 10 anni fa, e la sua fine non è neppure visibile all’orizzonte. Dobbiamo riconoscerlo.

Dobbiamo anche riconoscere che i palestinesi sono isolati, divisi e dimenticati come mai prima d’ora da quando sono apparsi sul palcoscenico internazionale. Gli arabi stanno sanguinando, i musulmani sono disprezzati, i migranti temuti- e l’occupazione israeliana trae vantaggio da tutti questi mali. Il mondo ha perso interesse in un conflitto che potrebbe essere il più pericoloso per la sua stessa sicurezza, che crea le più vaste onde d’urto. Ha perso interesse in un conflitto cui si potrebbe porre termine con relativa facilità.

Non c’è nessun altro conflitto su cui ci sia un così ampio consenso internazionale. Nessun’ altra questione unisce il mondo come l’occupazione israeliana. Dall’India all’Africa, da Pechino a Washington e Mosca, tutti dicono di essere contrari – eppure nessuno fa niente in proposito. E’ un groviglio di contraddizioni. Nessun altro Paese è così dipendente dalla comunità internazionale quanto Israele, eppure Israele si prende la libertà di sfidare il mondo come pochi altri osano.

Gli unici attori che rimangono sono le società civili e le organizzazioni come il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni. Non mollano, stanno lavorando con grande determinazione per lottare contro una situazione in cui milioni di persone vivono sotto una crudele occupazione straniera. Ma sono soli.

Ne deriva che il potere dell’opinione pubblica nelle democrazie occidentali è limitato, sicuramente quando si tratta di Israele. Anche i media internazionali si stanno gradualmente spostando a favore di Israele – il che favorisce l’occupazione – o hanno perso interesse, e anche questo gioca a suo favore. Le università sono in rivolta, la sinistra europea è sul piede di guerra, i progressisti americani protestano, eppure i loro governi perseverano. Offrono un misero sostegno formale ma poi invitano Netanyahu con tutti gli onori – come è successo di recente in Olanda, questo Paese con un’immagine così progressista e illuminata. Perché invitare uno che ha dichiarato di non aver nessuna intenzione di porre fine all’ingiustizia? E poi c’è questo accordo per l’aiuto militare USA.

Questo prodigio – un Paese così dipendente dal mondo che al contempo si comporta come se questo non esistesse – non ha una spiegazione logica. Tutti i soliti argomenti, dal senso di colpa per l’Olocausto al timore nei confronti dell’islamismo, sono insufficienti a spiegare una condotta che è in netto contrasto con i valori e gli interessi dichiarati della comunità internazionale. Dobbiamo riconoscerlo. Dobbiamo anche riconoscere che Netanyahu ha ragione quando promette all’assemblea generale dell’ONU che, entro pochi anni, molti più Paesi voteranno per Israele. Dovremmo prendere atto che il mondo non vuole alzare un dito per liberare i palestinesi (e gli israeliani) da questa perniciosa occupazione. Dobbiamo riconoscere che Netanyahu ha buone ragioni per essere soddisfatto.

Ora la palla si trova nel campo di Israele, dove, purtroppo, c’è indifferenza ed c’è praticamente il deserto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gli israeliani non possono riconoscere il terrorismo che li fissa dallo specchio

di Amira Hass, 26 settembre 2016

Haaretz

Mentre gli esperti stanno di nuovo spiegando perché la “calma” è finita, ciò che davvero avrebbe bisogno di spiegazione è la moderazione palestinese a fronte della violenza di Israele.

Si sono nuovamente scatenate le aggressioni col coltello? L’ondata del terrore è di nuovo in piena attività? State sbagliando, signore e signori. L’ondata è un oceano, il terrore non è mai cessato e la sua impudenza sta semplicemente aumentando. Non è chiamata col suo vero nome – viene definita “sicurezza” e chi la attua se ne va in giro liberamente, obbedendo all’ordine di intimidire quattro milioni di esseri umani.

Volete che ve lo traduca? Il regime militare che noi imponiamo, in atto da decenni, è terrorismo quando ci sono di mezzo i palestinesi.

Anch’io credo che si tratti di terrore, perché la gente è intimidita al punto che la vita viene loro strappata e la loro salute, il loro benessere e le loro proprietà vengono danneggiate, a beneficio dei nostri diritti di padroni, in nome del raggiungimento di vantaggi politici, economici e territoriali quali Sussia (villaggio palestinese minacciato di demolizione da Israele, ndt) o Kfar Adumim (colonia israeliana situata nel centro della Cisgiordania, ndt), l’irrigazione di lucrose erbe aromatiche nella valle del Giordano o l’esportazione di armi. Creare terrore è il senso delle decine di migliaia di uomini armati dislocati in Giudea e Samaria (nomi che gli israeliani attribuiscono all’attuale Cisgiordania, ndtr.), come anche nella Gerusalemme riunificata. Mettono paura perché sono stati mandati là per assicurare un crudele ordine di espropriazione.

Una persona armata di fucile guarda in uno specchio e si spaventa dell’immagine di qualcuno che le sta puntando contro un fucile. Non è un’illusione ottica, ma cognitiva. Sembra che non possiamo vedere noi stessi come la causa, come gli aggressori e, sì, come terroristi agli occhi di coloro che da quando sono nati sono vissuti sotto una legislazione militare, con i nostri fucili, carri armati, aerei, elicotteri e droni che gli scagliano contro ordigni mortali.

Non possiamo vederlo anche noi? Mi correggo. Noi ci rifiutiamo di vedere noi stessi come la causa. Con un logoro e snervante riflesso pavloviano, i nostri media definiscono gli accoltellamenti un’ “ondata” e con dotte analisi spiegano ripetutamente perché la “calma” è finita. Può essere persino patetico: “Una terrorista di tredici anni ha cercato di compiere un accoltellamento al checkpoint di Eliyahu. E’ stata colpita e leggermente ferita”, ha riferito Canale 7, il canale dei coloni che ragionano. Il reportage non è cambiato neanche dopo che è emerso che la borsa “sospetta” che aveva la ragazza non conteneva niente che potesse ferire i nostri soldati (per esempio un coltello, un cacciavite, una matita appuntita). Un giornalista della radio israeliana ha continuato a descrivere i suoi movimenti al checkpoint come un tentativo di aggressione. I giornalisti e gli opinionisti vanno e vengono, ma il titolo resta: “I palestinesi hanno ricominciato ad attaccare noi, i poveri nebechs (poveraccio o stupido in yiddish, ndt) usciti dal ghetto”.

