No, la chiusura di Israele per Passover, non è pari al blocco dell’occupazione

Orly Noy*

8 aprile 2020   +972 Magazine

11 aprile 2020 Cultura è Libertà

E’ duro per gli ebrei israeliani essere separati dai propri cari a causa del coronavirus. Ma per loro la chiusura è temporanea, mentre per i palestinesi è senza fine

Questa sera, saremo seduti, milioni di ebrei in Israele e nel mondo per un triste Seder di Passover, forse il più strano che molti di noi hanno vissuto in tutta la loro vita. I più fortunati tra noi saranno seduti con i membri della propria famiglia, altri, compresi molti anziani, si siederanno da soli o dovranno affrontare un Seder virtuale.

Stasera canteremo le canzoni di Passover. Canteremo Ma Nishtana e le quattro domande e desidereremo il familiare chiasso di cui ci lamentavamo spesso. Avremo nostalgia dello zio con le sue vecchie battute, quello che insiste a recitare l’ Hagaddah dall’inizio alla fine senza saltare una sola parola. E naturalmente ci mancheranno le infinite discussioni politiche senza costrutto.

Un’auto della polizia è rimasta ferma sulla strada di fronte a casa mia dalla notte di lunedì. I poliziotti controllano i documenti d’ identità alle poche auto che passano sulla strada. La chiusura che imponiamo ai palestinesi in occasione di ogni vacanza ebraica improvvisamente ha un nuovo significato: anche noi siamo chiusi dentro. E’ una cosa sorprendente per noi cittadini ebrei di Israele. La parola “chiusura” sembra emergere da un altro universo semantico, del tutto estranea a noi, per definizione. Ma per altri, il cui destino è rimanere chiusi dietro cancelli, privati della libertà di movimento, la chiusura è semplicemente parte del loro ordine naturale.

Improvvisamente ci troviamo tutti, Ebrei e Palestinesi, a condividere lo stesso destino. Il coronavirus è diventato un grande livellatore, costringendo l’occupante e l’occupato a vivere chiusi nelle loro case. L’eguaglianza si è fatta strada in questa terra, anche se per poco tempo, con l’aiuto di una furiosa pandemia e ora ci troviamo tutti nella stessa barca. Ma è proprio vero?

E’ facile farsi prendere da questa versione dei fatti – una narrazione che non deriva necessariamente da insensibilità, ma da un profondo desiderio di esprimere solidarietà per i Palestinesi e di vedere un legame tra le difficoltà che affrontiamo. Si dovrebbe sperare che la schadenfreude ( il gioire della disgrazia altrui: “finalmente gli ebrei israeliani assaggiano un po’ della loro stessa medicina”) non entri in gioco, ma che si tratti piuttosto del bisogno di vedere la nostra impotenza riflessa nella loro.

E’ importante chiarire questo punto non solo perché non metto in dubbio questa sensazione di un destino comune e neppure sottovaluto il peso del disagio che stiamo affrontando in questa settimana: chiarire cioè che non c’è nessuna somiglianza tra la chiusura che noi ebrei israeliani stiamo affrontando questa settimana di Passover e le ripetute serrate imposte ai Palestinesi nei territori occupati.

Quando ci sediamo a tavola stasera, saremo chiusi nelle nostre case da una chiusura che è stata decisa prima di tutto per la salvaguardia della nostra salute. Non si tratta di una misura punitiva e arbitraria e, anche se abbiamo riserve circa il grado di necessità che l’ha giustificata, sappiamo che è stata decisa da un governo che il pubblico, di cui noi siamo parte, ha eletto. Anche i più radicali di sinistra tra di noi godono del privilegio di un dibattito pubblico e possono usufruire di istituzioni statali.

Un Palestinese, dall’altro lato, non potrà uscire di casa stasera a causa di una serrata imposta da un esercito di occupazione e da un governo ostile sul quale non hanno alcun modo di esercitare una qualche influenza. Devono starsene chiusi in casa perché non hanno altra scelta che quella di obbedire anche ai più stravaganti e arbitrari ordini di questo esercito che è insediato su quei territori con il compito di rendere penosa la vita ai palestinesi.

Quando ce ne stiamo a casa per via della chiusura, lo facciamo non perché ci è stato imposto come cittadini, ma come un atto di solidarietà con la nostra comunità – soprattutto con i più vulnerabili tra di noi. La maggior parte di noi non se la prenderà se gli agenti di polizia impongono di starcene a casa e ci impediscono di passare la serata con i nostri cari. Se dovessimo essere costretti a lasciare le nostre case per una emergenza, ci aspettiamo che gli agenti siano di aiuto e persino che si prendano cura di noi. Nel peggiore dei casi, potremmo ricevere dei rimproveri o una multa.

Dall’altra parte, un palestinese che viola la chiusura nei territori occupati, rischia la vita. I soldati, all’entrata di un villaggio o di una città palestinese non saranno gentili e non staranno a sentire le ragioni di un palestinese prima di premere il grilletto. Il palestinese sa che, diversamente da quel che accade a un ebreo israeliano, nessuno se ne accorgerà se saranno uccisi da un soldato o da un agente di polizia. E’ altamente improbabile che qualcuno in Israele venga anche a sapere dell’incidente.

Noi ebrei israeliani stasera staremo a casa per una chiusura che ha una data di scadenza. I nostri vicini palestinesi staranno sotto una chiusura che è solo una di un’ infinita serie di chiusure. Mentre noi stanotte celebreremo la nostra liberazione, sappiamo che la nostra reale libertà non è minacciata in nessun modo. Quando i Palestinesi staranno a casa stasera, la libertà rimarrà per loro un’ idea molto lontana.

Non accade spesso che lo stesso concetto possa descrivere due situazioni tanto distanti tra loro nella loro essenza. Questo è proprio quello che succederà stasera. E così, nonostante i nostri sentimenti soggettivi, è importante non cadere nella tentazione, anche in situazioni come questa, di depoliticizzare la nostra realtà. I cittadini israeliani dovranno sopportare per la serata di rimanere chiusi in casa. La chiusura di milioni di Palestinesi, dall’altro lato, deve ancora essere sconfitta.

Traduzione Gabriella Rossetti

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica, trduttrice di poesia e prosa farsi. Fa parte dell’Esecutivo di B’Tselem’s executive ed è attivista del partito Balad. Scrive sulle linee di intersezione e definizione della sua identità, come Mizrahi, donna di sinistra, migrante temporanea che vive all’interno d una migrante perpetua e nel costante dialogo tra le due.




“Queste catene saranno spezzate”: il libro di Ramzy Baroud sui prigionieri palestinesi – Recensione del libro

Michael Lescher

10 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

(These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene verranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle carceri israeliane], di Ramzy Baroud, Clarity Press, Inc., 2020)

Fyodor Dostoevsky ha scritto che “il grado di civiltà in una società può essere giudicato visitando le sue prigioni” – un’osservazione in nessun luogo più tristemente vera che in una società la cui stessa esistenza comporti il confinamento di un altro popolo. Il nuovo libro di Ramzy Baroud, “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons”, illustra con una straziante immediatezza il motivo per cui la Palestina contemporanea si riveli nel modo più chiaro all’interno delle prigioni che Israele ha costruito per coloro che resistono alla sua occupazione della loro terra. Viste attraverso il libro di Baroud, queste gabbie raccontano una doppia storia: da un lato, lo squallore di una società eretta sulle fondamenta di un’espropriazione; dall’altro, l’aspra determinazione dei palestinesi che, contro ogni previsione, si rifiutano di essere cancellati dalla storia.

“These Chains Will Be Broken” è una raccolta di testimonianze di prima mano che descrivono le esperienze dei detenuti palestinesi, prese o dai prigionieri stessi o da altri che li conoscono da vicino. (La storia di Faris Baroud, argomento del capitolo finale del libro e di un lontano parente dell’autore, è raccolta dagli scritti di sua madre Ria, morta nel 2017; suo figlio è morto quasi due anni dopo, ancora dietro le sbarre.)

Baroud, giornalista, studioso e consulente nel settore dei media, ha dedicato diversi precedenti libri alla lotta palestinese vista dal punto di vista degli stessi palestinesi. In “These Chains Will Be Broken”, fa un ulteriore passo avanti, tenendo sospesa la propria voce narrante in modo che i detenuti possano raccontare la propria storia a modo loro, trasportando così il lettore direttamente nella loro esperienza. Il risultato è un toccante e profondamente inquietante promemoria su come, in fondo, la storia della Palestina sia un costante ripetersi di prigionia e resistenza.

“La prigionia”, scrive Khalida Jarrar (lei stessa una dei protagonisti del libro) con una premessa illuminante, “rappresenta una posizione morale che deve essere presa ogni giorno e non può mai essere lasciata alle proprie spalle”. Che sia un avvertimento: il lettore di “These Chains Will Be Broken” è ripetutamente costretto ad assumere tale posizione morale mentre, capitolo dopo capitolo, i prigionieri palestinesi mettono a nudo le loro privazioni, le loro speranze, le loro delusioni e la loro determinazione a resistere.

Perfino quelli che hanno familiarità con le realtà della lotta possono trovarsi impreparati alle sue asprezze se le percepiscono, come accade a questi palestinesi, dietro le mura della prigione piuttosto che sepolte dentro la rete della propaganda israeliana. In un articolo denigratorio pubblicato (ahimè) dalla prestigiosa Yale University Press nel 2006, il portavoce della WINEP [organizzazione di esperti americana con sede a Washington DC che si occupa della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, ndtr.] Matthew Levitt ha liquidato con poche parole Majdi Hamad definendolo “un terrorista di Hamas condannato all’ergastolo per aver ucciso a Gaza dei compagni palestinesi, presumibilmente sospetti informatori.” Ma quando Hamad compare per la prima volta nel libro di Baroud attraverso gli occhi del compagno prigioniero Mohammad al-Deirawi, dà un’impressione molto diversa: “Veniva trascinato nella sua cella nel carcere sotterraneo di Nafha da un buon numero di guardie armate. Lo picchiavano e lo prendevano a calci dappertutto e, nonostante le sue catene, reagiva come il leone che era. Il suo volto era coperto di sangue. “(Apprendiamo dal libro che questo “leone” è anche “dolce e gentile con i suoi compagni”.)

Allo stesso modo i lettori occidentali possono essere sorpresi della dignità dello stesso al-Deirawi, a cui, dopo aver ricevuto una condanna a 30 anni in un tribunale militare israeliano, viene chiesto dal giudice non se abbia qualcosa da dire ma se sia disposto a “chiedere scusa”.

“Non ho nulla di cui scusarmi”, così al-Deirawi riferisce di aver risposto al giudice. “Non mi scuserò mai per aver resistito all’occupazione, per aver difeso il mio popolo, per aver lottato per i miei diritti rubati. Ma dovete scusarvi voi, e devono scusarsi coloro che demoliscono le case mentre i loro proprietari sono ancora dentro. Coloro che uccidono i bambini, che occupano la terra e commettono crimini contro persone disarmate e innocenti, sono loro che devono scusarsi.” “La mia risposta non gli è piaciuta”, aggiunge al-Deirawi, in uno dei rari momenti di ironia del libro.

