Bollando gli arabi come una ‘minaccia esistenziale’ Bibi evoca una spaventosa storia di violenza etnica

Dahlia Scheindlin

18 novembre 2019 – +972

Domenica notte Netanyahu ha convocato un incontro di emergenza del Likud, in cui ha accusato i cittadini palestinesi in Israele di sostenere il terrorismo. Noi sappiamo fin troppo bene come questo tipo di cose può andare a finire.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, nella sua accanita battaglia per impedire al suo avversario di formare un governo con l’appoggio della Lista Unita, coalizione a prevalenza araba, ha nuovamente accusato i leader del partito arabo di rappresentare una minaccia esistenziale per Israele. Domenica notte il presidente [della Lista Unita]Ayman Odeh ha risposto facendo circolare sui social una sua foto in pigiama mentre legge delle favole ai suoi tre affettuosissimi bambini. “Alla fine di una lunga giornata devo far addormentare queste minacce esistenziali!” ha scritto, contribuendo al divertimento virale dei lettori.

Anche se può essere una soddisfazione vedere come Odeh abbia fatto a pezzi Netanyahu con l’umorismo, le parole del primo ministro costituiscono in se stesse un grande pericolo.

Le deliranti diatribe anti-arabe di Netanyahu stanno accelerando in velocità e gravità. Nel 2015 aveva messo in guardia che i cittadini arabi stavano andando a votare “a frotte.” In vista delle elezioni di settembre la sua pagina Facebook dichiarava che “i politici arabi ci vogliono distruggere tutti.” (Netanyahu ha detto che si è trattato di un errore di un impiegato della campagna elettorale.)

Domenica Netanyahu ha tenuto un incontro di “emergenza” dei membri del Likud (l’emergenza non era una pioggia di razzi, ma l’eventualità di una coalizione di minoranza sostenuta dalla Lista Unita). In quell’occasione aveva tuonato che Blu e Bianco, il partito rivale, stava negoziando con i parlamentari arabi e che, ha continuato, “sostiene le organizzazioni terroristiche e vuole distruggere lo Stato.”

Non potendo trovare delle prove che la leadership della Lista Comune, formata da politici di lungo corso e attivisti della società civile, abbia il desiderio o le possibilità di distruggere Israele, ha citato invece Khamenei, l’ayatollah iraniano, che recentemente ha invocato la distruzione di Israele. Queste sono parole esecrabili, ma non riescono a trasformare l’ayatollah in un politico arabo in Israele.

Ancora più preoccupante è che fare della “minaccia esistenziale” dell’Iran una cosa sola con i cittadini arabo-palestinesi imita la retorica ideologica che sta dietro alle peggiori violenze etniche del mondo.

Un’analisi attenta delle origini di queste atrocità mostra che i responsabili avevano un’immagine distorta di una imminente distruzione che li aveva portati a commettere violenze estreme contro una collettività “altra” , giustificandole con la difesa nazionale. I leader e le élite spesso mettono insieme un reale trauma storico collettivo con una sfida politica del momento, o un’offesa, come prova di distruzione incombente.

Nei primi anni ’90, i miliziani serbi non si sono svegliati un mattino e hanno deciso di terrorizzare, stuprare e commettere un genocidio contro i loro vicini non-serbi. Secondo Stuart Kaufman, uno studioso di conflitti etnici, sebbene il collasso della Jugoslavia avesse naturalmente comportato violenze da parecchie parti, per molti anni i leader e gli intellettuali hanno sottolineato l’idea che le minoranze serbe delle ex-repubbliche della Jugoslavia si trovassero ad affrontare una “estinzione etnica”. Accademici di fama pubblicarono un memorandum, affermando che in Kosovo gli abitanti stavano cospirando per commettere un genocidio della popolazione serba locale. Il nazionalismo albanese in Kosovo stava infatti crescendo e molti, come nelle altre repubbliche, rivendicavano l’indipendenza.

L’influente documento sottolineava che i serbi non erano mai stati in un tale immediato pericolo dagli anni degli ustascia, quando il regime croato fantoccio dei nazisti aveva terrorizzato e massacrato circa mezzo milione di serbi. I serbi avevano fatto circolare voci di stupri commessi da albanesi e di un traffico croato di organi di combattenti serbi morti. Slobodan Milosevic aveva anche lui denunciato che i kosovari albanesi stavano progettando un “genocidio demografico.” Alla fine furono i serbi bosniaci ad essere condannati per il genocidio.

In Ruanda nel 1994 il regime dominato dagli hutu mobilitò la partecipazione di massa a un genocidio contro la minoranza dei tutsi che uccise circa 800.000 persone in circa 100 giorni. Il ruolo della propaganda e l’incitamento attraverso i media sono ben documentati. Ma in realtà che cosa affermava l’incitamento allo sterminio? Un rapporto di Human Rights Watch [associazione statunitense per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ha riscontrato il seguente messaggio:

I tutsi costituivano una minaccia per gli hutu che erano sempre le vittime, sia che si trattasse del potere militare dei tutsi o della loro furbizia (usare le donne per sedurre gli hutu, usare i loro soldi per comprare gli hutu) e così gli hutu avevano il diritto di difendersi.”

