È apartheid, dicono gli ambasciatori di Israele in Sudafrica

Ilan Baruch e Alon Liel

8 giugno 2021 – GroundUp

È chiaro più che mai che l’occupazione non è temporanea e che non c’è una volontà politica del governo israeliano di porvi fine.”

Nel corso delle nostre carriere nel corpo diplomatico siamo stati entrambi ambasciatori di Israele in Sudafrica. Ricoprendo questo ruolo abbiamo fatto esperienza diretta con la realtà dell’apartheid e con gli orrori che ha inflitto. Ma oltre a ciò, l’esperienza e la conoscenza che abbiamo acquisito in Sudafrica ci hanno aiutato a comprendere la realtà della nostra patria.

Per oltre cinquant’anni Israele ha governato i territori palestinesi occupati con un sistema legale a due regimi, secondo cui in Cisgiordania, nello stesso territorio, i coloni israeliani sono soggetti alla legge civile israeliana mentre i palestinesi sono soggetti alla legge militare. Il sistema contiene un’intrinseca diseguaglianza. In questo contesto, Israele ha operato per cambiare sia la geografia che la demografia della Cisgiordania tramite la costruzione di insediamenti che sono illegali ai sensi del diritto internazionale.

Israele ha sviluppato progetti per collegare tali insediamenti a Israele propriamente detto con investimenti intensivi per lo sviluppo di infrastrutture e di una vasta rete di superstrade, servizi idrici ed elettrici che hanno trasformato l’impresa degli insediamenti in un’agiata periferia. Questo è successo in contemporanea con l’esproprio e l’occupazione di enormi quantità di terra palestinese, inclusi sfratti e demolizioni di case palestinesi. Ciò significa che gli insediamenti sono costruiti e ampliati a spese delle comunità palestinesi che sono finite confinate in tratti di territorio sempre più piccoli.

Questa situazione ci ricorda una storia che l’ex ambasciatore Avi Primor ha descritto nella sua autobiografia a proposito di un viaggio in Sudafrica agli inizi degli anni ’80 con Ariel Sharon, allora ministro della Difesa. Durante la visita, Sharon aveva espresso grande interesse per il progetto dei bantustan. Anche solo una rapida occhiata alla mappa della Cisgiordania lascia pochi dubbi su dove Sharon abbia tratto ispirazione.

Oggi la Cisgiordania consiste di 165 “enclavi”, cioè comunità palestinesi circondate da territori occupati dagli insediamenti. Nel 2005, con lo smantellamento delle colonie di Gaza e l’inizio dell’assedio, essa è diventata semplicemente un’altra enclave, un territorio senza autonomia, circondato per la gran parte da Israele e perciò anch’esso controllato da Israele.

I bantustan del Sudafrica in regime di apartheid e la mappa dei territori palestinesi occupati oggi sono basati sulla stessa idea di concentrare la popolazione “indesiderabile” nell’area più piccola possibile, in una serie di enclavi non contigue. Cacciando gradualmente queste popolazioni dalle loro terre e ammassandole in sacche densamente popolate e frammentate, sia il Sudafrica allora, che Israele oggi, hanno operato per impedire l’autonomia politica e una vera democrazia.

Questa settimana commemoriamo i 55 anni dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania. È chiaro ora più che mai che l’occupazione non è temporanea e che non c’è la volontà politica del governo israeliano per porvi fine. s Human RightWatch [notissima ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] ha recentemente concluso che Israele ha varcato la soglia e che le sue azioni nei territori occupati ora rispondono alla definizione giuridica di crimine di apartheid secondo il diritto internazionale.

Israele è il solo potere sovrano che opera in questa terra e discrimina sistematicamente in base a nazionalità ed etnia. Tale realtà è, come abbiamo visto noi stessi, apartheid. È ora che il mondo riconosca che quello che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa sta succedendo anche nei territori palestinesi occupati.

E proprio come il mondo si è unito nella lotta contro l’apartheid in Sudafrica, è ora che intervenga con un’azione diplomatica decisiva nel nostro caso e operi per costruire un futuro di uguaglianza, dignità e sicurezza sia per i palestinesi che per gli israeliani.

Ilan Baruch ha ricoperto la carica di ambasciatore di Israele in Sudafrica, Namibia, Botswana e Zimbabwe.

Alon Liel ha ricoperto la carica di ambasciatore di Israele in Sudafrica e di direttore generale del Ministero degli affari esteri israeliano.

Le opinioni espresse non sono necessariamente quelle di GroundUp.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Che genere di resistenza fareste?

Basman Derawi

7 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Caro mondo,

che genere di resistenza volete che io faccia? Armata, disarmata, o niente del tutto, solo morire in silenzio in modo da non disturbarti?

Che genere di resistenza fareste voi se la vostra casa fosse stata rubata, se la vostra vita fosse solo un grumo nelle mani di qualcun altro? Di qualcuno che dice che il suo dio gli ha promesso la vostra terra?

Caro mondo,

immagino di camminare nelle strade di Sheikh Jarrah e trovare Yacoub (il colono) sulla porta della mia casa, che mi ordina di demolire la mia stessa casa, pezzo dopo pezzo, o di pagarlo perché lo faccia mentre io sto a guardare.

Immagino i giornalisti arrestati semplicemente perché fanno il loro lavoro, documentano i nostri tentativi di resistere, e i capi della protesta, arrestati nelle loro case, circondati da pericoli.

Non è così diverso da qui, quando cammino per le strade di Gaza, immerse nel buio (non c’è elettricità). Sento i droni che sibilano nelle mie orecchie. Vedo i calcinacci di un edificio, sento l’eco spettrale di bambini che piangono, la loro casa finita in un’esplosione di polvere.

Una guerra è finita, un’altra arriverà.

Caro mondo, non ho forse il diritto di resistere? L’occupazione è sempre giusta? Voi non fareste lo stesso se foste nei miei panni?

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Appello di cittadini ebrei israeliani: Fermate l’apartheid di Israele.

Maggio 2021 #IsraelisAgainstApartheid

Lettera aperta alla Comunità internazionale

Noi, ebrei israeliani, ci opponiamo alle azioni del governo israeliano e con la presente dichiariamo il nostro impegno ad agire contro di loro. Ci rifiutiamo di accettare il regime ebraico-suprematista e chiediamo alla comunità internazionale di intervenire immediatamente in difesa dei palestinesi a Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme, Galilea, Negev, al-Lydd, Yafa, Ramleh, Haifa e Palestina.

La supremazia ebraica è la pietra angolare del regime israeliano e il suo obiettivo coerente è trasferire e cancellare il popolo palestinese, la sua storia e la sua identità nazionale. Questo obiettivo si manifesta in continui atti di pulizia etnica mediante sfratti e demolizioni di case, brutale occupazione militare, negazione dei diritti civili e umani e legislazione di una serie di leggi razziste che culminano nel disegno di legge Stato-nazione, che definisce lo Stato Stato nazione del popolo ebraico ”, e solo loro.

Tutto quanto sopra forma effettivamente un regime di apartheid che crea aree simili a Bantustan e ghetto per le comunità native palestinesi. Crediamo che il sionismo sia un principio di governo non etico che porta intrinsecamente a un regime di apartheid razzista che ha commesso crimini di guerra e negato i diritti umani fondamentali ai palestinesi per oltre sette decenni. Tali crimini e violazioni includono: la distruzione di centinaia di città e villaggi e il loro spopolamento di 750.000 palestinesi nel 1948, insieme alla prevenzione attiva del ritorno dei rifugiati; l’espropriazione sistematica delle terre dei palestinesi e il loro trasferimento in proprietà ebraica sotto gli auspici dello stato; l’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e delle alture del Golan e l’applicazione di un regime militare colonizzatore, che governa su milioni di palestinesi; la graduale annessione dei territori occupati nel 1967 dall’ingegneria demografica violenta; l’assedio in corso sulla striscia di Gaza e i persistenti massacri della popolazione di Gaza da parte dell’aviazione israeliana; la persecuzione politica dei palestinesi in tutta la Palestina e l’incitamento in corso contro la leadership politica e la società in generale; Tutte queste atrocità si verificano a causa dell’impunità che Israele riceve dalla comunità internazionale e in particolare dagli Stati Uniti.

Nelle ultime settimane, il governo israeliano ha aumentato i suoi tentativi di impossessarsi di case palestinesi a Gerusalemme Est (specialmente nel quartiere di Sheikh Jarrah) e ospitarvi coloni ebrei con l’obiettivo di completare la giudaizzazione della città iniziata nel 1967. Durante il mese del Ramadan, le forze israeliane hanno intensificato il loro violento assalto al complesso della Moschea di Al Aqsa, dando il via libera ai coloni per vandalizzare e danneggiare fisicamente i palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme e in tutti i territori del ’48. I movimenti dei coloni agiscono sotto gli auspici e in coordinamento con la polizia israeliana. I media israeliani stanno prendendo parte alla sfrenata istigazione contro i cittadini arabi di Israele. Di conseguenza, le folle ebraiche ricevono impunità per la loro violenza,

Mentre scriviamo questa dichiarazione, Israele sta commettendo un altro massacro nel ghetto di Gaza. Israele ha rifiutato diverse offerte di terze parti per negoziare un accordo di cessate il fuoco con i funzionari di Hamas e ha continuato a bombardare i quartieri di Gaza. Continua l’assedio disumano su circa due milioni di persone.

Come individui che appartengono alla parte dell’oppressore e che hanno cercato per anni di spostare l’opinione pubblica in Israele al fine di cambiare le basi dell’attuale regime, siamo da tempo giunti alla conclusione che è impossibile cambiare il suprematista regime ebraico senza intervento esterno.

Chiediamo alla comunità internazionale di intervenire immediatamente per fermare le attuali aggressioni israeliane, per adottare le richieste del movimento palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni; lavorare per l’attualizzazione del diritto palestinese al ritorno e per realizzare una giustizia storica; per raggiungere una soluzione giusta e democratica per tutti, basata sulla decolonizzazione della regione e sulla fondazione di uno stato di tutti i suoi cittadini.