I racconti nella raccolta di Baroud contengono descrizioni inevitabili di torture e maltrattamenti, ma alcuni dei dettagli più sconvolgenti riguardano atti di sadismo del tutto gratuito. Una guardia si offre di portare una tazza di tè a un prigioniero e poi versa acqua bollente sulla sua mano tesa. Una caviglia ridotta in frantumi viene “trattata” con un impacco di ghiaccio. Ad un minore incarcerato viene falsamente detto, la notte prima della sua liberazione, che sta per essere condannato all’ergastolo. Una donna tenuta in isolamento è costretta ad osservare un gatto con cui ha stretto amicizia mentre muore insieme ai suoi cuccioli dopo che sono stati avvelenati dalle guardie.

Per di più, i racconti dei prigionieri confermano che queste non sono azioni isolate; nascono dalla logica di un sistema progettato per disumanizzare le sue vittime e anche per intimidirle. Prigioniero dopo prigioniero, per esempio, offrono una descrizione orribile della “bosta” – il veicolo speciale usato per trasportare i palestinesi dalla prigione al tribunale militare e viceversa. La stravagante crudeltà di questa prigione su ruote non ha uno scopo dal punto di vista giudiziario; evidentemente per i loro carcerieri tenere i palestinesi rinchiusi in posizioni anguste, ammanettati e incatenati, dentro minuscole gabbie di metallo surriscaldate per 8-12 ore ogni volta, è fine a se stesso.

Ma tutto questo è solo una parte della storia raccontata nella raccolta di Baroud. Ci sono momenti notevoli di bellezza e coraggio. Un prigioniero separato dalla sua giovane figlia per decenni descrive la felicità provata nel sentire che sua figlia, frequentando la prima elementare, ha appreso la vera ragione della sua prigionia. Sottoposti a continui tormenti, alcuni prigionieri riescono a conseguire il diploma di scuola superiore. Una donna detenuta insulta “un omone” che le guardie hanno fatto entrare nella sua cella: “Se vuoi violentarmi, vai avanti; hai violentato la mia terra e la mia gente, quindi vai avanti e violentami.” La sua sfida mette fine alle minacce sessuali anche se le guardie hanno continuato a torturarla, dice, con sigarette e scosse elettriche sul seno.

Un altro prigioniero dedica quasi tutto il suo tempo allo studio delle lingue, traducendo libri e articoli su una vasta gamma di argomenti politici – un compito che persegue con immutato zelo anche dopo che il suo intero negozio di 4.000 articoli è stato confiscato (senza spiegazione) dalle guardie israeliane con un’incursione. Ancora, un altro prigioniero descrive come lui e i suoi compagni hanno perseverato nello sciopero della fame, nonostante le aggressioni e l’alimentazione forzata, fino a quando le loro richieste sono state finalmente soddisfatte.

La decisione di Baroud di non suddividere i suoi protagonisti in base alla natura dell’azione di resistenza per la quale sono stati imprigionati, violenta o non violenta, messa in atto all’interno di Israele o nei Territori Palestinesi Occupati, metterà a disagio alcuni lettori. Ciò è chiaramente intenzionale. Nella sua introduzione, Baroud insiste sul fatto che “sarebbe assolutamente ingiusto ingabbiare i prigionieri palestinesi in comode categorie di vittime o terroristi, in quanto le classificazioni rendono un’intera Nazione sia vittima che terrorista, un concetto che non riflette la vera natura della pluridecennale lotta palestinese contro il colonialismo, l’occupazione militare e il radicato apartheid israeliano”.

La spietata forma in prima persona di queste narrazioni conferma l’intuizione di Baroud. In mezzo alle ineludibili abiezioni e ai diritti violati della reclusione prolungata, le convinzioni politiche sono destinate a essere vissute in termini di passione condivisa, non di dettagli. Questo libro sostiene che chiunque ricerchi dei parametri diversi per comprendere la Palestina e le prassi dei suoi difensori deve prima distruggere le gabbie che pongono dei confini all’agire dei palestinesi. Fintanto che l’occupazione israeliana renderà la Palestina una vasta prigione, la resistenza sarà in ogni caso l’unico criterio in base al quale una vita palestinese possa essere valutata.

E i prigionieri qui rappresentati ne sono ben consapevoli. Come la poetessa (ed ex prigioniera) Dareen Tatour esclama alla fine del suo capitolo in “These Chains Will Be Broken”:

Lo spirito non si inchinerà,

la sua tenacia non morirà…

Per lune che sorgeranno nei nostri cieli

Dobbiamo vivere in questa oscurità.

Michael Lesher, scrittore e avvocato, ha pubblicato numerosi articoli che trattano di abusi sessuali su minori e altri argomenti, incluso il conflitto Israele-Palestina. È autore del recente libro Sexual Abuse, Shonda and Concealment in Orthodox Jewish Communities (McFarland & Co., Inc.) [Abuso sessuale, vergogna e copertura nelle comunità ebree ortodosse, ndtr.], incentrato sulla copertura di casi di abuso tra ebrei ortodossi. Vive a Passaic, nel New Jersey.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Lo scrittore ospite: Testimonianza al Tribunale Russell sulla Palestina: Apartheid nei Territori palestinesi occupati

John Dugard

29 gennaio 2014 – Middle East Monitor

Nel novembre 2011 il Tribunale Russell sulla Palestina [fondato nel 1966 da Bertrand Russell per indagare sui crimini commessi in Vietnam; il Tribunale Russell sulla Palestina è stato istituito nel marzo del 2009 per promuovere e sostenere iniziative per i diritti del popolo palestinese, ndtr.] terrà una sessione a Città del Capo [Sudafrica, ndtr.] sulla questione se Israele sia o meno colpevole di aver commesso il crimine internazionale di apartheid nel trattamento dei palestinesi. Ho accettato di testimoniare davanti al Tribunale. In questo articolo spiegherò perché credo che il Tribunale Russell abbia un ruolo da svolgere nel promuovere l’attribuzione di responsabilità in Medio Oriente. Descriverò anche la natura della mia testimonianza.

Israele ha violato molte regole fondamentali del diritto internazionale. Si è impadronito della terra palestinese costruendo colonie nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est e costruendo un muro di sicurezza all’interno del territorio palestinese. Ha violato i diritti umani fondamentali dei palestinesi attraverso un regime repressivo di occupazione che ignora le regole contenute nei trattati internazionali in materia di diritti umani e gli strumenti del diritto internazionale umanitario. Si è rifiutato di riconoscere la sua responsabilità nei confronti di diversi milioni di rifugiati palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora.

Tuttavia non esiste un tribunale internazionale in grado di valutare la responsabilità di Israele e di perseguirlo penalmente per i suoi crimini. La Corte internazionale di Giustizia ha espresso un eccellente parere consultivo sull’argomento, ma le Nazioni Unite non possono attuarlo a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Alla Corte Penale Internazionale è stato chiesto di indagare sulla condotta di Israele nel corso dell’operazione Piombo Fuso, ma per quasi tre anni il pubblico ministero della CPI ha rifiutato di rispondere a questa richiesta, probabilmente a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e della UE [solo nel dicembre 2020 la procuratrice della CPI ha chiesto di aprire un’indagine contro Israele per presunti crimini di guerra nei territori palestinesi, ndtr.] Ai tribunali nazionali nell’esercizio della loro giurisdizione a livello internazionale è stato impedito dall’intervento dei loro governi di procedere penalmente verso politici e soldati israeliani per i loro crimini. Pertanto non esiste un tribunale competente in grado di pronunciarsi sulla condotta di Israele o di procedere penalmente.

L’opinione pubblica internazionale, indignata per l’assenza di un intervento penale nei confronti di Israele per i suoi crimini, non ha quindi a disposizione una soluzione giudiziaria. È qui che entra in gioco il Tribunale Russell per la Palestina. Esso cerca di dare spazio all’opinione pubblica internazionale esaminando le azioni di Israele attraverso un processo simile a quello di un tribunale. Testimoni depongono sull’illegalità della condotta di Israele davanti a una giuria di personalità illustri che rappresentano l’opinione pubblica di molti Paesi.

La sessione del Tribunale Russell di Città del Capo si concentrerà sulla domanda se le politiche e le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati possano o meno rappresentare un crimine di apartheid ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid [testo adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973 ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, ndtr.]. Gli avvocati presenteranno argomentazioni sul campo di applicazione della suddetta Convenzione e i testimoni deporranno sull’apartheid in Sudafrica e sui comportamenti di Israele nei territori occupati. Verranno effettuati dei confronti e saranno prese in esame le somiglianze.

La mia testimonianza si concentrerà sulle somiglianze tra i sistemi sudafricano e israeliano in base alla mia conoscenza personale e la mia esperienza dell’apartheid e alla condotta di Israele nella Palestina occupata. Non tenterò di confrontare l’apartheid con il trattamento degli israeliani arabi all’interno di Israele. Non rivendico alcuna competenza in materia.

Nella mia testimonianza esporrò prima la mia esperienza e poi passerò al mio pensiero sulle affinità o somiglianze nei due sistemi.

La mia vita in Sudafrica

Ho trascorso gran parte della mia vita adulta in Sudafrica come testimone dell’apartheid. Mi sono opposto all’apartheid, come comune cittadino, avvocato, studioso e responsabile di ONG. Ho avuto una vasta esperienza e conoscenza dei tre pilastri della condizione dell’apartheid: discriminazione razziale, repressione e frammentazione territoriale.

Scrivendo proficuamente sull’apartheid, ho pubblicato un importante lavoro sull’argomento, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e ordinamento giuridico sudafricano] (1978), che fornisce il resoconto più completo pubblicato finora sulla struttura giuridica dell’apartheid. Nel libro prendo in esame le ingiustizie dell’apartheid e metto a confronto l’apartheid con le norme internazionali sui diritti umani.

Ho partecipato attivamente al lavoro di ONG contrarie all’apartheid, come il South African Institute of Race Relations [Istituto sudafricano per le relazioni razziali] e Lawyers for Human Rights [Avvocati per i diritti umani]. Dal 1978 al 1990 sono stato direttore del Center for Applied Legal Studies [Centro per gli studi legali applicati, ndtr.] (CALS) presso l’Università del Witwatersrand, che si occupava di patrocini e contenziosi nel campo dei diritti umani. Come avvocato ho rappresentato famosi oppositori dell’apartheid, come Robert Sobukwe e l’arcivescovo Desmond Tutu, e vittime non note del sistema; ho portato avanti campagne legali contro lo sfratto di persone di colore dai quartieri riservati esclusivamente ai bianchi in seguito alla Group Areas Act [insieme di tre provvedimenti del parlamento del Sudafrica emanati sotto il governo dell’apartheid. I provvedimenti assegnavano gruppi razziali a diverse zone residenziali e commerciali nelle aree urbane sulla base di un sistema di apartheid urbano, ndtr.] e contro le famigerate “pass laws” [leggi che hanno istituito una specie di passaporto interno progettato per separare la popolazione, gestire l’urbanizzazione e allocare il lavoro migrante con logiche segreganti, ndtr.] che hanno fatto diventare un reato la presenza di neri nelle cosiddette “aree bianche” senza un documento che lo consentisse. Queste campagne hanno assunto la forma di una difesa legale gratuita per tutti gli arrestati, il che ha reso i sistemi ingovernabili. Attraverso il Center for Applied Legal Studies mi sono impegnato in sfide legali contro l’attuazione delle leggi sulla sicurezza e sull’emergenza, che hanno reso possibili le detenzioni senza processo, gli arresti domiciliari e, in pratica, le torture. Ho anche combattuto l’istituzione dei Bantustan, nei miei scritti, nei tribunali e attraverso interventi pubblici. Se ero esperto di qualcosa, questo erano le leggi dell’ apartheid.