Il rapporto di Human Rights Watch continua: “In particolare fu l’ultima idea, cioè che gli hutu fossero in pericolo e che dovessero difendersi, ad aver avuto il successo maggiore nel mobilitare gli attacchi contro i tutsi dal 1990 fino al genocidio del 1994.”

Anche qui il pericolo imminente era attribuito alle sofferenze storiche e recenti degli hutu per mano dei tutsi. Nel vicino Burundi, gli hutu erano vissuti sotto il dominio tutsi per decenni. Quando il primo governo a guida hutu salì al potere nel 1993, il leader fu assassinato in un colpo di stato tutsi e le violenze reciproche uccisero centinaia di migliaia di persone. La distruzione si potrebbe considerare come la continuazione della storica dominazione di una monarchia a guida tutsi in Ruanda durante il colonialismo, prima di un colpo di stato nel 1959.

Mescolare dei torti veri con la ripetizione ossessiva di minacce esistenziali imminenti dovrebbe far paura a chiunque.

A suo modo le fantasie di Netanyahu sono persino più vergognose. Mancano di ogni base di un danno causato dai cittadini arabo-palestinesi in Israele, nel passato o nel presente. Questi gruppi non sono mai stati coinvolti in terrorismo organizzato e anche gli incidenti singoli sono estremamente rari. La comunità non ha tendenze secessioniste, ha partecipato al processo politico in Israele per decenni e dichiara ripetutamente il suo desiderio di una maggiore integrazione politica, civile ed economica. L’unica richiesta che sfida gli ebrei israeliani è simbolica: la conservazione della loro bistrattata identità palestinese. La principale richiesta politica, associata a quella dell’identità, è di porre fine all’occupazione militare dei territori palestinesi durata 50 anni e di riconoscere loro l’indipendenza.

Trasformare i cittadini arabo-palestinesi in una minaccia esistenziale di reale distruzione è un falso a livello di quello di una calunnia che provoca spargimento di sangue e questo è qualcosa che gli ebrei dovrebbero capire.

Dahlia Scheindlin è un’analista di fama internazionale degli orientamenti dell’opinione pubblica e una consulente strategica, specializzata in cause progressiste, in campagne politiche e sociali in oltre una dozzina di Paesi, incluse democrazie nuove/in transizione e nella ricerca su pace/conflitto in Israele, con esperienze nell’Europa orientale e nei Balcani. Lavora per un grande numero di organizzazioni locali e internazionali che si occupano dei temi del conflitto israelo-palestinese, diritti umani, processi di pace, democrazia, identità religiosa e problemi sociali interni. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche alla TAU, l’università di Tel Aviv e co-presenta il podcast The Tel Aviv Review.

(Traduzione di Mirella Alessio)




I palestinesi hanno il diritto legale alla lotta armata *

Stanley L. Cohen

20 luglio 2017 – Al Jazeera

È tempo che Israele accetti che, come popolo sotto occupazione, i palestinesi hanno il diritto di resistere – in ogni modo possibile.

*Nota redazionale: riteniamo significativo proporre ai lettori questo articolo che risale al luglio 2017 in quanto ogniqualvolta avvengono attacchi armati da parte dei palestinesi, in particolare recentemente da Gaza, i media vengono inondati da commenti aspramente critici nei confronti dei gruppi della resistenza palestinese. Indipendentemente dalla condivisione riguardo all’utilità politica di queste azioni, riteniamo sia importante ricordare, come fa l’autore di questo articolo con abbondanza di riferimenti storici, che esse sono legittimate dalle leggi internazionali che riconoscono il diritto di un popolo oppresso ad utilizzare tutti i mezzi necessari, compresa la violenza, per resistere ai propri oppressori. Ed anche che i primi ad utilizzare il terrorismo sistematico in Palestina contro inglesi e palestinesi furono i gruppi armati sionisti.

È stato da tempo stabilito che la resistenza e persino la lotta armata contro una forza di occupazione coloniale non siano solo riconosciute come legittime in base alle leggi internazionali, ma specificamente approvate.

Sulla base del diritto internazionale umanitario, le guerre di liberazione nazionale sono state espressamente riconosciute ovunque, attraverso l’adozione del primo protocollo aggiuntivo [relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, n.d.tr.] alle Convenzioni di Ginevra del 1949 come un diritto protetto e imprescindibile dei popoli sotto occupazione.

  Individuando la vitalità in sviluppo del diritto umanitario, per decenni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (AG dell’ONU) – una volta descritta come la coscienza collettiva del mondo – ha evidenziato il diritto dei popoli all’autodeterminazione, all’indipendenza e ai diritti umani.