#IsraelisAgainstApartheid

Firma la lettera

Elenco delle firme

  1. Ruchama Marton

  2. Melissa Danz

  3. Tal Dor

  4. Aya Kaniuk

  5. Shiri Eisner

  6. Shaul Tcherikover

  7. Rana Saba

  8. Esther Rapoport

  9. Yossef Mekyton

  10. Revital Sella

  11. Haley Firkser

  12. Michal Raz

  13. Avi Liberman

  14. Amitai Ben-Abba

  15. Shlomo Owen

  16. Shmuel Merzel

  17. Maayan Geva

  18. Hillel Garmi

  19. Zohar Atai

  20. Dina Hecht

  21. Naama Farjoun

  22. Ehud Shem Tov

  23. Daniel Roe

  24. Neta Golan

  25. Guy Avni

  26. Daniella Cramer

  27. Yonatan Shapira

  28. Einat Weizman

  29. Tali Shapiro

  30. Tom Pessah

  31. Keren Assaf

  32. Ofer Neiman

  33. Tami Dynes

  34. Guy Hirschfeld

  35. Tsipi Erann

  36. Aryeh Miller

  37. Vardit Shalfy

  38. O Ben David

  39. Haim Schwarczenberg

  40. Oren Feld

  41. Shira Havkin

  42. Oneg Ben Dror

  43. Rosana Berghoff

  44. Lirona Rosenthal

  45. Dror Shohet

  46. Guy Gillor

  47. Adi Shosberger

  48. Imri Hen

  49. Nuni Tal

  50. Dalit Baum

  51. Yoko Ram Chupak

  52. Maxine Kaufman-Lacusta

  53. Dalit Baum

  54. Yael Shomroni

  55. Bilha Golan Sündermann

  56. Noa Shaindlinger

  57. Noa Friehmann

  58. Yom Shamash

  59. Abigail Szor

  60. Ronnen Ben-Arie

  61. Anat Matar

  62. ayA Zamir

  63. Connie Hackbarth

  64. Adi Moreno

  65. Yasmine Halevi

  66. Kobi Snitz

  67. Alexander Eyal

  68. Ronen Wolf

  69. Anat Elzam

  70. Robert Nathan Suberi

  71. Oshra Bar

  72. Liat Rosenberg

  73. Shaindy Ort

  74. Ari Libero

  75. Shai Ilan

  76. Yasmin Eran- Vardi

  77. Miri Barak

  78. Tamar Selby

  79. Elian Weizman

  80. Aliza Dror

  81. Ruti Lavi

  82. Prof. Emmanuel Farjoun

  83. Michal Sapir

  84. Ayala Levinger

  85. Daphna Baram

  86. Yudit Ilany

  87. Odeliya Matter

  88. Yaniv Shachar

  89. Ofra Yeshua-Lyth

  90. Moshe Eliraz

  91. Elfrea Lockley

  92. Iris Hefets

  93. Oriana Weich

  94. Reut Ben-Yaakov

  95. Yoram Blumenkranz

  96. Tia Levi

  97. Bosmat Gal

  98. Rachel Beitarie

  99. Udi Raz

  100. Yael Friedman

  101. Alon Marcus

  102. Jasmin Wagner

  103. Orna Akad

  104. Avi Berg

  105. Inna Michaeli

  106. Galit Naaman

  107. Sharona Weiss

  108. Aya Breuer

  109. Tal Janner-Klausner

  110. Eran Torbiner

  111. Vered Bitan

  112. Pnina Werbner

  113. Irit Rotmensch

  114. Eliana Ben-David

  115. Mike Arad

  116. Karen Zack

  117. Adi Liraz

  118. Nadav Franckovich

  119. Rela Mazali

  120. Irit Segoli

  121. Maya Reggev

  122. Yam Nir-Bejerano

  123. Abey Mizrahi

  124. Hadas Leonov

  125. Tair Borchardt

  126. Yehudith Harel

  127. Yael Politi

  128. Itamar Shapira

  129. Regev Nathansohn

  130. Liad Kantorowicz

  131. David Benarroch

  132. Uri Gordon

  133. Zohar Efron

  134. Reuben Klein

  135. Yisrael Puterman

  136. Erica Melzer

  137. Yaara Benger Alaluf

  138. Anat Guthman

  139. Erella Grassiani

  140. Daniel Palanker Chas

  141. Einat Podjarny

  142. Yael Lerer

  143. Ya’ara Peretz

  144. Shirli Nadav

  145. Lihi Joffe

  146. Danielle Parsay

  147. Adi Winter

  148. Daphna Westerman

  149. Tslil Ushpiz

  150. Ella Janatovsky

  151. Nily Gorin

  152. Ora Slonim

  153. Rachel Hagigi

  154. Nahed Ghanayem

  155. Maayan Ashash

  156. Ruth Rosenthal

  157. Debby Farber

  158. Nicole Schwartz

  159. Sahar Vardi

  160. Hilla Dayan

  161. Rana Sawalha

  162. Galit Saporta

  163. Fanny-Michaela Reisin

  164. Adi Golan Bikhnafo

  165. Sharon Avraham

  166. Noa Roei

  167. Elliot Beck

  168. Jair Straschnow

  169. Haim Bresheeth-Zabner

  170. Amir Vudka

  171. Alma Ganihar

  172. Atalia Israeli Nevo

  173. Itamar Liebergall

  174. Jonathan Pollak

  175. Livnat Konopny Decleve

  176. Yanai Himelfarb

  177. Sigal Ronen

  178. Merav Devere

  179. Shiri Wilk Nader

  180. Dror K Levi

  181. Moshé Machover

  182. Yael Perlman

  183. Laurent Schuman

  184. Ferial Himel

  185. Ester Nili Fisher

  186. Abo Kouder Gaber

  187. Ur Shlonsky

  188. Rachel Giora

  189. Judit Druks

  190. Miri Michaeli

  191. Tal (y) Wozner

  192. Meir Amor

  193. Souraya Abeid

  194. Alon Benach

  195. Roni Gechtman

  196. Rahel Wachs

  197. Anat Rosenblum

  198. Yoav Beirach

  199. Dorit Naaman

  200. Noa Vidman

  201. Dror Dayan

  202. Ruthie Pliskin

  203. Yaara Shaham

  204. Inbar Tamari

  205. Herzl Schubert

  206. Assif Am-David

  207. Nadia Cohen

  208. Rachel Yagil

  209. Rani Nader Wilk

  210. Gony Halevi

  211. Tamar Katz

  212. Chagit Lyssy

  213. Sam Shtein

  214. Michal Baror

  215. Doron Ben David

  216. Miki Fischer

  217. Zhava Grinfeld

  218. Aviya Atai

  219. Nimrod Ronen

  220. Judith Tamir

  221. Yotam Ben-David

  222. Alex Cohn

  223. Avital Barak

  224. Maayan Vaknin

  225. Tamar Yaron

  226. Orit Ben David

  227. Maia Bendersky

  228. Oran Nissim

  229. Roni Tzoreff

  230. Udi Adiv

  231. Lilach Ben David

  232. Ayelet Yonah Adelman

  233. Tal Berglas

  234. Ronit Milano

  235. Terry Greenblat

  236. Mie Shamir

  237. Oren Lamm

  238. Ayelet Politi

  239. Udi Aloni

  240. Hava Ortman

  241. Liat Hasenfratz

  242. Marie Berry

  243. Revital Elkayam

  244. Asaf Calderon

  245. Nitza Aminov

  246. Isaac Johnston

  247. Amos Brison

  248. Michael Treiger

  249. Hadas Binyamini

  250. Sirli Bahar

  251. Ron Naiweld

  252. Maria Chekhanovich

  253. Yehonatan Chekhanovich

  254. Lisa Kronberg Chitayat

  255. Moriah Lavey

  256. Guy Yadin Evron

  257. Eran Efrati

  258. Zohar Weiss

  259. Orit Zacks

  260. Arielle Bareket

  261.  Sarah Raanan

  262. Dana Dahdal

  263. Zvi Gaster

  264. Raz BDV

  265. Emad Housary

  266. Mika Zacks

  267. Dorit Argo

  268. Lorraine Evrard

  269. Micha Kaplan Chetrit

  270. Hadar Kleiman

  271. Talma Bar-Din

  272. Orit Friedland

  273. Tali keren

  274. Oded Carmi

  275. Hadas Rivera-Weiss

  276. Avi Blecherman

  277. Lior wachtel

  278. Avi Greenman

  279. Dina Leibermann

  280. Zurqab Razaq

  281. Tamir Sorek

  282. Oded Jacob

  283. Itamar Avraham Cohen Scali

  284. Chen Israel

  285. Orly Noy

  286. Rand Warren Aronov

  287. Gila Avni

  288. Bekah Wolf

  289. Alon Lapid

  290. Ehud Kotegro

  291. Entissar kharoub

  292. Lotem Zabinski

  293. Shai Carmeli Pollak

  294. Yael Admoni

  295. Hen Levi

  296. Shahar Tsameret

  297.  Elik Nir

  298. Nir Nader

  299. Zoe Gutzeit

  300. Ossi Ron

  301. Raanan Alexandrowicz

  302. Sima Sason

  303. Ehud Sivosh

  304. Ben Gershovitz

  305. David Kortwa

  306. Gina Ben David

  307. Liel Green

  308. Evyatar shamir

  309. Tom Mosek

  310. Yael rozanes

  311. Anna Fox

  312. Ruhama Weiss

  313. Tirtza Tauber

  314. David Nir

  315. Coral Cohen

  316. Ayoub mohareb

  317. Daniel Roth

  318. Oz Shelach

  319. Yaar Peretz

  320. Rona Even Merrill

  321. Anat Biletzki

  322. Shachaf Polakow

  323. Michael Kaminer

  324. Yaffit Windler

  325. Maya Wind

  326. Max Somerstein

  327.  Hillel Barak

  328. Yaron Ben-Haim

  329. Ori Goldberg

  330. Milan Shiff

  331. Sivan Ben-Hayun

  332. Elana Wesley

  333. Tali Baram

  334. Hannah Goldman

  335. Ronen Meshulam

  336.  Rotem Bahat

  337. Toviel Rose

  338. Ronit Lentin

  339. Miriam Meir

  340. Sivan Tal

  341. Naama Golan

  342. Ruth Lackner Hiller

  343. Afia Begum

  344.  Gaia Beirak

  345. Yael Shomroni

  346. Assa Doron

  347. Ze’ev Ionis

  348. Mira Khazzam

  349. Michael Treiger

  350. Matan S. Cohen

  351. Smadar Carmon

  352. Amira Tasse

  353. Shelly Yosha

  354. Tal Frieden

  355. Shai Shabtai

  356.  Leah Even Chorev

  357. Bosmat Gal

