‘Giudice, giuria e occupante’, un nuovo rapporto denuncia il sistema di apartheid dei tribunali militari israeliani

8 marzo 2021 – Middle East Monitor

Un nuovo rapporto di War on Want [Lotta contro la povertà, n.d.tr], l’organizzazione benefica britannica, ha ulteriormente evidenziato il sistema giudiziario dualistico e razzista facendo un’analisi dettagliata del sistema dei tribunali militari gestito dallo Stato sionista nella Cisgiordania occupata.

Sotto il titolo ‘Giudice, giuria e occupante’, l’ente benefico contro la povertà con sede a Londra, rivela come il sistema israeliano dei tribunali militari supporti l’occupazione illegale in Cisgiordania applicando alla popolazione palestinese leggi repressive, soffocando il dissenso, reprimendo la resistenza all’occupazione e rafforzando il suo dominio militare.

Il documento afferma che per i palestinesi nella Cisgiordania occupata ci sono due sistemi legali che operano in parallelo, spiegando che c’è una ” legge palestinese e una legge militare israeliana, quest’ultima codificata attraverso migliaia di ordinanze militari “.

“Le ordinanze militari israeliani sono emesse dall’esercito e hanno la prevalenza rispetto alle leggi palestinesi. Le ordinanze militari israeliane impongono l’illegale occupazione israeliana e non vanno a beneficio della società palestinese. Le ordinanze militari israeliane fungono da apparato di repressione, come documentato e denunciato da esperti di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali,” ha detto la scorsa settimana War on Want alla presentazione del suo rapporto.

”Giudice, giuria e occupante” smaschera il mito diffuso che con gli accordi di Oslo nel 1993 ai palestinesi sia stato concesso l’autogoverno. Svela come i palestinesi non abbiano mezzi per sfuggire al razzista sistema giudiziario militare israeliano, che ha creato una realtà “separata e iniqua”. Per esempio, gli occupanti israeliani arrestati in Cisgiordania sono giudicati da tribunali civili in Israele, mentre i palestinesi sono processati in tribunali militari.

Tale trattamento così discriminatorio fra le due popolazioni è recentemente stato bollato da B’Tselem come apartheid in un documento storico. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani, lo Stato sionista è colpevole di “far avanzare e perpetuare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi.”

Israele considera i palestinesi una minaccia alla sicurezza fin dalla culla, afferma il rapporto. Dal 1967, per esempio, Israele ha dichiarato illegali più di 411 organizzazioni palestinesi, inclusi tutti i principali partiti politici. I civili palestinesi sono stati perseguiti per “appartenenza e attività in un’associazione illegale”, uno strumento chiave per la repressione israeliana dell’attivismo contro l’occupazione.

Considerare i palestinesi come una minaccia alla sicurezza fin dalla nascita delegittima ogni opposizione all’occupazione illegale e giustifica la criminalizzazione di ogni sua forma. Secondo il rapporto “la rete complessa di leggi militari imposte sulla popolazione della Palestina occupata è concepita per ridurre fisicamente lo spazio dove vivono i palestinesi, per creare traumi psicologici e minare la loro possibilità di agire collettivamente come popolo.”

Questo rapporto esamina il funzionamento dei tribunali militari israeliani così come le istituzioni a loro connesse, le prigioni e i centri di detenzione in Cisgiordania e in Israele, dove sono detenuti i palestinesi in attesa di giudizio e che scontano le loro sentenze. Riguarda anche specificamente il modo in cui questo sistema di tribunali e prigioni mantenga ed estenda l’occupazione illegale israeliana in Cisgiordania e l’impatto sulle vite dei palestinesi nella loro patria storica.

Esortando le persone a unirsi alla lotta di War on Want contro “colonialismo, occupazione e apartheid” il rapporto rivela come il sistema militare israeliano abbia un impatto di vasta portata e profondamente discriminatorio sui palestinesi.

Dal 1967, quando è cominciata l’occupazione, oltre 800.000 civili palestinesi sarebbero passati dai tribunali militari israeliani. Questo sistema e la profonda ingiustizia che impone sui palestinesi devono finire, afferma War on Want.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché Israele ha messo al bando Jenin, Jenin? Perché teme la narrazione palestinese.

Ramzy Baroud

19 gennaio 2021- Middle East Monitor

L’11 gennaio scorso il tribunale distrettuale israeliano di Lod ha deliberato a sfavore del regista palestinese Mahmoud Bakri, ordinandogli di pagare un cospicuo risarcimento ad un soldato israeliano accusato, insieme con l’esercito di Tel Aviv, di avere commesso crimini di guerra nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, nell’aprile 2002.

Da come viene riportato dai media non solo israeliani, il caso sembrerebbe una questione relativamente semplice di diffamazione e quant’altro. Per chi ha invece familiarità con le narrazioni totalmente in conflitto fra di loro derivate dall’evento noto ai palestinesi come il “massacro di Jenin”, il verdetto del tribunale ha non soltanto sfumature politiche, ma anche implicazioni di tipo storico e intellettuale.

 

Bakri è un palestinese nato nel villaggio di Bi’ina, vicino alla città palestinese di Akka, che ora fa parte di Israele. È stato trascinato diverse volte in tribunali israeliani e pesantemente censurato dai principali media locali semplicemente perché ha osato mettere in discussione la versione ufficiale delle violenze avvenute nel campo profughi di Jenin quasi due decenni fa.

 

Il suo documentario Jenin, Jenin da adesso è ufficialmente vietato in Israele. Il film, che venne prodotto a pochi mesi di distanza da quell’evento frutto della violenza di Stato israeliana, di per sé non formula molte accuse. Ha messo però a disposizione dei palestinesi uno spazio prezioso dove potessero liberamente trasmettere con parole proprie ciò che era accaduto al loro campo profughi quando unità dell’esercito israeliano, con la copertura aerea fornita da caccia ed elicotteri d’attacco, rasero al suolo gran parte del campo, uccidendo decine di persone e ferendone centinaia.

Non dimentichiamoci che Israele pretende di essere una democrazia. Vietare un film, al di là di quanto il contenuto possa risultare inaccettabile per il governo, è assolutamente incompatibile con qualsiasi definizione di libertà di parola.

Mettere al bando Jenin, Jenin e incriminarne il regista, per ricompensare invece chi è accusato di avere compiuto crimini di guerra, è oltraggioso.

 

Per capire la decisione israeliana dobbiamo avere ben presenti due contesti: il primo è il sistema israeliano di censura che mira a zittire qualsiasi critica della sua occupazione e apartheid; il secondo è la paura israeliana di una narrazione palestinese veramente indipendente.

La censura israeliana iniziò fin dalla nascita nel 1948 dello Stato di Israele sulle rovine della madrepatria palestinese. I padri fondatori dello Stato di Israele costruirono nei minimi particolari e a loro vantaggio la storia della nascita dello Stato, cancellando quasi interamente la Palestina e i palestinesi dalla loro narrazione.

Il compianto intellettuale palestinese Edward Said dice questo nel suo articolo “Permission to Narrate” [Il Permesso di Raccontare, pubblicato nella London Review of Books nel febbraio 1984, ndtr.]: “La narrazione palestinese non ha mai trovato spazio nella storia ufficiale israeliana, se non nella forma dei “non-ebrei”, la cui presenza passiva in Palestina era una seccatura da ignorare o espungere.”   

Per garantire la cancellazione dei palestinesi dalla retorica ufficiale israeliana, la censura di stato si è evoluta fino a diventare uno dei progetti di questo tipo più attentamente custoditi e più raffinati al mondo. La complessità e la brutalità della censura sono arrivate al punto di processare e incarcerare poeti ed artisti per avere semplicemente messo in discussione l’ideologia fondante di Israele, il sionismo, o per avere composto poesie ritenute offensive della sensibilità israeliana. Se sono stati i palestinesi ad aver subito gli effetti della macchina sempre vigile della censura di Israele, persino qualche ebreo israeliano, incluse delle organizzazioni per i diritti umani, non ne è rimasto indenne.

 

Il caso di Jenin, Jenin, tuttavia, non rientra nella censura ordinaria. Esso costituisce piuttosto una dichiarazione, un messaggio per coloro che osino dar voce ai palestinesi oppressi dandogli così modo di rivolgersi direttamente al mondo. Agli occhi di Israele questi palestinesi rappresentano indubbiamente il pericolo maggiore, in quanto essi smontano la stratificata, elaborata quanto ingannevole retorica ufficiale, che prescinde dalla natura e dalla collocazione locale o temporale di qualunque evento contestato, a cominciare dalla Nakba (“Catastrofe”) del 1948.

Il mio primo libro, Searching Jenin: Eyewitness Accounts of the Israeli Invasion [Ricerca a Jenin: Testimonianze di Prima Mano dell’Invasione Israeliana, ndtr.] uscì quasi in contemporanea con Jenin, Jenin. Come il documentario, il libro cercava di bilanciare la propaganda ufficiale israeliana con i resoconti sinceri e strazianti di chi era sopravvissuto alla violenza scatenata contro il campo profughi. Mentre Israele non aveva l’autorità di proibire il libro, da parte loro i media e il mondo accademico ufficiale israeliani lo ignorarono totalmente oppure lo attaccarono con ferocia.

Certo, la contro-narrazione palestinese nei confronti della versione dominante israeliana, sia sul “massacro di Jenin” sia sulla seconda intifada, che era ancora in corso a quei tempi, fu modesta e in gran parte poggiò sull’impegno di pochi. Eppure, persino questi modesti tentativi di raccontare una versione palestinese furono considerati pericolosi e respinti con forza come irresponsabili, sacrileghi o antisemiti.

 

La vera forza di Israele – ma anche il suo tallone di Achille – sta nella capacità di progettare, costruire e difendere la sua personale versione della storia, anche se quella narrazione non è quasi mai coerente con qualsivoglia definizione ragionevole di verità. Nell’ottica di tale modus operandi persino contro-narrazioni scarne e senza pretese sono viste come minacce, in quanto creano falle in una costruzione intellettuale già di per sé priva di fondamenta.

L’attacco implacabile conclusosi con la messa al bando del film di Bakri su Jenin non è stato un semplice prodotto della censura israeliana, ma si spiega perché egli ha osato macchiare la sequenza storica così diligentemente fabbricata da Israele, che inizia con un “popolo senza terra” perseguitato che si sostiene sia arrivato in una “terra senza popolo”, dove esso “ha fatto fiorire il deserto”. Questi sono due dei più potenti miti fondanti di Israele.

Jenin, Jenin è un microcosmo di narrazione popolare che è riuscito a frantumare la ben foraggiata propaganda di Israele. In quanto tale ha mandato (e manda ancora) ai palestinesi, ovunque si trovino, il messaggio che persino la falsificazione israeliana della storia può venire sfidata e sconfitta.

Nel suo fondamentale Decolonising Methodologies: Research and Indigenous Peoples [La Decolonizzazione delle Metodologie: Ricerca e Popolazioni Indigene, ndtr], Linda Tuhiwai Smith [studiosa neozelandese, ndtr.] prende brillantemente in esame il rapporto fra storia e potere. Ella afferma che “la storia riguarda soprattutto il potere… È la storia dei potenti, di come lo siano diventati, e di come usino poi il proprio potere per mantenersi nelle posizioni che gli permettono di continuare a dominare gli altri.” È precisamente per questo che Jenin, Jenin e altri tentativi palestinesi di reclamare la propria storia devono essere censurati, vietati e puniti: perché Israele vuole mantenere l’attuale struttura di potere.

 

Se Israele prende di mira la narrazione palestinese, non lo fa semplicemente per contestare l’accuratezza dei fatti né per il timore che la “verità” possa richiamarlo all’obbligo di rispondere delle sue responsabilità giuridiche. Allo Stato coloniale non importano per niente i fatti e, grazie al sostegno dell’Occidente, esso rimane immune dai procedimenti penali internazionali. In realtà questo ha a che fare con la cancellazione della storia, di una patria, di un popolo: il popolo della Palestina.

Ciò nondimeno, un popolo palestinese con una narrazione collettiva coerente esisterà sempre, a dispetto della geografia, delle avversità fisiche e delle circostanze politiche. Ed è questo che Israele teme più di ogni altra cosa.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Ezra Nawi, 1952-2021

David Shulman

14 gennaio 2021Touching Photographs

Ezra Nawi. Ebreo di Baghdadi, nato in Israele, parlava correttamente l’arabo. Un uomo come tanti, ma diverso da tutti gli altri

Una di quelle giornate. I coloni hanno bloccato il sentiero che gli alunni prendono per andare a scuola; arrivano soldati e poliziotti, indifferenti. Ci apriamo la strada. La situazione di stallo va avanti per ore; non siamo disposti a desistere. Alla fine qualcuno dice: “È una situazione ormai senza speranza e sta peggiorando.” Ezra dice: “No. È come l’acqua che gocciola su una roccia. Dire la verità è così. Ci vuole tempo, ma alla fine la roccia cede.