In effetti già nel 1974 la risoluzione 3314 dell’AG dell’ONU proibiva agli Stati “qualsiasi occupazione militare, per quanto temporanea”.

Nella sua parte relativa a questo diritto, la risoluzione non solo continuava ad affermare il diritto “all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza […] dei popoli privati con la forza di quel diritto, […] in particolare dei popoli sotto regime coloniale e razzista o altre forme di dominio straniero”, ma evidenziava anche il diritto di chi si trovi sotto occupazione, di ” lottare … e di chiedere e ricevere appoggio” per quel tentativo [di liberarsi].

Il termine “lotta armata” era implicito [pur] senza una citazione precisa in quella e in molte altre risoluzioni precedenti che sostenevano il diritto dei [popoli] autoctoni di cacciare gli occupanti.

Questa imprecisione sarebbe stata corretta il 3 dicembre 1982. A quel tempo la risoluzione 37/43 dell’AG dell’ONU rimosse qualsiasi dubbio o dibattito sul legittimo diritto dei popoli sotto occupazione a resistere alle forze di occupazione con qualsiasi mezzo legittimo. La risoluzione ribadiva “la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio coloniale e straniero e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Un evidente inganno

Sebbene Israele abbia tentato, periodicamente, di reinterpretare l’intento inequivocabile di questa precisa risoluzione – e quindi di considerare l’occupazione, durata ormai mezzo secolo, di Cisgiordania e Gaza esclusa dalla sua applicazione – si tratta di uno sforzo profondamente logorato fino allo stato di evidente inganno dalle parole esatte della stessa dichiarazione. Nella parte pertinente, la sezione 21 della risoluzione condanna fermamente “le attività espansionistiche di Israele in Medio Oriente e i continui bombardamenti di civili palestinesi, che rappresentano un grave ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese”.

I sionisti europei, coloro che non hanno mai avuto esitazioni nel riscrivere la storia, molto prima dell’istituzione delle Nazioni Unite, si considerarono un popolo sotto occupazione quando emigrarono in Palestina – una terra nei confronti della quale erano cessati, in seguito a migrazioni in gran parte volontarie, tutti i legami storici che avevano avuto molto tempo prima.

In effetti, ben 50 anni prima che le Nazioni Unite parlassero del diritto alla lotta armata come strumento di liberazione autoctona, i sionisti europei hanno fatto proprio il concetto in modo illegale, dal momento in cui l’Irgun [abbreviazione di Irgun Tzvai Leumi, “Organizzazione Militare Nazionale”, è stato un gruppo paramilitare sionista, giudicato terrorista dal Regno Unito, che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina dal 1931 al 1948, n.d.tr.], il Lehi [Combattenti per la Libertà d’Israele, meglio nota come Banda Stern, fu un’altra organizzazione paramilitare sionista, n.d.tr.] e altri gruppi terroristici intrapresero un lungo periodo di dieci anni di caos mortale.

Durante questo periodo, massacrarono non solo migliaia di palestinesi autoctoni, ma presero anche di mira la polizia britannica e il personale militare che da tempo vi aveva mantenuto una presenza colonizzatrice.

Una storia di attacchi sionisti

Mentre gli israeliani si siedono a piangere la perdita di due dei loro soldati che sono stati uccisi a Gerusalemme la scorsa settimana a colpi di arma da fuoco [il 14/07/2017 due poliziotti appartenenti alla minoranza drusa israeliana vennero uccisi nel corso di un attentato sulla spianata delle moschee, n.d.tr.]- in quello che molti considerano un legittimo atto di resistenza – un viaggio nel percorso della memoria potrebbe forse ricollocare gli eventi nel loro giusto contesto storico.

Molto tempo fa, descrivendo gli inglesi come una forza di occupazione nella “loro patria”, i sionisti presero di mira la polizia e le unità militari britanniche con foga spietata in tutta la Palestina e altrove.

Il 12 aprile 1938, l’Irgun uccise due poliziotti britannici ad Haifa in un attentato dinamitardo contro un treno. Il 26 agosto 1939, due ufficiali britannici furono uccisi da una mina antiuomo dell’Irgun a Gerusalemme. Il 14 febbraio 1944, due poliziotti britannici furono uccisi a colpi di arma da fuoco mentre tentavano di arrestare delle persone per aver affisso dei manifesti ad Haifa. Il 27 settembre 1944, più di 100 membri dell’Irgun attaccarono quattro stazioni della polizia britannica, ferendo centinaia di ufficiali. Due giorni dopo un alto ufficiale di polizia britannico del dipartimento di intelligence criminale fu assassinato a Gerusalemme.