  358. Reva Damir

  359.  Iris Stern Levi

  360. Wael Sayej

  361. Ronit marian kadishay

  362. Freda Guttman

  363. Diana Dolev

  364. Milan shiff

  365. Annelien Kisch-Kroon

  366. Debbie Eylon

  367. Galit Eilat

  368. Daniel Gagarin

  369. Eyal Mazor

  370. Yael Messer

  371. Omri Goren

  372. Rachel Hayut

  373. Daphne Banai

  374. Nadav Harari

  375. Meital Yaniv

  376. Yudit Yahav

  377. Elisheva Gavra

  378. Dalia Sachs

  379. Angela Godfrey-Goldstein

  380. Shlomo Perets

  381. Idit Nathan

  382. Haim Yacobi

  383. Edna Gorney

  384.  Hilla Kerner

  385. Naomi Raz

  386. Nir Lutati

  387. Daniel Ayzenberg

  388. Hava halevi

  389. Rona Sela

  390. Racheli Bar-Or

  391. Ruti Kantor

  392. Ayelet ophir

  393. Noki Olchovski

  394. Nina Jawitz

  395. Ma’ayan Levi

  396. Effi Ziv

  397. Reshef Agam-Segal

  398. Rami Heled

  399. Dalit Fresco

  400. Mirit Barashi

  401. Ido Even Paz

  402. Yoel Lion

  403. Michal Margaliot

  404. Tali Bromberg

  405. Sharon Cohen

  406. Hilla Bar-om

  407. Hanna Zohar

  408. Yuval Tenenbaum

  409. Lilit Bartana

  410. Gilad Nir

  411. Yael Gvirtz

  412. Namer Golan

  413. Ofir Shahar

  414. Maya Herman

  415. Guy Ronen

  416. Gidon Raz

  417. Ron Barkai

  418. Assaf Rotman

  419. Aaron Turgeman

  420. Asaf Ronel

  421. Nurit Peled-Elhanan

  422. Mia Perelmuter

  423. Sarit Tamura

  424. Avital Barak

  425. O Glicklich

  426. Roni Meyerstein

  427. Ofra Hoffman

  428. Eran Razgour

  429. Shai Gortler

  430. Jacob Katriel

  431. Ofer Shinar Levanon

  432. Heidi Stern

  433. Orly Dumitrescu

  434. Rotem Levin

  435. Atalia Omer

  436. Yossi Shabo

  437. Michal Schwartz

  438. Itay Snir

  439. Roy Wagner

  440. Ella Gur

  441. Hadar Solomon

  442. Esther Bar Nathan

  443. Jonathan Preminger

  444. Moria Rabbani

  445. Yeela Lahav Raz

  446. Miriam Turmalin

  447. Tuly Flint

  448. Ori Ben Shalom

  449.  Rom Yan

  450. Naftali Orner

  451.  Maya Ron Levinger

  452. Aaron Paz

  453. Liat Bar-oz

  454. Adili Liberman

  455. Barak Heymann

  456. Miki Levy

  457. Noam Keim

  458. Ruth Varon

  459. Tamir Erlich

  460. Amjad Darwish

  461. Annie Ohayon

  462. Noga Wolff

  463. Nadav Davidi

  464. Dr Moshe Behar

  465. Hila Rubinstein

  466. Anna Waisman

  467. Yehonatan Ben Yisrael

  468. Mazal Etedgi

  469.  Yaniv Shachar

  470. Yuval Naor

  471. Rotem Marty

  472. Maya Paz

  473. Jeff Halper

  474. Yael Meron

  475. Danae Elon

  476. Gali Schell

  477. Anna Kleiman

  478. O Shloman

  479. Gili Sercarz

  480. Natali Kalnitski

  481. Ohad Bracha

  482. Moriel Ram

  483.  Eliezer Moav

  484. O-Ren Horowitz

  485. Ilana Bernstein

  486. Tamar Aviyah

  487. Hugit Rubinstein

  488. Dafna Kaplan

  489. Yakov Pipman

  490. Netta Toledano

  491. Daphna Levit

  492. Noa Bar Hain

  493. Yuval Graff

  494. Amit Ben Haim

  495.  Noga Eilon

  496. Alma Katz

  497. Yom Omer

  498. Moshe Yamo

  499. Noga Hurvitz

  500. Arie Finkelstein

  501. Tali Rabin

  502. Romi Marcia Bencke

  503. Ilana Machover

  504. Michal Cohen

  505. Sigal Primor

  506. Michal Gabay

  507. Lea Pipman Dotan

  508. Yotam Ben Meir

  509. Kochav Shachar

  510. Haim Scortariu

  511.  Dotan Moreno

  512. Gaya Feldheim Schorr

  513. Ariel Koren

  514. Layla Natour

  515. Tamar Selby

  516. Maayan Iyar Averbuch

  517. Gilad Ben David

  518. Maya Eshel

  519. Itai Vonshak

  520. Matan Sandler Tadmor

  521. Hagit Borer

  522. Sharon Shmuel

  523.  Yosefa Loshitzky

  524. Noga Emuna Avisar

  525. Aya Kook

  526. Gabriel Schubiner

  527. Elham Rokni

  528. Tamar Goldschmidt

  529. Avigail y. Zeleke

  530. Ofer Tisser

  531. Revital Madar

  532.  Elana Lakh

  533. Zohar Regev

  534. Elana Summers

  535. Chava Finkler

  536. Sharon Orshalimy

  537. Guy Elhanan

  538. Michal Schendar

  539. Shir Darwin Regev

  540. N.Nur Zahor

  541. Ori Rom

  542. Noa Schwartz

  543. Anita S. Maroun

  544. Hani Abramson

  545. Glick Moshe

  546. Ortal Mizrahi

  547. Noam Schechter

  548. Yulie Cohen

  549. Eviatar Bach

  550.  Amnon Keren

  551. Ella Levenbach

  552. Omer Shokron

  553. Shira Shvadron

  554. Gadi Schnitzer

  555. Natalie Rothman

  556. Ron Cohen

  557. Michal Halevy

  558. Shelly Mehari

  559.  Andrea Koverman

  560. Ira Perelson

  561. Aviv Liplis

  562. Syed Fatima Hossain

  563. Yoav haas

  564. Vardit Goldner

  565. Nitzan Lebovic

  566. Nomi Drory

  567. Sivan Barak

  568.  Avi Berg

  569. Gabriela Vollick

  570. Avi Incisiker Cohen

  571. Raya Fidel

  572. Maya Ober

  573. Itamar Feigenbaum

  574. Agan Tsabari

  575.  Ronit Milo

  576. Lenny Lapon

  577. Alon Stotter

  578. Yael Kahn

  579. Moran Barir

  580. Omri Haven

  581. Felix Laub

  582. Daniella Aperlev

  583. Sarah Shapiro

  584. Yvonne Deutsch

  585. Itamar Stamler

  586.  Lia Tarachansky

  587. Naava Weiner

  588. Daniella Krishevsky

  589. Efrat Levy

  590. Howard Cohen

  591. Daniel Flexer

  592. Victor Herstigg

  593. Julie Weinberg-Connors

  594. David L. Mandel

  595. Hanan Offner

  596. Ayelet Ben-Yishai

  597. Itay Sapir

  598. Nizan Weisman

  599. Bryan Atinsky

  600. Naama Or

  601. Talia Krevsky

  602. Mali Assaf

  603. Tom Sela

  604. Maya Mukamel

  605. Sigal Oppenhaim Shachar

  606. Elizabet Freund

  607. Yossi Cohen

  608. Itzik Gil

  609. Nomi Shir

  610. Simma Chester

  611. Hadas Leonov

  612. Omri Cohen

  613. Gil Mualem-Doron

  614. Erez Moshe Amit

  615. Ehud Tamuz

  616. Tom Koren

  617. Rachel Milstein

  618. Gil Freund

  619. Yael Shein

  620. Rechavia Berman

  621. Shoshana Kahn

  622. Tania Jones

  623. Christoph Bugel

  624. Gaby Ron

  625. Mieka Polanco

  626. Naomi Lyth

  627. Ruth Noemi Pragier

  628. Tali Harkavi

  629. Danielle zini

  630. Mohammed Patel

  631.  Glick Moshe

  632. Yam-Nir Bejerano

  633. Sara Almog

  634. Susan Ettinger

  635. David Miller

  636. Michal David

  637. Yana Knopova

  638. Omer Shamir

  639. Simeon S. Jacob

  640.  Ruth Sevack

  641. Lee Hemminger

  642. Jonatan Israel

  643. Nora Gottlieb

  644. Roni Roseman

  645. Omer Sharir

  646. Atalia Omer

  647.  Mijal Kimel

  648. Ilya Ziblat Shay

  649. Lian Malki-Schubert

  650. David Nir

  651. Aviv Nitsan

  652. Valerie Malki

  653. Oz Malul

  654. Yael Edri

  655. Amir Zloof

  656. Sirah Foighel

  657. Keren Manor

  658. Eli Aminov

  659.  Yaara Shaham

  660. Abigail Yanow

  661.  Hagit Zohara M

  662. Daphna Thier 

  663.  Maya Lerman

  664. Yuula Benivolski

  665. Shlomit Altman

  666. Ivy Sichel

  667. Dalit Fresco

  668.  Eyal Sivan

  669. Marcelo Svirsky

  670. Anael Resnick

  671. Tamar Sarfatti

  672. Irit Halperin

  673. Yaar Koren

  674. Ada Bilu

  675. Julieta Kriger

  676. Jackie Yarosky

  677. Uri Rodberg

  678. Maayan Priel

  679. Hadas Kedar

  680. Michal Peleg

  681. Hava Lerman

  682. Tal Nitzan

  683. Einat Amir

  684. Mia Kerner

  685. Gil Schneider

  686. Tzvia Thier

  687. Marina Ergas

  688. Irit Halavy

  689. Shahar Shnitzer

  690. Avishay Halavy

( Traduzione di Flavia Donati)




Solidarietà con lo sciopero generale palestinese in tutta la Palestina storica

Comitato Nazionale Palestinese BDS

17 maggio 2021

Nota dell’editore: ciò che segue è un comunicato del Comitato Nazionale Palestinese BDS.

Mondoweiss a volte pubblica comunicati stampa e dichiarazioni di organizzazioni, nel tentativo di richiamare l’attenzione su questioni trascurate.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare solidarietà con lo sciopero generale in Palestina il 18 maggio.