Febbraio 2007. Un’altra giornata di demolizioni di case a Umm al-Khair [villaggio palestinese situato nel Governatorato di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndtr.] Ezra si distende a terra davanti ai bulldozer. Lo arrestano e lo ammanettano, e lui dice ai soldati: “Da ciò proverrà solo odio. Una volta anch’io ero un soldato, ma non ho mai distrutto la casa di nessuno. Non lasciate nulla alle vostre spalle se non odio.” Quanto ferocemente detestava l’odio.

Ezra, sempre imprevedibile. Di solito gli veniva in mente un’idea folle alla fine di una lunga giornata sulle colline, proprio mentre stavamo per tornare a casa. Poi, prima che ce ne rendessimo conto, ce ne andavamo con lui attraverso i vicoli della città di Hebron con una jeep di soldati alle nostre spalle. Guidava come James Bond, e devo ammettere che in un certo senso era divertente, a patto di scordare la parte che non lo era. La maggior parte di noi ha ricordi come questo. Una volta è successo sulle colline; una jeep dell’esercito ci si è avvicinata, il che non significa niente di buono, ed Ezra è partito con la sua macchina traballante sopra le rocce e le spine su sentieri appena visibili destinati a capre particolarmente abili. Dopo una ventina di minuti di inseguimento, siamo riusciti a infilarci nella boscaglia, realizzando così ciò che più mi auguravo.

Nel corso dei diciotto anni in cui l’ho conosciuto di solito era in stato di arresto, o sul punto di essere arrestato, o appena rilasciato dal carcere. Inconsapevolmente incarnava il principio gandhiano, o meglio la sua negazione: il modo migliore per sostenere un sistema ingiusto, diceva Gandhi, è obbedire alle sue leggi.

2

Giornate di lavoro, ripulire una grotta a Jinbah, la casa seppellita di una famiglia. Negli anni ’90, e di nuovo nel 2000, l‘esercito ha ricoperto la maggior parte delle grotte in una serie di azioni devastanti. Stiamo procedendo lentamente verso il basso, secchio dopo secchio. Ezra ci osserva divertito. Perde la pazienza. “Lascia che ti mostri come si usa una pala”, dice. Lui sa. Pochi minuti dopo viene alla luce il primo gradino di pietra, l’ingresso della grotta. La rivelazione di un mondo perduto. Quante case sepolte quest’uomo ha liberato dalla terra?

O liberare la strada per Bi’r al-‘Id, pietra dopo pietra. Ci vogliono un’ora o due per rendere percorribile un metro quadrato, forse un po’ di più. Un lavoro pesante, non meno inutile di quello che Sisifo è costretto a compiere ogni giorno. I soldati verranno sicuramente a disfarlo e dovremo ricominciare tutto da capo. È una forma molto particolare di felicità.

Ed Ezra si presenta immancabilmente con falafel freschi nella pita [crocchette a base di ceci col pane arabo, ndtr.] ancora caldi per tutti, [provenienti] dalla sua bancarella preferita nella città di Yatta, nell’Area A [sotto controllo e amministrazione palestinese, ndtr.]. È anche un bravo cuoco. Specialità di Baghdadi, la sera quando ci incontriamo nel suo appartamento per fare i nostri progetti.

Margaret Olin [studiosa e docente di studi delle religioni alla Yale University, New Haven, ndtr.]: “Per favore, aspetta un minuto nel furgone mentre prendo uno spuntino per noi.” Un’ora più tardi, dopo che Ezra ha chiacchierato con tutti quanti attorno alla bancarella, riappare con i falafel. E no, non ero arrabbiata. Conoscere Esdra è stato un onore e una benedizione. E un divertimento. (Margaret Olin) Yatta, 2015.

Ezra viene a sapere che i coloni hanno rapito un pastore e lo trattengono in una delle colonie vicine alla Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndtr.], molto a sud. Egli accompagna me e un altro David sino ad un determinato punto nel mezzo del deserto e dice: “Andate da quella parte. Troverete un altro palestinese su un asino. Seguitelo. Trovate il pastore. ” Poi se ne va, con molte altre cose urgenti da fare.

È mezzogiorno, fa caldo come al solito d’estate in un deserto. Ci dirigiamo verso le colline, saliamo, scendiamo, saliamo. E poi, proprio come previsto, vediamo un uomo su un asino bianco. “Vi stavo aspettando”, dice. “Seguitemi.” Non so se sapete quanto velocemente può correre un asino. In pochi minuti siamo di nuovo soli con il sole, la sabbia e le pietre. Un paio d’ore dopo riemergiamo, senza il pastore rapito, sulla strada principale nord-sud. Nessun segno nemmeno di Ezra.

3

Ezra, Nissim, Maria, Eileen, io. Andiamo a Beit ‘Ummar [città palestinese situata undici chilometri a nord-ovest di Hebron, ndtr.] per portare una copia del mio libro, Freedom and Despair [Libertà e Disperazione], alla famiglia di Isa Sleby, a cui il libro è dedicato. Isa era un amico di Ezra come quasi tutti gli altri a Beit ‘Ummar, ma ancora di più, perché Isa era senza paura, un uomo di pace e di azione. Isa è morto nel 2012.

Ci troviamo con suo figlio ‘Ala, sua madre e un nuovo nipote che Isa non ha mai conosciuto. Non ci sono foto di Ezra quel giorno, non pensavamo che saremmo stati lì, lui aveva a che fare con i soliti casi giudiziari e le condanne con la condizionale che lo minacciavano. Ma ecco che lo vedo con il bambino in braccio. Come un padre o un nonno orgoglioso, come sarebbe stato Isa. La tenerezza che era sempre in lui veniva fuori quando stava vicino ad un bambino. E se un bambino aveva delle ferite o ematomi o dei tagli leggeri, mi chiamava per pulire e fasciare la ferita, e il bambino incrociava le braccia e rifiutava di lasciarsi toccare. Poi Ezra lo convinceva dolcemente, molto lentamente ad aprire le braccia.

Stiamo guidando veloci lungo l’autostrada principale, la strada 60, deserto disabitato su entrambi i lati. È mattina presto. In lontananza, una palla rotola sulla strada. Ezra ferma la macchina; il bambino recupera la palla. Tutto qua. Ma lo so: quella tenerezza era al centro della [sua] durezza, come quando i coloni attaccavano e lui ci gridava: “Non abbiate paura e non scappate”.

Solo con gli ufficiali dell’esercito, o talvolta con la polizia, era diverso. Li disprezzava davvero ed era lieto di farglielo sapere. Per Ezra, ogni ufficiale era inconsapevolmente o (più probabilmente) consapevolmente complice dei crimini.

Uno di loro lo ha citato in giudizio perché Ezra lo ha definito un criminale di guerra. Un altro gli ha fatto causa perché quando l’ufficiale gli ha detto che stava per andare in pensione, Ezra ha citato il proverbio arabo: “Un cane va e un altro cane arriva”. Questo è stato chiamato, tra di noi, il caso del cane. Ce ne sono molti altri. A volte cercavo di convincerlo a mordersi la lingua e smetterla di maledirli, perché ciò quasi sempre comportava altri guai. Di solito fallivo.

4

Umm al-Khair, una mattina di primavera, siamo in giro con i pastori, sulla loro terra. Ma i coloni di Carmiel non li vogliono lì, quindi chiamano l’esercito. L’ufficiale ci dice che ci troviamo su “terre demaniali” e dobbiamo andarcene. Gli dico: “Davvero? E se sto percorrendo la via Emeq Refaim a Gerusalemme, che è anche presumibilmente territorio di Stato, devo andarmene se un colono dice che non mi vuole lì? “L’ufficiale resta freddo. Ezra mi prende da parte e dice: “Parla a quei soldati, spiega loro cosa stanno facendo. Conosci le parole, sei un professore, dai loro una lezione.” Capisco che sta temporeggiando e comunque va avanti e si ferma nelle vicinanze, sulle colline. È un altro modo di usare la parola magica “No”, una parola che potrebbe aver inventato Ezra. La parola che usi per sfidare soldati, polizia, sgherri della sicurezza e personaggi simili.

Così inizio con un’introduzione di cinque minuti sulla legge ottomana riguardo alla proprietà terriera, seguita da un’arringa, non eccessivamente dura, sul crimine che i soldati stanno per commettere. Li guardo dritto in faccia, cercando i loro occhi. Sembrano annoiati, tutti tranne uno. Forse qualcosa lo ha toccato. Forse ha improvvisamente visto i palestinesi come esseri umani. O forse si è incuriosito per questi marziani piombati una mattina di Shabbat [sabato in ebraico, nella religione ebraica la festa del riposo, ndtr.] per stare insieme ai pastori. Nel frattempo, grazie a Ezra e al mio ostruzionismo, le capre hanno avuto qualche minuto in più per pascolare.

Quanto segue è di Jyotirmaya Sharma, docente di pensiero politico all’Università di Hyderabad [nell’India meridionale, ndtr.] ed esperto del Mahatma Gandhi. Una giornata di lavoro a Samu’a [città palestinese 12 chilometri a sud di Hebron, ndtr.] che si è conclusa con una violenta carica delle forze speciali Yassam [unità militari israeliane adibite alla sicurezza, specie in caso di manifestazioni o rivolte, ndtr.]: tutti noi stavamo cercando di superare il posto di blocco che le forze di sicurezza israeliane avevano piazzato su quel tratto polveroso a sud di Hebron. Raccoglievo fango e pietre con le mani. Dovevano essere passati solo 10 minuti quando Ezra è venuto da me e mi ha detto: “Hai fatto abbastanza. Hai mostrato la tua solidarietà a noi e alla nostra causa. Ora devi solo stare a guardare. I soldati sono già qui. Potrebbero esserci degli arresti. Sei nostro ospite. Non vogliamo che tu trascorra la notte in una prigione di Gerusalemme o, peggio ancora, in una prigione di Hebron sud.

Bi’r al-‘Id, dopo una giornata passata a pulire i pozzi che l’esercito e i coloni hanno chiuso con pietre e terra. Ezra emerge dalle profondità di un pozzo dove ha lavorato pieno di fango addosso. Pochi giorni fa è stato rilasciato dopo un mese di prigione per aver tentato di impedire ai soldati di demolire quella casa a Umm al-Khair.

Gli chiedo come è andata in prigione. “Akhla … fantastico”, dice; “fortemente raccomandabile.” Questa è la vena gandhiana in lui. Sembra sereno.

“Vedo che ti senti ottimista”, dico.

“Sì. Guardati intorno. Due anni fa non conoscevamo nemmeno il nome di questo posto. Queste persone erano state cacciate dalla loro terra, le case e le terrazze erano state distrutte, i pozzi chiusi. Ora li abbiamo riportati indietro e siamo stati al loro fianco, e li abbiamo aiutati a resistere ai coloni e ai soldati e a non avere paura. Sono qui per restare. Sono a casa. Puoi addestrare le persone in modo che diventino capaci di resistere. Anche poche persone così fanno un’enorme differenza. Alla fine vinceremo. Quindi, ovviamente, sono ottimista. Devi essere anche ottimista, altrimenti perché dovresti stare qui? ” [da Freedom and Despair (2019) di David Shulman]

5

Gennaio 2016. Spie della destra vengono infiltrate a Ta’ayush dagli estremisti di Ad Kan [gruppo sionista israeliano noto per l’attività di infiltrazione specie di organizzazioni israeliane di sinistra, ndtr.] Un’operazione sotto copertura organizza una trappola per Ezra, e lui ci cade dentro. Viene arrestato, interrogato per diverse settimane, rilasciato. Sembra che la polizia non riesca a trovare nulla di sufficiente per un’accusa. Alla fine escogitano una ridicola accusa di essere entrato in contatto con le forze di sicurezza palestinesi – ironia della sorte, un crimine sancito dagli accordi di pace di Oslo, l’anatema della destra israeliana. I nostri avvocati dicono che non c’è alcuna possibilità che questa accusa possa restare in piedi in tribunale.

Ma poco dopo il suo rilascio, e probabilmente a causa dei gravi maltrattamenti [subiti], Ezra viene colpito da un ictus. Si riprende, riacquista gran parte della sua motilità, ma chi di noi lo conosce può accorgersi che è cambiato.

Ciònonostante viene con noi a Hebron sud e percorre, a passo più lento, il terreno accidentato della Valle del Giordano; ci sono molti momenti in cui riappare la vecchia scintilla.