Il 1 ° novembre 1945 un altro ufficiale di polizia fu ucciso mentre cinque treni venivano attaccati con bombe. Il 27 dicembre 1945, sette ufficiali britannici persero la vita in un attentato dinamitardo al quartier generale della polizia a Gerusalemme. Tra il 9 e il 13 novembre 1946 ebrei facenti parte di un movimento clandestino lanciarono una serie di attacchi con mine e bombe nascoste all’interno di valigie in stazioni ferroviarie, treni e tram, uccidendo 11 soldati e poliziotti britannici e otto poliziotti arabi.

Altri quattro ufficiali furono uccisi in un altro attacco contro un quartier generale della polizia il 12 gennaio 1947. Nove mesi dopo, quattro poliziotti britannici furono assassinati durante una rapina in banca da parte dell’Irgun e tre giorni dopo, il 26 settembre 1947, altri 13 agenti vennero uccisi in un altro attacco terroristico contro una stazione di polizia britannica.

Questi sono solo alcuni dei molti attacchi diretti dai terroristi sionisti contro la polizia britannica che furono visti da molti ebrei in Europa come obiettivi legittimi di ciò che descrivevano come una lotta di liberazione contro una forza di occupazione.

Durante tutto questo periodo, i terroristi ebrei si impegnarono anche in innumerevoli attacchi che non risparmiarono nessuna delle infrastrutture britanniche e palestinesi. Assalirono installazioni militari e di polizia britanniche, uffici governativi e navi, spesso con bombe. Sabotarono ferrovie, ponti e installazioni petrolifere. Vennero attaccate decine di obiettivi economici, tra cui 20 treni danneggiati o deragliati e cinque stazioni ferroviarie. Vennero effettuati numerosi attacchi contro l’industria petrolifera, tra cui uno, nel marzo 1947, contro una raffineria di petrolio Shell ad Haifa che distrusse circa 16.000 tonnellate di petrolio.

I terroristi sionisti uccisero soldati britannici in tutta la Palestina, usando trappole esplosive, agguati, cecchini e esplosioni di veicoli.

Un attacco in particolare riassume il terrorismo di coloro che, all’epoca senza alcun supporto da parte del diritto internazionale, non vedevano alcun limite ai loro tentativi di “liberare” una terra in cui erano, in gran parte, immigrati solo di recente.

Nel 1947, l’Irgun rapì due sottufficiali delle truppe dell’intelligence britannica e minacciò di impiccarli se fossero state eseguite le condanne a morte nei confronti di tre dei loro membri. Quando questi tre membri dell’Irgun furono giustiziati per impiccagione, i due sergenti britannici furono impiccati per rappresaglia e i loro corpi furono lasciati in un boschetto di eucalipti con delle trappole esplosive.

Nell’annunciare la loro esecuzione, l’Irgun affermò che i due soldati britannici erano stati impiccati in seguito alla loro condanna per “attività criminali anti-ebraiche” che consistevano in: ingresso illegale nella patria ebraica e appartenenza a un’organizzazione criminale britannica – noto come esercito d’occupazione – “responsabile di tortura, omicidio, deportazione e negazione del diritto alla vita nei confronti del popolo ebraico”. I soldati furono anche accusati di possesso illegale di armi, spionaggio antiebraico in abiti civili e premeditazione di progetti ostili contro l’organizzazione clandestina.

Ben oltre i confini territoriali della Palestina, tra la fine del 1946 e il 1947 fu lanciata una prolungata campagna di terrorismo contro gli inglesi. Atti di sabotaggio furono compiuti contro vie di comunicazione militare britanniche in Germania. Il Lehi tentò anche, senza successo, di sganciare una bomba sulla Camera dei Comuni con un aereo decollato dalla Francia e, nell’ottobre del 1946, mise una bomba all’ambasciata britannica a Roma. Numerosi altri ordigni furono fatti esplodere dentro e intorno a obiettivi strategici a Londra. Circa 21 lettere esplosive furono inviate, in varie occasioni, a personaggi politici britannici di alto livello. Molte furono intercettate, mentre altre raggiunsero i loro obiettivi, ma furono scoperte prima che potessero esplodere.

Il prezzo salato dell’autodeterminazione

L’autodeterminazione è un percorso difficile e costoso per chi si trova sotto occupazione. In Palestina, indipendentemente dall’arma che scegli – la voce, la penna o una pistola – esiste un prezzo elevato da pagare per il suo utilizzo.

Oggi, “dire la verità al potere” è diventato un mantra molto popolare della resistenza nei circoli e nelle associazioni neo-progressisti. In Palestina, tuttavia, per chi è sotto occupazione e sotto l’oppressione, ciò rappresenta un percorso quasi scontato verso la prigione o la morte. Tuttavia, per generazioni di palestinesi derubati persino dell’anelito alla libertà, la storia insegna che semplicemente non c’è altra scelta.

Il silenzio è la resa. Tacere significa tradire tutti coloro che sono venuti prima e tutti quelli che ancora devono seguire.