I palestinesi di Gerusalemme e di tutta la Palestina storica oggi partecipano ad uno sciopero generale per protestare contro i massacri a Gaza e la repressione e la pulizia etnica dell’apartheid contro le comunità palestinesi in ogni luogo.

Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani.

I palestinesi chiedono una significativa solidarietà con il nostro sciopero generale. Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani. E anche nelle vostre. Contiamo su di voi per mettere fine alla complicità dei vostri Stati, istituzioni, organizzazioni, unioni, chiese, eccetera, con i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità di Israele perpetrati contro il popolo autoctono palestinese. Il silenzio e l’equidistanza sono immorali, in quanto rafforzano l’impunità criminale di Israele.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare che smantellare il regime israeliano di oppressione è anche nelle vostre mani:

  1. Inondate, tra gli altri, i deputati, i funzionari eletti a tutti i livelli, gli amministratori dell’università, i capi dei sindacati, di lettere che chiedono il loro sostegno a sanzioni mirate per smantellare l’apartheid israeliana, a partire da un embargo bilaterale su tutto il commercio di sicurezza militare e ricerca militare congiunta. Se fate parte di un sindacato portuale, mobilitatevi per bloccare gli imbarchi israeliani, in particolare quelli militari.

2. Indossate una kefiah palestinese come simbolo di solidarietà, o appendetela alla finestra o postatela sui vostri social media (profili), se li avete.

3. Unitevi ad un gruppo BDS nelle vicinanze, o formatene uno se non ne esistono. Fare campagne sostenibili e strategiche è la forma più efficace di realizzare una seria solidarietà.

4. Dichiarate la vostra comunità, chiesa, unione, quartiere, associazione, Zona Libera da Apartheid, che rifiuta di acquistare prodotti e servizi di imprese israeliane e internazionali che sono complici dell’apartheid e del colonialismo israeliani.

5. Iniziate/intensificate l’organizzazione della prossima Giornata Globale di Azione di massa per sabato 22 maggio, basandovi sulle manifestazioni globali dell’ultimo weekend. Dimostrate ai palestinesi a Gaza e ovunque, ancora una volta, che non sono soli.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Stavolta è diverso

Ahmed Abu Artema

14 maggio 2021 The Electronic Intifada

Mentre scrivo l’edificio dove vivo qui a Gaza trema incessantemente. Sopra di noi gli aerei da combattimento israeliani F-16 ci attaccano con una bordata apparentemente incessante di bombe.

Mentre scrivo gli eventi si succedono rapidi, quindi sicuramente quando l’articolo verrà pubblicato è probabile che ci saranno stati molti cambiamenti, ma voglio tentare di evidenziare le caratteristiche generali dell’attuale fase di escalation in Palestina.

L’escalation è iniziata a Gerusalemme durante il mese di Ramadan, con una serie di provocazioni messe in atto dalle autorità di occupazione israeliane.

La prima della serie, alla fine di aprile, è stata la decisione di impedire ai palestinesi di radunarsi a Bab al-Amoud [Porta di Damasco, una delle entrate principali alla Città Vecchia, ndtr] in Gerusalemme. Questo ha dato origine a diverse proteste che alla fine hanno costretto Israele a ritirare l’ordine.

Un’altra provocazione – tuttora in corso – che ha attirato qualche attenzione internazionale, è costituita dalle ordinanze di espulsione in corso contro le famiglie palestinesi dalle loro case di Sheikh Jarrah [quartiere prevalentemente palestinese a Gerusalemme Est,ndtr] – una concessione dei tribunali ai coloni israeliani.

Una terza provocazione israeliana è stata l’irruzione nella moschea di al-Aqsa durante la preghiera di venerdì 7 maggio. Le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni e pallottole metalliche ricoperte di gomma sui fedeli, causando oltre 200 feriti.

In una quarta provocazione i coloni hanno annunciato che avrebbero marciato a Gerusalemme il 10 maggio per celebrare quello che essi definiscono il Giorno di Gerusalemme [festa nazionale israeliana che commemora la riunificazione di Gerusalemme e l’istituzione del controllo israeliano sulla Città Vecchia all’indomani della guerra dei sei giorni nel 1967, ndtr]. L’intenzione era di sfilare vicino alla moschea di al-Aqsa.

Questa marcia è poi degenerata, la mattina del 10 maggio, in una quinta provocazione quando, per la seconda volta in una settimana, le forze israeliane hanno fatto irruzione ad al-Aqsa, attaccando i fedeli che pregavano all’interno e devastando il luogo sacro. Più di trecento palestinesi sono rimasti feriti.

Un’ondata di rabbia

Queste provocazioni si sono protratte per tutto il Ramadan e hanno provocato un’ondata di rabbia che ha investito i palestinesi in tutta la loro patria storica. Sono scoppiate proteste ad Haifa, Giaffa, Ramallah e Gaza.

A Gaza i manifestanti hanno chiesto alle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas, di intervenire. I palestinesi di Gaza hanno sostenuto con forza la necessità di una pronta risposta da parte delle fazioni della resistenza in ritorsione alle violazioni a Gerusalemme.

Ho letto sui social media qualcosa come centinaia di messaggi di attivisti che chiedevano ad Hamas perché la rappresaglia ci mettesse così tanto ad arrivare. Tassisti, negozianti, gente comune: tutti facevano la stessa domanda.

Alla fine è arrivato l’avvertimento da Qassam che i soldati israeliani avevano due ore per evacuare al-Aqsa, togliere l’assedio ai murabitoun – i fedeli che rimangono giorno e notte nel sito per proteggerlo con la loro presenza – e liberare tutti i prigionieri.

Allo scadere del termine fissato, non avendo ricevuto alcuna risposta da Israele, Qassam ha lanciato una raffica di razzi verso Gerusalemme.

L’esercito israeliano ha risposto bombardando la città di Beit Hanoun nel nord della Striscia di Gaza.

Nove persone, compresi tre bambini, sono stati uccisi mentre si preparavano ad interrompere il digiuno.

I combattenti per la libertà di Gaza hanno continuato con le ritorsioni ed Israele ha intensificato i bombardamenti colpendo abitazioni residenziali.

L’aviazione israeliana ha distrutto diverse torri residenziali che ospitavano anche dozzine di sedi di organi di stampa e imprese commerciali.

Israele ha inoltre attaccato stazioni di polizia e vari edifici governativi, tutti obiettivi civili.

Perché è diverso

L’attuale escalation si distingue per il fatto che il popolo palestinese chiedeva una risposta alle pratiche dell’occupazione israeliana. Poiché Hamas ha risposto, esso viene considerato eroico.

Non c’è critica o denuncia della decisione di agire da parte di Hamas, nonostante siano i cittadini a pagare il prezzo più alto dell’aggressione israeliana con la perdita dei propri cari e delle loro case.

Gaza mostra con chiarezza che i palestinesi credono fermamente nella resistenza come via verso la liberazione dall’occupazione.

Questa ondata di combattimenti è significativa anche perché è nata come risposta alle continue violazioni avvenute a Gerusalemme.

Tutti i precedenti casi di escalation da parte di Hamas erano stati provocati da aggressioni israeliane contro la Striscia di Gaza. Così. quando Gerusalemme ha chiesto aiuto a Gaza e questa si è sollevata in sua difesa, si è rafforzato un sentimento nascente di unità nazionale palestinese e si è liberata dall’isolamento la resistenza palestinese di Gaza.

Che si tratti di Gaza o di qualsiasi altro luogo in Palestina, i palestinesi lottano contro l’occupazione che li ferisce ovunque con aggressioni ed abusi.

Questa escalation si è caratterizzata anche per un aumento del livello di sfida all’interno dei movimenti di resistenza. La cancellazione della marcia per il Giorno di Gerusalemme ha rappresentato una delle prime vittorie.

Gli attacchi israeliani contro Gaza hanno sempre comportato sofferenze e tragedie. Tuttavia, stavolta l’escalation viene percepita come particolarmente significativa, come eroica.

In tutta la Palestina la gente aveva un disperato bisogno di qualcuno che la facesse sentire sostenuta e difesa. I palestinesi hanno bisogno di sentire che non sono soli a pagare il prezzo. E’ pertanto estremamente significativo che la resistenza sia esplosa in tutta la Palestina storica.

Israele si è impegnato a distruggere l’identità palestinese, specialmente in città, paesi e villaggi all’interno dei confini del 1948 che ha volutamente tenuto in stato di povertà – le zone cioè dove quell’anno veniva proclamato lo Stato di Israele durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina.

In quelle aree le proteste di massa, le stazioni di polizia incendiate, la sostituzione delle bandiere israeliane con quelle palestinesi, tutto sembra indicare un nuovo risveglio dello spirito palestinese.

I palestinesi sono ancora profondamente radicati nella propria terra, attaccati alla loro identità, il loro profondo senso di unità è più significativo di qualsiasi fattore che li possa tenere separati, e la loro capacità di sopravvivere agli orrori e ai crimini di Israele non finisce mai di sorprendere.

Israele possiede un potente arsenale missilistico e nel tentativo di recuperare la dignità perduta a fronte della resistenza palestinese, Israele continua a commettere crimini contro la popolazione civile di Gaza.

Tuttavia la potenza di Israele non gli garantisce legittimazione né stabilità. Il progetto sionista in Palestina è estraneo a questa terra, e tutti gli sforzi di neutralizzare o rimuovere la presenza palestinese sono falliti da più di settanta anni.

Il popolo palestinese potrà anche indebolirsi, ma non morirà. Ha la volontà di combattere fino alla fine e alla vittoria certa.