Il titolo, “preoccupazioni per lo scoppio di incidenti (che minano la sicurezza)” è posto in apertura della home page del sito web di Haaretz. Non compare per raccogliere notizie su dozzine di ragazzi palestinesi resi invalidi sparandogli nelle ginocchia proiettili Ruger (proiettili letali utilizzati dall’esercito israeliano contro i manifestanti, anche se nel 2001 erano stati vietati per quell’uso dalla stessa avvocatura militare, ndt.) dell’esercito. Non ci sono titoli di questo genere sull’imperversare dei divieti di muoversi dalla Striscia di Gaza, o su un’altra ondata di soldati che uccidono palestinesi che non hanno minacciato la loro vita: ad al-Fawar (Mohammed Hashash), a Silwad (Iyad Hamed), a Shoafat (Mustafa Nimer). Non troverete un titolo che riassume l’orgia quotidiana di raid militari (almeno 116 tra il 9 e il 21 settembre). Per esempio, a Bil’in la mattina di mercoledì scorso: i nebechs usciti dal ghetto irrompono.nelle case di attivisti dei Comitati di Resistenza Popolare, spaventando i bambini e confiscando (cioè rubando) computers e telefoni cellulari. Non sono state riportate vittime tra le nostre forze. L’unica vittima non citata è la realtà.

Le notizie di una nuova ondata di terrore vengono date quando ebrei, soldati e poliziotti di frontiera sono feriti o si sentono minacciati. Decine di migliaia di storie e racconti, soprattutto in Haaretz, che hanno a che fare con la perdurante violenza militare e burocratica israeliana si disperdono come se fossero eventi casuali. L’intollerabile e continuo flusso di deliberate vessazioni nei confronti dei palestinesi, che nasce dal fatto che siamo una forza occupante straniera, non viene percepito dai sensori dei giornali come un continuum.

Il giornalismo predilige i drammi e le tragedie. Quando il disastro è permanente, non è più una notizia, soprattutto quando la causa del disastro siamo noi. La routine delle disgrazie che causiamo ai palestinesi non esiste nella realtà di Israele. Ecco perché non ottengono costantemente le prime pagine e la loro assenza, a sua volta, forgia nelle nostre menti una realtà in cui tutto va bene. E allora ecco una realtà differente, con la gente che chiede “ Ma perché questi palestinesi ci stanno di nuovo attaccando?”

Un cittadino giordano e sei palestinesi, compresi quattro minori, sono stati uccisi dal fuoco israeliano in meno di una settimana, nel corso di aggressioni, tentate o presunte . Il 9 settembre un bengala dell’esercito israeliano ha ucciso il sedicenne Abdel Rahman al-Dabbagh mentre dimostrava contro il blocco di Gaza, vicino al muro. Alla domanda se non ci sia altro modo se non uccidere tutta questa gente la risposta probabilmente sarebbe l’affermazione che l’uccisione è avvenuta nel rispetto delle regole d’ingaggio.

La negazione cognitiva impedisce agli israeliani di rendersi conto di quanto moderati siano in realtà i palestinesi. In mezzo a quattro milioni di vittime di un terrorismo costante , solo pochissimi esprimono la propria disperazione con azioni che quasi sicuramente li porteranno alla morte. E’ questa moderazione collettiva, non il limitato numero di attacchi col coltello o con l’automobile, che necessita di una spiegazione. C’è saggezza in questa moderazione, dato che non è il momento di una lotta di massa. Questa moderazione esprime disperazione perché quelli che nel mondo ascoltano non possono decidere e quelli che decidono non ascoltano.

Nella moderazione palestinese c’è anche speranza: la giustizia ed il futuro stanno dalla loro parte, perché lottano per la propria libertà.

 

Traduzione di Cristiana Cavagna

 




Sette messaggi che l’accordo di aiuti USA-Israele manda al resto del mondo

di Zeina Azzam

Middle East Eye – 19 settembre 2016

Dietro alle dimensioni del pacchetto di aiuti di 38 miliardi di dollari ci sono decisioni politiche nascoste che il resto del mondo, e soprattutto i palestinesi, dovrebbero sentire forti e chiare.

Il sito web della Casa Bianca descrive il “Memorandum d’Intesa” (MOU) tra gli Stati Uniti ed Israele, firmato la scorsa settimana, come “il più grande impegno singolo di assistenza militare nella storia degli USA.”

L’impegno di fornire 38 miliardi di dollari in 10 anni (2019-2028) include 33 miliardi in finanziamento militare estero e 5 miliardi in assistenza nella difesa missilistica. Questa dotazione militare senza precedenti e straordinaria, concessa pochi mesi prima che il presidente lasci il suo mandato, sarà una parte significativa dell’eredità di Obama.

Gli obiettivi dichiarati sono il potenziamento della sicurezza di Israele aggiornando la sua flotta aerea, rafforzando la sua difesa missilistica e favorendo l’acquisizione di ulteriori capacità difensive.

Alcuni analisti hanno sottolineato che questo accordo rappresenta un cambiamento nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv, o hanno sostenuto che ciò rafforza la sicurezza di Israele mentre contrasta le sue politiche.

Ciononostante l’ampiezza dell’accordo implica certe decisioni politiche ed ipotesi. Quali sono questi messaggi più nascosti – benché globali – per il resto del mondo, e soprattutto per i palestinesi, della generosità senza precedenti di Obama?

1. Forza uguale giustizia. Questa nozione sbagliata informa il pacchetto di aiuti militari che rafforza ulteriormente l’egemonia militare di Israele nella regione, e per molto tempo. Israele è già considerato la potenza militare più forte in Medio Oriente – concedendogli più potere si privilegia il punto di vista di Israele e, in certa misura, si rafforza l’idea fuorviante secondo cui maggiore forza significa maggiore moralità. Ciò rende ogni apertura per la pace, l’imparzialità, o la reale giustizia priva di valore.

2. Un incentivo per la corsa al riarmo del Medio Oriente. Con l’obiettivo dichiarato di garantire la sicurezza di Israele, Washington sta invece garantendo la prosecuzione della guerra nella regione, e soprattutto nei territori palestinesi, dove Israele utilizza armi e una potenza aerea sempre più sofisticate. E’ grottesco il fatto che, mentre l’accordo sul nucleare con l’Iran nel 2015 intendeva ridurre la potenza nucleare del Paese e verificare che il suo uso fosse esclusivamente pacifico, l’accordo con Israele rafforza la conflittualità e spinge tutti i vicini di Israele a spendere di più in armamenti.

3. Israele=Impunità. L’inosservanza da parte di Israele delle politiche sostenute dagli USA, soprattutto riguardo alla costruzione di colonie ed alla creazione dello Stato palestinese, non ha portato nessuna conseguenza concreta nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv. Il trattamento sprezzante e disdegnoso del primo ministro Benjamin Netanyahu verso Obama è ora sorprendentemente concretizzato in questo massiccio pacchetto di aiuti militari. Oltretutto il brutale trattamento dei palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza è stato quasi sempre ignorato o giustificato nel consesso internazionale, in quanto gli USA hanno regolarmente posto il veto contro le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannavano le azioni di Tel Aviv contro i palestinesi. Il nuovo pacchetto di aiuti è fondamentalmente un premio per Israele, senza che siano state prese in considerazione le sue abituali e massicce violazioni delle leggi internazionali.