11 maggio 2019, Wadi Swaid: Stiamo protestando davanti a un nuovo “avamposto illegale”, uno delle decine. I coloni hanno fatto il loro pranzo di shabbat. I soldati sono arrivati al momento giusto. Vogliono che ce ne andiamo ma non hanno un ordine firmato. Il pomeriggio si trascina. Nel bel mezzo della situazione di stallo, Ezra si presenta con i suoi bastoni da passeggio. Apre una sedia e si siede a pochi metri dalla tenda dei coloni. Si rivolge a loro come sempre con durezza:

“Shabbat shalom [Che sia un sabato di pace, in ebraico, ndtr.], siamo venuti per unirvi a voi per il terzo pasto dello Shabbat, lo seuda shlishit. Ma non noto alcun segno di ospitalità. Quando il nostro padre Abramo aveva ospiti, uccideva una pecora e la cucinava per loro. Questo è ciò che dice la Bibbia. Non sto chiedendo una pecora, ma almeno qualcosina sarebbe gentile.” Sospira. “Le generazioni stanno peggiorando.”

Nell’estate del 2020 Ezra ha un altro ictus e i medici scoprono un tumore al cervello. In autunno segue una serie ulteriore di lievi ictus. Le sue giornate sul campo con i suoi amici sono finite. Alla fine i suoi nemici l’hanno avuta vinta su quest’uomo che ha abbattuto il meschino presupposto su cui poggia l’Occupazione.

Ezra Nawi è morto il 9 gennaio [2021], all’età di 69 anni. Era preparato. Mi ha chiamato due volte per salutarmi. Come al solito ha anche scherzato un po’: “Probabilmente ci rivedremo. Tu sei indiano no, credi nella reincarnazione.” Ho cercato di dirgli che lo amavo e che io, e tutti gli altri, gli eravamo infinitamente grati per quello che ci aveva dato e insegnato. L’ultima volta che l’ho visto, qualche giorno fa, è riuscito ad alzarsi e a camminare, lentamente, da solo. Ci siamo seduti alla luce del sole invernale sulla veranda con le foglie verdi e lui ha detto: “Ho fatto qualcosa di buono nella mia vita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il vaccino per il COVID-19: un’altra brutta faccia dell’apartheid israeliano

Yumna Patel

28 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

La distribuzione del vaccino per il COVID-19 illustra perfettamente il sistema dell’apartheid di Israele.

Quasi 400.000 israeliani sono già stati vaccinati contro il coronavirus e nelle prossime settimane altre decine di migliaia sono in procinto di esserlo.

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo ad iniziare a distribuire il vaccino per il COVID-19 alla sua popolazione e, secondo Our World in Data [Il nostro mondo in cifre, ndtr.], edito dall’Università di Oxford, è attualmente il secondo al mondo per numero di vaccinazioni pro capite.

Secondo i media israeliani il ministero della Sanità di Israele intende vaccinare già nel corso di questa settimana 100.000 israeliani al giorno e il primo ministro Benjamin Netanyahu si è spinto a sostenere che Israele sarà fuori pericolo “entro poche settimane”.

 

Il mese scorso Israele si è assicurato 8 milioni di dosi del vaccino Pfizer, sufficienti a coprire quasi la metà della popolazione di 9 milioni di israeliani, poiché ogni persona necessita di due dosi. Tra coloro che hanno il diritto di ricevere il vaccino dal governo israeliano ci sono i quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

Tuttavia, gli oltre 5 milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, non sono autorizzati a ricevere il vaccino.

Le disparità tra i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e i cittadini israeliani sono costanti, semplicemente un dato di fatto della vita quotidiana in Israele e Palestina – le leggi che favoriscono gli israeliani rispetto ai palestinesi e i sistemi che discriminano fortemente questi ultimi sono all’ordine del giorno e ampiamente documentati.

Il sistema di apartheid in base al quale Israele opera all’interno del territorio occupato, tuttavia, non potrebbe essere meglio dimostrato come nel caso del vaccino per il COVID-19: chi ottiene o no il vaccino è una semplice questione di nazionalità.

Dobbiamo in primo luogo essere molto chiari: con l’occupazione militare in Cisgiordania e con l’effettivo controllo israeliano di Gaza Israele è legalmente obbligato dal diritto internazionale a provvedere alla loro [dei palestinesi] assistenza sanitaria”, ha riferito a Mondoweiss la dott.ssa Yara Hawari, analista capo redattrice di Al -Shabaka: The Palestinian Policy Network [organo di informazione che sostiene il dibattito sui diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi, ndtr.].

Israele è legalmente obbligato a fornire quel vaccino ai palestinesi sotto occupazione. Sappiamo che [Israele] non lo ha fatto”, dice, aggiungendo che Israele attribuisce tale responsabilità all’ANP [Autorità Nazionale Palestinese] quale fornitore dei servizi per i palestinesi.

Ciò costituisce una preoccupazione concreta“, riferisce Hawari a Mondoweiss. “Sappiamo che, se assegnato alla sola ANP, probabilmente sarà un processo molto lento.

Il “de-sviluppo” del sistema sanitario palestinese

A differenza del governo israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non è stata in grado di garantire la quantità di vaccini necessaria per trattare gli oltre 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza.

Mentre i funzionari dell’ANP hanno sostenuto di attendersi l’inizio dell’acquisizione dei vaccini nel corso delle prossime due settimane tramite l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno [anche] affermato che potrebbero passare mesi prima che il vaccino venga distribuito alla popolazione.

Ancora non si conosce il tipo e la quantità di vaccini che i palestinesi riceveranno, poiché per la fornitura essi fanno molto affidamento sulle donazioni internazionali, e il governo palestinese non ha la capacità infrastrutturale per conservare vaccini come quello Pfizer alle basse temperature richieste.

Nel frattempo, i palestinesi continuano a vivere tra periodi interminabili di isolamento, mentre il virus imperversa in tutti i Territori Palestinesi Occupati, con tassi giornalieri di infezione dell’ordine delle migliaia e tassi di mortalità giornaliera a doppia cifra.

Hawari sostiene che l’incapacità dell’Autorità Palestinese di procurarsi e immagazzinare i vaccini, insieme al suo precario sistema sanitario, è una conseguenza dei decenni di danni che l’occupazione israeliana ha arrecato alle infrastrutture palestinesi.

“C’è questo ricorrente luogo comune secondo cui la ragione per cui il sistema sanitario palestinese o altri servizi come l’istruzione sono inefficienti e non stanno facendo il loro lavoro sarebbe legata all’incompetenza da parte del popolo palestinese o della sua cultura – questa opinione secondo cui essi sarebbero stupidi e non in grado di governare “, dice Hawari.

“Ovviamente non è così. Il regime israeliano ha sistematicamente preso di mira il sistema sanitario palestinese e ha contribuito al suo de-sviluppo“, afferma. “I palestinesi sono stati costretti a fare affidamento ad aiuti esterni e gli è stato impedito di essere autosufficienti da parte dell’occupazione [israeliana], con la compiacenza della comunità internazionale.

L’esempio più lampante di ciò, afferma Hawari, è Gaza, dove il sistema sanitario è da anni sull’orlo del collasso e non è stato in grado di resistere ad anni di bombardamenti e offensive israeliane.

Da anni gli ospedali di Gaza non sono in grado di occuparsi di ferimenti e malattie. Non potevano farcela prima del COVID, e ora il COVID ha esasperato la situazione rendendola dieci volte peggiore “.

L’apartheid in funzione

Mentre i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza non riceveranno vaccini dal governo israeliano, le centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono illegalmente in Cisgiordania vengono vaccinati ogni giorno.

Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori hanno lanciato l’allarme per la forte disparità tra chi viene vaccinato e chi no, affermando che questo non è altro che apartheid.

Quando si parla di cose come il vaccino per il COVID-19, “sembra esserci una falsa distinzione tra Israele e Palestina”, dice Hawari. “In realtà si tratta di un’unica entità in cui le persone [che si trovano] all’interno di quello spazio vengono trattate in modo diseguale.”

“Esiste un’enorme quantità di rapporti reciproci tra le popolazioni, ma livelli di potere totalmente squilibrati”, prosegue Hawari, indicando le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che lavorano ogni giorno all’interno di Israele e delle colonie.

“L’economia israeliana fa affidamento su quella [forza lavoro]. Riceveranno anche il vaccino?” domanda. “In caso contrario ciò rappresenterebbe un rischio per Israele. Siamo popolazioni totalmente interconnesse, come avviene nelle popolazioni coloniali “.

È necessario fornire il vaccino a tutti e non dovrebbe esserci un’eccezione per la Palestina. Qualcuno lo ha detto perfettamente: non saremo al sicuro finché tutti non avranno accesso al vaccino. Questo non è un virus che conosce confini”.

Per quanto alcuni funzionari israeliani abbiano ventilato la possibilità di fornire in caso di necessità alcuni vaccini all’Autorità Nazionale Palestinese, Hawari ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle false manifestazioni di generosità di Israele, affermando: “Sappiamo che presenteranno tale mossa come un grande atto di benevolenza e di cooperazione internazionale, ma essi non soddisferanno nemmeno i requisiti minimi previsti dal diritto internazionale”.

Hawari sottolinea il fatto che nel bel mezzo della pandemia i palestinesi hanno “visto molto poco dal regime israeliano in termini di aiuti e sostegno ai palestinesi e alla loro lotta contro il virus. E quando finalmente si sono coordinati per consentire forniture provenienti da donazioni internazionali, ciò è stato elogiato come una meravigliosa forma di cooperazione, quando è il minimo che gli si possa chiedere”.

“Abbiamo visto Israele fare ciò per decenni – Israele viene costantemente elogiato per aver permesso ai malati di cancro di Gaza di recarsi a Tel Aviv per il trattamento, ma fondamentalmente – dice – essi stanno imponendo l’assedio che impedisce a centinaia di abitanti di Gaza di ottenere le cure necessarie”.

“È un girare intorno molto abile su qualcosa che dovrebbero fare, ma che non fanno.”

Oltre alle domande sul destino dei palestinesi dei TPO riguardo l’arrivo del vaccino, attivisti palestinesi e organizzazioni per i diritti hanno espresso preoccupazione per la potenziale emarginazione delle comunità palestinesi in Israele in occasione della pratica della vaccinazione.

All’inizio della pandemia organizzazioni come Adalah [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.] hanno criticato il governo israeliano per aver emarginato le comunità palestinesi in luoghi come Gerusalemme est, dove gli ambulatori per i test sul coronavirus erano scarsi o addirittura inesistenti.

Hawari è certa che “assisteremo di nuovo a quei comportamenti” durante la procedura delle vaccinazioni.

“È ancora presto e il vaccino è appena uscito, ma se osserviamo la programmazione, [Israele] li distribuirà [i vaccini] negli ambulatori. E sappiamo che, naturalmente, nei villaggi e nelle città palestinesi del ’48 [cioè in territorio israeliano, ndtr.] il sistema sanitario è privato, quindi ci sono meno ambulatori e operatori sanitari, per cui – afferma – in quelle aree le procedure saranno più lente”.

“Sarà facile per il governo israeliano ignorarlo e dire ‘ogni cittadino israeliano è trattato allo stesso modo’, ma se guardiamo alla geografia, quelle comunità palestinesi sono state volontariamente ignorate riguardo le strutture sanitarie, gli ambulatori, e altre istituzioni essenziali”.

La Palestina e il sud del mondo

Mentre decine di Paesi in tutto il mondo, come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi dell’UE iniziano a distribuire i loro vaccini alla popolazione, luoghi come la Palestina e altri Paesi del “Sud del mondo” sono rimasti indietro.

Anche prima che i vaccini arrivassero sul mercato, le Nazioni ricche hanno cominciato a fare scorta dei più promettenti vaccini contro il coronavirus. Secondo organizzazioni come Amnesty International e Oxfam si stima che, nonostante ospitino solo il 14% della popolazione mondiale, le Nazioni ricche abbiano già acquistato il 54% delle scorte totali dei vaccini più promettenti al mondo.

Amnesty International ha affermato che entro la fine del 2021 le Nazioni più ricche avranno acquistato dosi di vaccino sufficienti per “vaccinare l’intera popolazione tre volte”, mentre circa 70 Paesi poveri “saranno in grado di vaccinare contro il COVID-19 solo una persona su dieci”.

“Ciò che sta accadendo a livello globale è fortemente esplicativo delle disuguaglianze strutturali che esistono in tutto il mondo”, afferma Hawari. “Luoghi come Gaza, dove è persino difficile mantenere i requisiti sanitari di base e il distanziamento sociale, dovrebbero avere la priorità al fine di prevenire la diffusione. Ma ovviamente non avranno la priorità a causa del predominio delle strutture di oppressione”.

“Il COVID ha messo in evidenza in tutto il mondo sistemi di disuguaglianza“, continua Hawari, e afferma di ritenere “quasi impossibile avere all’interno di questi sistemi giustizia e parità in campo sanitario”.

“Un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto riguarda la Palestina, sarebbe che i palestinesi ricevessero immediatamente il vaccino, perché vivono un’esistenza precaria e costituiscono una comunità vulnerabile”, sostiene Hawari. “Questa priorità non dovrebbe essere esclusiva dei palestinesi, ma anche di altri Paesi del Sud del mondo. L’accesso all’assistenza sanitaria non dovrebbe dipendere dal fatto che sia o meno possibile permetterselo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La guerra di Israele agli aiuti europei per i palestinesi.  