Il mio incontro con Israele e Palestina

Ho visitato Israele e la Palestina ripetutamente dopo il 1982. Nel 1984 ho fatto uno studio comparato sulla posizione israeliana e sudafricana nei confronti del diritto internazionale e nel 1988 ho partecipato a una conferenza organizzata da Al Haq [organizzazione palestinese indipendente per i diritti umani che monitora e documenta le violazioni dei diritti umani di tutte le parti del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] a Gerusalemme est durante la Prima Intifada. I quaccheri mi hanno chiesto nel 1992 di revisionare un progetto di assistenza legale a Gerusalemme est durante il quale ho viaggiato molto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nel 2001 sono stato nominato presidente di una commissione d’inchiesta istituita dalla Commissione per i diritti umani [organo dell’ONU istituito nel 1946, ndtr.] per indagare sulle violazioni dei diritti umani durante la seconda Intifada. Nel 2001 sono stato nominato relatore speciale della Commissione per i diritti umani (in seguito Consiglio dei diritti umani) sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). In tale veste visitavo i TPO due volte all’anno e presentavo un rapporto alla Commissione e al terzo comitato dell’Assemblea generale sia per iscritto che verbalmente. Il mio rapporto del 2003, che ha messo in guardia la comunità internazionale sull’annessione di fatto da parte di Israele della terra palestinese con il pretesto del “Muro”, ha portato alla richiesta di un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia ed è stato ampiamente citato dalla Corte nel suo Parere consultivo del 2004. Il mio mandato è scaduto nel 2008. Nel febbraio 2009, tuttavia, ho guidato una missione conoscitiva istituita dalla Lega degli Stati Arabi per indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nel corso dell’operazione israeliana “Piombo fuso” contro Gaza.

Dalla mia prima visita in Israele / Palestina sono stato colpito dalle somiglianze tra l’apartheid in Sudafrica e le pratiche e le politiche di Israele nei territori palestinesi occupati. Queste somiglianze sono apparse più evidenti man mano che mi sono informato meglio sulla situazione. Come relatore speciale, mi sono deliberatamente astenuto dal fare simili confronti fino al 2005, poiché temevo che avrebbero impedito a molti governi occidentali di prendere sul serio le mie relazioni. Tuttavia, dopo il 2005, ho deciso che non potevo in buona coscienza astenermi dal fare tali confronti.

Osservazioni personali

Naturalmente i regimi di apartheid e di occupazione sono molto diversi, in quanto il Sud Africa dell’apartheid praticava discriminazioni contro la propria gente; ha cercato di frammentare il Paese in un Sudafrica bianco e bantustan neri per evitare di estendere il diritto di voto ai sudafricani neri. Le sue leggi sulla sicurezza sono state usate per reprimere brutalmente l’opposizione all’apartheid. Israele, invece, è una potenza occupante che controlla un territorio straniero e il suo popolo sotto un regime la cui natura è riconosciuta dal diritto umanitario internazionale come una forma di occupazione bellica. In pratica, tuttavia, c’è poca differenza. Entrambi i regimi erano e sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. La differenza principale è che il regime dell’apartheid era più onesto: le leggi sull’apartheid sono state legalmente approvate in Parlamento ed erano chiare a tutti, mentre le leggi che governano i palestinesi nei TPO sono contenute in oscuri decreti militari e hanno perpetuato regolamenti di emergenza praticamente inaccessibili. Nel Sudafrica dell’apartheid cartelli rozzi e razzisti indicavano quali servizi fossero riservati ad uso esclusivo dei bianchi. Nell’OPT non esistono tali cartelli, ma le Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] (IDF) assicurano in molte aree ai coloni i loro diritti esclusivi. In nessun settore ciò è evidente quanto nel caso dell'”apartheid stradale”. In Cisgiordania le strade in buone condizioni sono riservate all’uso esclusivo dei coloni senza che alcun segnale indichi tale prerogativa, ma l’IDF assicura che i palestinesi non utilizzino queste autostrade. (Per inciso, va sottolineato che l’apartheid in Sudafrica non si è mai esteso alle strade!)

Nel mio lavoro di commissario (2001) e relatore speciale (2001-2008) ho assistito ad ogni aspetto dell’occupazione dei TPO; la mia posizione era molto privilegiata. Accompagnato e sotto la guida di un autista palestinese e in compagnia di leader della comunità palestinese ed esperti delle Nazioni Unite, ho viaggiato molto in Cisgiordania e Gaza, visitando ogni città, molti villaggi, fattorie, scuole, ospedali, università e fabbriche. Nel corso degli anni ho anche visitato colonie come Ariel, Ma’ale Adummim, Betar Illit e Kirya Arba, che assomigliano ai sobborghi di lusso sudafricani di Sandton e Constantia con le loro belle case, supermercati, scuole e ospedali.

Ho visto gli umilianti posti di controllo, con lunghe file di palestinesi che aspettavano pazientemente sotto il sole e la pioggia che i soldati dell’IDF esaminassero i loro documenti di viaggio. Inevitabilmente ciò ha riportato alla memoria le lunghe file negli “uffici per il pass” dell’apartheid e il trattamento dei sudafricani neri da parte di agenti di polizia e burocrati. Ho visitato case che erano state distrutte dall’IDF per “ragioni amministrative” (cioè, erano state costruite senza un permesso della potenza occupante israeliana, quando i permessi di costruzione non sono praticamente mai concessi). Mi sono tornati alla mente i ricordi delle case demolite nel Sud Africa dell’apartheid nelle “aree nere” di un tempo, [perché] riservate all’esclusiva presenza abitativa da parte di bianchi. Ho visitato la maggior parte del muro che si estende lungo il lato ovest della Palestina, ho visitato fattorie che erano state confiscate per la costruzione del muro e ho parlato con gli agricoltori che avevano perso i loro mezzi di sostentamento. Ho anche parlato con i proprietari di fabbriche i cui locali erano stati distrutti dalle IDF come “danno collaterale” nel corso delle loro incursioni e con i pescatori di Gaza a cui non era permesso pescare per ragioni di “sicurezza”.

Nel 2003 ho visitato Jenin poco dopo la devastazione da parte dell’IDF e ho visto le case rase al suolo dai bulldozer. Ho visto i danni causati alle infrastrutture di Rafah dai bulldozer Caterpillar costruiti appositamente allo scopo di distruggere strade e case; ho parlato con le famiglie in un campo profughi vicino a Nablus le cui case erano state saccheggiate e vandalizzate dai soldati israeliani con la compagnia di cani aggressivi; ho parlato con gli adulti e i più giovani che erano stati torturati dalle IDF; e ho visitato gli ospedali per incontrare coloro che erano stati feriti dall’IDF. Ho visitato scuole che erano state distrutte dalle IDF, con squallidi graffiti anti-palestinesi scritti sui muri; ho parlato con bambini traumatizzati i cui amici erano stati uccisi dal fuoco a casaccio dalle IDF e che venivano curati da psicologi; sono stato esposto agli assalti dei coloni a Hebron e ho visitato le comunità a sud di Hebron, che vivevano nella paura degli stessi coloni illegali. Ho visto ulivi distrutti dai coloni e ho viaggiato attraverso la Valle del Giordano osservando campi beduini distrutti (che mi hanno ricordato ancora la distruzione dei “settori neri” nel Sudafrica dell’apartheid) e posti di controllo progettati per servire gli interessi dei coloni. Ho incontrato membri delle IDF nei posti di controllo e nei valichi di frontiera e ho avuto un forte senso di déjà vu: avevo già visto quel genere di individui in una vita precedente.

Durante la visita in Palestina, ho soggiornato a Gerusalemme est occupata. Lì ho visto insediamenti coloniali israeliani nel cuore della Città Vecchia e ho visitato case che erano state distrutte da Israele o individuate per la distruzione (ad esempio a Silwan). Ho parlato con famiglie che erano state separate dai misteri amministrativi dell’occupazione israeliana che permetteva ad alcuni palestinesi di vivere a Gerusalemme, ma confinava altri in Cisgiordania. Ho ricordato le leggi dell’apartheid che separavano le famiglie in questo modo.

Ho avuto un’esperienza di prima mano della “frammentazione territoriale” della Palestina, ovvero il sequestro, la confisca e l’appropriazione della terra palestinese da parte di Israele. Ho esplorato la terra annessa de facto da Israele tra la Linea Verde (il confine generalmente accettato del 1948/49 tra Israele e Palestina) e il Muro; ho visto e visitato gli insediamenti tentacolari che hanno sottratto ampi tratti di terra palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme est; ho visto le vaste aree di terra dichiarate zone militari israeliane nella Valle del Giordano e altrove.

Tutto ciò che dirò delle mie indagini a Gaza nel febbraio 2009, poco dopo l’Operazione Piombo Fuso, è che credo che la Striscia di Gaza si trova ancora sotto occupazione e l’operazione Piombo Fuso sia stata un’operazione di polizia progettata per punire collettivamente una popolazione sotto occupazione che si ribella, visione condivisa dal cosiddetto rapporto Goldstone commissionato dal Consiglio dei diritti umani. Sono rimasto sconvolto e rattristato da ciò che ho visto. Non ho dubbi sul fatto che sia stato un atto di punizione collettiva in cui le IDF hanno attaccato intenzionalmente civili e obiettivi civili. Le prove non hanno fornito spiegazioni diverse.

Un commento finale basato sulla mia esperienza personale. C’era un elemento positivo nel regime dell’apartheid, sebbene motivato dall’ideologia dello sviluppo separato, che mirava a rendere i Bantustan degli Stati vivibili. Sebbene non legalmente obbligato a farlo, il regime dell’apartheid ha costruito scuole, ospedali e buone strade per i neri sudafricani. Ha costruito industrie nei Bantustan per fornire lavoro ai neri. Israele non arriva minimamente a farlo per i palestinesi. Sebbene per legge, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra del 1949, sia tenuto a soddisfare i bisogni materiali delle persone sotto occupazione, lascia questa responsabilità ai donatori stranieri e alle agenzie internazionali. Israele pratica nei TPO il peggior tipo di colonialismo. La terra e l’acqua sono sfruttate da una comunità di coloni aggressivi che non si preoccupano del benessere del popolo palestinese, tutto ciò con la benedizione del governo dello Stato di Israele.

I comportamenti di Israele nei TPO assomigliano a quelli dell’apartheid. Sebbene ci siano differenze, queste sono compensate dalle somiglianze. Qual è, ed era, peggio, l’apartheid o l’occupazione israeliana della Palestina? Sarebbe un errore, da parte mia, dare un giudizio. Come bianco sudafricano non potevo condividere il dolore intenso e l’umiliazione dell’apartheid con i miei compagni sudafricani neri. Ho capito la loro rabbia e frustrazione e ho cercato di identificarmi con loro e di oppormi al sistema che li ha relegati allo status di sub-umani. Allo stesso modo, non riesco a sentire pienamente il dolore e l’umiliazione che i palestinesi provano sotto l’occupazione di Israele. Ma osservo il sistema al quale sono sottoposti e provo lo stesso senso di rabbia che ho provato nel Sudafrica dell’apartheid.