4. Le vite dei palestinesi non valgono niente. All’indomani di questo accordo, come è possibile per un palestinese che vive a Hebron o a Gerusalemme est o a Gaza sentire che la propria vita vale qualcosa per il governo americano? L’estensione dell’aiuto militare degli Stati Uniti ad Israele, che continuerà per almeno altri dieci anni a questo livello elevato, non dà nessuna ragione ai palestinesi di pensare che le loro vite contino qualcosa o che i loro diritti nazionali, civili e umani siano importanti.

Oltretutto la militarizzazione di Israele in continuo aumento nega ai palestinesi ogni speranza di un cambiamento, alimentando ulteriore disperazione e marginalizzazione. Infatti un giornalista israeliano [Gideon Levy. Ndtr.] sostiene che questo accordo cementa il ruolo di Obama come “patrono dell’occupazione”. I palestinesi e la comunità internazionale sanno che gli USA sono l’unico attore che può esercitare una reale influenza su Israele; questo accordo, tuttavia, mostra chiaramente che Washington non è amico dei palestinesi e di fatto li vede come gli aggressori impotenti e Israele come vittima potentissima – un punto di vista a parti totalmente invertite.

5. Finanziare l’esercito di Israele è più importante che finanziare i programmi sociali americani. Gli USA hanno parecchie sfide interne urgenti da affrontare, come la fame e la mancanza di case e problemi nell’educazione e nel sistema sanitario. L’ hashtag emerso su Twitter dopo l’accordo, #38billiontoIsrael, elenca parecchie questioni importanti da finanziare al posto dell’aiuto militare a Israele, come ricerche e strategie contro il virus “zika”, l’acqua potabile e la risistemazione di ponti in tutto il Paese. Destinare miliardi di dollari all’aiuto militare a Israele dimostra un palese disinteresse nei confronti di urgenti necessità interne. Si potrebbe anche sostenere che pure l’aiuto ai rifugiati sia una priorità – nazionale e internazionale – che richiederebbe un urgente sostegno finanziario.

6. La distruzione prevale sulla costruzione. Chiunque conosca il conflitto israelo-palestinese si deve chiedere: perché gli USA stanno potenziando un esercito già poderoso invece di destinare più fondi per aiutare Gaza a ricostruire le sue case, scuole, ospedali, fabbriche e sistemi idrici ed igienici che sono stati distrutti dall’attacco israeliano del 2014? Washington ha chiaramente scelto di investire in armi di distruzione invece che in materiale da costruzione e in forze aeree letali piuttosto che nell’attenuazione delle sofferenze umane.

7. L’opinione pubblica degli USA non conta. Un recente sondaggio del 2015 ha rilevato che una sostanziale maggioranza di americani – il 66% – pensa che gli USA non dovrebbero ” propendere per nessuna delle due parti” nel conflitto israelo-palestinese. Questo numero totale comprende democratici, repubblicani e indipendenti. Quando i dati vengono disaggregati, è interessante notare che il 75% dei democratici e l’80% degli indipendenti appoggiano l’imparzialità degli USA, mentre è d’accordo il 45% dei repubblicani. Queste cifre indicano che la politica di Washington verso Israele, che ne fa il Paese più armato e potente in Medio Oriente, non riflette le opinioni e i desideri del popolo americano.

Quanto a un così grande ammontare di aiuti militari per Israele, una ricerca del maggio 2016 ha rilevato che il 40% dei repubblicani, il 57% dei democratici e il 59% degli indipendenti pensava che l’offerta iniziale di aiuti fatta da Obama (40 miliardi di dollari – 2 miliardi in più della cifra finale) fosse “troppo, o decisamente troppo.”

Quest’accordo “favorisce Israele e i venditori di armamenti ma non il contribuente USA e non i palestinesi. Sono loro che ci rimettono,” ha scritto l’analista politico Vijay Prashad [intellettuale marxista di origini indiane che insegna negli USA. Ndtr.]

In effetti bisognerebbe scavare più in profondità nel discorso sulla sicurezza di Israele e nell’ vantaggio qualitativo militare per capire veramente gli sconfortanti messaggi che il pacchetto di aiuti militari USA ad Israele comporta per i palestinesi, per i cittadini americani e per la comunità internazionale.

– Zeina Azzam è direttore esecutivo della “Fondazione Gerusalemme” [associazione non profit statunitense che si occupa di programmi di solidarietà con il popolo palestinese. Ndtr.] e del suo programma educativo, il “Centro Palestina”, che si trova a Washington. Le opinioni espresse sono esclusivamente sue.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza assetata

Gaza assetata

di Sami Abu Salem – Newsweek, 17 agosto 2016

Inquinamento, salinizzazione e razionamento stanno minacciando la fornitura di acqua a Gaza

Nel campo di rifugiati di Jabalia, al nord di Gaza, i bambini e le donne anziane trasportano bottiglie di plastica raccolte vicino a rubinetti per riempirle di acqua potabile da un recente pozzo artesiano costruito dal Comune.

Dalal Awwad, un’anziana donna palestinese che vive da sola in una casa vicina, dice di usare regolarmente il pozzo per rifornirsi quotidianamente di acqua potabile.

“Non ho figli che mi aiutino e questa per me è la principale fonte di acqua potabile,” racconta a Newsweek Middle East.
Mentre Awwad riempie il suo contenitore, Abboud Masoud, di 6 anni, e sua sorella Noura, di 8, stanno con altri bambini vicino ai rubinetti, aspettando il loro turno.

“Veniamo qui perchè quest’acqua è gratis. Non abbiamo acqua potabile in casa,” dice, mentre sta per andarsene sulla sua piccola bicicletta, già carica di contenitori pieni d’acqua.

A causa del decennale blocco israeliano, circa due milioni di persone nella Striscia di Gaza stanno affrontando una crisi idrica che ha colpito la qualità e quantità dell’acqua nella piccola area geografica lungo al mare, di non più di 360 km².

Benché negli ultimi anni organizzazioni internazionali abbiano messo in guardia sulla gravissima situazione a Gaza a causa della scarsità di acqua, le cose sembrano peggiorare senza alcuna soluzione a disposizione.

Nel 2012 l’ONU ha avvertito che la fornitura di acqua a Gaza “potrebbe diventare insostenibile entro il 2016″, ed i danni causati potrebbero essere irreversibili entro il 2020.”

Ad aggiungere disgrazia a disgrazia, la maggior parte dell’acqua potabile di Gaza è diventata salata.

Monther Shoblaq, direttore generale dell’azienda municipale per le forniture idriche costiere, dice a Newsweek Middle East che “il 95% dell’acqua di Gaza non è adatta all’uso domestico a causa degli alti livelli di inquinamento e di salinità.”

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) la percentuale di cloruri non dovrebbe superare i 250 mg al litro. Tuttavia a Gaza è di 1.500 mg/l, racconta Shoblaq a Newsweek Middle East.

Aggiunge che anche la concentrazione di nitrati è ben al di sopra dei 50 mg/l raccomandati dall’OMS.