Per coloro che non hanno mai provato il giogo assillante dell’oppressione o non l’hanno visto da vicino, è un’ immagine [che va] oltre la comprensione. L’occupazione è pesante per chi la subisce, ogni giorno in ogni modo, creando limiti alla propria esistenza e alla propria possibilità di crescita.

Le ferite continue [provocate] dai blocchi, dalle armi, dagli ordini, dalla prigione e dalla morte sono compagne di viaggio per chi si trova sotto occupazione, che si tratti di bambini, ragazzi nella primavera della vita, anziani o di chi si trovi intrappolato dai confini artificiali di barriere sulle quali non si possiede alcun controllo.

Alle famiglie dei due poliziotti drusi israeliani che hanno perso la vita mentre cercavano di controllare un luogo che non spettava a loro presidiare, porgo le mie condoglianze. Questi giovani uomini, tuttavia, non hanno perso la vita nella lotta della resistenza, ma sono stati sacrificati intenzionalmente da un’occupazione malvagia che non possiede nessuna legittimità.

Alla fine, se c’è da addolorarsi, deve essere per gli 11 milioni di persone sotto occupazione, sia in Palestina che fuori, come tanti rifugiati apolidi, privati di una voce e di opportunità significative, mentre il mondo porge delle scuse soprattutto sotto forma di una confezione regalo finanziaria contrassegnata dalla stella di David.

Non passa giorno senza i gemiti agghiaccianti di una Nazione che veglia su un bambino palestinese avvolto in un sudario, privato della vita perché l’elettricità o il transito sono diventati un privilegio perverso che tiene milioni [di persone] ostaggio dei capricci politici di pochi. Che si tratti di israeliani, di egiziani o di coloro che si ammantano della leadership politica sui palestinesi, la responsabilità dell’infanticidio a Gaza è esclusivamente loro.

“Senza lotta, non esiste progresso”

I tre giovani cugini che hanno sacrificato volontariamente la propria vita nell’attacco ai due ufficiali israeliani a Gerusalemme non lo hanno fatto come un gesto vuoto nato dalla disperazione, ma piuttosto come una propria dichiarazione di orgoglio nazionale che fa seguito ad una lunga serie di altri che hanno ben compreso che il prezzo della libertà può, a volte, significare tutto.

Per 70 anni, non è passato un giorno senza la perdita di giovani donne e uomini palestinesi che, tragicamente, hanno trovato maggiore dignità e libertà nel martirio piuttosto che in una vita passiva, obbediente, sotto il controllo di coloro che hanno osato dettare i parametri della loro vita.

Milioni di noi in tutto il mondo sognano un momento e un posto migliori per i palestinesi … liberi di spalancare le ali, di librarsi, di scoprire chi sono e cosa desiderano diventare. Fino ad allora, non piango per la perdita di coloro che interrompono il loro volo. Invece applaudo coloro che hanno il coraggio di lottare, il coraggio di vincere – con ogni mezzo necessario.

Non c’è niente di straordinario nella resistenza e nella lotta. Esse trascendono il tempo e il luogo e derivano il loro più grande significato e il loro ardore dall’inclinazione naturale, anzi, spingono tutti noi a essere liberi – a essere liberi di scegliere il ruolo della nostra vita.

In Palestina non esiste tale libertà. In Palestina, il diritto internazionale riconosce i diritti fondamentali all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza di chi si trova sotto occupazione. Ciò, in Palestina, comprende il diritto alla lotta armata, se necessario.

Molto tempo fa, il famoso abolizionista Frederick Douglass [politico, scrittore, sostenitore del diritto al voto per le donne negli Stati Uniti, nel 1882 fu il primo afro-americano ad essere candidato alla vicepresidenza negli USA, n.d.tr.], egli stesso ex schiavo, scrisse a proposito della lotta. Queste parole riecheggiano oggi non meno di allora, in Palestina, rispetto a 150 anni fa, nel cuore del sud ante-guerra degli Stati Uniti:

“Se non c’è lotta, non c’è progresso. Coloro che professano di favorire la libertà, eppure deprecano la mobilitazione, sono uomini che vogliono coltivare senza arare il terreno. Vogliono la pioggia senza tuoni e fulmini. Vogliono l’oceano senza il terribile ruggito delle sue possenti acque. Questa lotta può essere morale; o può essere fisica; o può essere sia morale che fisica; ma deve essere una lotta. Il potere non concede nulla senza che gli venga chiesto. Non lo ha mai fatto e mai lo farà.”