Al Tribunale Russell gli avvocati e i giurati esamineranno, discuteranno e terranno delle conclusioni riguardo la questione se il comportamento di Israele nei TPO rientri o meno nei comportamenti penalmente perseguibili in base alla Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Questo è importante per determinare la responsabilità di Israele. Ma per me c’è una domanda più grande che si pone dinnanzi al giudizio morale della gente nel mondo, e in particolare degli occidentali. Come possono coloro, sia ebrei che gentili, che si sono opposti così energicamente all’apartheid per motivi morali rifiutarsi di opporsi a un sistema simile imposto da Israele alla popolazione palestinese?

John Duggard è presidente del comitato indipendente di accertamento dei fatti di Gaza; ed ex relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dal’inglese di Aldo Lotta)




L’accordo ‘di pace’ di Trump calpesta palesemente i diritti e le libertà dei palestinesi

Yara Hawari

30 gennaio 2020 The Guardian

Questo piano è semplicemente una continuazione della politica USA-Israele. I palestinesi lo hanno già sentito e non lo accetteranno

Martedì alla Casa Bianca Donald Trump ha rivelato il suo “accordo del secolo”: un piano per la totale capitolazione palestinese. Esso invita i palestinesi a riconoscere Israele come Stato ebraico con l’intera Gerusalemme come capitale, a rinunciare al diritto al ritorno che consentirebbe ai rifugiati palestinesi di vivere in Israele, ad accettare l’annessione della Valle del Giordano e le relative colonie illegali israeliane e a vivere in una serie di bantustan collegati da strade e tunnel che sarebbero tutti sostanzialmente controllati da Israele.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Non solo il piano è una continuazione della politica dell’amministrazione Trump verso Israele e Palestina fin dal giorno in cui egli è entrato in carica, ma giunge dopo decenni di disprezzo per le aspirazioni palestinesi di libertà e sovranità.

Quando nel 1993 furono firmati gli Accordi di Oslo, vennero acclamati come la base per una pace negoziata tra Israele e Palestina – una posizione che la maggior parte degli attori e delle istituzioni internazionali hanno continuato a mantenere nei decenni successivi. All’epoca tuttavia lo studioso palestinese Edward Said definì il tanto celebrato accordo “una Versailles palestinese”, uno spettacolo umiliante che minava la lotta di liberazione e ogni speranza di una futura sovranità palestinese. Purtroppo aveva ragione. La divisione della Cisgiordania in aree A, B e C in base agli accordi ha consentito a Israele di dominare le ultime due mentre la prima è diventata una sacca di limitata autonomia palestinese. In altre parole, ha facilitato la completa bantustanizzazione della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza.

Nel frattempo gli accordi non sono riusciti ad affrontare correttamente le questioni fondamentali di Gerusalemme, dei rifugiati, delle colonie, dei confini e della sicurezza; esse sono state invece considerate “questioni inerenti allo status finale”, da risolvere come parte di qualche futuro accordo di pace. Inavvedutamente allora l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat, ha permesso che esse diventassero questioni in discussione, piuttosto che centrali per la lotta palestinese e chiaramente definite dalle leggi internazionali. Questo è risultato chiaro ieri alla Casa Bianca quando, accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ha detto che parlare dell’occupazione come “illegale” è oltraggioso.

Non c’erano palestinesi alla Casa Bianca; certamente Jared Kushner, genero di Trump e architetto di questo piano, difficilmente si è dato la pena di parlare ai palestinesi. E nel piano di Trump non vi è menzione dei diritti dei palestinesi. Invece vengono loro promessi incentivi economici, per la precisione 50 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi 10 anni, in cambio dei loro diritti sanciti a livello internazionale – un’altra fin troppo conosciuta componente dei precedenti piani di “pace”. Come se dare denaro ai palestinesi potesse far loro dimenticare i diritti a Gerusalemme, al ritorno ai propri villaggi e città di origine o alla possibilità di vivere come esseri umani uguali e con pieni diritti.

È chiaro quindi che il piano di Trump non solo è un attacco ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma anche un tentativo di promuovere un nuovo ordine mondiale che compromette del tutto il diritto internazionale. Qualunque cosa possa dire la Casa Bianca, non si è mai aspettata che la leadership palestinese avrebbe accettato questo piano né avrebbe nemmeno preso in considerazione qualche suo articolo e condizione. E ciò significa che può continuare ad investire sulla pluridecennale narrazione totalmente razzista secondo cui il popolo palestinese rifiuta e non intende negoziare. Questo è stato evidente nei commenti di Kushner: se i palestinesi non accettano questo accordo, ha sostenuto, “stanno gettando via un’altra opportunità come hanno fatto con tutte le altre che hanno avuto nella loro esistenza”.

Per quanto il piano di Trump possa essere scoraggiante, esso suggerisce una possibile opportunità. Stabilisce che, mentre hanno luogo i negoziati, l’OLP non partecipi ad alcuna iniziativa contro Israele presso la Corte Penale Internazionale – con riferimento alla recente inchiesta su crimini di guerra avviata dalla capo procuratrice della Corte. Questo rivela che Israele è veramente spaventato da una simile mossa, se qualche soggetto internazionale fosse così coraggioso da tentarla.

Comunque nulla di tutto ciò modifica la realtà sul campo: c’è effettivamente un’unica entità che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, dove due popoli vivono vite ampiamente ineguali e separate. Israele e gli USA stanno lavorando sodo per consolidare e portare a termine questa situazione – e, con l’aiuto di una comunità internazionale paralizzata e codarda, ci riusciranno. Ma l’altra faccia della realtà è che i palestinesi non andranno da nessuna parte. Continueranno a vivere a milioni a Haifa, Giaffa, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e altrove. Dovranno cambiare drasticamente la loro situazione attuale, mobilitandosi e chiedendo di più alla loro dirigenza e immaginando un futuro radicalmente diverso anche quando questo sembra impossibile.

Yara Hawari è un’autorevole collaboratrice su questioni politiche di Al Shabaka, la rete di politica palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




B’Tselem sul piano di “pace”di Trump: nessuna pace, apartheid

28 gennaio 2020 B’Tselem

Il piano dell’amministrazione americana, definito “l’accordo del secolo” è più simile al formaggio svizzero:il formaggio offerto agli israeliani e i buchi ai palestinesi.Esistono molti modi per porre fine all’occupazione, ma le uniche opzioni legittime sono quelle basate sull’uguaglianza e sui diritti umani per tutti. Questo è il motivo per cui l’attuale piano che legittima, consolida e addirittura amplia la portata delle violazioni dei diritti umani di Israele, perpetuate ormai da oltre 52 anni, è assolutamente inaccettabile.

Il piano di Trump svuota di qualsiasi significato i principi del diritto internazionale e ignora del tutto il concetto di responsabilità a causa delle loro violazioni. Trump propone di premiare Israele per le pratiche illegali e immorali in cui [Israele] si è impegnato sin da quando ha conquistato i Territori. Israele sarà in grado di continuare a saccheggiare terra e risorse palestinesi; riuscirà anche a mantenere le sue colonie e persino ad annettere più territorio, il tutto in totale spregio del diritto internazionale. I cittadini israeliani che vivono nei Territori continueranno a godere di tutti i diritti concessi ad altri cittadini israeliani, compresi i diritti politici e la libertà di movimento, come se non vivessero affatto all’interno di un’area occupata.

I palestinesi, d’altra parte, saranno relegati in piccole enclave chiuse, isolate, senza alcun controllo sulla loro vita poiché il piano rende eterna la frammentazione dell’area palestinese in porzioni di territorio non connesse tra loro e circondate dal controllo israeliano, non diversamente dai bantustan del regime di apartheid sudafricano. Senza contiguità territoriale, i palestinesi non saranno in grado di esercitare il loro diritto all’autodeterminazione e continueranno a dipendere completamente dalla buona volontà di Israele riguardo alla loro vita quotidiana, senza diritti politici e senza alcun modo di gestire il loro futuro.

Continueranno a essere alla mercé del rigido regime israeliano di permessi e avranno bisogno della sua approvazione per qualsiasi attività produttiva o sviluppo. In questo senso, non solo il piano non riesce a migliorare in alcun modo la situazione dei palestinesi, ma di fatto aggrava ancora la loro condizione perché la perpetua e la legittima. Questo piano rivela una visione del mondo che concepisce i palestinesi come eternamente sottomessi piuttosto che come esseri umani liberi e autonomi. Una “soluzione” di questo tipo, che non garantisce i diritti umani, la libertà e l’uguaglianza di tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo e perpetua invece l’oppressione e l’espropriazione di una parte – non è una soluzione valida. Di fatto, non è per niente una soluzione, ma solo una ricetta per ulteriore oppressione, ingiustizia e violenza.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Stiamo vivendo con la spada in mano”: i rimorsi del figlio di un fondatore di Israele

Sarah Helm

3 gennaio 2020 – Middle East Eye

In un’intervista approfondita Yaakov Sharett, figlio di uno dei padri fondatori di Israele, dice di pentirsi di essersi insediato nel Negev negli anni ’40 – e di tutto il progetto sionista

Il mio nome è Yaakov Sharett. Ho 92 anni. Si dà il caso che io sia figlio di mio padre, cosa della quale non sono responsabile. Le cose stanno così.”

Yaakov ridacchia e guarda da sotto un cappello di lana verso una foto di suo padre – orgoglioso con colletto e cravatta – sul muro del suo studio a Tel Aviv. Moshe Sharett è stato un padre fondatore di Israele, il suo primo ministro degli Esteri e il suo secondo primo ministro tra il 1954 e il 1955. Ma non sono venuta a parlare del padre di Yaakov. Sono venuta con alcune fotografie di un pozzo che una volta si trovava in un villaggio arabo chiamato Abu Yahiya, nella regione del Negev, in quello che ora è il sud di Israele.

Facendo ricerche per un mio libro ho trovato di recente il pozzo e appreso alcune cose della storia del villaggio di Abu Yahiya. Ho sentito di come i palestinesi che una volta vi vivevano furono espulsi durante la guerra del 1948 che portò alla creazione di Israele.

Ho anche sentito dire che i pionieri sionisti, che avevano piazzato un avamposto nei pressi del villaggio prima della guerra del 1948, erano soliti prendere l’acqua dal pozzo arabo. Tra loro c’era un giovane soldato ebreo chiamato Yaakov Sharett. Perciò sono andata a trovare Yaakov nella speranza che potesse condividere i suoi ricordi sul pozzo, sui contadini e sugli avvenimenti del 1948.

Nel 1946, due anni prima della guerra arabo-israeliana, Yaakov e un gruppo di commilitoni si spostarono nella zona di Abu Yahiya per contribuire a condurre uno dei più spettacolari furti di terra dei sionisti.

Da giovane soldato, Sharett venne nominato mukhtar – o capo – di uno degli 11 avamposti ebraici fondati di nascosto nel Negev. L’obiettivo era garantirsi una roccaforte per assicurare che Israele potesse impossessarsi di quell’area strategica quando fosse iniziata la guerra.

Le bozze dei piani di partizione avevano destinato il Negev, in cui gli arabi erano in numero estremamente superiore rispetto agli ebrei, come parte di uno Stato arabo, ma gli strateghi ebrei erano determinati a prenderselo.

La cosiddetta operazione “11 punti” fu un grande successo, e durante la guerra gli arabi vennero di fatto tutti cacciati e il Negev fu dichiarato parte di Israele.