“A Gaza è di 150 mg/l. Se la situazione idrica non cambia entro il 2020, Gaza non avrà più acqua potabile,” aggiunge.
L’inquinamento, insieme all’alta percentuale di sale nell’acqua di Gaza ha provocato malattie letali tra la popolazione locale.

“Questi fattori sono la principale ragione delle malattie renali ed infezioni delle vie urinarie a Gaza,” dichiara a Newsweek Middle East il dottor Abdallah Al Qishawi, primario del reparto di disturbi renali e dialisi all’ospedale Shifa di Gaza.

“Nitrati e cloruri provocano calcolosi renali così come infiammazioni, che portano a insufficienze renali.. .e causano malattie tra le donne incinte ed i bambini piccoli,” dice Al Qishawi.

Secondo quanto afferma, ci sono 550 pazienti in dialisi e circa lo stesso numero soffre di infezioni croniche.

Shoblaq accusa l’occupazione israeliana di Gaza come la principale ragione della crisi, oltre al comportamento irresponsabile delle persone.

Egli sostiene che Israele ha tagliato le risorse idriche trans-frontaliere installando pozzi di bonifica e bacini artificiali non lontano dalle falde acquifere sotterranee di Gaza. Così facendo, secondo Shoblaq, Gaza perde tra i 10 ed i 20 milioni di litri ogni anno.

“Questo modo di procedere impedisce il flusso naturale di acqua a Gaza…è totalmente illegale e viola le leggi internazionali,” aggiunge.

Le necessità di consumo della Striscia di Gaza sono circa dai 180 ai 200 milioni di m³ d’acqua all’anno, ma riceve meno di un terzo di questa quantità – da 55 a 60 milioni di m³ circa all’anno -, il che dimostra una gravissima carenza nell’approvvigionamento.

Nonostante  il ritiro ufficiale dalla Striscia nel 2006, Israele ha continuato a bloccare lo spazio terrestre e marittimo di Gaza.

I palestinesi si lamentano del fatto che, prima del ritiro di Israele, quest’ultimo ha fatto in modo di inquinare il luogo per la popolazione assediata.

“Una delle principali cause di inquinamento sono le vasche di acque reflue costruite da Israele in due zone, a sud e a nord di Gaza…quando si tratta di acqua, l’occupazione israeliana ha lasciato Gaza in condizioni disastrose,” dice Shoblaq. Il blocco israeliano ha avuto anche un impatto sulla fauna e la flora della Striscia, che aggrava ulteriomente il problema.

Rebhi Al Sheikh, vicedirettore dell’Autorità Palestinese per le Acque, dice che gli israeliani hanno messo i bastoni tra le ruote, sia sul campo che a livello politico, ostacolando ogni sforzo di risolvere la crisi idrica di Gaza.

Richiesto di fare un commento sul problema, il portavoce dell’esercito israeliano si è rifiutato di rispondere alle domande di Newsweek Middle East.

“Israele fornisce a Gaza 10 milioni di m³ d’acqua all’anno, così come offre assistenza per lo sviluppo delle infrastrutture idriche,” dice a Newsweek Middle East un portavoce del Coordinamento delle Attività di Governo di Israele nei Territori Palestinesi (COGAT).

“In base all’articolo 40 dell’accordo del 1995 [tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina] Israele dovrebbe consentire ai palestinesi di avere un supplemento di 70-80 milioni di m³ d’acqua all’anno, di cui 5 milioni sono per Gaza,” dice Al Sheikh.

E’ stato dopo 20 anni di negoziati che gli israeliani hanno consentito ai palestinesi di comprare 5 milioni di m³.

“Ma non possiamo comprarli integralmente perché i jet israeliani hanno distrutto il serbatoio per l’acqua in cemento ed altri impianti durante l’ultima aggressione [nel 2014],” racconta Al Shiekh a Newsweek Middle East.

“In uno dei progetti abbiamo perso circa un anno solo nell’attesa che gli israeliani autorizzassero l’attrezzatura,” afferma.

Ma gli israeliani negano l’ingresso di materiale da costruzione a Gaza, sostenendo che potrebbe essere usato per scopi terroristici.

“L’ingresso di materiale a doppio uso, che potrebbe servire a propositi terroristici, richiede un controllo di sicurezza per determinare la destinazione e l’utilizzo dei materiali per fini civili,” ha detto il portavoce del COGAT in una risposta via mail a Newsweek Middle East.

I palestinesi dicono che le affermazioni israeliano sono assurde.

“Immagina, in uno dei progetti in corso gli israeliani ci hanno chiesto di cambiare la ditta contrattata, che ha bloccato i lavori per parecchi mesi,” dice Al Sheikh.

Egli sostiene che Gaza sta costruendo tre impianti temporanei di desalinizzazione dell’acqua di mare di modesta entità per produrre 13 milioni di  m³ all’anno.

A peggiorare ulteriormente la situazione di Gaza, in seguito alla travolgente vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006, i donatori internazionali hanno scelto di interrompere i finanziamenti dei principali progetti a Gaza, compresi gli impianti di desalinizzazione,  dice Shoblaq a Newsweek Middle East.

Ciò, oltre ai danni e alle disfunzioni della rete fognaria dovuti alle ripetute aggressioni israeliane, ha provocato l’infiltrazione di acque reflue nell’acquifero della Striscia.

Va rilevato che l’ONU ha dichiarato che, senza trattamento, il 90% dell’acqua di Gaza proveniente dall’acquifero non è potabile.
Se la situazione non viene risolta, anche l’acqua di mare si infiltrerà completamente nell’acquifero, prevede Al Sheikh.

Nel contempo anche comportamenti irresponsabili da parte della gente sta minacciando quello che rimane delle forniture idriche a Gaza.

Shoblaq dice che almeno 4.000 pozzi illegali sono stati costruiti dai gazawi e che questi costituiscono un vero depauperamento delle fonti naturali della Striscia.

“Un sacco di gente ha costruito alberghetti, villette e persino pozzi artigianali illegali che provocano una perdita di 150.000 litri al giorno.”

Allo stesso tempo, la maggioranza del milione 800mila abitanti di Gaza continua a comprare l’acqua dalle autobotti di acqua potabile del settore privato, che si riforniscono dai pozzi scavati lungo tutta la Striscia.

Assef Mousa, proprietario di un camion che vende acqua potabile, afferma che la maggior parte della gente compra “acqua filtrata” dalle autocisterne.

E apparentemente secondo Mousa, che progetta di espandere il suo giro di affari, questa attività sta andando molto bene.

“Sto pensando di comprare un nuovo camion. Abbiamo molte richieste. I nostri clienti sono in aumento,” aggiunge con un sorriso.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils dice di resistere agli sforzi di mettere fuorilegge il BDS

Article 1 Collective

8 giugno, 2016

Door Adri Nieuwhof

Il veterano della lotta contro l’apartheid Ronnie Kasrils ritiene che i tentativi per mettere fuorilegge il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele siano “assolutamente assurdi” e che i militanti dovrebbero opporsi a tali tentativi.