Stanley L Cohen è un avvocato e un attivista per i diritti umani che ha svolto un ampio lavoro in Medio Oriente e Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il giurista dell’occupazione

Etan Nechin

5 novembre 2019 – The Jacobin

Razionalizzare l’occupazione israeliana

Meir Shamgar, ex presidente della Corte Suprema israeliana, è morto lo scorso mese. Uno dei padri fondatori del sistema giudiziario di Israele, ha utilizzato sotterfugi giuridici per dare una copertura legale all’illegale occupazione della terra palestinese

In Israele la destra ha sempre inveito contro la Corte Suprema del Paese, accusandola di porre limiti all’esercito e di favorire i diritti dei palestinesi sulle pretese dei coloni. Per i più infervorati sostenitori dell’occupazione della Palestina, la Corte Suprema israeliana è colpevole di “attivismo giudiziario”. Quando il politico di “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] Moti Yogev insistette perché la Corte Suprema venisse rasa al suolo dal un trattore D9, riassunse la posizione di molti nella destra israeliana. Allo stesso tempo la Corte Suprema spesso è celebrata come un bastione del liberalismo israeliano, un fulgido esempio della democrazia del Paese in una regione non democratica. Meir Shamgar, presidente della Corte tra il 1983 e il 1995, è particolarmente rispettato per il suo ruolo chiave in tutto ciò.

Lo scorso mese, in seguito alla sua morte, il presidente Ruvi Rivlin ha descritto Shamgar come uno dei “padri fondatori del sistema giudiziario israeliano” – e in effetti lo era. Prima di prestare servizio alla Corte Suprema di Israele per 20 anni, Shamgar aveva ricoperto posizioni molto importanti come avvocato generale militare per le IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.]) e poi come procuratore generale. La sua carriera è importante anche perché condusse l’inchiesta per l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.

 

Costruire il sistema giudiziario

Shamgar, nato Meir Sternberg, proveniva da una famiglia sionista revisionista [cioè di destra, ndtr.] della libera città di Danzica [in Polonia, ndtr.] nel 1925. La città-Stato semiautonoma, creata dal trattato di Versailles [dopo la Prima Guerra Mondiale, ndtr.] e in cui operava un potere legislativo misto polacco e tedesco, precipitò nel 1939 sotto l’autorità della Germania nazista – provocando l’immigrazione dell’adolescente Shamgar nella Palestina mandataria.

Lì si unì all’Irgun, il gruppo paramilitare ebraico guidato da Menachem Begin, che condusse attacchi sia contro i funzionari britannici che contro civili palestinesi. Nel 1946 venne arrestato per attività antibritanniche e passò due anni internato in Eritrea, ma tornò in tempo per partecipare alla guerra arabo-israeliana del 1948. Studi a Gerusalemme furono seguiti da una laurea in giurisprudenza a Londra, che gli consentì di diventare avvocato generale militare nel 1961. Su insistenza di Ben Gurion, ebraicizzò il suo cognome in Shamgar.

Come avvocato generale militare Shamgar definì rapidamente un quadro giuridico per ogni futuro scenario in cui Israele si sarebbe trovato ad occupare terra straniera. L’ipotesi di lavoro era sempre stata che, benché l’occupazione non potesse essere moralmente giustificabile, potesse essere razionalizzata dal punto di vista legale. A questo fine, invece di andare contro le convenzioni giuridiche, Shamgar le accolse – e le utilizzò per i suoi obiettivi. Molto prima dell’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, i consiglieri giuridici israeliani estrassero da documenti delle leggi internazionali – dalla [convenzione dell’] Aia, dalla Convezione di Ginevra e dal diritto consuetudinario britannico –possibili precedenti legali che potessero diventare utili. Voleva che tutti gli  ambiti giuridici venissero coperti – e la possibilità di ridefinirli quando la situazione fosse mutata.

 

Un quadro complessivo eterogeneo

I lavori preparatori di Shamgar non furono inutili: nel 1967 un milione di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania finì sotto il governo militare israeliano. Da un giorno all’altro le IDF presero il controllo della regione e divennero l’arbitro di tutte le questioni giudiziarie. I palestinesi si ritrovarono a vivere sotto l’autorità di un comandante regionale israeliano e, se arrestati, le loro cause legali vennero trattate da un tribunale militare. Le IDF distribuirono volantini per spiegare i nuovi ordini appena arrivavano dallo stato maggiore.

Fu un’idea di Shamgar definire i territori palestinesi come “tenuti” invece che “occupati”, suggerendo una provvisorietà che desse a Israele i margini giuridici per operare appositamente nei territori sostenendo nel contempo che non ci sarebbero rimasti.