Per gli audaci pionieri coinvolti fu un titolo d’onore avervi preso parte e Yaakov Sharett in un primo tempo è sembrato esaltarsi dei suoi ricordi: “Ci mettemmo in azione con fil di ferro e pali e facemmo un recinto attraverso Wadi Beersheva,” dice. Ho aperto un computer per mostragli le foto del pozzo arabo, ora una località turistica israeliana. “Sì,” dice Yaakov, sorpreso. “Lo conosco. Ho conosciuto Abu Yahiya. Un tipo gentile. Un beduino alto e magro con la faccia simpatica. Mi vendeva l’acqua. Era deliziosa.”

Gli chiedo cosa fosse successo agli abitanti del villaggio. Fa una pausa: “Quando è iniziata la guerra, gli arabi scapparono – espulsi. Non ricordo bene,” dice, facendo di nuovo una pausa.

In seguito tornai e la zona era completamente vuota. Vuota! Tranne..” e scruta di nuovo la foto del pozzo.

Sai, quell’uomo gentile dopo chissà come era ancora lì. Mi chiese aiuto. Era messo molto male – molto malato, a malapena in grado di camminare, tutto solo. Tutti gli altri se n’erano andati.”

Ma Yaakov non lo aiutò. “Non dissi niente. Mi sento molto male per questo. Perchè era mio amico,” dice.

Yaakov alza lo sguardo chiaramente addolorato. “Mi dispiace moltissimo. Cosa posso dire?”

E mentre quella che doveva essere una breve intervista prosegue, è diventato chiaro che Yaakov Sharett non era pentito solo dell’impresa del Negev, ma anche di tutto il progetto sionista.

Dall’Ucarina alla Palestina

Proseguendo nel racconto, Yaakov è sembrato a volte più un uomo che si stesse confessando che uno che stesse rilasciando un’intervista.

Dopo la guerra del 1948 e la fondazione di Israele, Yaakov studiò russo negli USA e poi venne nominato diplomatico all’ambasciata israeliana a Mosca, per essere poi espulso dalla Russia con l’accusa di essere un “propagandista sionista e una spia della CIA.”

Di ritorno in Israele lavorò come giornalista e da pensionato ha dedicato i suoi ultimi anni alla fondazione della Moshe Sharett Heritage Society [Società in Memoria di Moshe Sharett], che si dedica a pubblicare documenti e diari di Sharett – una sezione in inglese. I diari di Sharett sono stati molto apprezzati, descritti da un critico come “tra i migliori diari politici mai pubblicati.”

Durante la nostra intervista, facendo spesso riferimento al ruolo fondamentale di suo padre nella fondazione di Israele, i pensieri di Yaakov si sono chiaramente focalizzati sugli anni passati a pubblicare gli scritti di Moshe Sharett. Haaretz, il giornale israeliano di centro-sinistra, commentando l’edizione ebraica in otto volumi dei diari, ha affermato che è “difficile sopravvalutare la loro importanza per lo studio della storia israeliana.”

Questa settimana la pubblicazione dell’edizione ridotta in inglese, anch’essa tradotta da Yaakov – “My Struggle for Peace [La mia lotta per la pace] (1953-1956) – sarà festeggiata negli archivi centrali sionisti a Gerusalemme. “Questo è il culmine del lavoro della mia vita,” dice Yaakov.

Questo lavoro ha anche reso più profondo il dolore delle sue conclusioni, in quanto ora lui ha ripudiato la validità di buona parte del “lavoro di una vita” di suo padre – e, apprendo, anche di suo nonno.

Suo nonno, Jacob Shertok – il cognome originario della famiglia – fu uno dei primi sionisti a mettere piede in Palestina, lasciando la sua casa a Kherson, in Ucraina, nel 1882 dopo i pogrom russi [ondata di massacri contro le comunità ebraiche nell’impero zarista, ndtr.].

Aveva il sogno di coltivare la terra. La grande idea sionista era di tornare alla terra e abbandonare le attività superficiali degli ebrei che si erano allontanati dalla terra,” dice.

Pensavano che, poco alla volta, più ebrei sarebbero immigrati fino a diventare una maggioranza, e avrebbero potuto chiedere uno Stato, che allora chiamarono un ‘focolare’ [termine utilizzato nella dichiarazione Balfour del 1917 in cui la GB si impegnava a favorirne la fondazione in Palestina, ndtr.] per evitare discussioni.”

Chiedo cosa il nonno di Yaakov pensasse che ne sarebbe stato degli arabi, che allora rappresentavano circa il 97% della popolazione, con gli ebrei attorno al 2 o 3%. “Credo che pensasse che più ebrei sarebbero arrivati, più prosperità avrebbero portato e che gli arabi ne sarebbero stati contenti. Non compresero che la gente non vive solo di soldi. Saremmo stati il potere dominante, ma gli arabi si sarebbero abituati a questo,” afferma, aggiungendo con un sorriso triste: “Bene, o lo credevano o volevano crederlo. La generazione di mio nonno era composta di sognatori. Se fossero stati realisti, in primo luogo non sarebbero venuti in Palestina. Non fu mai possibile per una minoranza sostituire una maggioranza che aveva vissuto su questa terra per centinaia di anni. Non avrebbe mai potuto funzionare,” sostiene.

Quattro anni dopo Jacob avrebbe voluto non essere mai venuto e ritornò in Russia, non a causa dell’ostilità dei palestinesi – il numero degli ebrei era ancora ridottissimo – ma perché non era riuscito a guadagnarsi la vita qui.”

Molti dei primissimi coloni in Palestina scoprirono che lavorare la terra era molto più duro di quanto avessero mai immaginato e spesso tornarono in Russia disperati. Ma nel 1902, dopo altri pogrom, Jacob Sharett ritornò, stavolta con una famiglia, tra cui Moshe, di otto anni.

La maggior parte dei palestinesi fu ancora accogliente con gli ebrei, in quanto la minaccia sionista non era ancora chiara. Un membro della ricca famiglia Husseini, che era diretto all’estero, offrì persino in affitto al nonno di Yaakov la sua casa nel villaggio di Ein Siniya, ora nella Cisgiordania occupata.

Per due anni nonno Shertok visse là come un importante personaggio arabo, mentre i suoi figli andavano a un asilo palestinese. “Mio padre allevava pecore, imparò l’arabo e in generale visse come un arabo,” dice Yaakov.

Psicologia della minoranza

Ma il progetto sionista era di vivere come ebrei, per cui poco dopo la famiglia dovette spostarsi nel centro abitato ebraico di Tel Aviv in rapida crescita, e Moshe presto affinò tutte le sue capacità – compreso lo studio delle leggi ottomane a Istanbul – per portare avanti il progetto sionista.

Grazie alla dichiarazione Balfour del 1917, che promise un focolare ebraico in Palestina e inaugurò il dominio coloniale inglese, sembrarono ora realizzabili progetti per un vero e proprio Stato ebraico, e nei successivi vent’anni Moshe Sharett contribuì a disegnarlo, diventando una figura fondamentale dell’Agenzia Ebraica, il governo in fieri dello Stato.

Fondamentale per il progetto era la creazione di una maggioranza ebraica e la proprietà di più terra possibile, al cui fine Sharett lavorò in stretto contatto con il suo alleato David Ben-Gurion. L’immigrazione crebbe rapidamente, e venne comprata terra, in genere da proprietari terrieri assenteisti arabi. Le dimensioni del cambiamento provocarono la rivolta palestinese del 1936, brutalmente repressa dai britannici. Alla luce di quella rivolta, il futuro primo ministro mise mai in dubbio che lo Stato ebraico potesse funzionare?

No”, dice Yaakov. La dirigenza era “ancora unanime nel giustificare la propria idea di sionismo. Si deve ricordare che tutti loro pensavano nei termini di essere ebrei e di come erano stati assoggettati dalle maggioranze nei Paesi in cui avevano vissuto.

Mio padre diceva questo: ‘Ovunque ci sia una minoranza, ogni suo membro ha un bastone e uno zaino nell’armadio.’ Psicologicamente si rendeva conto che sarebbe arrivato un brutto giorno e che avrebbe dovuto andarsene, per cui la priorità fu sempre di creare una maggioranza e scrollarsi di dosso per sempre la psicologia della minoranza.

Mio padre e gli altri pensavano ancora che la maggioranza degli arabi avrebbe venduto il proprio onore nazionale per il cibo che avremmo dato loro. Era un bel sogno, ma a spese di altri. E chiunque non fosse d’accordo era un traditore.”

Diventare mukhtar

Da giovane adolescente all’inizio degli anni ’40 Yaakov non metteva in discussione la visione di suo padre. Al contrario.

Devo dire,” continua, “che quando ero nel movimento giovanile sionista andavamo in giro per i villaggi arabi a piedi, vedevi un villaggio arabo, imparavi il suo nome in ebraico come era nella Bibbia e sentivi che il tempo non ti aveva separato da esso. Non sono mai stato religioso, ma questo era ciò che sentivi.”

Nel 1939 scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e molti giovani israeliani si unirono alla Brigata Ebraica dell’esercito britannico, combattendo in Europa. La Brigata Ebraica fu un’idea del padre di Yaakov, e appena fu abbastanza grande Yaakov si presentò volontario, arruolato nel 1944 all’età di 17 anni. Ma pochi mesi dopo, nell’aprile 1945, la guerra finì e Yaakov era troppo in ritardo per prestare servizio.

Di ritorno in Palestina, questi giovani soldati ebrei che avevano fatto il militare in Europa erano tra quanti ora venivano reclutati per combattere in ciò che molti sapevano sarebbe accaduto dopo: una nuova guerra in Palestina per fondare lo Stato di Israele. Yaakov – che non aveva ancora chiaramente iniziato a vedere che il sionismo “era a spese di altri” – rapidamente accettò di fare la sua parte.

Ora diciannovenne, Yaakov fu scelto per ricoprire il ruolo di mukhtar, o capo villaggio, ebreo in un avamposto quasi militare nel Negev, un territorio desolato a malapena abitato da ebrei. “All’epoca non pensavo molto alla politica. Costruire questo insediamento era letteralmente il nostro sogno,” afferma.

Sua moglie, Rena, si unisce a noi, appollaiata su uno sgabello, e annuisce. Rena Sharett era un’altra accesa sionista che rivendicò il Negev nel 1946.

Prima del 1948 il Negev costituiva i distretti amministrativi britannici di Beersheva e di Gaza, che insieme rappresentavano metà della terra di Palestina. Arrivando fino al Mar Morto e al golfo di Aqaba, il territorio aveva un accesso vitale all’acqua.

Quindi non è sorprendente che i sionisti, che all’epoca erano riusciti ad impossessarsi solo del 6% della terra palestinese, fossero determinati a conquistarlo.

Tuttavia, dato che circa 250.000 arabi vivevano nel Negev, in 247 villaggi, rispetto a 500 ebrei in tre piccoli avamposti, un recente piano di partizione anglo-americano aveva diviso la Palestina mandataria tra ebrei e arabi, attribuendo la regione del Negev a un futuro Stato palestinese.

Anche un divieto britannico contro nuove colonie aveva ostacolato i tentativi sionisti di modificare lo status quo. Gli arabi si erano sempre opposti a qualunque progetto che prevedesse i palestinesi come “una maggioranza indigena che viveva sul proprio suolo ancestrale, trasformata improvvisamente in una minoranza sotto un potere straniero,” come ha riassunto lo storico palestinese Walid Khalidi.

Tuttavia alla fine del 1946, con un nuovo piano di partizione delle Nazioni Unite in via di definizione, i dirigenti sionisti ritenevano che per il Negev fosse l’ultima occasione.