Lo scorso mese ho intervistato Kasrils sulle sue opinioni in merito al BDS e all’apartheid durante la sua visita ad Amsterdam.

Per decenni Kasrils ha lottato contro l’apartheid come membro dell’African National Congress (ANC) [il partito sudafricano di Nelson Mandela. Ndtr.] e del Partito Comunista. Ha partecipato ad operazioni dell’ala militare dell’ANC, Umkhonto we Sizwe [letteralmente “Lancia della Nazione. ndtr.]. Dopo la caduta dell’apartheid, è stato deputato e vice-ministro in molti governi.

Kasrils è nato a Johannesburg nel 1938, nipote di ebrei lituani e lettoni immigrati in Sudafrica alla fine del XIX° secolo per sfuggire ai pogrom zaristi.

Il BDS ha contribuito al cambiamento

“Ha funzionato a meraviglia,” risponde subito Kasrils alla mia domanda se il BDS contro l’apartheid sudafricano sia stato efficace.

“Il BDS ha fatto arrabbiare moltissimo i bianchi in Sudafrica. Ma con il BDS li avete sfiancati. Si è arrivati al punto che non ne potevano più e allora hanno desiderato un cambiamento.”

Un membro del Partito Nazionale [sudafricano, partito nazionalista di destra sostenitore dell’apartheid. Ndtr.] al governo disse a Kasrils che la decisione di Barclays [grande banca britannica. Ndtr.] di lasciare il Sudafrica nel 1988, dopo una presenza di oltre 150 anni, “è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.” Ricorda che l’attivismo internazionale del BDS cominciò con un boicottaggio di frutta sudafricana come le arance Outspan, l’uva e le mele da parte dei consumatori. Negli anni ’70 Peter Hain in Gran Bretagna iniziò a interrompere manifestazioni sportive. Con un gruppo scese sul campo di tennis a Bristol e bloccò la squadra sudafricana. “Si è diffuso a macchia d’olio ed ha raggiunto altri Paesi.” Il boicottaggio era aperto a interpretazioni creative e diventò un modo importante di comunicare e di coinvolgere la gente.

Allora fondi pensione delle chiese e dei sindacati in tutto il mondo iniziarono a disinvestire dalle imprese sudafricane o da quelle che investivano in Sudafrica. Ciò ebbe un grande effetto.

Nel 1985 in America i lavoratori della Kodak si resero conto fino a che punto i sudafricani neri stessero soffrendo. Gli afro-americani divennero determinanti nella mobilitazione anti-apartheid. Attraverso i loro senatori e deputati al Congresso, la lobby nera iniziò ad esercitare pesanti pressioni contro imprese e banche. La Chase Manhattan fu la prima banca a interrompere i rapporti con il Sudafrica.

Proibire il BDS è assurdo

Kasrils afferma di sostenere al cento per cento l’attivismo BDS contro Israele. Aggiunge che bisogna resistere ai tentativi di metterlo fuorilegge negli Stati Uniti, in Canada, in Francia e nel Regno Unito.

“E’ totalmente assurdo che i governi utilizzino la legge per negare il diritto di parola della gente che crede che il BDS sia un mezzo pacifico per fornire appoggio e solidarietà al popolo palestinese.”

“Quei governi dovrebbero appoggiare l’intero processo. Allora ci sarebbe una grande tranquillità e pace per il popolo in Palestina, in Israele e in tutto il Medio oriente. Israele è una potenza nucleare con un numero considerevole di bombe nucleari e con estremisti di destra al potere. La popolazione sta chiedendo sangue, non solo quello palestinese ma anche dei popoli della regione e di persone come Omar Barghouti, che sta semplicemente parlando del diritto al BDS.”

“Israele è un Paese che sta mostrando le peggiori forme di ingiustizia, di massacri che abbiamo visto da molto tempo. Paesi che, detto per inciso, sono spesso definiti fascisti.”

Peggio dell’apartheid

Kasrils ha visitato Israele e Palestina varie volte. Quando gli ho chiesto delle sue esperienze, mi ha risposto: “Ci sono sicuramente delle somiglianze.” Nel 1984 il Consiglio di Sicurezza appoggiò la definizione adottata dall’Assemblea Generale nel 1966, secondo cui l’apartheid è un crimine contro l’umanità. La “Convenzione sull’Apartheid” non parla di “apartheid sudafricano”, è più ampia, osserva Kasrils.

La definizione di apartheid parla di azioni inumane commesse con lo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su un altro e di opprimerlo sistematicamente. Si deve applicare quella definizione per stabilire se Israele sta praticando l’apartheid.

Qualunque sudafricano che sia stato coinvolto nella lotta per la libertà e che abbia visitato Palestina e Israele dice: “Questo è proprio come l’apartheid,” continua Kasrils. “La separazione delle persone, le misure applicate, quelle code ai checkpoint, l’umiliazione, sono come l’apartheid.”

L’arcivescovo Desmond Tutu e molte altre persone dicono che è addirittura peggio dell’apartheid.

“Raramente abbiamo visto l’apartheid lanciare bombe sulla gente o entrare nelle township [i ghetti per i sudafricani neri. Ndtr.] con carri armati e sparare con artiglieria pesante come a Gaza. In Sudafrica abbiamo visto massacri atroci e ci sono state occasioni in cui è stato dichiarato lo stato d’emergenza, il movimento dei neri controllato, lo stato d’assedio in township come Soweto. Durava qualche settimana. Non per anni come in Cisgiordania o a Gaza,” ricorda Kasrils.

Ci sarà un cambiamento

Molti dubitano che Israele cambierà e che rispetterà i diritti del popolo palestinese.

Tuttavia Kasrils è sicuro che questo cambierà: “Israele è un esempio di ultimo Stato coloniale, ha portato via la terra al popolo palestinese, lo ha spogliato di terra e diritti, ha utilizzato i metodi più terribili durante tutta la sua storia. Noi sudafricani abbiamo attraversato un processo agonizzante sotto l’apartheid. Capiamo quello che sta succedendo al popolo palestinese. Noi siamo totalmente solidali e chiediamo ai governi di rispettare le risoluzioni dell’ONU. Ciò significa: la fine dell’occupazione, la fine dell’assedio di Gaza, il diritto al ritorno dei rifugiati. L’unico modo in cui gli ebrei di Israele possono avere la garanzia di vivere in sicurezza è riconoscendo i diritti degli altri esseri umani, il popolo palestinese.”

C’è stato un tempo in cui la gente sentiva che non ci sarebbe stata una fine dell’apartheid in Sudafrica, prosegue Kasrils. Lo Stato dei bianchi era molto forte. Aveva molte risorse ed era appoggiato dall’Occidente, compresi gli stessi Paesi che oggi stanno appoggiando Israele.