Ahmed Abu Artema è uno scrittore residente a Gaza, ricercatore presso il Centro di Studi di Politica e Sviluppo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




#NOTINOURNAMES

Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.
In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire #NotInOurNames, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.
Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano (https://www.joimag.it/contro-lannessione-una-voce…/) e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.
-gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia
-gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee
-il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora
-i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane
-i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane
-il bombardamento su Gaza
-il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas
-la riduzione del dibattito a tifo da stadio
-l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele
-le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani
-gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti
-la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori
-qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite
La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.
All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.
Aliza Fiorentino
Sara De Benedictis
Daniel Damascelli
Bruno Montesano
Teodoro Cohen
Micol Meghnagi
Michael Blanga-Gubbay
Susanna Montesano
Michael Hazan
Beatrice Hirsch
Giorgia Alazraki
Bianca Ambrosio
Alessandro Fishman
Tali Dello Strologo
Giulia Frova
Sara Missio
Alessandro Dayan
Ruben Attias
Keren Strulovitz
Enrico Campelli
Jonathan Misrachi
Yael Pepe
Claudia Pepe
Daniel Disegni
Sara Buda
Dana Portaleone
Ludovico Tesoro
Viola Gabbai
Edoardo Gabbai
Benjamin Fishman
Lorenzo Foà
Alessandro Foà
Giulio Ambrosio
Gaia Fiorentino
Joy Arbib
Nathan De Paz Habib
Joel Hazan
Tami Fiano
Emanuel Salmoni



Un viaggio diventato un calvario

Dima Ghanim

26 aprile 2021 WeAreNotNumbers

È difficile viaggiare nel deserto del Sinai in agosto, zanzare e particelle finissime di sabbia trasportate da folate di vento bollente caldo entrano nella macchina. Il sole allunga le sue braccia ardenti che si infilano dentro la gabbia metallica e opprimono i nostri corpi sudati.

Il taxi guadagna velocità, ma appena le gomme stridono per l’entusiasmo, i freni rispondono con un altro stridio e la velocità si riduce rapidamente: un altro checkpoint. Il motore dell’auto ottiene un riposo sgradito ogni cinque minuti, quando ci imbattiamo in un posto di blocco dopo l’altro.

Guardo fuori dal finestrino posteriore e seguo la nostra lenta avanzata. Punti di domanda volteggiano nell’aria torrida. Quanto ci vorrà prima che le gomme della macchina fondano? Abbiamo percorso abbastanza chilometri così il viaggio non si prolungherà durante la notte?

Le peculiari abilità degli autisti di confine

Gli autisti di confine non sono come quelli di taxi. Sono sempre in lotta con il tempo, passano giornate o settimane lontano dalle loro famiglie, in una corsa per portare e prendere passeggeri. Sanno a memoria i livelli di difficoltà di ogni checkpoint. Li vedo afferrare i loro cellulari e comunicarsi l’un l’altro i nuovi ordini sulle strade. Hanno i loro trucchi per trattare con i soldati dei checkpoint.

Il piano B può essere un’alternativa se sei disposto a correre il rischio di deviare dalla strada principale. Qualche volta si suggerisce di prendere un’altra via, cosa che può essere facilmente rifiutata se ci va troppo tempo e se nel viaggio di ritorno non ci sono passeggeri paganti. Funziona così per tentare di sfruttare ogni istante.

Mi dispiace per voi,” dice l’autista egiziano, interrompendo il silenzio. “Che dio vi assista in quello che state subendo. Tempo fa di solito portavamo i passeggeri dal valico di confine di Rafah al Cairo in cinque ore.” [valico tra Gaza e l’Egitto, aperto sporadicamente dalle autorità egiziane, ndtr.]

Le scene folli al confine

Sei ore prima al confine egiziano, le persone sembravano uno stormo di uccelli che sbattevano le ali. Si affollavano nello stanzone dell’attraversamento di Rafah, attenendosi al protocollo in maniera concertata, cercando di conservare la risorsa principale del loro viaggio, il tempo.

I miei familiari avevano ognuno un compito: compilare i nostri documenti di viaggio, fare la fila, ottenere i timbri e stare attenti ai bagagli. Dopo aver consegnato i passaporti, c’era solo da aspettare. L’attesa diventava sempre più insopportabile con i nuovi arrivati che si ammassavano nella sala e la torre sempre più alta di passaporti impilati davanti agli ufficiali. 

Finalmente uno si è alzato per chiamare i nomi di quelli i cui passaporti erano stati timbrati, la gente è saltata su dalle sedie o si è bloccata sorpresa mentre si aggirava nell’ufficio (non si erano mai allontanati per paura di non sentire quando il proprio nome sarebbe stato chiamato). Per quelli non ancora chiamati è cominciata un’altra condanna all’attesa, mentre quelli che avevano sentito la chiamata della salvezza erano liberati dalla gabbia. Ma non erano completamente liberi, anche se avevano provato la gioia di avanzare fino alla gabbia successiva.

Comunque la gioia poteva rapidamente essere strappata via. Una signora, la cui famiglia era stata costretta nel 1948 a fuggire da Giaffa, la propria patria, per andare in Siria, per poi scappare dalla guerra in Siria per subirne un’altra a Gaza, aveva optato per un altro scenario per il futuro dei figli. Dopo una lunga notte di attesa e speranza, lei, i suoi quattro figli (incluso quello che stava scalciando nella sua pancia, impaziente di vedere la luce) e l’anziana mamma avevano avuto autorizzazione di incamminarsi sul loro incerto futuro. Ma era destinata a portare questa responsabilità da sola, perché al marito era stato vietato di unirsi a loro.

No! Non me ne andrò senza di lui!” gridava a squarciagola. 

 “Dovete andare,” ha detto tranquillamente il padre alla sua famiglia. “Non preoccupatevi. Io vi seguirò fra poco.” Controllava la propria disperazione, i bambini si aggrappavano al loro papà con calde lacrime salate che scorrevano sulle loro guance rosate.

I palestinesi hanno provato ogni tipo di perdita al punto che non sono più in grado di esprimerla a parole. Ironicamente, ai loro occhi, determinazione e paura della perdita racchiudono tutto. L’ho visto negli occhi della nonna. Erano come un rubinetto non completamente chiuso con gocce pesanti che si accumulavano sull’orlo e poi cadevano. Uno dei bambini le si era avvicinato e le picchiettava la mano che sembrava una pergamena, fissandola negli occhi senza dire una parola. Il piccolo affetto da autismo aveva dei problemi a comunicare, ma aveva provato empatia verso le sofferenze e l’infelicità di un altro essere umano e stava manifestando compassione con il linguaggio più semplice ed espressivo.

Confini e checkpoint sono una parte integrale di ciò che siamo come palestinesi. Possono aprire le porte all‘opportunità di far parte del mondo e di testimoniarne la diversità. O possono buttare la chiave della porta in acque profonde, rimandandoci indietro con cuori pesanti di delusione. In entrambi i casi, confini e posti di blocco restano un modo sicuro e crudele di ricordare occupazione e blocco.  

Sulla nostra lunga, lunga strada

Dopo dodici ore di attesa al confine, avevamo i nostri passaporti timbrati e ci siamo avviati in taxi per Il Cairo, sapendo di avere davanti a noi altre sfide e molte altre ore. “Non pensare. Ignora tutto quello di cui sei stata testimone, come se questa giornata non fosse mai esistita,” dice mio padre, assurdamente.  Essere un palestinese significa adattarsi a ogni difficoltà in cui ci imbattiamo. Impariamo ad acclimatarci al cambiamento del labirinto di sentieri e programmi: se davanti a te c’è un muro, scava e riappari dall’altro lato come un mago. Noi affrontiamo con cuore risoluto ogni difficoltà che ci si presenta.

Ora, dopo quattro ore di fermate e ripartenze, di viaggi da checkpoint a checkpoint, abbiamo raggiunto quello più difficile che dovevamo attraversare prima di mezzanotte per non dormire in macchina fino alla mattina dopo. Una fila di auto era ferma in attesa del proprio turno di un’ispezione dettagliata il che significava che sì, avremmo passato la notte qui.

La mattina dopo quando siamo ripartiti, ho deciso di liberarmi di tutti i pensieri negativi guardando un film che avevo scaricato: “Schindler’s List”. Ho accettato il consiglio di mio padre e mi sono distratta dalIa corsa piena di interruzioni guardando questo film e pensando alla tragedia vissuta dagli ebrei tedeschi. Il protagonista, Oscar Schindler, piange per non aver venduto tutti i suoi beni e aver riscattato una vita in più perché sfuggisse a una morte inevitabile. L’Olocausto è considerato il più noto esempio di pulizia etnica fomentata da nazionalismo estremista nella storia. Ma, come palestinesi, noi siamo esposti quotidianamente a successive ripetizioni di pulizia etnica. Il più recente di tali progetti è il trasferimento degli abitanti di Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città occupata, ndtr.] a Gerusalemme, per ordine del tribunale israeliano in favore dei coloni. Quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah è un frammento di una visione più ampia per cancellare i palestinesi dalla terra tramite l’occupazione. L’occupazione sfrutta l’Olocausto per i propri scopi politici di oggi e maschera i feroci atti odierni compiuti contro il popolo nativo.

Io non so da quanto tempo questi pensieri mi girano per la testa. Tuttavia, il rumore del motore dell’auto mi riporta alla realtà. Fa ritornare la gioia di essere in viaggio. Ma altrettanto improvvisamente, il rumore cessa. Dopo due giorni di strada per andare da Gaza al Cairo, sono finalmente all’aeroporto proprio come qualsiasi altro viaggiatore, sto godendo della libertà di tenere in una mano il biglietto dell’aereo e nell’altra l’euforia.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Estephan Salameh se ne era andato da Gerusalemme con in tasca una borsa di studio per frequentare la scuola di specializzazione all’Università di North Park a Chicago e soldi sufficienti per pagare metà dell’affitto di un mese. Per far fronte alle spese, Salameh ha insegnato arabo agli studenti di North Park e ad altri nella comunità. Una di loro, Laurie Millner, che stava studiando per conseguire un master in managerialità non profit, è diventata sua moglie nel 2004.

I Salameh volevano migliorare la situazione in Palestina, dove circa 5 milioni di palestinesi vivono vite pesantemente condizionate dall’occupazione israeliana. Il loro amore condiviso per i libri faceva sì che la conversazione della coppia ritornasse spesso alla necessità di biblioteche sia per i bambini che per le loro famiglie. Nel 2005 hanno lanciato il Seraj Library Project [progetto Seraj per le biblioteche] per portare informazioni e instaurare un legame con il mondo nei villaggi isolati e nei campi profughi in Palestina. A simbolo del progetto è stata scelta la parola Seraj, che in arabo sta per lampada ad olio o luce. 

Le biblioteche sono la soluzione ideale per la Palestina, dove la cultura è incentrata sulla famiglia e l’istruzione è grandemente valutata. Secondo Factbook, la pubblicazione annuale della CIA [che riporta dati statistici fondamentali e informazioni sintetiche riguardanti tutti i Paesi del mondo], più della metà degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza ha meno di 25 anni e più del 97% oltre i 15 anni sa leggere e scrivere. I palestinesi sono un popolo affamato di conoscenza. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, purtroppo solo il 3% dei nuclei famigliari indica di aver accesso a una biblioteca o a Internet dopo l’orario scolastico. 