Ora o mai più

Quindi venne lanciato il piano degli “11 punti”. Non solo i nuovi insediamenti rafforzarono la presenza ebraica là, ma quando scoppiò l’inevitabile guerra servirono come basi militari.

A causa del divieto britannico ogni cosa doveva essere fatta in segreto e venne deciso di erigere gli avamposti nella notte del 5 ottobre, appena dopo la festa di Yom Kippur [una delle più importanti feste ebraiche, ndtr.]. “Gli inglesi non si sarebbero mai aspettati che gli ebrei facessero una cosa simile la notte dopo lo Yom Kippur,” dice Yaakov. 

Ricordo quando trovammo il nostro pezzo di terra sulla cima di una collina arida. Era ancora buio, ma riuscimmo a piantare i pali e presto eravamo all’interno della nostra recinzione. Alle prime luci del giorno arrivarono camion con baracche prefabbricate. Fu una bella impresa. Lavorammo come matti. Ah! Non lo dimenticherò mai.”

Guardando all’esterno da dentro la loro barriera, i coloni in un primo tempo non scorsero nessun arabo, ma poi intravidero le tende del villaggio di Abu Yahiya e qualche “sudicia capanna”, come le descrive Yaakov.

In breve chiesero acqua agli arabi: “Ogni giorno con il mio camion andavo a prendere l’acqua per il nostro insediamento da quel pozzo. É così che diventai amico di Abu Yahiya,” racconta. Con la sua infarinatura di arabo chiacchierava anche con altri: “A loro piaceva parlare. E accadeva quando avevo del lavoro da fare,” ride. “Non penso che fossero esattamente contenti di averci lì, ma erano in pace con noi. Non c’era ostilità.”

Un altro capo locale arabo in cambio di una piccola somma vegliava sulla loro sicurezza. “Era una specie di accordo che avevamo con lui. Faceva la guardia e ogni mese saliva alla nostra palizzata e si sedeva lì tutto tranquillo – sembrava solo un fagottino di vestiti,” dice Yaakov con un grande sorriso.

Stava ad aspettare di essere pagato e io gli stringevo la mano e mi firmava con l’impronta del pollice una specie di ricevuta che io davo alle autorità di Tel Aviv e loro mi davano del denaro per la volta successiva. Questa era la mia vera e unica responsabilità come mukhtar,” afferma Yaakov, aggiungendo che tutti sapevano che aveva ottenuto quel ruolo di capo in quanto figlio di suo padre. Moshe Sharett, all’epoca una importante figura politica, era noto come un moderato, e come tale era visto con sospetto da alcuni sostenitori della linea dura militare.

I nuovi avamposti nel deserto del Negev erano progettati principalmente come centri per raccogliere informazioni sugli arabi, e Yaakov crede che fosse probabilmente a causa di suo padre che anch’egli era visto con sospetto ed escluso da quelli mandati negli avamposti per studiare piani militari. “Io invece in realtà venivo utilizzato come tuttofare” – guidare, raccogliere acqua, comprare carburante a Gaza o a Beersheva.” Sembra avere nostalgia della libertà di quel paesaggio arido, anche se di notte i coloni tornavano sempre dentro la loro barriera.

Conobbe anche altri villaggi arabi, come Burayr “che era sempre ostile, non so perché,” ma la maggior parte era amichevole, soprattutto un villaggio chiamato Huj. “Spesso andavo a Huj e lo conoscevo bene.”

Durante la guerra del 1948 gli abitanti di Huj raggiunsero un accordo scritto con le autorità ebraiche perché gli venisse consentito di rimanere, ma vennero cacciati come tutti gli altri 247 villaggi di questa zona, per lo più a Gaza. I palestinesi chiamarono le espulsioni la loro Nakba – o catastrofe.

Chiedo a Yaacov cosa ricordi dell’esodo degli arabi nel maggio 1948, ma in quel periodo non era lì, in quanto il fratello di Rena era stato ucciso in combattimento più ad est, per cui la coppia se n’era andata per unirsi alla sua famiglia.

Dico a Yaacov di aver incontrato sopravvissuti del clan di Abu Yahiya, che ricordavano di essere stati portati da soldati ebrei a Wadi Beersheva, dove gli uomini vennero separati dalle donne, alcuni vennero uccisi e poi gli altri furono espulsi.

Comunque non lo ricordo,” dice Yaakov. Ma sondando nella memoria improvvisamente rievoca altre atrocità, compresi avvenimenti a Burayr, il villaggio ostile, dove nel maggio 1948 ci fu un massacro, secondo i sopravvissuti e gli storici palestinesi furono uccisi tra i 70 e i 100 abitanti.

Uno dei nostri ragazzi partecipò alla presa di Burayr. Ricordo che disse che quando arrivò là gli arabi erano già in gran parte scappati, aprì la porta di una casa, vide un vecchio là e gli sparò. Si era divertito a sparargli,” dice.

Quando nell’ottobre 1948 Beersheba venne presa, Yaakov era tornato nel suo avamposto lì nei pressi, che aveva ora un nome ebraico, Hatzerim.

Appresi che i nostri ragazzi avevano guidato l’esercito nella città,” afferma. “Conoscevamo molto bene la zona e potevamo condurli attraverso i wadi (letti dei fiumi).”

Dopo la caduta di Beersheva, Yaakov condusse i suoi commilitoni in un camion giù per dare un’occhiata: “Era vuota, totalmente vuota.” L’intera popolazione di circa 5.000 abitanti era stata espulsa e portata in camion a Gaza.

Ho sentito dire che c’erano stati molti saccheggi. “Sì,” afferma. “Prendemmo oggetti da molte case vuote. Prendemmo quello che potevamo – mobili, radio, utensili. Non per noi, ma per aiutare il kibbutz. Dopotutto ora Beersheva era vuota e non era di nessuno.”

Cosa ne pensa? “Di nuovo, devo confessare che all’epoca non pensavo molto a tutto ciò. Eravamo orgogliosi di aver occupato Beersheva. Anche se devo dire che prima avevamo avuto molti amici lì.”

Yaakov dice di non poter ricordare se anche lui avesse partecipato al saccheggio: “Probabilmente lo feci. Ero uno di loro. Eravamo molto contenti. Se non lo prendi tu, lo prenderà qualcun altro. Non avevi la sensazione di doverlo restituire. Loro non sarebbero tornati.”

Che cosa ne pensa? Riflette: “Allora non ci pensavamo. Mio padre, di fatto, disse che non sarebbero tornati. Mio padre era un uomo con un’etica. Non penso che condividesse gli ordini di espellere gli arabi. Ben-Gurion sì, Sharett no. Ma lo accettò come un dato di fatto. Penso che sapesse che stava avvenendo qualcosa di sbagliato, ma non vi si oppose,” sostiene.

Dopo la guerra mio padre tenne una conferenza e disse: ‘Non so perché un uomo debba vivere per due anni isolato in un villaggio (un riferimento al tempo in cui era cresciuto a Ein Siniya) per scoprire che gli arabi sono esseri umani’. Questo tipo di discorsi non lo avresti sentito da nessun altro leader ebreo… questo era mio padre.”

Poi, come se confessasse anche a nome di suo padre, Yaakov aggiunge: “Ma devo essere franco, mio padre aveva un’opinione crudele riguardo ai rifugiati. Era contrario al loro ritorno, su questo era d’accordo con Ben-Gurion.”

Molto più crudele di Sharett era Moshe Dayan. Nominato dopo la guerra capo di stato maggiore da David Ben-Gurion, il primo presidente del consiglio israeliano, Dayan ebbe il compito di tenere i rifugiati del Negev e molti altri “recintati” dietro le linee di armistizio con Gaza.

Nel 1956 un rifugiato di Gaza uccise un colono israeliano, Roi Rotberg, e al suo funerale Dayan fece un famoso discorso funebre, invitando gli israeliani ad accettare una volta per tutte che gli arabi non avrebbero mai vissuto in pace vicino a loro, e precisò il perché: gli arabi erano stati espulsi dalle loro case in cui ora vivevano gli ebrei.

Ma Dayan invitò gli ebrei a rispondere, non cercando un compromesso ma “guardando in faccia l’odio che consuma e riempie le vite degli arabi che vivono attorno a noi e ad essere per sempre pronti e armati, forti e duri.”

Questo discorso fece una profonda impressione a Yaakov Sharett. “Dissi che era un discorso fascista. Stava dicendo alla gente di vivere con la spada in mano,” afferma. Moshe Sharett, che all’epoca era ministro degli Esteri, stava cercando di raggiungere un compromesso attraverso la diplomazia, per cui era definito un “debole”.

Ma non fu che nel 1967, quando iniziò a lavorare come giornalista per il giornale israeliano di centro Maariv, che Yaakov perse la sua fede nel sionismo.

Erano la maggioranza”

Nella guerra arabo-israeliana del 1967 Israele si impossessò di più terre, questa volta in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, dove l’occupazione militare venne imposta ai palestinesi, che questa volta non scapparono.

Girando per la Cisgiordania, Sharett osservò i volti attoniti ma spavaldi degli arabi e si sentì ancora una volta “a disagio”, soprattutto quando visitò Ein Siniya, il villaggio della sua famiglia, di cui suo padre, ormai morto, parlava in termini così affettuosi. Fu lì che da bambino Moshe aveva portato al pascolo le pecore e “imparato che gli arabi erano umani”, come Moshe Sharett avrebbe detto in un successivo discorso.

Gli abitanti erano sottoposti al primo shock dell’occupazione. Sapevano che ora gli ebrei erano il potere dominante, ma non mostravano alcun sentimento di odio. Erano persone semplici. E ricordo che molti abitanti arrivarono, ci circondarono e sorridevano e mi dissero che si ricordavano della mia famiglia e della casa in cui la nostra famiglia aveva vissuto. Per cui ci sorridemmo a vicenda e me ne andai. Non sono più ritornato. Non mi piaceva questa occupazione, non volevo andare lì come un padrone,” dice.

Avete sentito parlare di sparare e piangere?”, chiede, con un altro sorriso amaro, spiegando che questo era un modo di dire per descrivere gli israeliani che, dopo aver combattuto in Cisgiordania nel 1967, si vergognavano ma ne accettavano i risultati.

Ma non volevo avere nient’altro a che vedere con l’occupazione. Era il mio modo per non identificarmi con essa. Ne ero depresso e me ne vergognavo.”

I volti degli abitanti di Ein Sinya rivelavano qualcos’altro: “Vidi in questa spavalderia che loro avevano ancora la psicologia della maggioranza. Mio padre soleva dire che la guerra provoca sempre ondate di rifugiati. Ma non si rese conto che in genere quelli che scappano sono la minoranza. Nel 1948 erano la maggioranza, per cui non si arrenderanno mai. Questo è il nostro problema.”

Ma mi ci sono voluti anni per capire quello che è stata la Nakba e che la Nakba non è iniziata nel 1967, ma nel 1948. Dobbiamo comprenderlo.”

Rena aggiunge: “Nel 1948 era una questione di noi o loro. Di vita o di morte. Questa era la differenza,” dice.

Noi due su questo non siamo d’accordo,” afferma Yaakov. “Mia moglie ha perso suo fratello nel 1948. La vede in modo diverso.”

Me ne andrei domani”

In età avanzata Yaakov è tornato ancora più indietro nel tempo, valutando i problemi con il sionismo fin dall’inizio.