Asa Winstanley

 

18 dicembre 2020 – Middle East Monitor

 

Chiunque visiti la Cisgiordania, come ho fatto io in diverse occasioni, avrà notato qualcosa di piuttosto comune, specie nelle comunità rurali: insegne, cartelloni, targhe che pubblicizzano l’Unione Europea e altri donatori nei confronti delle comunità palestinesi.

L’esempio più insidioso di questo fenomeno neocoloniale è l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che, essendo in realtà controllata dal Dipartimento di Stato, è una ramificazione del “soft power” dell’impero americano.

USAID promuove in ogni parte del mondo dei cambi di regime e gli “interessi nazionali” americani – un eufemismo che sta in realtà per gli interessi delle maggiori corporazioni statunitensi – sotto la parvenza di aiuti umanitari. Una volta fotografai un manifesto USAID a Ramallah che era stato deturpato dalla scritta in inglese: “Non vogliamo il vostro aiuto”. Questo legittimo scetticismo palestinese nei confronti degli “aiuti” occidentali è motivato da un semplice fatto fondamentale: la causa palestinese non è assolutamente una mera questione umanitaria: è una questione politica.

Gli aiuti di USA e Europa ai palestinesi hanno un vizio di fondo, ritengo intenzionalmente, in quanto si pongono come se i palestinesi fossero stati sradicati da un uragano, dalla siccità o da altra calamità naturale. Sappiamo bene invece che i profughi palestinesi furono cacciati dalle proprie terre in seguito alla pulizia etnica perpetrata dal braccio armato di un movimento politico razzista, il sionismo. Prima e dopo la fondazione di Israele nel 1948, circa 800.000 palestinesi furono cacciati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi. Questo non fu una calamità naturale; fu una decisione deliberata presa a freddo dai sionisti.

In quel contesto molti palestinesi vennero uccisi, e le loro case e villaggi furono cancellati dalle carte geografiche dal nascente Stato di Israele. Da allora Israele ha impedito sistematicamente a loro e ai loro discendenti di tornare nelle loro terre – che è loro diritto legittimo – semplicemente perché non sono ebrei. 

Gli aiuti destinati dall’Europa ai palestinesi sembrano più tesi a placare la coscienza dei progressisti europei che ad aiutare davvero i palestinesi nel lungo termine. La UE ostenta quanto “aiuti” e finanzi progetti palestinesi nella Cisgiordania occupata, ma questi progetti ignorano sia il fondamentale problema dell’occupazione israeliana sia la politica coloniale israeliana che costringe costantemente gli abitanti originari fuori dalle loro terre.

Di fatto, sia le scuole palestinesi sia altri progetti finanziati con gli aiuti della UE vengono abitualmente demoliti, danneggiati o rubati da Israele, che provvede quindi a sostituirli con insediamenti illegali. Questa settimana il mio collega David Cronin, che lavora a The Electronic Intifada, appellandosi alla libertà di informazione, è riuscito a quantificare la portata di questa distruzione degli aiuti della UE, rivelando che i danni e i furti perpetrati da Israele solo negli ultimi cinque anni ammontano complessivamente a più di 2 milioni di dollari. Dio solo ne conosce la cifra totale.

Cronin sostiene inoltre che quasi 20 anni fa i ministri degli Esteri della UE dichiararono pubblicamente che “si riservavano il diritto di richiedere il risarcimento” ad Israele per tali demolizioni “nelle sedi appropriate”. Tuttavia quella debole contestazione non si è tradotta in nulla di fatto.

Eppure, nonostante tali distruzioni vadano avanti da decenni, la UE continua a finanziare progetti in Cisgiordania, sapendo bene che probabilmente essi verranno prima o poi distrutti dall’esercito israeliano. E nel frattempo la UE non fa nulla per affrontare la causa che è alla radice di questa devastazione, vale a dire l’occupazione israeliana.

A dire il vero, la UE fa esattamente il contrario. L’Europa continua a premiare Israele con generose donazioni, sovvenzioni e investimenti scientifici e militari, per non parlare del sostegno politico e diplomatico. Tutto ciò mentre Israele, a tutti gli effetti, porta avanti una guerra contro i progetti UE che dovrebbero in teoria aiutare le comunità palestinesi.

 La nuova ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, l’oltranzista di destra Tzipi Hotovely, invoca abitualmente la distruzione delle comunità palestinesi per far largo alle colonie e ad altre infrastrutture funzionali alla occupazione israeliana in Cisgiordania. Inoltre, come altri politici israeliani, attacca e demonizza frequentemente sia la UE sia associazioni per i diritti umani guidate da dissidenti israeliani, questi ultimi perché, sostiene lei, sono il prodotto di un efferato complotto finanziato con fondi europei. L’anno scorso, in un video particolarmente scioccante, Hotovely è arrivata addirittura ad usare termini esplicitamente antisemiti per attaccare uno di questi gruppi ebraici israeliani per i diritti umani.  

 Ma badate bene, la UE non è la vittima innocente di questa guerra che Israele conduce contro gli aiuti finanziati dall’Europa. I politici e i burocrati europei sono anzi parte della farsa.

La priorità deve essere la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid imposto ai palestinesi. Il minimo che Bruxelles può e deve fare è smettere immediatamente di sostenere Israele.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Secondo le associazioni israeliane per i diritti umani le retate in casa di palestinesi sono disumanizzanti, cercano di piegare il loro spirito.

2 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Un rapporto pubblicato la settimana scorsa dalle associazioni israeliane per i diritti umani condanna le intrusioni illegali nelle abitazioni dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, suggerendo che questa pratica viola il diritto internazionale.

Questo studio, che si basa su due anni di ricerche da parte di Yesh Din [organizzazione di donne israeliane per la difesa dei diritti umani dei palestinesi, ndtr.], Physicians for Human Rights Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele, associazione di medici israeliani, ndtr.] (PHRI) e Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndtr.], mette in luce una vasta documentazione e molte testimonianze di soldati e famiglie sfrattate.

Le notti passano senza poter chiudere occhio e non posso stare qui in casa. Per molto tempo non ho potuto dormire in casa, andavo dai miei genitori. Loro (i soldati) sono venuti ed hanno buttato giù la nostra porta. Fino ad oggi non sono ancora riuscita a metabolizzarlo,” dice una donna di Beit Ummar nel rapporto.

Attacchi, aggressioni e atti di vandalismo sono frequenti nelle città e nei villaggi palestinesi della Cisgiordania occupata da Israele, tanto da parte di coloni illegali che di soldati.

Secondo il rapporto intitolato “Una vita in bilico: irruzioni militari in case palestinesi in Cisgiordania”, ogni anno centinaia di adolescenti palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano durante retate notturne, violando le stesse direttive militari riguardo all’emissione di mandati di comparizione per un interrogatorio prima dell’arresto.

Quello che mi viene da pensare,” ha detto la dottoressa Jumana Milhem, una psicologa che lavora con Medici per i Diritti Umani – Israele, “è che il processo implica la disumanizzazione di tutta la società. La questione è piegare l’animo umano.

Ci sono vari fattori di rischio per il TEPT (disturbo da stress post-traumatico) che notiamo in alte percentuali nella società palestinese in generale. Non stiamo parlando di un solo trauma, ma di uno degli aspetti del trauma continuo dell’occupazione. La sensazione di stare chiuso in carcere nel tuo stesso Paese. Questa sensazione di essere continuamente a rischio.”

Luay Abu ‘Aram, palestinese di Yatta, ha detto a Yesh Din: “È stato veramente terrificante il fatto che siano entrati in casa in piena notte con armi, i volti coperti, cani e tutti che si aggiravano in cortile. Nella tua testa passano tanti pensieri. Ha avuto un impatto terribile sulle ragazze, e perché? Perché fanno una perquisizione del genere di tutta la famiglia e dei vicini? Se ci sono informazioni dovrebbero cercare quelle.”

Per qualcuno, come Fadel Tamimi, imam di 59 anni di una moschea a Nebi Salih in Cisgiordania, le retate sono diventate frequentissime negli ultimi 20 anni. Dice di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati sono entrati in casa sua, il che fa pensare che possano essere più di 20, l’ultima nel 2019, appena prima della pandemia da coronavirus.

Il rapporto evidenzia come i civili palestinesi debbano essere protetti contro le frequenti e mortali offensive ed incursioni militari israeliane.

Vengono sottolineati anche gli effetti di queste incursioni sui soldati dell’occupazione, due dei quali hanno descritto la propria esperienza di irruzioni in case palestinesi come un punto di svolta per loro, soprattutto nel modo in cui vedevano se stessi come i “buoni” o “buoni” soldati e persone.

Ci è stata mostrata un’immagine aerea con ogni casa numerata. Ci è stato detto di scegliere quattro abitazioni a caso per entrarvi e “rovistare”, che vuol dire mettere tutto a soqquadro per un qualunque sospetto. Mi è sembrato strano che mi dessero questa possibilità di scelta,” ha spiegato Ariel Bernstein, 29 anni, che ha fatto il militare in un’unità d’élite della fanteria, la Sayeret Nahal.

L’esercito israeliano nega queste accuse, secondo cui le perquisizioni di case verrebbero realizzate a caso, e afferma che sono una questione relativa alla sicurezza.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




I diritti dei palestinesi e la definizione dell’IHRA di antisemitismo

29 novembre 2020, The Guardian

Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA

Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.

Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Dirottare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.

L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo. L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazione dell’Olocausto. Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.

La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo strutturato, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e l’ininterrotta occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti principi:

1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere applicata nel quadro delle leggi internazionali e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia, compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.

2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e annientati come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così com’é attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.

3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente da movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.

4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere valutato in rapporto ai diritti del popolo palestinese. Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti nella stessa misura tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.

5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro strumento per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei angosce tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.

6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.

La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.

7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori,alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. L’occultamento dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA tradisce un atteggiamento che sostiene il privilegio ebraico, invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.

Samir Abdallah

Regista, Parigi, Francia

Nadia Abu El-Haj

Ann Olin Whitney Docente di Antropologia, Columbia University, USA

Lila Abu-Lughod

Joseph L Buttenwieser Docente di Scienze Sociali, Columbia University, USA

Bashir Abu-Manneh

Docente in Letteratura Postcoloniale, University of Kent, UK

Gilbert Achcar

Docente di Studi sullo Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Nadia Leila Aissaoui

Sociologa e scrittrice su tematiche femministe, Parigi, Francia

Mamdouh Aker

Consiglio di amministrazione, Università di Birzeit, Palestina

Mohamed Alyahyai

Scrittore e romanziere, Oman

Suad Amiry

Scrittrice e architetto, Ramallah, Palestina

Sinan Antoon

Professore Associato, New York University, Iraq-USA

Talal Assad

Professore Emerito di Antropologia, Graduate Center, CUNY, USA

Hanan Ashrawi

Ex docente di Letteratura Comparata, Università di Birzeit, Palestina

Aziz Al-Azmeh

Professore emerito, Università dell’Europa centrale, Vienna, Austria

Abdullah Baabood

Accademico e ricercatore in Studi sul Golfo, Oman

Nadia Al-Bagdadi

Docente di Storia, Università Centrale Europea, Vienna

Sam Bahour

Scrittore, Al-Bireh / Ramallah, Palestina

Zainab Bahrani

Edith Porada Docente di Storia dell’Arte e Archeologia, Columbia University, USA

Rana Barakat

Assistente universitaria di Storia, Università di Birzeit, Palestina

Bashir Bashir

Professore associato di Teoria Politica, Open University of Israel, Raanana, Stato di Israele

Taysir Batniji

Artista-Pittore, Gaza, Palestina e Parigi, Francia

Tahar Ben Jelloun

Scrittore, Parigi, Francia

Mohammed Bennis

Poeta, Mohammedia, Marocco

Mohammed Berrada

Scrittore e critico letterario, Rabat, Marocco

Omar Berrada

Scrittore e curatore, New York, USA

Amahl Bishara

Professore Associato e Presidente, Dipartimento di Antropologia, Tufts University, USA

Anouar Brahem

Musicista e compositore, Tunisia

Salem Brahimi

Regista, Algeria-Francia

Aboubakr Chraïbi

Docente, Dipartimento di Studi Arabi, INALCO, Parigi, Francia

Selma Dabbagh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Izzat Darwazeh

Docente di Ingegneria delle Comunicazioni, University College London, UK

Marwan Darweish

Professore associato, Università di Coventry, Regno Unito

Beshara Doumani

Mahmoud Darwish Docente di Studi Palestinesi e di Storia, Brown University, USA

Haidar Eid

Professore Associato di Letteratura Inglese, Università Al-Aqsa, Gaza, Palestina

Ziad Elmarsafy

Docente di Letteratura Comparata, King’s College di Londra, Regno Unito

Noura Erakat

Professore Associato, Africana Studies and Criminal Justice, Rutgers University, USA