Dopo il 1967 Israele affrontò una serie di ostacoli giuridici riguardo ai territori. In primo luogo dovette imparare come affrontare la resistenza palestinese all’occupazione. Se i palestinesi avessero avuto il diritto di resistere, con la violenza o meno, sarebbero stati considerati nemici combattenti, e i loro prigionieri sarebbero stati prigionieri di guerra – un risultato che Shamgar voleva evitare. La soluzione venne di nuovo trovata nei precedenti delle leggi internazionali. I pubblici ministeri avrebbero sostenuto che i combattenti palestinesi non stessero resistendo, ma attaccando “in modo indiscriminato”: quindi avrebbero potuto essere definiti terroristi. Anche la resistenza disarmata avrebbe potuto essere considerata ostile. Ciò portò all’attuale modus operandi nei territori occupati: ogni azione, persino andare a lavorare, è considerata potenzialmente ostile – perché la popolazione è vista come essenzialmente ostile. Oltretutto, dopo la guerra del 1967, Shamgar, in quanto procuratore generale, prese la decisione radicale di consentire ai palestinesi di presentare appello alla Corte Suprema israeliana. Il risultato fu intrecciare il sistema della giustizia e il potere giudiziario civile israeliani con gli ingranaggi del governo militare.

Per i palestinesi un giusto processo può essere interminabile, labirintico e limitato nella sua applicazione. Se si accetta l’ipotesi di lavoro che l’obiettivo dell’intera popolazione palestinese sia di rovesciare il potere dominante, allora si può anche accettare che l’esercito necessiti della libertà d’azione per agire in un territorio ostile. Questo punto di vista avvalorava la pratica della detenzione amministrativa, che fa in modo che palestinesi possano essere detenuti con accuse inconsistenti senza processo. Inizialmente questa pratica venne applicata con qualche limitazione, ma come la Prima Intifada si inasprì e i tribunali militari vennero impegnati da migliaia di giovani detenuti palestinesi, Israele adattò la legge per togliere ogni limitazione, vale a dire che i palestinesi potevano essere trattenuti indefinitamente senza vedere un giudice. Cambiare la legge fu piuttosto semplice: a differenza della legge israeliana, che deve essere ratificata tre volte dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] e applicata dai tribunali, le corti militari devono solo inviare agli alti comandi una nota perché sia firmata dal ministero della Difesa.

La destra può accusare la Corte Suprema israeliana di aver capitolato a favore dei palestinesi. Ma per lo più essa è stata esclusivamente dalla parte dell’esercito e dello Stato. Questa è la tautologia giuridica: quando una popolazione è definita ostile dallo Stato, esso può prendere misure per sopprimere ogni forma di ostilità – ma è lo Stato che decide cosa sia da considerare ostile. In questo modo la Corte Suprema smette di essere terzo ramo del potere e viene utilizzata invece come avallo giudiziario per annullare qualunque controllo del pubblico o internazionale. Ovviamente tutto ciò è legale. O, come afferma il detto israeliano, “è kosher [consentito dalla religione, soprattutto riguardo all’alimentazione, ndtr.], ma fa schifo.”

 

Legalizzare le colonie

Oltre ai palestinesi soggetti all’occupazione, i tribunali israeliani dovevano anche prendere in considerazione come trattare la popolazione ebraica che aveva iniziato ad insediarsi nei territori dopo il 1967. Secondo la convenzione di Ginevra, il “trasferimento di popolazione” è illegale. Ma, dato che i coloni israeliani non erano obbligati a spostarsi ma lo facevano volontariamente, la Corte Suprema definì ciò come legale.

Poi c’era il problema della terra in sé. Secondo le leggi internazionali, la terra poteva essere espropriata solo per ragioni di sicurezza – per cui la Corte Suprema stabilì che le colonie ebraiche dovevano essere demolite. Ma ciò non impedì alla destra israeliana di trovare una scappatoia giuridica. Come mostra il documentario del 2011 The Law in These Parts [La legge da queste parti, documentario israeliano sul sistema giudiziario, ndtr.], gli avvocati militari andarono a scavare nel diritto ottomano per cercare una soluzione e scoprirono che un “impero” aveva il diritto di confiscare “terra non coltivata”. Ovviamente le terre palestinesi erano tutt’altro che incolte. Ma, sotto gli auspici di Shamgar e della Corte Suprema, questa classificazione venne applicata nel 1975 e le colonie vennero autorizzate.

Pertanto i coloni ricadono sotto la giurisdizione del sistema giuridico israeliano, mentre i palestinesi no. È compito dei militari proteggere i coloni, e se un palestinese attacca un colono o un soldato, lui o lei saranno trattati come terroristi: violentemente e rapidamente. Ma se un colono attacca un palestinese, il caso viene trattato in un tribunale civile israeliano. Nell’eventualità di coloni che aggrediscano soldati, se il caso arriva a processo i coloni sono trattati come delinquenti, non come terroristi.

Nonostante i loro privilegi, molti coloni vedono l’apparato legale e securitario israeliano come ostile a loro. Percepiscono la struttura formale democratico-giudiziaria israeliana come estranea e interventista. Il ministro dei Trasporti e politico di “Casa Ebraica” Bezalel Smotrich ha fatto eco a questa opinione quando ha detto che Israele dovrebbe seguire la legge della Torah [insieme di prescrizioni religiose, ndtr.].