E’ stato sconfitto, perché la gente in Sudafrica era decisa. Per ottenere un cambiamento ci vogliono unità, determinazione, buoni dirigenti, la strategia corretta, una visione per il futuro. Alla fine, l’esito per una giusta causa è certo, non importa quanto tempo ci vorrà. Il Sudafrica lo dimostra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Io c’ero

di Uri Avnery

21 maggio, 2016  Gush Shalom

“Per favore non scrivere di Ya’ir Golan!”, mi ha pregato un amico. “Qualunque cosa scriva uno di sinistra come te non farà che danneggiarlo!”

Così per alcune settimane ho evitato di farlo. Ma non posso tacere oltre.

Il Generale Ya’ir Golan, vice Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, ha tenuto un discorso in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto. Indossando la sua uniforme, ha letto un testo preparato in anticipo e ben ponderato, che ha provocato uno scalpore non ancora sopito.

Decine di articoli sono stati pubblicati su di lui, alcuni di condanna, altri di lode. A quanto pare, nessuno ha potuto rimanere indifferente.

La frase principale è stata: “Se qualcosa mi terrorizza della memoria dell’Olocausto, è la consapevolezza dei terribili sviluppi verificatisi in generale in Europa, e particolarmente in Germania, 70, 80, 90 anni fa, e il ritrovarne traccia qui in mezzo a noi, oggi, nel 2016.”

Si è scatenato l’inferno. Come!!! Tracce di nazismo in Israele? Un paragone tra ciò che i nazisti hanno fatto a noi e ciò che noi stiamo facendo ai palestinesi?

Novant’ anni fa era il 1926, uno degli ultimi anni della repubblica tedesca. Ottant’ anni fa era il 1936, tre anni dopo l’ascesa al potere del nazismo. Settant’ anni fa era il 1946, all’indomani del suicidio di Hitler e della fine del Reich nazista.

Dopo tutto mi sento obbligato a scrivere riguardo al discorso del generale, perché io c’ero.

Da bambino sono stato testimone degli ultimi anni della Repubblica di Weimar (così chiamata perché la sua costituzione è stata stilata a Weimar, la città di Goethe e Schiller). In quanto ragazzo interessato alla politica, ho assistito alla Machtergreifung (“presa del potere”) nazista ed ai primi sei mesi di governo nazista.

So di che cosa parlava Golan. Benché apparteniamo a due differenti generazioni, condividiamo lo stesso background. Entrambe le nostre famiglie provengono da piccole cittadine della Germania occidentale. Suo padre ed io probabilmente abbiamo avuto molte cose in comune.

C’è un rigido precetto in Israele: nulla può essere paragonato all’Olocausto. L’Olocausto è unico. E’ successo a noi, gli ebrei, poiché noi siamo unici. (Gli ebrei religiosi aggiungerebbero: “Perché Dio ci ha prescelti”.)

Ho infranto quel precetto. Appena prima che Golan nascesse, ho pubblicato (in ebraico) un libro intitolato “La svastica”, in cui raccontavo i miei ricordi d’infanzia e cercavo di trarre da essi delle conclusioni. Era la vigilia del processo ad Eichmann ed io ero sconvolto dalla scarsa conoscenza riguardo al periodo nazista tra i giovani israeliani di allora.

Il mio libro non si occupava dell’Olocausto, che avvenne quando io ormai vivevo in Palestina, ma di una questione che mi ha turbato attraverso gli anni ed ancora oggi: come è potuto accadere che la Germania, forse la nazione più colta al mondo a quel tempo, la patria di Goethe, Beethoven e Kant, abbia eletto democraticamente come leader uno psicopatico delirante come Adolf Hitler?

L’ultimo capitolo del libro si intitolava “Può succedere qui!” Il titolo era preso da un libro dello scrittore americano Sinclair Lewis, intitolato ironicamente “Non può succedere qui”, in cui descriveva una ascesa nazista negli Stati Uniti.

In quel capitolo disquisivo sulla possibilità che un partito ebraico di tipo nazista arrivasse al potere in Israele. La mia conclusione era che un partito nazista può arrivare al potere in qualunque paese del mondo, se vi sono le condizioni giuste. Sì, anche in Israele.

Il libro fu ampiamente ignorato dal pubblico israeliano, che a quell’epoca era travolto dalla tempesta emotiva provocata dalle tremende rivelazioni del processo Eichmann.

Adesso arriva il generale Golan, uno stimato militare professionista, e dice le stesse cose.

E non con una considerazione estemporanea, ma in un’occasione ufficiale, indossando la sua uniforme di generale, leggendo un testo preparato e ponderato.

La tempesta è scoppiata, e non si è ancora calmata.

Gli israeliani hanno un atteggiamento autoprotettivo: quando si trovano di fronte a verità scomode, evitano di affrontare l’essenziale e si occupano di aspetti secondari e irrilevanti. Tra le decine e decine di reazioni sulla stampa, in televisione e sulle piattaforme politiche, quasi nessuna si è confrontata con la dolente opinione del generale.

No, l’accesa discussione che si è scatenata verte sulle seguenti questioni: è consentito ad un militare di alto grado dell’esercito esprimere un’opinione su questioni riguardanti l’istituzione civile? E farlo in uniforme militare? In un’occasione ufficiale?

Un ufficiale dell’esercito dovrebbe tacere le proprie convinzioni politiche? O esprimerle soltanto a porte chiuse – “in sedi appropriate”, come ha detto un furioso Benyamin Netanyahu?

Il Generale Golan gode di altissimo rispetto nell’esercito. Come vice capo di Stato Maggiore era finora quasi sicuramente candidato a capo di Stato Maggiore, quando il titolare lascerà la carica dopo i consueti quattro anni.

L’avverarsi di questo sogno, condiviso da ogni generale dello Stato Maggiore è ora molto lontano. Praticamente Golan ha sacrificato la sua prossima promozione per estrinsecare il suo allarme e dargli la più ampia risonanza.

Si può solo aver rispetto per un tale coraggio. Credo di non aver mai incontrato il generale Golan e non conosco le sue opinioni politiche. Però ammiro il suo gesto.

(In certo modo mi torna alla mente un articolo pubblicato dalla rivista inglese Punch prima della prima guerra mondiale, quando un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito fece una dichiarazione contro la politica del governo in Irlanda. La rivista disse che, pur disapprovando l’opinione espressa dagli ufficiali ribelli, era orgogliosa del fatto che ufficiali così giovani fossero pronti a sacrificare la loro carriera per le proprie convinzioni.)

La marcia nazista verso il potere iniziò nel 1929, quando la Germania fu colpita dalla terribile crisi economica mondiale. Un minuscolo e irrisorio partito di estrema destra diventò una forza politica con cui fare i conti. Da allora in quattro anni divenne il più grande partito del paese e prese il potere (anche se ancora aveva bisogno di governare insieme ad altri partiti).