Adesso, a 92 anni, capisco che la storia iniziò con l’idea stessa di sionismo, che era un’idea utopistica. Era stato pensato per salvare le vite degli ebrei, ma a spese della Nazione di chi all’epoca abitava in Palestina. Il conflitto era inevitabile fin dall’inizio.”

Gli chiedo se si definisce un antisionista. “Non sono un antisionista, ma neppure un sionista,” dice, dando un’occhiata a Rena, forse nel caso disapprovi – sua moglie ha opinioni meno radicali.

Sul muro, accanto all’immagine di suo padre, ci sono foto dei loro figli e nipoti; due delle nipoti di Yaakov sono emigrate negli Stati Uniti: “Non ho timore a dire di essere contento che siano là e non qui,” dice.

Gli chiedo se ha uno “zaino e un bastone” preparati, pronto ad andarsene da loro. Dopotutto, con le sue idee, lo stesso Yaakov ora è una minoranza – una piccola minoranza – che qui in Israele vive in mezzo ad una maggioranza di ebrei di destra.

E non è “chiuso dentro” solo ideologicamente, ma anche fisicamente. Parla di come oggigiorno possa spostarsi solo in giro per Israele. Si rifiuta di andare a Gerusalemme, che, dice, è stata occupata da ebrei religiosi ultraortodossi.

Questo è uno dei disastri più terribili. Quando eravamo giovani pensavamo che la religione sarebbe sparita.” Sostiene di non aver mai desiderato di tornare al suo amato Negev, perché è stato da molto tempo colonizzato da una nuova generazione di ebrei “che non hanno nessuna empatia con gli arabi.”

Può ancora “respirare” a Tel Aviv e si diverte ad andare in giro in motorino, ma anche qui sente di vivere in una “bolla”. Ridacchia di nuovo.

La definisco la bolla di Haaretz,” e spiega di far riferimento a un gruppo di persone di sinistra che leggono il giornale progressista Haaretz. “Ma questo clan non ha rapporti al suo interno che non sia questo quotidiano che esprime più o meno la nostra opinione. È l’ultima roccaforte, e mi sento molto male per questo…È vero che non mi sento a mio agio qui.”

Yaakov dice che sta sempre pensando di andarsene. Se altri membri della sua famiglia lo facessero, lo farebbe anche lui.

Guarda. Quando mi ci fai pensare, me ne andrei domani. Se ne sono già andati in migliaia, la maggioranza ha un doppio passaporto. Con Bibi Netanyahu abbiamo il peggior governo di sempre,” dice.

Stiamo vivendo con la spada in mano, come Dayan disse che avremmo dovuto…Come se dovessimo essere obbligati a fare di Israele una specie di cittadella contro gli invasori, ma non credo sia possibile vivere per sempre con la spada in mano.”

Gli chiedo come vede il futuro dei palestinesi.

Cosa posso dire? Mi sento molto male a questo proposito. E non ho paura di dire che il modo in cui vengono trattati oggi i palestinesi è da nazisti. Non abbiamo camere a gas, ovviamente, ma la mentalità è la stessa. È un odio razziale. Vengono trattati come subumani,” dice.

Yaakov è ben consapevole che lui, un ebreo, sarà accusato di “antisemitismo” per aver detto simili cose, ma afferma di credere che Israele sia “uno Stato criminale”.

So che mi chiameranno un ebreo che odia se stesso per aver detto questo. Ma non posso appoggiare automaticamente il mio Paese, giusto o sbagliato. E Israele non deve essere immune dalle critiche. Vedere la differenza tra antisemitismo e le critiche a Israele è fondamentale. Sinceramente sono stupito di come nel 2019 il mondo esterno accetti la propaganda israeliana. Non so perché lo faccia,” sostiene.

E si ricordi che il vero obiettivo del sionismo era liberare gli ebrei dalla maledizione dell’antisemitismo, fornendo loro un proprio Stato. Ma oggi lo Stato ebraico, con il suo comportamento criminale, è una delle più gravi cause di questa maledizione.”

Cosa prevede per lo Stato ebraico? “Le dirò qual è la mia previsione. Non ho paura di dirlo. Quando arriverà il momento, potrebbe avvenire domani, ci sarà una conflagrazione, forse con Hezbollah…una grande catastrofe di un qualche tipo che distruggerà migliaia di case ebraiche.

E bombarderemo Beirut, ma avere i libanesi con la loro casa distrutta non aiuterà gli ebrei che hanno perso la casa e la famiglia, per cui la gente non vedrà motivo per rimanere più qui. Ogni israeliano sensato allora dovrà andarsene.

Non deve essere per forza Hezbollah. La catastrofe potrebbe essere un forte dominio della nostra stessa destra. Tutte le leggi approvate ora dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] sono leggi fasciste. Non ho una soluzione. Israele diventerà uno Stato paria,” dice.

Sicuramente l’America e gli europei non tratteranno mai Israele come uno Stato paria, insinuo, ma Yakov non è d’accordo: “Il loro appoggio è per lo più dovuto alla vergogna per l’Olocausto. Ma questi sensi di colpa si ridurranno nelle prossime generazioni,” afferma.

Chiedo a Yaakov cosa direbbe suo padre se ascoltasse tutto ciò. Rena dice di non aver mai sentito Yaakov parlare così prima d’ora. I suoi occhi saettano sotto il suo berretto di lana.

Penso che in qualche modo mio padre sarebbe d’accordo con me. Rimase un sionista fino alla fine, ma penso che si sia reso conto che c’era qualcosa di sbagliato. A volte dico che era una persona troppo etica per essere in pace con quello che sta succedendo qui,” sostiene.

Ma è sconfortante che egli non sia arrivato alla conclusione a cui è arrivato suo figlio. Non lo condanno per questo. Ha assimilato il sionismo con il latte di sua madre. Se avesse vissuto fino alla mia età – ho 92 anni, lui è morto a 71 – forse avrebbe visto le cose come me. Non so.”

Mi alzo per andarmene e prendo il mio computer, illuminando così di nuovo la foto del pozzo di Abu Yahiya. La nostra intervista è stata tormentata non solo da Moshe Sharett, ma anche dall’immagine di quel “beduino alto e magro con una faccia simpatica” visto da Yaakov l’ultima volta affranto e solo. “Devo dire che l’immagine di quella brava persona a volte mi torna in mente,” dice Yaakov, che poi mi accompagna in strada. Preso il motorino, mi saluta allegramente con la mano e si lancia nel traffico di Tel Aviv.

My Struggle for Peace, the Diary of Moshe Sharett 1953-1956” [La mia lotta per la pace, il diario di Moshe Sharett, 1953-1956, parzialmente tradotto in italiano nel libro “Vivere con la spada”, di Livia Rokach, Zambon, 2014, ndtr.], è stato pubblicato da Indiana University Press. Sarah Helm è un’ex corrispondente e redattrice diplomatica dal Medio Oriente per “The Independent” [giornale inglese di centro-sinistra, ndtr.]. I suoi libri includono “A Life in Secrets: Vera Atkins and the Lost Agents of SOE” [una vita nel segreto: Vera Atkins e gli agenti perduti del SOE, il servizio segreto britannico, ndtr.] e “If This Is a Woman, Inside Ravensbrück: Hitler’s Concentration Camp for Women” [Se questa è una donna, dentro Ravensbrück: il campo di concentramento per donne di Hitler].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Arrestati in qualsiasi momento”: studenti palestinesi nel mirino di Israele

Qassam Muaddi a Ramallah, Cisgiordania occupata

9 gennaio 2020 – Middle East Eye

La recente impennata nelle detenzioni di studenti universitari palestinesi ha riportato alla ribalta un problema di vecchia data

Per la maggior parte degli studenti, voti, esami e coinvolgimento sociale sono le maggiori preoccupazioni della vita universitaria.

Non così per Hadi Tarshah. A 24 anni, il giovane palestinese ha trascorso il semestre scorso in una prigione israeliana, e la sua preoccupazione principale è l’udienza in tribunale a marzo.

Analogamente, Mays Abu Ghosh, a un solo semestre dalla laurea, si sta riprendendo dalle brutali torture subite durante la detenzione israeliana. E un suo compagno di studi, Azmi Nafaa, ha lottato tre anni per ottenere il diploma da dietro le sbarre.

Negli ultimi mesi del 2019, l’occupazione israeliana ha lanciato una delle più aggressive campagne di arresto degli ultimi anni contro gli studenti palestinesi.

Le statistiche dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer dicono che circa 250 studenti universitari palestinesi sono attualmente incarcerati in Israele. Secondo la Campagna per il Diritto all’Educazione della Birzeit University, le forze israeliane hanno detenuto per quattro mesi 30 studenti solamente di quella importante istituzione palestinese.

Dal 2015, quando è nata una violenta ondata di proteste nei territori palestinesi occupati, Israele ha aumentato le politiche repressive contro i palestinesi.

Tuttavia i giovani palestinesi hanno riferito a Middle East Eye che il recente aumento è solo la continuazione di una più vasta politica di repressione israeliana, che criminalizza gli studenti palestinesi che si sono organizzati sin dall’inizio dell’occupazione.

Spezzare il morale

Abdel Munim Masoud, studente di economia di 23 anni, ricorda l’ultima volta che ha visto il suo amico Tarshah in ottobre.

” La sera prima stavamo parlando e ridendo insieme”, ha detto a MEE. “La mattina dopo, ho ricevuto un messaggio sul mio cellulare che diceva che gli occupanti avevano arrestato Hadi all’alba.”

Tarshah ha preso parte al movimento studentesco della Birzeit University da quando vi ha iniziato gli studi. Ad aprile, ha partecipato al dibattito annuale per le elezioni del consiglio studentesco, diventando un protagonista nel movimento studentesco.

“Ci aspettavamo che prima o poi sarebbe stato arrestato”, ha detto Layan Kayed, 25 anni, studente di sociologia e amico di Tarshah. “Ma siamo rimasti sorpresi perché il suo arresto è arrivato in un momento in cui gli arresti erano cessati.”

Il padre di Tarshah ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia alle 5 del mattino.

“Sono entrati nel palazzo in cui viviamo, sfondando cinque porte prima di entrare brutalmente nel nostro appartamento, con i fucili puntati”, ha detto l’uomo. “Hanno preso Hadi dal suo letto e non gli hanno dato il tempo di vestirsi e nemmeno di mettersi le scarpe. Lo hanno messo su una jeep militare e se ne sono andati.

Ci sono voluti due giorni per la famiglia di Tarshah per scoprire dove si trovasse e sapere che era stato interrogato in un centro di detenzione israeliano noto come il quartiere russo, a Gerusalemme.

“L’occupazione cerca di spezzare il morale dei giovani palestinesi, in particolare di quelli che stanno studiando all’università, al fine di spingerli a lasciare il loro Paese – specialmente quelli che sono politicamente consapevoli e attivi”, ha aggiunto il padre di Tarshah. “Ma Hadi è molto più forte e molto più consapevole”.

Tarshah ha già perso un intero semestre di lezioni, che dovrà recuperare – ma deve anche affrontare la reale possibilità di altre detenzioni, che potrebbero bloccare ulteriormente la sua istruzione.

“Socialmente, è difficile vedere tutti i tuoi amici laurearsi mentre tu resti indietro”, ha spiegato Masoud.