Samera Esmeir

Professore Associato di Retorica, Università della California, Berkeley, USA

Khaled Fahmy

FBA, Docente di Studi Arabi Moderni, Università di Cambridge, Regno Unito

Ali Fakhrou

Accademico e scrittore, Bahrain

Randa Farah

Professore Associato, Dipartimento di Antropologia, Western University, Canada

Leila Farsakh

Professore associato di Scienze Politiche, Università del Massachusetts Boston, USA

Khaled Furani

Professore Associato di Sociologia e Antropologia, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Burhan Ghalioun

Professore Emerito di Sociologia, Sorbonne 3, Parigi, Francia

Asad Ghanem

Professore di Scienze Politiche, Università di Haifa, Stato di Israele

Honaida Ghanim

Direttore generale del Forum Palestinese per gli Studi Israeliani Madar, Ramallah, Palestina

George Giacaman

Docente di Filosofia e Studi Culturali, Università di Birzeit, Palestina

Rita Giacaman

Docente, Istituto di Comunità e Sanità pubblica, Università di Birzeit, Palestina

Amel Grami

Docente di Studi di Genere, Università Tunisina, Tunisi

Subhi Hadidi

Critico letterario, Siria-Francia

Ghassan Hage

Docente di Antropologia e Teoria Sociale, Università di Melbourne, Australia

Samira Haj

Professore Emerito di Storia, CSI / Graduate Center, CUNY, USA

Yassin Al-Haj Saleh

Scrittore, Siria

Dyala Hamzah

Professore Associato di Storia Araba, Université de Montréal, Canada

Rema Hammami

Professore Associato di Antropologia, Università di Birzeit, Palestina

Sari Hanafi

Docente di Sociologia, Università Americana di Beirut, Libano

Adam Hanieh

Docente in Studi dello Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Kadhim Jihad Hassan

Scrittore e traduttore, Docente presso INALCO-Sorbonne, Parigi, Francia

Nadia Hijab

Autrice e Difensore dei Diritti Umani, Londra, Regno Unito

Jamil Hilal

Scrittore, Ramallah, Palestina

Serene Hleihleh

Attivista Culturale, Giordania-Palestina

Bensalim Himmich

Accademico, romanziere e scrittore, Marocco

Khaled Hroub

Professore in Residenza di Studi Medio-Orientali, Northwestern University, Qatar

Mahmoud Hussein

Scrittore, Parigi, Francia

Lakhdar Ibrahimi

Scuola di Affari Internazionali di Parigi, Istituto di Studi Politici, Francia

Annemarie Jacir

Regista, Palestina

Islah Jad

Professore Associato di Scienze Politiche, Università di Birzeit, Palestina

Lamia Joreige

Artista Visuale e Regista, Beirut, Libano

Amal Al-Jubouri

Scrittore, Iraq

Mudar Kassis

Professore Associato di Filosofia, Università Birzeit, Palestina

Nabeel Kassis

Ex Docente di Fisica ed ex Preside, Università di Birzeit, Palestina

Muhammad Ali Khalidi

Docente di Filosofia, CUNY Graduate Center, USA

Rashid Khalidi

Edward Said Docente di Studi Arabi Moderni, Columbia University, USA

Michel Khleifi

Regista, Palestina-Belgio

Elias Khoury

Scrittore, Beirut, Libano

Nadim Khoury

Professore Associato di Studi Internazionali, Lillehammer University College, Norvegia

Rachid Koreichi

Artista-Pittore, Parigi, Francia

Adila Laïdi-Hanieh

Direttore generale, Museo Palestinese, Palestina

Rabah Loucini

Docente di Storia, Università di Orano, Algeria

Rabab El-Mahdi

Professore Associato di Scienze Politiche, The American University, Il Cairo, Egitto

Ziad Majed

Professore Associato di Studi sul Medio Oriente e IR, Università Americana di Parigi, Francia

Jumana Manna

Artista, Berlino, Germania

Farouk Mardam Bey

Editore, Parigi, Francia

Mai Masri

Regista palestinese, Libano

Mazen Masri

Professore a contratto di diritto, City University of London, UK

Dina Matar

Docente in Comunicazione Politica e Media Arabi, SOAS, University of London, UK

Hisham Matar

Scrittore, Docente al Barnard College, Columbia University, USA

Khaled Mattawa

Poeta, William Wilhartz Docente di Letteratura Inglese, Università del Michigan, USA

Karma Nabulsi

Docente di Politica e IR, Università di Oxford, Regno Unito

Hassan Nafaa

Professore Emerito di Scienze Politiche, Università del Cairo, Egitto

Nadine Naber

Docente, Dipartimento di Studi Femminili e di Genere, University of Illinois at Chicago, USA

Issam Nassar

Professore, Illinois State University, USA

Sari Nusseibeh

Professore Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Najwa Al-Qattan

Professore Emerito di Storia, Loyola Marymount University, USA

Omar Al-Qattan

Regista, Presidente del Museo Palestinese e della Fondazione AM Qattan, Regno Unito

Nadim N Rouhana

Docente di Affari internazionali, The Fletcher School, Tufts University, USA

Ahmad Sa’adi

Docente, Haifa, Stato di Israele

Rasha Salti

Curatrice indipendente, scrittrice, ricercatrice d’arte e film, Germania-Libano

Elias Sanbar

Scrittore, Parigi, Francia

Farès Sassine

Docente di filosofia e critico letterario, Beirut, Libano

Sherene Seikaly

Professore Associato di Storia, Università della California, Santa Barbara, USA

Samah Selim

Professore Associato, Lingue e letterature A, ME e SA, Rutgers University, USA

Leila Shahid

Scrittrice, Beirut, Libano

Nadera Shalhoub-Kevorkian

Lawrence D Biele Cattedra in Legge, Hebrew University, Stato di Israele

Anton Shammas

Docente di Letteratura Comparata, Università del Michigan, Ann Arbor, USA

Yara Sharif

Docente senior, Architettura e Città, Università di Westminster, Regno Unito

Hanan Al-Shaykh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Raja Shehadeh

Avvocato e scrittore, Ramallah, Palestina

Gilbert Sinoué

Scrittore, Parigi, Francia

Ahdaf Soueif

Scrittrice, Egitto / Regno Unito

Mayssoun Sukarieh

Docente senior di Studi sullo Sviluppo, King’s College di Londra, Regno Unito

Elia Suleiman

Regista, Palestina-Francia

Nimer Sultany

Docente in Diritto Pubblico, SOAS, University of London, UK

Jad Tabet

Architetto e scrittore, Beirut, Libano

Jihan El-Tahri

Regista, Egitto

Salim Tamari

Professore Emerito di Sociologia, Università di Birzeit, Palestina

Wassyla Tamzali

Scrittrice, produttrice d’arte contemporanea, Algeria

Fawwaz Traboulsi

Scrittore, Beirut Libano

Dominique Vidal

Storico e giornalista, Palestina-Francia

Haytham El-Wardany

Scrittore, Egitto-Germania

Said Zeedani

Professore Associato Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Rafeef Ziadah

Docente in Politiche Comparate del Medio Oriente, SOAS, University of London, UK

Raef Zreik

Minerva Humanities Center, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Elia Zureik

Professore Emerito, Queen’s University, Canada

Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




L’occupazione ai tempi del COVID-19: Israele va considerato responsabile della salute dei palestinesi

Yara Asi 

15 novembre 2020 – Al-Shabaka

Introduzione

A marzo e aprile 2020, mentre gran parte del mondo si adeguava alla nuova normalità di lockdown e coprifuoco, molti palestinesi hanno rivissuto circostanze familiari. Quando sono stati segnalati i primi casi di COVID-19 in Cisgiordania, vicino a Betlemme, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha imposto il lockdown su quel governatorato. Gli spostamenti all’interno della Cisgiordania sono stati ridotti in modo simile ai peggiori periodi delle restrizioni di movimento sotto l’occupazione israeliana. 

Inoltre, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera del ponte Re Hussein, il principale punto di entrata e uscita per i palestinesi della Cisgiordania, chi lavorava in Israele è stato mandato a casa o gli è stato detto di restare in Israele, e agli abitanti di Gaza che sono sottoposti ad un rigido assedio e hanno solo due punti di entrata e uscita, è stata imposta una quarantena obbligatoria per chiunque tornasse a casa a Gaza dall’estero. Infatti, agli inizi del lockdown, il blocco di Gaza è stato descritto come un vantaggio potenziale, dato che si pensava che la restrizione dei movimenti riducesse possibili focolai.

Questo editoriale tratta dei tre modi in cui il quadro giuridico dell’occupazione, come definito dal diritto internazionale umanitario (DIU), non ha fornito l’assistenza sanitaria pubblica ai palestinesi in tempi di COVID-19. Per prima cosa analizza il “de-sviluppo” attivo e passivo del sistema sanitario palestinese prima della pandemia. Secondo, esamina i modi in cui Israele non ha rispettato i suoi obblighi di legge verso i palestinesi sul COVID-19. E in conclusione analizza come, limitando le iniziative palestinesi, l’occupazione abbia peggiorato la situazione sanitaria.

Sebbene non ci sia dubbio che il DIU abbia probabilmente dei limiti nella protezione dei diritti delle popolazioni oppresse, il mio documento ne usa il linguaggio per ritenere Israele responsabile della salute dei palestinesi. In questo modo, anche in base ai criteri limitati previsti dalla comunità internazionale, in questo momento di crisi sanitaria Israele non sta adempiendo ai doveri giuridici minimi di una potenza occupante. Così facendo, ha contribuito attivamente al deterioramento della salute e del benessere dei palestinesi. Il documento propone parecchie raccomandazioni per affrontare la presente crisi. 

Il quadro giuridico dell’occupazione e i suoi limiti

Nel 1967, con la guerra dei Sei Giorni, lo Stato di Israele conquistò la Penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Da allora, quasi tutti i governi e organismi internazionali, inclusi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte internazionale di Giustizia, l’Assemblea generale dell’ONU, il Comitato internazionale della Croce Rossa, hanno riconosciuto Israele come potenza occupante. Eppure lo Stato di Israele non definisce come occupazione la propria presenza nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ma anzi la contesta attivamente. Israele e i suoi sostenitori hanno obiettato che la natura dello status o degli obblighi di Israele quale potenza occupante è cambiata con gli accordi di Oslo e che dopo il “disimpegno” del 2005 almeno Gaza non è occupata. Nonostante queste argomentazioni, quasi tutte le organizzazioni internazionali hanno continuato a riconoscere questi territori come occupati, inclusa la Striscia di Gaza. In risposta, Israele e i suoi alleati hanno combattuto per delegittimare le Nazioni Unite e trasformare il concetto di “occupazione” in un problema di intransigenza palestinese, basandosi sulla narrazione che tutti i palestinesi sono potenziali minacce alla sicurezza di Israele, giustificando di conseguenza la loro punizione collettiva. 

Il DIU fornisce un quadro solido delle responsabilità delle parti coinvolte in un conflitto armato e delle responsabilità di una potenza occupante verso la popolazione civile sotto il suo controllo. La convenzione dell’Aja del 1907 concernente le guerre terrestri rispecchiava le norme della fine del XIX secolo sulle dichiarazioni che regolavano gli atti di guerra e a tutt’oggi è critica verso le indagini del DIU sulle violazioni dei diritti umani. L’articolo 42 definisce un territorio come occupato “quando è effettivamente posto sotto l’autorità di un esercito ostile,” e altri articoli attribuiscono all’occupante una serie di responsabilità, inclusa quella di garantire la sicurezza pubblica e di prevenire il sequestro di proprietà private. A corollario della convenzione dell’Aja del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra firmate nel 1949 hanno ulteriormente rafforzato le protezioni e i diritti in guerra e sono considerate il cuore del DIU.

La quarta Convenzione di Ginevra, che protegge i civili, fu adottata dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. La sezione III descrive le protezioni a vasto raggio garantite ai civili nei territori occupati. Ci sono parecchi articoli rilevanti nella descrizione degli obblighi legali di Israele nei confronti della popolazione palestinese, specialmente durante questa pandemia. L’articolo 53, per esempio, vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica. L’articolo 55 impone che la potenza occupante garantisca alla popolazione rifornimenti di cibo e medicinali, specialmente quando “le risorse dei territori occupati sono inadeguate.” L’articolo 56 richiede specificatamente alla potenza occupante di garantire e mantenere la sanità e l’igiene pubbliche, mentre l’articolo 59 chiede alla potenza occupante di facilitare gli sforzi di soccorso umanitario. 