In Cisgiordania, ci sono ora 10 biblioteche comunitarie, a cominciare dalla biblioteca a Jifna, lanciata dalla Seraj in collaborazione con la Jifna Women Charitable Society. La Seraj US, un’organizzazione di volontari, ha contribuito con circa 900.000 dollari a creare queste 10 biblioteche, oltre a una rete di programmi culturali per i bambini e le loro famiglie. 

Le biblioteche sono sempre sviluppate grazie a collaborazioni tra la Seraj e un’organizzazione locale. Di solito la comunità offre lo spazio, i volontari e la direzione, mentre la Seraj fornisce libri, arredamento, computer ed esperienza. 

Quest’anno, la Seraj Palestine, ora un’ONG formalmente riconosciuta in Palestina con un proprio consiglio di amministrazione, sta per lanciare due grandi progetti, uno a Kufor Aqab, vicino a Gerusalemme, e un altro a Birzeit, vicino a Ramallah. Essi rappresentano una novità importante per l’organizzazione e un notevole contributo alla vita culturale della Palestina.

Raccontare storie è sempre stato particolarmente importante per la Seraj. Infatti tutto il suo lavoro e tutte le attività nascono dalle storie, riscoprendo narrazioni perdute e conservando sia quelle significative che quelle che apparentemente sembrano insignificanti per riportarle in vita nelle comunità palestinesi tramite l’interpretazione di vari tipi di artisti. 

Le storie ci dicono da dove siamo arrivati e possono guidarci nel percorso che abbiamo intrapreso. Dicono la verità sul nostro passato in modo tale che, una volta risanati, si possa affrontare il futuro. Ci connettono con chi è venuto prima di noi, con chi ci circonda e con coloro che devono ancora arrivare.

Ecco perché il National Storytelling Center [Centro Nazionale per lo Storytelling] della Seraj, il primo del genere in Palestina, è così entusiasmante. Cosa eccezionale, la Seraj è stata invitata a partecipare a un progetto del Riwaq Center for Architectural Conservation [centro per la conservazione del patrimonio architettonico con sede a Ramallah; il riwaq è un porticato, ndtr.] per ristrutturare due case di 150 anni a Kufor Aqab. Riwaq ha completato magnificamente la ristrutturazione e ha consegnato le chiavi alla Seraj per iniziare il lavoro di arredo degli interni. Queste due case ospiteranno una biblioteca, un centro studi con un caffè, un piccolo ufficio per la Seraj e, cosa più importante, il nuovo Centro della Narrazione. 

Anche il comune di Birzeit in Cisgiordania progetta di rivitalizzare la Città Vecchia, “attivando” l’area tramite l’aggregazione di organizzazioni culturali, piccole attività interessanti ed istituzioni educative. Il municipio crede che avere una biblioteca e un centro culturale attirerà la gente nella parte storica della cittadina. Così il Comune ha contattato la Seraj per aprire una biblioteca e un centro culturale. 

Naturalmente il punto centrale sono le biblioteche. Ci sarà abbastanza spazio per una biblioteca per i bambini e una per gli studenti universitari. A Birzeit al momento non ce n’è una, eccetto quella universitaria, e non c’è un posto dove gli studenti possano andare dopo la chiusura dell’università alle 16.30. Inoltre la Seraj progetta di aprire una biblioteca musicale e artistica per ospitare oggetti d’arte e per tenere eventi musicali creati da altre organizzazioni palestinesi. Quello che nel corso degli ultimi 15 anni la Seraj ha sempre fatto bene è il partenariato con le organizzazioni comunitarie per cooperare su obiettivi condivisi. La filosofia della Seraj si basa non sulla competizione con il lavoro di altre organizzazioni, ma sull’accompagnarle per creare qualcosa di diverso e valido.

Dato che la collaborazione è essenziale in tutto quello che la Seraj fa, il lavoro con organizzazioni locali, famiglie, artisti, musicisti e narratori è alla base dei progetti di Kufor Aqab e Birzeit. Ma la partnership fondamentale è fra gli USA e la Palestina. I volontari in America raccolgono fondi dopo aver descritto a una rete di donatori il lavoro e i bisogni. I fondi sono trasformati da volontari e alcuni stipendiati in Palestina in biblioteche e programmi. La direttrice, Laurie Salameh, e il coordinatore della biblioteca, Fida’a Ataya (un maestro in storytelling), durante anni in biblioteche comunitarie e programmi di sviluppo hanno conseguito un tesoro di esperienze.

Mentre espande il proprio cerchio di sostenitori, il Seraj Library Project continua a collegarsi con persone e organizzazioni interessate che vogliono far parte di questo importante lavoro. E naturalmente i visitatori sono sempre i benvenuti nelle varie biblioteche sparse in Cisgiordania. 

John Cassel, funzionario della Seraj, ha compilato questo articolo attingendo a varie fonti della Seraj. Estephan Salameh, che è ritornato a Gerusalemme con un dottorato in urbanistica e politiche pubbliche, insegna presso l’Università di Birzeit e lavora come consulente del Primo Ministro Palestinese per la Pianificazione e il Coordinamento degli aiuti. Laurie Salameh siede nel consiglio di amministrazione di World Vision Gerusalemme- Cisgiordania- Gaza. [WV è una grande ONG statunitense con sedi in 97 Paesi che si occupa principalmente di adozione a distanza di orfani di guerra, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Università e Palestina: tre tipi di silenzio.

Nick Riemer,

8 Aprile 2021, ARENA

Il libro di Edward Said del 1979 sulla continua espropriazione del suo popolo era intitolato The Question of Palestine. Per Said, la Palestina poteva essere considerata una ‘questione’, un oggetto di controversia. In quanto tale, era qualcosa da cui ci si poteva aspettare una varietà di risposte. Da allora, nello stesso momento in cui ha privato i palestinesi della loro terra e delle loro vite, Israele ha altresì lavorato per derubarli anche di questa “questione”. Per Israele, non può esserci una vera “questione della Palestina” perché la Palestina non esiste, o non dovrebbe esistere. E se, nonostante tutti i suoi sforzi, una questione palestinese ostinata continua a essere posta, l’unica risposta possibile, per l’anti-palestinismo sionista, può essere il silenzio – il silenzio sui palestinesi, coltivato attraverso una rigorosa censura e guerra legale, e il silenzio da parte della stessa Palestina, imposto attraverso le varie strategie di Israele di pulizia etnica: le leggi dell’apartheid, il muro di separazione, il mostruoso blocco di Gaza, la soffocante occupazione.

Le università sono luoghi particolari in cui viene imposto il silenzio sulla Palestina. Nelle ultime settimane sono giunto a un nuovo apprezzamento della consistenza e della violenza di questo silenzio imposto. Il silenzio, come l’ho incontrato di recente, è di tre tipi: silenzio imposto, silenzio scelto e silenzio concesso. Insieme, questi silenzi sono tanto eloquenti sullo stato attuale della lotta per la Palestina nel campus quanto sulla natura della professionalità accademica nel 2021.

Il silenzio imposto era quello di un collega palestinese in un’università della Cisgiordania. Li avevo invitati – visto quanto segue, non specificherò nemmeno il loro genere – a una discussione online sulle difficoltà che i palestinesi devono affrontare nell’istruzione superiore sotto occupazione militare. La conversazione doveva essere ospitata dallo staff della Sydney University per BDS, un gruppo dello staff dell’Università di Sydney che sostiene l’appello palestinese per il boicottaggio accademico istituzionale di Israele. Ero felicissimo e anche un po’ sorpreso quando il mio collega ha accettato immediatamente ed entusiasta l’invito. Ma poi, in seguito, è arrivata l’email di scuse: dopotutto non potevano parlare, anche in condizioni di completo anonimato, anche con la fotocamera spenta. Israele aveva recentemente negato un altro ingresso di un accademico in Giordania a causa del suo attivismo digitale. Il mio collega semplicemente non poteva rischiare questa o qualsiasi altra possibile conseguenza che potesse mettere a repentaglio il suo lavoro o quello del suo dipartimento. Completamente comprensibile, avevano raggiunto la stessa decisione di molti altri accademici palestinesi: il silenzio era la loro unica opzione.

Il silenzio scelto era completamente diverso e richiede più tempo per descriverlo. A febbraio, la professoressa Alison Bashford, illustre storica della medicina e della salute dell’UNSW (University of New South Wales), è stata nominata una dei vincitori del premio annuale Dan David di Israele, che nel 2021 ha individuato contributi eccezionali alla medicina e alla sua più ampia comprensione da parte del pubblico. La Fondazione Dan David è strettamente legata all’establishment politico e accademico israeliano: ha sede e amministrazione presso l’Università di Tel Aviv, e il suo presidente è un ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti; Henry Kissinger siede nel consiglio che sovrintende al premio annuale. Il premio è stato naturalmente inteso come una celebrazione e plauso internazionale della risposta di Israele alla pandemia, un tema che figurava esplicitamente nella citazione di Alison Bashford. La quota del 2021 del premio David ha quindi contribuito all’immagine di Israele come leader nella sanità pubblica, distogliendo l’attenzione dal fatto che sta negando l’accesso ai vaccini ai cinque milioni e più di palestinesi sotto il suo controllo nei territori occupati.

Accettare il premio è stata una chiara violazione dell’appello rivolto agli accademici dalla società civile palestinese a tagliare i legami con le istituzioni israeliane fino a quando Israele non abbandonerà le sue politiche di apartheid. Quando i tentativi di avvicinarsi alla professoressa Bashford in privato sono falliti, è stata coordinata da me e da altri colleghi una lettera aperta, che ha chiarito le ragioni per rifiutare il premio, proprio come aveva fatto nel 2016 la professoressa Catherine Hall, storica dell’University College di Londra, dopo esortazione da parte degli attivisti del BDS. La lettera è stata ora firmata da oltre 340 accademici e studenti in tutto il mondo. I firmatari includono studiosi di spicco come Rashid Khalidi, Judith Butler, Nadia Abu El-Haj, Wael Hallaq, Ilan Pappe, John Keane e altri, così come molti altri colleghi di storia e discipline umanistiche correlate in Australia. Pochi giorni dopo l’inizio della lettera, con già oltre 220 firme, ho scritto alla professoressa Bashford avvertendola e sottolineando che le due principali organizzazioni australiane per i diritti dei palestinesi, l’Australia Palestine Advocacy Network e BDS Australia, avevano entrambe sostenuto l’invito a rifiutare il premio. La professoressa Bashford non ha risposto.