Io c’ero quando ciò accadde, un ragazzo di una famiglia nella quale la politica diventò il principale argomento a cena. Ho visto quando la repubblica è crollata, gradualmente, lentamente, passo dopo passo. Ho visto i nostri amici di famiglia sventolare la bandiera con la svastica. Ho visto il mio insegnante delle superiori alzare il braccio entrando in classe e dire “Heil Hitler” per la prima volta (per poi rassicurarmi in privato che niente era cambiato).

Ero l’unico ebreo in tutto il ginnasio (scuola superiore). Quando le centinaia di ragazzi – tutti più alti di me – alzarono le braccia e cantarono l’inno nazista, ed io non lo feci, mi minacciarono di rompermi le ossa se fosse successo nuovamente. Pochi giorni dopo lasciammo la Germania per sempre.

Il Generale Golan è stato accusato di paragonare Israele alla Germania nazista. Nulla del genere. Un’attenta lettura del suo discorso dimostra che ha paragonato gli sviluppi in Israele agli eventi che condussero alla disintegrazione della Repubblica di Weimar. E questo è un paragone fondato.

I fatti che accadono in Israele, soprattutto dopo le ultime elezioni, assomigliano paurosamente a quegli eventi. Certo, il contesto è totalmente diverso. Il fascismo tedesco nacque dall’umiliazione della resa nella prima guerra mondiale, dell’occupazione della Ruhr da parte di Francia e Belgio dal 1923 al 1925, dalla tremenda crisi economica del 1929, dalla miseria di milioni di disoccupati. Israele riporta la vittoria nelle sue numerose azioni militari, noi viviamo una vita agiata. I pericoli che ci minacciano sono di natura del tutto differente. Derivano dalle nostre vittorie, non dalle nostre sconfitte.

Certo, le differenze tra l’Israele di oggi e la Germania di allora sono molto più grandi delle similitudini. Ma queste similitudini esistono, e il generale ha fatto bene a segnalarle.

La discriminazione nei confronti dei palestinesi praticamente in tutte le sfere della vita può essere paragonata al trattamento degli ebrei nel primo periodo della Germania nazista. (L’oppressione dei palestinesi nei territori occupati ricorda di più il trattamento dei cechi nel “protettorato” dopo il tradimento di Monaco [cioé l’accettazione da parte di Francia e Gran Bretagna dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, ndt.].)

Il diluvio di leggi razziste alla Knesset (Parlamento israeliano), quelle già adottate e quelle in itinere, richiama fortemente le leggi adottate dal Reichstag nei primi giorni del regime nazista. Alcuni rabbini invitano al boicottaggio dei negozi arabi. Come allora. Il grido “Morte agli arabi” (“Judah verrecke”?) si sente sistematicamente durante le partite di calcio. Un membro del parlamento ha auspicato la separazione tra neonati ebrei ed arabi negli ospedali. Un capo rabbino ha dichiarato che i goyim (i non ebrei) sono stati creati da Dio per servire gli ebrei. I nostri ministri dell’educazione e della cultura sono impegnati a sottomettere scuole, teatri ed arti alla linea di estrema destra, cosa che era conosciuta in Germania come “Gleichschaltung”. La Corte Suprema, il vanto di Israele, viene attaccata senza sosta dal ministro della giustizia. La Striscia di Gaza è un enorme ghetto.

Ovviamente nessuno sano di mente potrebbe paragonare neanche lontanamente Netanyahu al Fuhrer, ma qui ci sono partiti politici che emanano un forte odore di fascismo. La marmaglia politica che occupa l’attuale governo Netanyahu avrebbe facilmente trovato posto nel primo governo nazista. 

Uno dei principali slogan del nostro attuale governo è sostituire la “vecchia dirigenza”, considerata troppo liberale, con una nuova. Uno dei principali slogan nazisti era sostituire “das System”.

Tra l’altro, quando i nazisti arrivarono al potere, quasi tutti gli ufficiali di alto grado dell’esercito tedesco erano convinti antinazisti. Presero anche in considerazione un putsch contro Hitler. Il loro leader politico fu giustiziato sommariamente un anno dopo, quando Hitler liquidò i suoi oppositori nel suo stesso partito. Ci viene detto che il generale Golan è ora protetto da una guardia del corpo personale, cosa mai accaduta ad un generale nella storia di Israele.

Il generale non ha menzionato l’occupazione e le colonie, che sono sotto il controllo dell’esercito. Ma ha ricordato l’episodio avvenuto poco prima che lui tenesse il suo discorso, e che sta ancora scuotendo Israele: nella Hebron occupata, sotto controllo dell’esercito, un soldato ha visto un palestinese gravemente ferito che giaceva senza aiuto a terra, si è avvicinato e lo ha ucciso con un colpo alla testa. La vittima aveva tentato di assalire alcuni soldati con un coltello, ma non costituiva più una minaccia per nessuno. Si è trattato di una chiara trasgressione agli ordini vigenti nell’esercito, ed il soldato è stato trascinato di fronte alla corte marziale.

Si è alzato un grido in tutto il paese: il soldato è un eroe! Dovrebbe essere decorato! Netanyahu ha telefonato a suo padre per assicurargli il suo appoggio. Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista, ndt.] è entrato nell’affollata aula del tribunale per esprimere la propria solidarietà al soldato. Pochi giorni dopo Netanyahu ha nominato Lieberman ministro della difesa, il secondo più importante incarico in Israele.

Prima di ciò, il Generale Golan ha ricevuto un forte appoggio da parte del ministro della difesa, Moshe Ya’alon e del Capo di Stato Maggiore, Gadi Eisenkot. Probabilmente è stata questa la ragione immediata della revoca di Ya’alon e della nomina di Lieberman al suo posto. Assomiglia ad un putsch.

Sembra che Golan non sia solo un ufficiale coraggioso, ma anche un profeta. L’inserimento del partito di Lieberman nella coalizione di governo conferma i più neri timori di Golan. E’ un altro colpo fatale alla democrazia di Israele.

Sarò condannato ad assistere agli stessi sviluppi per la seconda volta nella mia vita?

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come ho imparato ad innamorarmi delle sanzioni

Le sanzioni non hanno distrutto il Sud Africa e l’Iran; e non distruggeranno Israele. Soprattutto, libereranno Israele dalla trappola dalla quale non è in grado di uscire da solo.

di Shlomo Sand

 Haaretz

I media la definiscono l’intifada dei singoli. Ma tutti noi sappiamo che è innanzitutto un’ intifada dei giovani. La classe politica israeliana è convinta che [i giovani] vengano sobillati, ma chiunque voglia essere onesto con sé stesso sa che le ragioni reali della recente ondata di attacchi sono la persistente occupazione, le umiliazioni quotidiane, il vuoto esistenziale e la percezione di non avere nessuna via di uscita.

Poco distante dalle nostra vita quotidiana a Tel Aviv e a Haifa, un popolo privo dei diritti umani e privo dei più fondamentali diritti civili ha vissuto per circa mezzo secolo. Noi, gli israeliani, lavoriamo, studiamo e viviamo agiatamente e liberamente, mentre non lontano da noi un popolo è alla mercé dei soldati e della smisurata avidità per la terra dei coloni appoggiati dal governo.