Ma cosa più importante, l’articolo 60 dice chiaramente che gli invii di soccorso umanitario “non esonereranno affatto la potenza occupante dalle responsabilità che le incombono in virtù degli articoli 55, 56 e 59.” In altre parole, la presenza di aiuti da parti terze per soddisfare bisogni umanitari nei TPO non sostituisce il dovere dello Stato di Israele di soddisfare quei bisogni al meglio delle proprie capacità. In marzo l’ONU ha ribadito questa responsabilità quando Michael Lynk, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina, ha dichiarato che “il dovere legale, stabilito dall’articolo 56 della quarta Convenzione di Ginevra, richiede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che tutte le necessarie misure preventive a sua disposizione siano utilizzate per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

All’inizio l’ONU aveva lodato la cooperazione “eccellente” fra le autorità israeliane e quelle palestinesi nella gestione della pandemia. Tuttavia l’errore di interpretare questi sforzi come cooperazione serve solo a consolidare la percezione del quasi-Stato di Palestina e dello Stato di Israele come entità equiparabili. Inoltre è importante contestualizzare questa cooperazione. Michael Lynk “ha già notato in precedenza che Israele è in ‘grave violazione’ dei propri obblighi internazionali riguardanti il diritto alla salute dei palestinesi che vivono sotto occupazione.” Questa presunta cooperazione sul COVID-19 è più probabilmente da collegare a un atteggiamento pragmatico riguardo al rischio di diffusione di una malattia infettiva, considerando la presenza di centinaia di migliaia di coloni in Cisgiordania e il costante traffico transfrontaliero di lavoratori palestinesi in Israele e di soldati israeliani in Cisgiordania. Come detto così tante volte negli ultimi mesi, il COVID-19 “non fa differenze fra persone né si ferma ai confini.”

Il de-sviluppo del settore sanitario palestinese  

Oggi nessuna analisi del frammentato settore sanitario palestinese è completa senza una comprensione dei fattori che l’hanno portato al suo stato attuale. Fattori sociali e politici determinanti per la salute sono profondamente radicati nei modi in cui l’occupazione e le sue restrizioni si manifestano in tutti gli aspetti della vita quotidiana palestinese. Sicuramente il blocco e i continui attacchi alla Striscia di Gaza hanno portato a scarsità di cibo, elettricità e forniture mediche in un territorio con infrastrutture distrutte. La Cisgiordania ha anche sofferto continue perdite di territori e frammentazione, abbinate a finanziamenti assolutamente insufficienti al settore sociale sotto l’autorità di un’ANP in difficoltà. Le risorse sanitarie sono insufficienti, specialmente per salute mentale, condizione femminile e giovanile. Decenni di dipendenza dagli aiuti hanno diminuito lo sviluppo a lungo termine e accresciuto la dipendenza dagli aiuti.

La dipendenza dell’ANP dagli aiuti e dai prestiti si è rivelata particolarmente disastrosa nell’era del COVID-19, dato che le agenzie di finanziamento stanno fronteggiando necessità globali senza precedenti che hanno limitato la loro possibilità di soddisfare tutti gli aiuti necessari. Inoltre, Israele controlla tutte le importazioni ed esportazioni nei TPO e ha da tempo proibito o limitato le importazioni di materiali giudicati a “doppio uso,” che sono cioè percepiti come un rischio per la sicurezza. Sono elencati articoli come il cemento per costruire strutture sanitarie, i prodotti chimici, incluso il carburante per generatori negli ospedali, prodotti farmaceutici e molte apparecchiature mediche. Ciò continua a porre ostacoli significativi al sistema di assistenza sanitaria palestinese e alla sua possibilità di combattere il COVID-19. Solo durante il suo attacco a Gaza nel 2014 Israele ha distrutto migliaia di case e circa 73 strutture mediche, la maggior parte delle quali non può essere ricostruita a causa delle restrizioni sulle importazioni. Osservatori dell’ONU hanno duramente criticato Israele perché ostacola gli aiuti umanitari ai palestinesi e demolisce strutture finanziate da donatori.

Questo de-sviluppo economico e infrastrutturale della Palestina ha portato a precarie condizioni di salute per molti palestinesi, aumentando di conseguenza le probabilità che sviluppassero gravi sintomi di COVID-19. I TPO denunciano alti livelli di obesità e, allo stesso tempo, tassi di malnutrizione, anemia, e diabete di tipo 2 superiori a quelli auspicabili. I TPO hanno anche affrontato la scarsità di personale sanitario negli anni precedenti alla pandemia. Il personale medico, specialmente a Gaza, è stato ucciso nel corso di attacchi dell’esercito israeliano. Queste minacce, la pessima situazione economica in ulteriore peggioramento e la mancanza di risorse spingono alcuni studenti di medicina ad andare a lavorare altrove. 

Oltre all’occupazione, l’ANP non è riuscita a reagire in modo adeguato alla pandemia. Probabilmente c’era da aspettarselo anche prima del suo inizio a marzo 2020. Infatti, poco prima, i medici in tutta la Palestina avevano scioperato per un mese a causa dei ritardi nei pagamenti degli stipendi. Gli effetti distruttivi dei mancati investimenti a lungo termine dell’ANP nel settore sanitario sono aggravati dall’infrastruttura israeliana di apartheid: i checkpoint, i valichi di frontiera, il muro di separazione e il sistema di permessi che limita i movimenti delle persone e le forniture necessarie. 

Le condizioni scadenti del sistema sanitario costringono molti palestinesi che hanno bisogno di assistenza specialistica a far domanda per ottenere permessi sanitari rilasciati da Israele per essere curati in ospedali israeliani o a Gerusalemme Est. Tuttavia nel 2019 è stato approvato solo il 64% dei permessi medici di Gaza e l’81% della Cisgiordania. Inoltre, dopo che l’ANP ha interrotto il coordinamento civile con Israele in risposta al piano di annessione del 2020 e il rallentamento del piano dell’Onu per facilitare i permessi, Israele ha approvato solo la metà di quelli urgenti richiesti da Gaza alla fine della primavera. Perciò a molti palestinesi che hanno contratto il COVID-19 e che soffrivano di patologie pregresse è stato impedito di ricevere cure mediche adeguate, incluso l’accesso ai respiratori. 

Politicizzare la salute dei palestinesi durante il COVID-19

Mentre Israele ha dato all’ANP formazione e attrezzature, inclusi i kit per i test per tener sotto controllo la diffusione del virus, Yael Ravia-Zadok, vice direttore della Divisione economica del Ministero degli Esteri [israeliano], già agli inizi della pandemia aveva anche chiarito che “le necessità dei palestinesi sono maggiori di quelle che lo Stato di Israele possa soddisfare.” Allo stesso tempo, Danny Danon, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, ha così risposto alle critiche dell’ANP sulla gestione del COVID-19 da parte di Israele nei TPO: 

I palestinesi stanno ritornando al loro comportamento naturale: antisemitismo, anti-israelismo, infangare senza motivo e tentare di usare la situazione per ottenere vantaggi politici […] Il mio messaggio è molto chiaro: i palestinesi devono scegliere. Se vogliono continuare a ricevere aiuti per il coronavirus, devono smettere di istigare all’odio.”

Quindi i palestinesi devono dimostrare di meritarsi gli aiuti, senza criticare i comportamenti del governo israeliano, o rischiano di essere accusati di incitamento all’odio e di antisemitismo. Questo ricorda i tentativi di punire i palestinesi quando, nel 2012, hanno cercato il riconoscimento dello Stato da parte dell’Onu, e gli USA hanno bloccato 147 milioni di dollari in aiuti, o quando, l’anno scorso, Netanyahu ha definito “proclami antisemiti” le inchieste della Corte Penale Internazionale su potenziali crimini di guerra commessi nelle colonie. 

Già nel gennaio 2020, organizzazioni come l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi, si sono mobilitati per proteggere dalla pandemia i rifugiati palestinesi che vivono nei campi. Inoltre alla fine di marzo l’OCHA, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari, ha preparato un progetto anti- Covid nei TPO e il Comitato Ad Hoc ha chiesto ai donatori milioni di dollari in aiuti. Paesi come Turchia e Arabia Saudita hanno contribuito con denaro e forniture mediche. La Banca mondiale ha approvato un prestito di 30 milioni di dollari per ripristinare i redditi delle famiglie. Persino gli Stati Uniti, che avevano tagliato quasi tutti gli aiuti ai palestinesi, inclusi i fondi all’URNWA e quelli che andavano agli ospedali a Gerusalemme Est, hanno reso noto un modesto aiuto per aiutare la loro risposta al COVID-19. A maggio anche Israele ha destinato 800 milioni di shekel (circa 200 milioni di euro) per aiuti, ma sotto forma di un prestito garantito dai futuri introiti fiscali palestinesi che Israele riscuote.

Perciò parte di quello che va sotto il nome di cooperazione può essere considerato come l’allentamento di alcune delle restrizioni imposte da Israele sui palestinesi per permettere ad altri di fornire aiuti. Inoltre Israele ha agito in modo strategico con i suoi cosiddetti aiuti. Ad aprile 2020 il ministro della difesa Naftali Bennet aveva affermato che gli aiuti a Gaza sarebbero stati condizionati al recupero dei resti di due dei suoi soldati morti nella guerra del 2014. Bennett aveva persino collegato la crisi umanitaria a Gaza al recupero dei corpi dei soldati: “Se si parla di problemi umanitari a Gaza, anche Israele ha delle necessità umanitarie, che sono principalmente il recupero dei caduti.” E poi in agosto, in risposta agli attacchi con palloni incendiari da Gaza che avevano causato decine di incendi, Israele ha lanciato attacchi aerei, impedito l’importazione di combustibile, limitato l’accesso alle zone di pesca e bloccato 30 milioni di dollari di aiuti a Gaza provenienti dal Qatar. 

Blocco degli sforzi palestinesi per affrontare il COVID-19

L’ANP, dopo una risposta iniziale efficace con veloci lockdown e chiusure, è stata poi criticata per la sua scarsa leadership, ma le va riconosciuto che non aveva risorse sufficienti né il potere di fare di più. Oltre a mancare dell’autonomia necessaria per costruire un sistema sanitario pubblico funzionale, i palestinesi non hanno neppure autonomia per rispondere in tempo reale a crisi sanitarie. A Gerusalemme Est, dove Israele limita pesantemente le operazioni dell’ANP, le autorità israeliane hanno trascurato di costruire e promuovere strutture sufficienti per eseguire i test o fornire dati accurati, e le ONG sono dovute intervenire per garantire informazioni aggiornate in arabo. 

Inoltre l’esercito israeliano ha regolarmente bloccato le iniziative sanitarie palestinesi. Non solo Israele ha fatto un raid su un centro di test a Silwan, ha anche arrestato i suoi organizzatori per prevenire “ogni attività dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gerusalemme.” Un altro esempio: le autorità israeliane non assistono aree come Kufr Aqab, che sono tecnicamente all’interno dei confini stabiliti da Israele, ma fuori dal muro di separazione. Ne risulta che, dato che Israele vieta attività dell’ANP in queste aree, i palestinesi sono lasciati senza servizi pubblici. Le autorità sanitarie si sono impegnate ad aprire cliniche e centri per i tamponi in queste aree, e solo quando l’ONG palestinese Adalah ha presentato una petizione alla Suprema Corte Israeliana. Israele ha inoltre respinto gli sforzi di volontari palestinesi per limitare i movimenti o chiudere attività commerciali, anche se alcuni abitanti palestinesi di queste aree hanno il permesso di viaggio e quindi avrebbero potuto diffondere il contagio in Israele e Cisgiordania.

La diffusione dell’infezione è una grande preoccupazione nelle prigioni israeliane, dove a giugno 2020 c’erano più di 4.000 prigionieri e detenuti palestinesi. Centinaia sono in detenzione amministrativa a tempo indeterminato senza processo o accusa. Mentre all’inizio della pandemia gli esperti di diritti umani dell’Onu chiedevano il rilascio in massa dei prigionieri, e centinaia di detenuti israeliani venivano rilasciati in anticipo, nessuna azione simile è stata presa per i palestinesi. Nonostante i vari resoconti di prigionieri e guardie carcerarie israeliane positive al virus, a luglio la Corte Suprema Israeliana ha deliberato che i prigionieri palestinesi non hanno diritto al distanziamento fisico.  

Dato che le politiche israeliane hanno soffocato la possibilità di sviluppare la loro economia da parte dei palestinesi, specialmente nel vitale settore agricolo, molti palestinesi in Cisgiordania sono costretti a lavori poco qualificati in Israele, mentre in genere agli abitanti di Gaza non vengono dati permessi di lavoro. Infatti in Israele quasi il 70% della manodopera nei cantieri edili è palestinese. Questi lavoratori non possono lavorare da casa e, data l’elevata disoccupazione, quelli che hanno un lavoro devono mantenerli. Molto di questo lavoro è continuato e infatti il ministero dei Transporti israeliano ha previsto un’ accelerazione dei progetti durante il lockdown. Ciò promuove il costante sviluppo dell’economia israeliana mentre quella palestinese è crollata, oltre ai salari bassissimi di questi lavoratori. 