“Alcuni studenti potrebbero avere dei problemi a tornare allo stesso livello di attivismo dopo il rilascio, perché non vogliono perdere un altro semestre” aggiunge Kayed. “Ma ciò non significa che non verranno nuovamente arrestati. Una volta che sei stato arrestato, ti può succedere ancora in qualsiasi momento.”

Non c’è un posto sicuro”

L’arresto più drammatico è avvenuto nel marzo del 2018, quando le forze israeliane in incognito – note anche come mustarabin perché mascherate da palestinesi – sono entrate nel campus di Birzeit per rapire il presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani.

“All’inizio ho pensato che fosse una rissa”, ha detto Masoud, che ha assistito al fatto. “Poi hanno estratto le armi e ho capito che erano soldati israeliani, non studenti.”

“La nostra prima reazione è stata quella di precipitarci verso tutti gli ingressi del campus e bloccarli per impedire l’ingresso di altri soldati”, ha detto un compagno testimone oculare, Hazem Aweidat. “Alla fine hanno raggiunto l’ingresso principale, minacciando gli studenti con le armi, sono saliti su un’auto e se ne sono andati con Omar.”

L’arresto di Kiswani in pieno giorno ha attirato molta attenzione sul caso da parte dei media, e Aweidat ha sottolineato che i campus universitari sono da tempo esposti ai raid delle forze di sicurezza israeliane.

“Il campus non è diverso dalle nostre case”, ha detto. “Quando fanno irruzione, proviamo rabbia, ma considerarla un’aberrazione vorrebbe dire dimenticare che ci troviamo in un Paese occupato, dove nessun posto è sicuro.”

La minaccia per gli studenti va oltre le incursioni di soldati in incognito. L’Università Al-Quds nella città di Abu Dis, in Cisgiordania vicino a Gerusalemme, ha subito numerose incursioni delle forze armate israeliane nel campus apertamente in pieno giorno.

Secondo il centro legale dell’università, solo nell’ultimo semestre 25 studenti sono stati arrestati da Israele.

La posizione del campus vicino al muro di separazione israeliano lo rende più esposto alle incursioni, ha detto a MEE un ex membro del consiglio studentesco dell’Università Al Quds, Mohammad Abu Shbak.

“Quando gli studenti manifestano per l’arresto di un compagno, in genere marciano verso il muro”, ha spiegato. “I soldati israeliani allora reprimono la manifestazione, fanno irruzione nel campus sfondando porte e sparando gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma”.

Secondo Abu Shbak, entra in gioco un altro fattore: “L’occupazione prende di mira questa università perché è l’unica palestinese nella regione di Gerusalemme. Non vogliono attività studentesche palestinesi in giro per Gerusalemme “.

Abu Shbak ricorda la prima incursione a cui ha assistito:

“Ero nell’ufficio del consiglio studentesco quando ho sentito l’odore di gas lacrimogeni e gente correre presa dal panico. Ci siamo divisi in gruppi; alcuni sono andati a bloccare gli ingressi, altri a evacuare studenti e insegnanti, altri hanno cercato di proteggere auto e autobus per aiutare le persone a tornare a casa,” ha detto. “È durato quasi un’ora prima che i soldati se ne andassero, lasciandosi dietro il caos.”

Ma solo dopo che i soldati israeliani se ne sono andati Abu Shbak ha scoperto che uno dei suoi amici, lo studente del secondo anno Bahjat Radaidah, era stato arrestato.

Di conseguenza, “molte famiglie esitano a mandare i propri figli all’Università Al Quds a causa della sua vicinanza al muro e delle incursioni nel campus da parte degli occupanti”, ha detto Abu Shbak.

Futuro distrutto

Fortunatamente l’amico di Abu Shbak, Radaidah, ha trascorso solo una settimana in prigione. Ma non tutti gli studenti palestinesi che vengono arrestati sono così fortunati.

Azmi Nafaa era uno studente di giurisprudenza di 25 anni presso l’Università Al-Najah, nella città di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale, e gli restava un semestre prima della laurea quando nel novembre del 2015 fu colpito, ferito e arrestato dalle forze israeliane a un posto di blocco nelle vicinanze.

Il tribunale militare israeliano ha prolungato cinque volte senza accusa la sua detenzione – usando la pratica largamente denunciata detta detenzione amministrativa – prima di accusarlo di un presunto attacco ai soldati e condannarlo a 28 anni di prigione.

Azmi ha deciso che avrebbe finito i suoi studi in prigione. Sua madre ha esitato, ma io ho insistito sul fatto che l’occupazione non può fermare la nostra vita “, ha detto a MEE suo padre, Sahel Nafaa.

Per mesi, Sahel ha lottato con le autorità israeliane per mettere suo figlio in condizione di studiare.

“Ho cercato su Facebook notizie di un qualche prigioniero che avesse una laurea in giurisprudenza e che potesse aiutare Azmi a studiare”, ha spiegato.

Quando finalmente ne ho trovato uno nella stessa prigione in cui era trattenuto mio figlio, è iniziata la lotta per inviargli i libri di cui aveva bisogno. L’amministrazione penitenziaria non permetteva l’ingresso di libri e poi si sono rifiutati di farmi visitare Azmi in prigione. Volevano costringermi a smettere di provarci, ma io non l’ho fatto.”

Alla fine dopo tre anni Azmi si è laureato durante la detenzione in Israele.

“Noi, i giovani politicamente impegnati delle università, siamo più avanti e guidiamo la piazza “, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Per Sahel, Israele “mira a distruggere il futuro del popolo palestinese, per questo prende di mira i giovani istruiti, intimidisce le loro famiglie, ci allontana dallo studio.”

Anche Kayed ritiene che la repressione israeliana degli studenti abbia un motivo politico:

“L’occupazione sa che gli studenti sono il settore più attivo e dinamico della società, soprattutto in un momento in cui i partiti politici sono sempre meno efficaci”.

Dal momento che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – guidata dal partito Fatah del Presidente Mahmoud Abbas – non ha indetto elezioni presidenziali dal 2005, le elezioni del Consiglio studentesco sono state a lungo un barometro complessivo della politica palestinese, specialmente tra la popolazione più giovane.

Sebbene le fazioni politiche studentesche in Palestina siano state storicamente estensioni dei partiti politici, Aweidat pensa che i tempi siano cambiati:

Oggi, in realtà sono i partiti politici ad essere un’estensione del movimento studentesco. Noi giovani universitari politicamente impegnati siamo più avanti e guidiamo la piazza”, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Gli altri studenti che ascoltano Aweidat sono d’accordo e annuiscono, come Kayed, che infine conclude: “Fa tutto parte dell’essere uno studente in Palestina”.

(traduzione di Luciana Galliano)




I cristiani palestinesi attaccati da coloni nella Cisgiordania occupata

Shatha Hammad

2 dicembre 2019 – Middle East Eye

TAYBEH, Cisgiordania occupata

Nel villaggio di Taybeh si sono moltiplicati gli attacchi contro proprietà palestinesi – se ne contano 36 solo nel mese di ottobre

Venerdì mattina la famiglia Basir si è svegliata molto prima dell’alba, alle grida dei vicini: c’era stato un attacco contro la sua casa nel villaggio palestinese di Taybeh.

Un gruppo di coloni israeliani aveva lasciato dei graffiti ostili sui muri – uno diceva “zona militare chiusa” – ed incendiato l’automobile della famiglia. Tuttavia gli aggressori non c’erano più quando Rollin Basir ha aperto la porta alle 2 del mattino trovando la sua auto in fiamme. È bruciata fino alle 6.

Rollin Basir racconta che tutto il villaggio è corso a casa sua man mano che la notizia dell’attacco si è diffusa, e gli abitanti sono rimasti fino a mattina inoltrata. Hanno espresso il loro timore che i coloni replicassero i loro attacchi o se la prendessero con loro e con le loro abitazioni.

 “Tutto indica che dietro a questo attacco ci sono dei coloni”, dichiara Rollin Basir, precisando che la sua auto gli era costata più di 42.000 dollari.

Taybeh si trova ad est di Ramallah ed è circondata da quattro colonie: Rimonim – totalmente costruita su terreni confiscati al villaggio (1 milione di km2) – Ofra, Kawkab al-Sabah e l’insediamento evacuato di Amona, dove le forze israeliane impediscono continuamente ai palestinesi di accedere ai loro terreni.

Rollin Basir – padre di tre bambini di età dai 15 giorni ai 7 anni – pensa che il suono dell’allarme dell’automobile abbia spaventato i coloni e che abbiano dovuto lasciare in fretta il luogo.

Oggi hanno bruciato la macchina, ma temo che domani possano bruciare la mia casa, con dentro i miei figli.”

 « Radici arabo-palestinesi »

Padre Johnny Abu Khalil riferisce a Middle East Eye che gli abitanti del villaggio hanno sentito il suono di un allarme, ma che è stato il fumo a condurli alla casa di Basir.

Il prete ritiene che l’attacco dei coloni costituisca un reale pericolo per la popolazione di Taybeh.

Siamo circondati dai coloni. Oggi si è trattato dell’incendio di un’auto, ma temiamo un aumento di questi attacchi e soprattutto l’incendio di alberi, di case e di chiese nel villaggio.”

Padre Abu Khalil spiega che Taybeh è in maggioranza cristiana, ma che l’attacco contro il villaggio non è solamente un attacco contro la cristianità come religione, ma contro le sue “radici arabo-palestinesi”.

Il colono israeliano non fa distinzione tra una città e un’altra, né tra un musulmano palestinese ed un cristiano palestinese…Il colono ritiene che questa terra sia sua e che noi palestinesi dobbiamo andarcene”, sottolinea.

Oggi il messaggio che mandiamo all’occupazione e ai suoi coloni è che, anche se riducono in cenere noi esseri umani, queste pietre proclameranno che questa terra è palestinese, la culla di Cristo e dei profeti.”

Restare all’erta

Padre Abu Khalil racconta che in aprile un gruppo di coloni ha attaccato alcune religiose francesi che visitavano Taybeh e le ha sequestrate per ore prima che i membri del monastero le trovassero.

Il prete afferma anche che uno dei coloni si era spogliato ed era rimasto nudo davanti alle religiose.

Le religiose erano in preda al panico…dopo questo attacco hanno deciso di lasciare Taybeh e rientrare in Francia. Ma degli abitanti hanno contattato il consolato francese e le religiose sono tornate in Palestina.”

Gli attacchi di coloni contro palestinesi e loro proprietà si sono moltiplicati negli ultimi tempi. Secondo il sito web israeliano di notizie Walla, solo in ottobre vi sono stati 36 attacchi, in particolare l’abbattimento di ulivi – che rappresentano una fonte di sussistenza per molte famiglie palestinesi -, slogan razzisti ed attacchi contro veicoli.

Issa Zayed, vicesindaco di Taybeh, dice a MEE che il villaggio ha subito aggressioni di coloni durante la prima Intifada (1987-1993), ma che quest’ultimo attacco è di pessimo auspicio.

Condanniamo e respingiamo questo attacco perpetrato dai coloni sostenuti dal governo israeliano…Esso è il risultato del continuo sostegno americano ad Israele e alla legalizzazione delle colonie in Cisgiordania.”

Quindici giorni fa il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato che Washington non considera più le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati come “contrarie” al diritto internazionale.

Issa Zayed precisa che il Comune invita gli abitanti a mantenersi vigili, soprattutto agli ingressi del villaggio.

Questo attacco non annienterà la nostra indefettibile volontà di rimanere nel nostro villaggio storico.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)