Ogni volta che sento le notizie di un ragazzo o una ragazza palestinese che hanno buttato la loro vita per ammazzare degli israeliani, sono costernato per il gesto, ma allo stesso tempo non posso esimermi dal ricordare le dure parole di Alexander Penn [poeta israeliano di origine russa membro del partito comunista, ma anche sionista. ndt]: “Ed egli è stato incendiato, sta fiammeggiando e sacrifica se stesso per incenerire l’amara offesa della schiavitù”.

Naturalmente la resistenza armata non è di per sé qualcosa di nobile e di virtuoso. E’ difficile e spesso orrendo. Donne innocenti e bambini sono colpiti e persino uccisi.

Ma quelli che lo stanno perpetrando non sono nati assassini. In altre circostanze storiche, quei bambini e quei giovani che prendono un coltello da cucina, un’accetta o una vecchia auto e li trasformano in armi letali, avrebbero potuto finire i loro studi, diventare degli onesti professionisti, essere delle madri e dei padri, crescere dei bambini e invecchiare pacificamente.

Ma nella loro storia è stato danneggiato qualcosa che sta provocando disastri e che nella nostra storia israeliana sta diventando mostruoso.

Quando incontro all’estero dei colleghi , spesso mi chiedono come possa succedere che i discendenti degli ebrei perseguitati possano trasformarsi in così brutali persecutori. Io rispondo che la persecuzione non ha mai prodotto un automatico vaccino contro l’arbitrarietà e la cecità verso il destino dell’altro.

Tuttavia se l’insediamento dei profughi [ebrei] cacciati dall’Europa può essere considerata come una giustizia storicamente discutibile ( dopo tutto, i nativi non avrebbero dovuto pagare per quello che la civiltà cristiana ha fatto ai nostri genitori e ai nostri nonni) il continuo insediamento dei figli dei profughi che hanno già acquisito una sovranità è un male privo di qualsiasi giustizia.

La maggior parte della società israeliana sostiene i mali dell’occupazione o indifferente riguardo ad essi. Alcuni pensano che è il prezzo da pagare per la lenta liberazione dell’immaginaria patria che la bibbia ha promesso loro. Altri traggono un beneficio da generosi finanziamenti e da beni reali; per la maggior parte di essi è semplicemente più comodo ignorare tutto quello che li circonda.

Le ferie incombenti, la carriera che è così difficile da preservare e sviluppare, le difficoltà economiche e gli ostacoli e altri simili cose ci impediscono di vedere e comprendere perché dei ragazzini diventano degli assassini. Perché tredicenni, quattordicenni, quindicenni hanno apparentemente perso interesse verso la loro vita e sono di conseguenza disposti a prendersi la vita di altri in un’esplosione di odio.

Non scrivo per convincere i coloni e i loro fanatici sostenitori. Non provo a cambiare il pensiero dei politici populisti che nuotano in un oceano di manipolazione del potere.

Cerco di rivolgermi a coloro che sono apatici o forse pigri, o semplicemente perché gli conviene non saperne niente. L’ondata di terrore degli ultimi mesi non ci ha ancora impedito dal condurre una vita normale. È ancora possibile vivere un’esistenza illusoria, nella convinzione che alla fine tutto in qualche modo si aggiusterà.

Se noi israeliani siamo riusciti fino ad ora a cavarcela da tutte le guerre e dalle intifade , sicuramente riusciremo a superare tutti i guai futuri.

Io, in dissenso con costoro, penso che la vita oggi in un Medio Oriente instabile e in un Paese ebraico in continua espansione è simile a una corsa senza speranza e condannata [in partenza]. Non solo stanno crollando i valori fondamentali, ma con loro è stata erosa anche la logica politica dei nostri stessi presunti interessi.

Penso che i miei contributi ingenui possano servire? Non proprio. Sono sempre più persuaso che la possibilità di un’opposizione politica capace di modificare la tendenza generatasi in Israele – che annunci che Israele non è interessato a nessuna sovranità oltre i confini del 1967 e che intenda rimandare indietro nelle loro precedenti patrie tutti i coloni; che i luoghi santi non devono essere sotto il controllo esclusivo di Israele e che Gerusalemme può essere la capitale dei due Stati – la probabilità che ciò avvenga sia prossima allo zero.

È possibile che, se il terrorismo aumenta e se, dio non voglia, gli assalitori suicidi più anziani si uniscono ai giovani di oggi, se non ora in futuro, più e più israeliani si stancheranno concretamente dell’occupazione. Ma se questo triste scenario si concretizzasse, ciò avverrebbe dopo dopo che ancora più sangue venga versato da entrambe le parti.

Proprio perché mi oppongo all’occupazione e alla negazione dei diritti degli altri, detesto anche il terrorismo e lo ripudio. Per questa ragione, sono sfortunatamente arrivato a una conclusione che precedentemente avevo rifiutato di fare o di esprimere pubblicamente. Non posso più continuare a criticare le pressioni sul governo israeliano.

Per anni mi sono opposto al boicottaggio e alle sanzioni, ma sono sempre più convinto che, come le sanzioni hanno funzionato quando sono state applicate contro il Sud Africa e contro l’Iran, possono essere efficaci se applicate contro Israele.

Le sanzioni non hanno distrutto il Sud Africa o l’Iran. Né distruggeranno Israele. Io, ovviamente, mi oppongo per principio a sanzioni il cui obiettivo sia quello di cambiare il regime e lo stile di vita in Israele. Nessuno se non gli israeliani ha il diritto di farlo.

Ma le sanzioni che sono intese a impedire il continuo controllo di Israele sulla vita degli altri, il che ha impedito a costoro di possedere la propria terra e gestire il proprio destino negli ultimi 50 anni, non contraddicono il principio democratico di autodeterminazione. È vero il contrario. Lo ampliano.

Questa è un’opportunità, e non piccola, che tali sanzioni salvino sia i ragazzi che commettono attacchi suicidi che le loro vittime. E oltretutto, potrebbero togliere Israele dalla trappola da cui, come dimostra ogni giorno che passa, non è in grado di uscire da solo. A mio modesto parere chiunque ami il Paese e si opponga al terrorismo non può più permettersi di continuare a protestare contro le pressioni e le sanzioni che divengono via via sempre più legittime

Il prof. Sand insegna nel dipartimento di storia dell’università di Tel Aviv. Il suo ultimo libro “History in the Shadows” [titolo originale “Crépuscule de l’histoire”, sull’insegnamento della storia, ndtr.] è stato pubblicato nel 2015.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo

di Edo Konrad

+972 Magazine

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

pa-policeLa polizia dell’Autorità palestinese cerca di impedire ai giovani del campo profughi Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, Cisgiordania , 27 settembre 2013.(Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

Riferimento Twitter: @edokonrad