A parte lo squilibrio economico, ciò aumenta il rischio sanitario di quelli in Cisgiordania dato che molti lavoratori sono stati rimandati a casa senza testarli. Alcune delle prime morti in Cisgiordania sono state ricondotte a palestinesi che lavoravano in Israele. Oltre alla riluttanza a fare i tamponi ai lavoratori, le condizioni di alloggio e lavoro di migliaia di lavoratori rimasti in Israele durante il lockdown sono state in gran parte ignorate dal governo israeliano, persino quelle di chi era costretto a dormire in una struttura per il deposito dei rifiuti a Gerusalemme, dove non c’erano alloggi per fermarsi la notte.

Come detto sopra, il blocco israeliano su Gaza e le restrizioni in Cisgiordania hanno causato la scarsità delle grandi dotazioni necessarie per cure complesse, come i ventilatori. All’inizio di aprile 2020, l’80-90% dei 256 ventilatori in Cisgiordania e gli 87 nella Striscia di Gaza erano già occupati. Mentre Israele temeva che la disponibilità di 40 ventilatori per 100.000 persone fosse insufficiente, la Striscia di Gaza ne aveva solo 3 per 100.000 persone. Anche dopo l’inizio della pandemia, i fornitori di attrezzature mediche che avevano lavorato direttamente con il ministero della Salute palestinese per importare prodotti avevano difficoltà a ottenere l’approvazione del Coordinatore israeliano delle Attività del Governo nei Territori (COGAT). Un fornitore ha cercato per tre anni senza successo di fare entrare apparecchiature mediche a Gaza. 

Per aggirare questi problemi, i palestinesi hanno trovato modi per produrre ventilatori con i materiali disponibili e dopo una richiesta di assistenza del ministero degli Esteri palestinese, un’Ong australiana ha donato all’ANP ventilatori e altre apparecchiature. Comunque anche queste donazioni urgentemente necessarie devono essere approvate e avallate dal governo israeliano e saranno mandate in Israele prima di essere distribuite a Ramallah.

Le autorità israeliane hanno anche confiscato materiali indispensabili per attrezzare cliniche e alloggi di emergenza nella valle del Giordano, inclusi materiali per installare tende e un generatore. Dopo una temporanea interruzione delle demolizioni all’inizio di aprile 2020, alla fine di quel mese Israele ha demolito 65 strutture a Gerico e al-Khalil (Hebron), lasciando senza casa decine di palestinesi, inclusi almeno 25 bambini. 

Nonostante l’aumento dei casi positivi in Israele e in Cisgiordania, durante la primavera e l’estate le demolizioni sono continuate e hanno incluso un centro indispensabile per fare i test nell’Area C [in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] vicino ad al-Khalil, l’epicentro della pandemia in Cisgiordania. Inoltre le demolizioni a Gerusalemme Est stanno per superare i numeri degli anni precedenti, al settembre 2020 sono state distrutte approssimativamente 90 unità residenziali. 

Mentre la violenza strutturale dell’occupazione è particolarmente evidente in questi tempi di crisi globale, la violenza diretta non è cessata. Gaza è stata impegnata in un conflitto attivo per la maggior parte dell’estate, aerei e artiglieria israeliana hanno colpito aree nella Striscia in risposta ai palloni incendiari e ai razzi. In Cisgiordania, incursioni e raid dell’esercito israeliano sono continuati e la popolazione palestinese temeva che i soldati israeliani che entravano nelle loro case o lavoravano nei checkpoint potessero essere infettati.

Raccomandazioni

Come affermato dall’Onu in occasione del cinquantesimo anniversario dell’occupazione israeliana, “l’occupazione impedisce che il precedente flusso di aiuti si traduca in tangibili miglioramenti in termini di sviluppo. Molto del sostegno dei donatori è stato usato per limitare i danni, interventi umanitari e sostegno al budget.” Che siano l’interminabile e astratto dibattito su uno Stato o due o l’enorme industria degli aiuti che privilegia sorveglianza e governance a sanità ed agricoltura, molto di ciò che si fa “per” i palestinesi cambia molto poco la macabra realtà. Ciò nasconde semplicemente l’esistente crisi umanitaria, ora aggravata dalla crisi sanitaria globale che sta mettendo a dura prova persino gli Stati più stabili e ricchi. Definire “tranquillo” ogni periodo senza una guerra attiva è una falsità quando scoppia una crisi come quella del COVID-19 e nessun organismo vuole e può proteggere le vite dei palestinesi. 

Ecco quello che è disperatamente necessario per affrontare la crisi sanitaria in Palestina durante la pandemia da COVID-19: I leader palestinesi che fino a ora e per varie ragioni non sono stati all’altezza nell’ occuparsi dei palestinesi durante la pandemia, devono guardar oltre lo status quo e avere un “approccio forte e socialmente collaborativo” che vada incontro alle necessità dei palestinesi.

  • Israele deve liberare i prigionieri politici palestinesi, con la massima urgenza quelli anziani e i malati cronici, e allo stesso tempo deve migliorare le condizioni di quelli che stanno scontando una condanna.

  • Per proteggere questa popolazione marginalizzata, che è stata colpita in modo sproporzionato dalla pandemia, è necessaria una giusta definizione dello status dei rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente, incluso il ritorno e l’implementazione dei diritti negli Stati ospiti. Fino all’inizio di tale implementazione, la comunità internazionale dovrebbe ripristinare la possibilità da parte dell’UNRWA di provvedere a servizi sanitari ed educativi nelle comunità dei rifugiati palestinesi invece di dover far affidamento ad appelli urgenti e altri tentativi di raccolta fondi ad hoc.

  • Israele deve togliere l’assedio a Gaza, specialmente per permettere l’ingresso di prodotti medici e materiali per costruire strutture sanitarie e di personale medico a sostegno di quello drammaticamente carente a Gaza. Allentare le restrizioni delle importazioni in Cisgiordania alleggerirebbe inoltre il peso sulle strutture mediche.

  • La comunità internazionale, inclusi Unione europea, Lega Araba e Consiglio di Sicurezza dell’ONU devono far pressione su Israele affinché faccia ogni sforzo per adempiere ai suoi obblighi di potenza occupante in in base alla Quarta Convenzione di Ginevra. Dovrebbero chiedere che Israele cessi tutte le incursioni in Cisgiordania, fermi tutte le demolizioni e metta in atto particolari sistemi di protezione per i lavoratori palestinesi in Israele.

  • Yara Asi è ricercatrice post-dottorato presso l’università della Florida centrale, dove per oltre 6 anni ha insegnato nel Dipartimento di Gestione sanitaria e informatica. È borsista Fulbright USA della Cisgiordania nel 2020-2021. Le sue ricerche si concentrano principalmente sulla salute globale e lo sviluppo in popolazioni fragili e colpite dalla guerra. 

Oltre ad aver lavorato in una delle prime organizzazioni di assistenza certificate negli Stati Uniti, ha anche collaborato con Amnesty International USA, con lArab Center Washington DC, il Palestinian American Research Center, [Centro Palestinese Americano di Ricerca] e con Al-Shabaka, un network per le politiche palestinesi su temi relativi alla sensibilizzazione. Ha tenuto conferenze su argomenti relativi alla salute globale, come sicurezza alimentare, informatica biomedica e donne nel sistema sanitario, e ha pubblicato le sue ricerche in molti articoli per riviste, capitoli di libri e altro. Il suo libro di prossima uscita con la Johns Hopkins University Press tratta delle minacce poste da guerre e conflitti a salute pubblica e sicurezza umana.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Dopo Trump non basta ripristinare la “normale” politica statunitense sulla Palestina

Omar Baddar 

13 novembre 2020 – 972mag

Biden può essere un convinto filo-israeliano, ma gli attivisti e i rappresentanti progressisti possono spingere ad una politica estera che rispetti i diritti dei palestinesi.

La sconfitta di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi la scorsa settimana ha generato un collettivo sospiro di sollievo fra i progressisti e le comunità vulnerabili negli Stati Uniti e in tutto il mondo, compresi i palestinesi e coloro che lottano per i diritti dei palestinesi. Il motivo è ovvio: la politica di Trump su Palestina / Israele era guidata dalla sua simpatia per l’autoritarismo e dal desiderio di assecondare la base evangelica di estrema destra. Di conseguenza, era gestita da ideologi incompetenti come Jared Kushner e David Friedman, che hanno abbozzato un tentativo fallito di liquidare una volta per tutte la lotta palestinese per la libertà.

Tale fallimento, tuttavia, non ha lasciato indenni i palestinesi, che negli ultimi quattro anni hanno subito danni devastanti e senza precedenti, tra cui la chiusura della missione diplomatica palestinese a Washington, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, l’approvazione dei piani di annessione e la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ndtr.] e agli ospedali palestinesi. Ma al di là dell’innegabile riduzione del danno che ci sarà con questo cambiamento dell’amministrazione statunitense, quali sono le prospettive per la libertà dei palestinesi nell’era Biden?

Il presidente eletto Joe Biden fa parte di una problematica tendenza della politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele, che a parole appoggia l’indipendenza palestinese ma in pratica sostiene Israele nella negazione di quella libertà attraverso finanziamenti militari illimitati e protezione diplomatica. Anche in questa ultima stagione elettorale, quando l’ala progressista del Partito Democratico chiedeva chiaramente di riconoscere le responsabilità di Israele, Biden si è distinto come il candidato che ha respinto con più veemenza qualsiasi discorso sul condizionare gli aiuti militari a Israele al rispetto dei diritti umani palestinesi.

In breve, la politica di Biden probabilmente promuoverà ancora una volta la vuota farsa dei “negoziati di pace”, semplicemente chiedendo a Israele di rispettare i diritti dei palestinesi ben sapendo che non lo farà, per poi fornirgli le armi con cui le forze israeliane brutalizzano i palestinesi. Se Biden si atterrà a questo approccio crudele e controproducente, per i palestinesi la transizione da Trump a Biden sarà come passare dalla padella alla brace.

Per decenni, il problema della politica statunitense in Palestina è stata la discrepanza – o l’ipocrisia, per dirla più chiaramente – tra il dire e il fare. Se la politica dichiarata è di promuovere l’indipendenza dei palestinesi, perché gli Stati Uniti stanno in realtà sostenendo l’occupazione e l’oppressione?

Donald Trump ha posto fine a questa ipocrisia, ma nella direzione sbagliata: la sua politica è stata di favorire l’oppressione. Ora che l’approccio degli Stati Uniti sta per tornare alla “normalità”, ciò di cui abbiamo bisogno è risolvere l’ipocrisia nella giusta direzione e cambiare radicalmente l’azione politica. Allora, come la mettiamo con Biden?

La sfida principale con Biden è che, come si suol dire, “non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio cane”. Come la vicepresidente eletta Kamala Harris, Biden ha trascorso la sua carriera politica flirtando con l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, la più potente lobby americana di sostegno a Israele, ndtr.] e assecondando i gruppi filo-israeliani, ribadendo l’idea che Israele sia al di sopra di ogni colpa.

Ci vorrà quindi un grosso sforzo per convincere Biden a riesaminare i suoi profondi pregiudizi sul tema, e per fargli riconoscere quanto l’opinione pubblica tra gli elettori del Partito Democratico si sia spostata in merito a Palestina / Israele. Dopo tutto, il 64% dei Democratici sostiene la riduzione degli aiuti militari a Israele a causa delle sue violazioni dei diritti umani. È vero che i gruppi di pressione israeliani continuano a esercitare un significativo potere finanziario su candidati e politici, ma affermare che Israele dovrebbe essere chiamato a rispondere di come utilizza la sbalorditiva cifra di 38 miliardi di dollari che riceve ogni dieci anni dagli Stati Uniti non è più impopolare.

Per fortuna, la narrazione progressista sulla Palestina, che giudica le ingiustizie dell’occupazione e dell’apartheid israeliani per quello che sono e chiede alla politica statunitense un approccio più etico sta guadagnando un’inedita forza negli Stati Uniti. Le cose stanno cambiando a Washington, dalla presentazione di progetti di legge da parte delle parlamentari Betty McCollum e Alexandria Ocasio-Cortez per limitare la complicità degli Stati Uniti nell’aggressione israeliana ai palestinesi, alla sconfitta di sostenitori filo-israeliani come Eliot Engel da parte di nuovi eletti progressisti come Jamaal Bowman [il preside di scuola media che ha sconfitto Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera, nelle primarie democratiche di New York, ndtr.] Il 117° Congresso avrà anche un maggior numero di membri in carica che parlano apertamente dei diritti dei palestinesi.

Questa ondata di rappresentanti progressisti può spingere l’amministrazione Biden a cambiare la politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele. Ma potrà farlo solo se continuiamo a costruire un variegato movimento di base che si allei con altre lotte progressiste nel paese e che renda socialmente e politicamente inaccettabile il fatto di essere “progressisti tranne che sulla Palestina” (PEP).