La lettera aperta ha riunito molti firmatari, ma non tutti quelli cui abbiamo chiesto di aggiungere il loro nome erano disposti a farlo. Alcuni ci hanno confidato che, sebbene fossero d’accordo, non erano disposti a dirlo pubblicamente perché erano “preoccupati per le conseguenze”. Questo è il terzo silenzio sulla Palestina – non imposto direttamente e chiaramente dalle circostanze, come il silenzio del mio collega palestinese, né scelto, come quello della professoressa Bashford. Questo silenzio è concesso, con diversi gradi di riluttanza, ai tabù predominanti della professione accademica, tra i quali l’antisionismo occupa un posto di rilievo.

I seguaci di questo terzo tipo di silenzio hanno raramente ben chiaro quali potrebbero essere le conseguenze che tanto temono, né perché il rischio di criticare Israele sia maggiore per loro che per altri. Le loro ansie emergono dalla penombra di apprensione, disagio ed evasione che i sionisti hanno attentamente alimentato ogni volta che si è trattato di criticare Israele. Questo non è il silenzio tattico del sostenitore determinato della Palestina, basato sulla necessità di scegliere le proprie battaglie in modo da difendere con più forza la causa in seguito. Le persone che lo osservano non stanno, in generale, prendendo tempo per poi schierarsi formalmente dalla parte dei diritti dei palestinesi in un momento più opportuno. Il sostegno esplicito alla Palestina semplicemente non è nella loro agenda.

Questo silenzio esprime le sue paure di una rappresaglia nel linguaggio della vulnerabilità. Ma sottilmente, e spesso senza dubbio sconsideratamente, mette in atto il contrario: rifiutandosi di esporre se stessi a causa di vaghe preoccupazioni sulle “conseguenze”, chi osserva il terzo silenzio isola ulteriormente coloro che scelgono di parlare, lasciandoli affrontare ogni possibile contraccolpo da soli. Questo tipo di silenzio è, ovviamente, del tutto umano, e pochi ne sono mai stati estranei, se non sulla Palestina, comunque su altre questioni. Tuttavia è una delle principali fonti del tacito ascendente che ha il sionismo nelle università.

Quando è stato annunciato il premio David, il successo della professoressa Bashford è apparso in breve sul Sydney Morning Herald e lei ha concesso un’intervista all’Australian Academy of the Humanities. Quando il suo premio è stato annunciato, non ha avuto riluttanza – comprensibilmente – a commentarlo pubblicamente. Da un punto di vista umano – a lungo negato ai palestinesi – è anche abbastanza comprensibile che abbia preferito ignorare i palestinesi e i loro sostenitori quando hanno criticato la sua accettazione del premio. Ma per qualsiasi studioso che evidenzi la rilevanza del proprio lavoro per i problemi attuali, tale mancanza di sensibilità è una sconfitta intellettuale e politica.

Come il silenzio degli altri partecipanti al Premio David, anch’essi invitati a rifiutare l’onorificenza, il silenzio della professoressa Bashford di fronte al razzismo di Israele contro i palestinesi è un caso da manuale dell’eccezione della Palestina nella politica progressista. Esso contrasta notevolmente con le posizioni mostrate nelle sue pubblicazioni, dove suggerisce un’opposizione inequivocabile a tutte le forme di razzismo, apartheid e oppressione politica, espressa in riferimenti alla “famigerata” politica dell’Australia Bianca, il “rozzo razzismo coloniale” della storia australiana, o il “gradito” annullamento delle leggi razziste sull’immigrazione.

A volte, questo antirazzismo è abbastanza esplicito, ad esempio, quando si discute dell’autorità sanitaria pubblica australiana RW Cilento, che si dice fornisca un esempio di una tendenza più ampia nella medicina tropicale australiana: “In una straordinaria mossa colonizzatrice”, scrive la professoressa Bashford, “le persone non bianche sono state rese assenti da questo spazio, le popolazioni indigene sono state minimizzate in modo digressivo e controllate come un problema di salute pubblica gestibile”. Eppure questa minimizzazione digressiva è esattamente ciò che attua il suo stesso silenzio sulla Palestina.

Questo tipo di silenzio è sintomatico di un’avversione ampiamente condivisa a una decisiva azione politica nella professione accademica. L’avversione è più lampante quando si tratta di resistere alla corruzione e al degrado inflitti alle università dalle pratiche di gestione neoliberale e dal ritiro del sostegno finanziario del governo. C’è molta opposizione, in astratto. Tuttavia quando si tratta di parlare quando conta di più, l’impressionante acume critico della professione, il più delle volte, si zittisce.

Che si tratti della Palestina o del degrado delle università, questi silenzi rafforzano la morale imposta per decenni dalla palla demolitrice neoliberista: la cultura umanistica non ha nulla da offrire al mondo reale. Non suggerisce nulla su come dovrebbero agire gli individui, o su come dovrebbero essere gestite la società o persino le università. Al di fuori della sfera accademica autoreferenziale e del suo tapis roulant di onori, distinzioni e ricompense, i suoi valori sono irrilevanti e privi di significato.

Se l’antirazzismo può essere attivato e disattivato come principio – ripetutamente affermato a stampa, ma bruscamente sospeso quando viene sollevata la questione della Palestina – allora le sue espressioni vengono degradate a mere rappresentazioni. Se non sono effettivamente promulgate, le dichiarazioni accademiche di antirazzismo funzionano principalmente come segni di distinzione, le insegne di un’élite intellettuale esentata dalla necessità di mettere in pratica i suoi principi.

Da quando è stata pubblicata la lettera aperta, la nuova Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, nonostante i suoi difetti, ha rafforzato la mano dei sostenitori del boicottaggio riconoscendo il fatto, ovvio per quasi tutti tranne che per i fanatici della pulizia etnica e dell’apartheid, che il boicottaggio è una forma normale di protesta e non antisemita. Ulteriore sostegno viene dal semplice fatto che, come ho sostenuto altrove, i boicottaggi politici sono in realtà una pratica comune nel mondo accademico e non dovrebbero quindi essere esclusi nel caso di Israele.

Questo è ancora più vero quando, in realtà, un boicottaggio politico interno nella comunità sionista ha plasmato gli inizi dell’istruzione superiore ebraica in Palestina. Nel 1914, gli insegnanti sionisti boicottarono le scuole superiori gestite dall’Hilfsverein der deutschen Juden, l’Organizzazione di soccorso degli ebrei tedeschi, uno degli sponsor del Technion di Haifa (la prima università ebraica in Palestina). I sionisti boicottarono le scuole elementari dell’Hilfsverein per costringerlo a fare dell’ebraico (non del tedesco) la principale lingua di insegnamento. I genitori minacciarono anche di boicottare la scuola Hilfsverein a Jaffa allontanandone i figli a meno che l’ebraico non fosse usato per insegnare le scienze. Questo episodio è stato raramente citato nelle discussioni sul boicottaggio accademico, che hanno giustamente sottolineato la lunga storia palestinese dei boicottaggi, ma esso ha un significato reale: lungi dall’essere violazioni oltre il limite di presunte norme universali di libertà intellettuale, i boicottaggi politici come quello attualmente richiesto contro Israele sono stati determinanti nel plasmare la preistoria del sistema universitario israeliano.

È un segno di quanto lontana sia la giustizia per la Palestina nella cui lotta le università sono attualmente in prima linea. Affinché la lotta dei palestinesi contro l’apartheid israeliano prevalga nel campus e affinché gli accademici palestinesi siano liberati dal silenzio loro imposto, gli alleati dei palestinesi dovranno fare sentire la loro voce e dovranno essere rotti i silenzi scelti volontariamente o concessi a malincuore nelle università in posti come l’Australia.

Traduzione di Angelo Stefanini




Intervista: Quegli israeliani che si battono a fianco dei palestinesi

Hassina Mechaï

16 marzo 2021 – Orient XXI

Mentre si preparano le elezioni legislative israeliane del 23 marzo 2021, dominate dalla competizione tra partiti di destra estrema e di estrema destra, qualche voce dissidente si fa sentire. Parliamo con una di loro, Tali Shapiro.

Visto dalla Francia il campo politico [israeliano] può sembrare totalmente dominato da un misto di nazionalismo e religione, testimoniato dalle alleanze del Likud al potere con diversi piccoli partiti religiosi. Questa ideologia si incarna in Benjamin Netanyahu. Egli è stato primo ministro senza interruzione dal 2009, ma la sua prima elezione a questa carica risale al 1996.

Di fronte a quello che si potrebbe vedere come un blocco politico monolitico, la società civile israeliana offre delle sfumature che la dicono lunga sulle sfide che il Paese si trova ad affrontare, così come sulle sue contraddizioni. In questa società civile si distinguono i militanti israeliani che hanno scelto di agire, o di vivere, a fianco dei palestinesi. A volte definiti smolanim (estremisti di sinistra), detestati dalla destra e dall’estrema destra, propongono una voce dissidente che contraddice il discorso dominante, praticano la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. Tra loro Tali Shapiro, una cittadina israeliana il cui percorso, anche se particolare, illustra una tendenza sicuramente minoritaria, ma che resiste.

Hassina Mechaï. — Come e perché è diventata una militante?

Tali Shapiro. — Sono cresciuta con una certa forma di ignoranza politica, più precisamente in una famiglia ashkenazita [ebrei di origine centro-europea, ndtr.] in cui i miti sionisti erano considerati scontati. A 20 anni circa ho avuto un fidanzato cresciuto in una famiglia più a sinistra della mia. È grazie a questo rapporto che ho sentito per la prima volta un discorso diverso, contrastante con quello con cui ero cresciuta. Mi ci sono voluti parecchi anni per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ci è voluto del tempo, perché tentavo di mettere insieme i frammenti di informazioni che mi arrivavano. Non affrontavamo la questione in modo formale. Non erano che chiacchierate, in genere commenti sulle notizie che vedevamo o uno sguardo diverso sui media israeliani. Nel 2009, quando Israele bombardò Gaza [operazione Piombo Fuso, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, ndtr.] tutto divenne chiaro. Lo choc e la rabbia mi spinsero ad avviare un processo di comprensione più rigorosa della situazione. Da allora lì mi sono rapidamente unita alle manifestazioni a Bil’in e in altri villaggi della Cisgiordania e grazie ad amicizie e rapporti stretti laggiù, al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

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H. M.Perché questo tipo di impegno?