Vale anche la pena riflettere sul ruolo della leadership palestinese nella Cisgiordania occupata, che si è fatta in quattro per accogliere le richieste degli Stati Uniti negli ultimi 30 anni nella speranza di avvicinarsi gradualmente all’indipendenza palestinese. Dopo decenni di fallimento, questo approccio è insostenibile. La leadership palestinese deve cambiare, deve diventare più democratica e smettere di reprimere e soffocare il dissenso. Fondamentalmente, deve smetterla di stare a guardare in attesa che gli Stati Uniti procurino la libertà ai palestinesi. In qualità di leader, è loro compito cercare giustizia attraverso ogni possibile via, comprese le istituzioni internazionali e la Corte Penale Internazionale, indipendentemente dalle obiezioni degli Stati Uniti.

In definitiva, tuttavia, il compito di porre fine alla complicità degli Stati Uniti con l’oppressione israeliana dei palestinesi grava sulle spalle di coloro che vivono negli Stati Uniti, e dobbiamo continuare a impegnarci su questo compito. Facendo crescere una campagna multiforme di pressione progressista dal basso, che a sua volta influenzi il dibattito politico, la copertura mediatica e il comportamento dei responsabili politici, il consenso sul cieco sostegno degli Stati Uniti a Israele può davvero incrinarsi. Questa crepa renderà possibile una politica estera più giusta ed etica che sostenga – o almeno smetta di ostacolare – la ricerca della libertà da parte dei palestinesi.

Omar Baddar è un analista politico palestinese-americano che risiede a Washington, DC. È stato vicedirettore dell’Arab American Institute [organizzazione che si occupa di difendere gli interessi degli statunitensi di origine araba, ndtr.] (AAI) e direttore esecutivo dell’American Arab Anti-Discrimination Committee [associazione che lotta contro le discriminazioni a danno della comunità arabo-americana, ndtr.] del Massachusetts.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché il mito di “Pallywood” persiste

Natasha Roth-Rowland

15 ottobre 2020 – +972

Un’eredità durevole della Seconda Intifada è la perfida idea che i palestinesi non siano affidabili quando raccontano le loro esperienze dell’oppressione israeliana.

Il 30 settembre 2000, all’inizio della Seconda Intifada, un cineoperatore palestinese che lavorava per una rete televisiva francese filmò quello che sarebbe diventato un famoso scontro a fuoco a Gaza. Durante una prolungata sparatoria al valico di Netzarim, il dodicenne Muhammad al-Durrah e suo padre Jamal si trovarono in mezzo dal tiro incrociato tra israeliani e palestinesi.

Il cineoperatore, Talal Abu Rahma, filmò la coppia mentre cercava un rifugio e, dopo qualche raffica di arma da fuoco durante le quali le riprese vennero interrotte, le immagini mostrarono Muhammad crollare in braccio al padre. Colpito da uno sparo letale all’addome, morì poco dopo in seguito alle ferite.

L’incidente, spesso citato come “la questione Al-Durrah”, divenne il punto d’inizio del termine dell’hasbara [propaganda israeliana] “Pallywood”. Parola composta di “palestinese” e “Hollywood”, suggerisce che, per scopi propagandistici contro Israele, i palestinesi recitano scene che mostrano gli spari dell’esercito israeliano contro civili. Il termine venne coniato da Richard Landes, un medievalista americano, che nel 2005 fece un breve documentario definendo la sua teoria di quella che chiamò “una fiorente industria di cinema all’aperto.”

L’accusa di “Pallywood” ora è una fiorente industria in sé, essendo stata ampiamente applicata ad episodi che vanno dagli attacchi aerei israeliani fino all’uccisione con armi da fuoco nel 2014 di due adolescenti palestinesi durante le proteste del giorno della Nakba. È diventata un luogo comune, il cui scopo è mettere in dubbio a priori ogni accusa di crudeltà o uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane, soprattutto quando vengono riprese in video. Infatti, in base alla logica dell’accusa di “Pallywood”, il solo fatto che la violenza sia stata documentata in immagini è una ragione in più, non in meno, per dubitare della sua esistenza.

Seguendo le orme di Landes, è spuntata una legione di esperti di psicologia forense e comportamentale in poltrona che decostruiscono video della violenza israeliana contro i palestinesi. Lo scopo è screditare quello che è stato filmato, e quindi minare tutta la narrazione palestinese sull’occupazione, un proiettile alla volta.

Questa guerra contro le immagini, e la solidarietà, non è iniziata con il cliché di “Pallywood”, e non è affatto unica. Come in ogni zona di conflitto, la propaganda gioca un importante ruolo nelle società sia israeliana che palestinese, una pratica che spesso interferisce con i tentativi di decodificare narrazioni in contrasto tra loro e riferire informazioni accurate sul terreno. Tuttavia questa propaganda non può essere disgiunta dal differenziale di potere tra le due parti, una che tenta di resistere all’occupazione e all’oppressione, l’altra che cerca di conservarle, giustificarle o persino negarle.

Questa asimmetria è una ragione fondamentale per la quale Israele è stato particolarmente sensibile al conflitto di narrazioni fin da molto prima che emergesse il cliché di “Pallywood”. La Prima Intifada, iniziata nel 1987, rese famosa l’iconica dinamica dei manifestanti palestinesi, soprattutto giovani e donne, che affrontavano i carrarmati israeliani con nient’altro che pietre.

La consapevolezza israeliana della pubblicità negativa determinata dal suo uso eccessivo della forza è a lungo sopravvissuta a quel momento. Nel 2013, per esempio, l’esercito israeliano annunciò che avrebbe smesso di utilizzare fosforo bianco come arma chimica contro i palestinesi a Gaza perché “non è fotogenico” (questa dichiarazione giunse dopo che l’esercito aveva negato di aver utilizzato fosforo bianco durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-09, poi negò di averlo utilizzato in aree urbane, e infine ammise di averlo fatto con l’avvertenza che il suo uso era giustificato).

Una riedizione di “Pallywood”

Le indagini iniziali di Israele sulla sparatoria di al-Durrah riconobbero che il ragazzino poteva essere stato colpito da una pallottola israeliana. Ma il capo dell’esercito nei territori occupati dell’epoca, il generale di divisione Yom-Tov Samia, dichiarò che c’erano “forti dubbi” riguardo a questa possibilità e disse che era molto probabile che al-Durrah fosse stato ucciso da un proiettile palestinese.

A cinque anni di distanza, poco dopo che uscisse il film di Landes, questa velata supposizione venne ritirata: un altro ufficiale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] affermò invece che l’esercito non era assolutamente responsabile della morte di al-Durrah. Nel 2013 il governo andò anche oltre: su richiesta personale del primo ministro Benjamin Netanyah il governo avviò un’ulteriore inchiesta, che concluse non solo che le IDF non avevano sparato ad al-Durrah, ma che egli non era stato affatto colpito. Una riedizione di “Pallywood”.

Questi amanti di “Pallywood” per sostenere le loro affermazioni riescono in genere a basarsi sulle smentite e sugli insabbiamenti del governo israeliano. Quando nel 2014 durante le proteste del Giorno della Nakba a Beitunia le forze di sicurezza israeliane colpirono tre adolescenti palestinesi con proiettili veri, uccidendone due, fonti ufficiali israeliane, sia militari che civili, si unirono per affermare che le immagini della CCTV [televisione cinese, ndtr.] di tutta la sparatoria erano state manipolate.

A loro si unirono importanti commentatori della diaspora, uno dei quali suggerì che le accuse contro l’esercito israeliano avrebbero potuto benissimo rappresentare “una nuova versione dell’accusa del sangue (sic) di al-Durrah”, evocando un mito antisemita cristiano medievale. La Corte Suprema israeliana in seguito condannò un agente della polizia di frontiera a 18 mesi di prigione per aver sparato uno dei proiettili.

Allo stesso modo quando nell’agosto 2015 nel villaggio di Nabi Saleh un soldato israeliano si mise a cavalcioni sul dodicenne Mohammed Tamimi e lo prese per il collo per arrestarlo nonostante Tamimi avesse il braccio destro ingessato, entrò di nuovo in azione il marchio “Pallywood”. Questa volta la diffamazione venne diretta contro l’allora tredicenne Ahed Tamimi, una parente di Mohammed che era tra coloro che avevano impedito il suo arresto. Benché le foto della vicenda fossero indiscutibili, Mail Online, con sede in GB, istigato da propagandisti filoisraeliani, modificò il proprio titolo sull’incidente per sostenere che Ahed si era “rivelata come una prolifica stella di ‘Pallywood’.”

Numerosi messaggi sulle reti sociali cercarono inoltre di sostenere che il braccio di Mohammed non fosse per niente rotto, mostrando foto di lui con il gesso su un altro braccio, omettendo il fatto che queste foto erano di anni prima. La difesa delle azioni dei soldati da parte dell’esercito fu che Mohammed aveva lanciato pietre e che non sapevano che fosse un minorenne.

Diffamare gli oppressi

L’accusa di “Pallywood” non svanisce nemmeno quando l’esercito conferma la versione degli avvenimenti che risulta dai filmati. Nell’ottobre 2015 agenti israeliani in borghese vennero ripresi e fotografati mentre si infiltravano in una manifestazione nei pressi di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, con kefiah attorno alla testa, prima di brandire le loro armi e arrestare dei manifestanti, a uno dei quali spararono a una gamba da distanza ravvicinata.

Un portavoce delle IDF confermò questa serie di avvenimenti, descrivendo lo sparo [contro il manifestante] come “un colpo preciso che ha reso innocuo il principale sospettato.” Tuttavia commentatori del video sulle reti sociali insistettero che si trattava di una ingannevole produzione di “Pallywood”. Come ha scritto acutamente all’epoca su +972 Lisa Goldman, “quando la gente non può credere ai propri occhi, in genere si tratta di ideologia.”

Questa ideologia alimenta una più generale e pericolosa idea secondo cui gli atti di violenza contro i palestinesi, sia da parte di soldati che di civili israeliani, non sono mai quello che sembrano. È per questo che, per esempio, quando nel 2014 i coloni israeliani rapirono il sedicenne Muhammad Abu Khdeir fuori da casa sua a Gerusalemme est e lo torturarono a morte, inizialmente la polizia insinuò, con un certo successo, che Abu Khdeir fosse stato ucciso dalla sua famiglia perché era gay (e non lo era), oppure che fosse stato vittima di una faida locale.

È per questo che, dopo che nell’estate 2015 due coloni israeliani uccisero membri della famiglia Dawabshe a Duma, investigatori dilettanti produssero “prove” infinite secondo cui gli ebrei non erano stati responsabili dell’attacco, compresa l’affermazione che le scritte sul muro trovate sul posto non fossero di un ebreo madre lingua. Ed è per questo che, nel tentativo di dimostrare che i palestinesi di Gaza non stiano soffrendo in seguito al blocco e agli attacchi militari [israeliani], interventi in rete a favore di Israele amano condividere foto (vere e false) di supermercati, caffè e altre zone di Gaza che non sono state ridotte in macerie dai bombardamenti aerei israeliani, come se ogni apparenza di “normalità” palestinese rendesse ogni distruzione israeliana un lavoro di fantasia, un miraggio inteso solo a ingannare.

Insieme al suo pernicioso razzismo, il problema dell’accusa di “Pallywood”, ancora fiorente due decenni dopo la vicenda di al-Durrah, consiste nelle sue disoneste pretese di preoccuparsi della correttezza giornalistica. In un’epoca di “deepfakes” [false notizie ottenute manipolando le immagini, ndtr.] e bots [programmi che infettano i computer, ndtr.], i tentativi di garantire la verità nell’informazione sono fondamentali. Ma le innumerevoli “inchieste” sui video della violenza israeliana contro i palestinesi non riguardano l’approfondimento di avvenimenti specifici, intendono inculcare il concetto secondo cui i palestinesi non possono essere creduti riguardo a niente di quello che dicono in merito a ciò che subiscono per mano dei soldati e dei coloni israeliani.

Come strategia essa precede di molto le accuse di “notizie false” che accompagnano informazioni tutt’altro che lusinghiere su politici e governi. Ma il tentativo è lo stesso: diffamare gli oppressi, delegittimare le loro lotte e distogliere lo sguardo del mondo dalla violenza dell’oppressore.

Natasha Roth-Rowland è studentessa di dottorato in storia all’università della Virginia, è ricercatrice e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come giornalista, editorialista e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast [sito di notizie statunitense, ndtr.], sul blog della London Review of Books [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], The Forward [storico giornale della comunità ebraica statunitense, ndtr.], e Protocols [rivista di sinistra della diaspora ebraica, ndtr.]. Scrive con il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il suo cognome in Rowland quando cercava di rifugiarsi in GB durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)