T. S. — Partecipare alle manifestazioni nei villaggi è stato soprattutto un atto spontaneo. Volevo incontrare queste persone che soffrono perché io possa vivere una vita soddisfacente. Volevo essere veramente lì per loro, in un modo che avesse un senso per loro. Volevo anche, in modo molto viscerale, esprimere il mio rifiuto di partecipare alla distruzione, il mio rifiuto di fronte al meccanismo di cancellazione e di controllo sistematico che è l’occupazione.

Unirmi al movimento BDS si è inserito nella logica di questo impegno. Il BDS mina il cuore stesso del sistema israeliano di oppressione attraverso il ricorso a un’analisi economica, istituzionale e culturale. Mettiamo in evidenza il modo complesso con cui le imprese, le istituzioni educative e culturali, il governo, l’esercito e le colonie sono collegati all’oppressione e la perpetuano. Esigiamo la fine di questa complicità, sottolineando che il quadro giuridico, politico e sociale esistente deve essere messo in pratica perché questa situazione cessi.

H. M.Durante queste manifestazioni come agiscono i soldati israeliani con voi? C’è una differenza di trattamento tra voi e i manifestanti palestinesi?

T. S.— La prima cosa da capire è che gli israeliani e gli attivisti internazionali non sono un bersaglio dei soldati. Quando sparano i soldati praticano il profilamento etnico, con una preferenza per i ragazzi e gli uomini. Se hai la pelle scura o la barba sei un bersaglio privilegiato. Tuttavia il solo fatto di stare insieme ai palestinesi durante una manifestazione può avere delle gravi conseguenze. Se sei troppo vicino rischi di essere arrestato o picchiato. In generale i soldati sono estremamente ostili e le loro reazioni vanno dalla villania alla brutalità. Gli israeliani che manifestano con i palestinesi sono considerati dei traditori. Ma nel complesso le conseguenze per noi sono meno pesanti e gli arresti più brevi e meno brutali.

Ciò detto, le conseguenze personali non sono trascurabili. Nei miei otto anni di proteste sono stata ferita, arrestata, imprigionata e ho visto degli amici feriti con danni permanenti. Un momento particolarmente significativo è stato quando sono stata liberata sotto cauzione grazie ad amici palestinesi. Mentre uscivamo dal posto di polizia, il comandante che mi aveva arrestata mi ha detto che avrebbe preferito sparare a me piuttosto che a loro, perché loro li capiva, mentre io ai suoi occhi ero una traditrice.

H. M.Che difficoltà e ostacoli ha trovato dal punto di vista personale, familiare, istituzionale? Il suo impegno ha avuto un impatto sulla sua vita?

T. S.— Io sono probabilmente più fortunata della maggioranza delle altre persone a questo proposito. Sono una libera professionista e non ho rapporti o legami istituzionali. Per quanto riguarda la mia famiglia ci siamo sforzati di mantenere la pace in casa. È tutt’altro che una situazione ideale, ma ci siamo posti dei limiti accettabili entro i quali possiamo vivere tutti. Il mio impegno è comunque cambiato perché, dopo aver preso coscienza della brutalità della colonizzazione, non potevo continuare lungo la strada che avevo intrapreso fino ad allora. Mi sono dedicata quasi interamente alla lotta palestinese contro la colonizzazione. Ciò ha cambiato la mia visione della vita, la cerchia di amici, il mio percorso professionale e il contesto in cui ho scelto di vivere. Sono diventata critica, non solo della violenza che mi circonda, ma anche del sistema socio-economico che la perpetua. I miei amici e le persone che mi sono vicine sono tutti militanti. Ho abbandonato il sogno della mia vita, diventare un’artista, per accettare un lavoro qualunque e poter agire in questo modo. Ho anche scelto di vivere a Ramallah. Se a 18 anni mi avessero detto che a 38 anni avrei vissuto lì sarei rimasta sconcertata.?

H. M.Nota dei punti in comune tra i militanti israeliani che frequenta?

T. S.— È un percorso molto personale, che resta unico per ciascuno di noi. Ognuno proviene da contesti socio-economici, razziali, sessuali e religiosi diversi. L’adesione al movimento è individuale, con punti di partenza differenti per ognuno. Se sapessimo come riprodurre dei fenomeni di dissidenza interna, lo faremmo.

H. M.Come siete accolti dai palestinesi? Come lavorate con militanti palestinesi?

T. S.— Viviamo una relazione tra gruppi oppressi e alleati privilegiati. I palestinesi sono stati molto gentili e pazienti. Hanno accettato le nostre azioni di solidarietà e ci hanno permesso di partecipare direttamente alle loro campagne. È un rapporto molto delicato, che si basa sul nostro impegno a non tradirli, e sulla loro fiducia. È anche un rapporto diseguale, in cui loro hanno tutto da perdere e in cui noi arriviamo con un “credito di militanza”. È una realtà che deve essere riconosciuta. Noi rifiutiamo ogni approccio feticista e insulso, che il più delle volte serve a depoliticizzare i rapporti e a perpetuare la supremazia e gli abusi. Quando gli israeliani si guadagnano la fiducia dei palestinesi stringono delle vere amicizie.

H. M.La società israeliana è ricettiva nei confronti delle vostre azioni?

T. S.— Un maggior numero di persone firma il nostro appello al boicottaggio dall’interno. Attraverso le reti sociali abbiamo anche osservato che sempre più gente di sinistra è d’accordo con l’idea del boicottaggio. Tuttavia osservo un’evoluzione nella sinistra israeliana: oggi essa ha una comprensione più vasta del rapporto tra la colonizzazione e l’economia. Ci sono delle voci nuove, delle nuove alleanze, una maggiore apertura al movimento BDS. Ciononostante, anche se la sinistra si è evoluta, rimane ancora una parte marginale della società israeliana. D’altronde è questa constatazione che può portare molti ad unirsi al movimento BDS.

H. M.Le istituzioni israeliane (polizia, esercito, servizi di sicurezza) vi permettono di agire liberamente?

T. S.— Non penso che le autorità israeliane accordino per loro stessa natura questa libertà. Per quanto riguarda il modo in cui ostacolano le nostre libertà, ciò dipende. Diverse leggi impediscono la libertà di espressione, in particolare la legge che definisce il BDS un “reato civile”. Ciò ci può portare a dover pagare multe di decine di migliaia di shekel [1 shekel = 0,25 euro]. La questione della nostra possibilità di agire dipende molto dalla visibilità o meno delle nostre azioni per le autorità. Ci sono più probabilità di essere arrestati durante una manifestazione che per aver scritto una mail nell’intimità della nostra casa a un fondo pensioni per chiedergli di disinvestire dal mercato israeliano. I meccanismi di dissuasione ci sono. Poi è solo una questione di impegno.

H. M.Lei osserva un allontanamento morale e politico degli ebrei americani rispetto alla politica israeliana?

T. S.— Non penso affatto che gli ebrei americani siano disinteressati alla politica israeliana. Sono stati educati nel sionismo quasi quanto gli israeliani. Ciò avviene attraverso la famiglia, ma anche attraverso le organizzazioni religiose e le ramificazioni dell’Agenzia Ebraica. Tra il campo filoisraeliano e i dissidenti non penso che si possa trovare un solo ebreo americano che non abbia in realtà un’opinione in proposito.

H. M.La società israeliana è comunque più complessa di come la si percepisce a volte all’estero, in particolare riguardo alla vivacità del dibattito…

T. S.— Se la società israeliana fosse disponibile alla discussione su queste questioni il dibattito ci sarebbe. Penso che ciò che è tabù viene sanzionato in modo aggressivo. È così in tutte le società. Questo non significa che noi non dovremmo cercare e che non cerchiamo di creare le condizioni per poter fare questa discussione. Ciò significa anche che, in base alle nostre risorse limitate, dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Una vittoria ne porta un’altra. Ogni coscienza politica non è una cosa statica, ma piuttosto una dinamica continua.

H. M.Pensa che la soluzione a due Stati sia ancora possibile?

T. S.— Penso che il paradigma dei due Stati non avrebbe mai dovuto essere messo sul tavolo. È un consolidamento della colonizzazione. Ora, la colonizzazione è la dominazione o l’espulsione di una popolazione etnicamente identificata e la sua sostituzione con un’altra popolazione. Questo paradigma fallisce dopo il 1949. Israele, nonostante le apparenze, è uno Stato fallito che non riesce ad assicurare il benessere e neppure la sopravvivenza di milioni di esseri umani sotto il suo regime. Tuttavia pretende di non aver alcun obbligo giuridico nei loro confronti. Avrebbe dovuto essere creata una missione di pace per proteggere le popolazioni, permettere il ritorno immediato dei rifugiati. Avrebbero dovuto essere intraprese delle iniziative diplomatiche serie per giudicare gli autori di quei crimini. Tutto il paradigma della partizione era destinato a fallire.

H. M.Cosa pensa dell’attuale contesto politico israeliano? Sembra in grado di proporre una soluzione?

T. S.— L’attuale contesto israeliano non sembra in grado di proporre altro che un genocidio. Non è un’iperbole. Le elezioni si giocano tra Netanyahu, il promotore del piano di annessione Trump-Kushner, e Benny Ganz, che si vanta di aver “riportato Gaza all’età della pietra”, come se fosse un merito politico. Non penso che si debba chiedere a loro di trovare delle soluzioni al problema delle violenze che stanno perpetrando.

L’unica soluzione è la cessazione immediata della violenza e la rimozione dal potere degli autori di questi atti. Benché ci siano forze di opposizione, principalmente i partiti palestinesi, è poco, è come tappare con un dito una diga che sta crollando. Ma non è che a questa condizione che si potrà cominciare a prendere in considerazione delle azioni di riparazione e di responsabilizzazione. Tutto ciò dovrà essere fatto dalle vittime e incoraggiato dalla comunità internazionale.

Hassina Mechaï

Giornalista, coautrice con Sihem Zine de L’état d’urgence (permanent) [Lo stato d’emergenza (permanente)], uscito nell’aprile 2018, Edizioni Meltingbook (Parigi).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)