L’avvocatura generale militare, insieme alla Corte Suprema israeliana, ha fornito una copertura all’esercito per la prassi delle uccisioni mirate e ha fatto finta di niente quando si è trattato della tortura di palestinesi sospetti.

 

La nuova normalità

Shamgar si congedò dalla Corte Suprema nel 1995. Quell’anno presiedette l’inchiesta ufficiale sull’assassinio di Yitzhak Rabin. È ironico che Yigal Amir, lo studente di diritto di destra che uccise Rabin, lo fece perché anche lui era preoccupato dello status dei territori occupati; si prese l’incarico di applicare la legge ebraica, diventando giudice ed esecutore. La commissione Shamgar affermò che l’uccisione era stata possibile per una mancanza di cooperazione tra i vari organi della sicurezza responsabili delle misure complessive di sicurezza durante gli eventi pubblici. Ma non prese in considerazione lo spostamento ideologico strutturale che era avvenuto dal 1967: i territori “tenuti” erano legati alla terra da forze politiche che approvavano la costruzione di nuove colonie, politici messianici ed esercito che, invece di difendere una popolazione, ne controllava un’altra e da un sistema giuridico che in realtà era triplice: uno per gli israeliani, uno per i palestinesi e uno per i coloni.

Quello che il sistema legale non ha affrontato è il fatto che il provvisorio era diventato permanente. Nel 2012 il rapporto Levy, stilato da una commissione speciale nominata dal governo sugli avamposti dei coloni, concluse che le colonie erano legittime e che ogni avamposto non autorizzato lo dovesse essere. Ciò ha consolidato un enorme paradosso: la commissione non riconobbe la Cisgiordania come territorio occupato né chiese allo Stato di annetterlo. Né un territorio dello Stato né un territorio occupato, non è chiaro quale base giuridica esista per regolare le attività di Israele nei territori occupati. Questa ambiguità è molto proficua per Israele, in quanto consente alle IDF di esercitare potere nei territori palestinesi mantenendo i suoi abitanti palestinesi in una zona grigia giuridica.

I funzionari giudiziari e pubblici israeliani hanno sempre inventato nuovi sistemi per giustificare l’occupazione, per adeguare i fatti all’ideologia e non viceversa. Il sistema giuridico in Israele e l’ordine militare in Palestina sono certo militanti, ma non nel senso inteso dalla destra. La Corte Suprema usa le sue apparenti credenziali progressiste sulle libertà civili israeliane e la sua conservazione dell’integrità elettorale come un modo per giustificare l’apparato oscuro che opera nel cortile di casa orientale di Israele.

Con Shamgar al comando, il sistema giudiziario israeliano è stato fondamentale nella trasformazione delle leggi israeliane per adeguarle al progetto politico e territoriale dell’occupazione. Questa è l’eredità di Meir Shamgar.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Due brevi notizie

 

Attacchi aerei israeliani contro Gaza in risposta al lancio di razzi

MEE e agenzie

2 novembre 2019 Middle East Eye

Secondo il Ministero della Sanità un uomo è stato ucciso e due sono stati feriti nelle incursioni. 

Non è stato detto se appartenessero a qualche fazione.

Una fonte di Hamas ha riferito alla Associated France Press che è stata usata la contraerea contro gli aerei durante i raid e l’esercito israeliano ha confermato il “fuoco nemico” da Gaza.

Gli attacchi sono avvenuti dopo che venerdì almeno 10 razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza  verso il sud di Israele, colpendo un’abitazione residenziale.

L’esercito israeliano ha affermato che otto razzi sono stati intercettati dal sistema “Iron Dome” di difesa anti-missile del territorio.

Nessuna fazione armata a Gaza si è dichiarata responsabile del lancio dei razzi, ma il [comando] militare israeliano sostiene che  in ultima analisi Hamas è responsabile degli attacchi.

Secondo Ha’aretz, che ha riferito di un altro razzo sparato giovedì da Gaza, questo è stato il secondo episodio di lancio di razzi.

L’aumento della tensione avviene contemporaneamente allo stallo politico in Israele.

L’ex capo di stato maggiore dell’esercito Benny Gantz è bloccato nei negoziati per formare un nuovo governo dopo che lo scorso mese Benjamin Netanyahu ha detto di non essere in grado di farlo.

Se anche Gantz non riuscirà a formare una coalizione di maggioranza, gli israeliani andranno a votare per la terza volta da aprile.

Dal 2008 Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre nella Striscia di Gaza.

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Israele arresta l’esponente palestinese di sinistra Khalida Jarrar

Al Jazeera.

L’ex deputata Jarrar è stata arrestata da decine di soldati israeliani nella sua casa di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

31ottobre 2019 Al Jazeera

Nella notte di giovedì le forze israeliane hanno arrestato l’importante esponente palestinese nella sua casa di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, .

I media locali riferiscono che Khalida Jarrar, ex membro del disciolto Consiglio Legislativo Palestinese, è stata arrestata alle 3 del mattino ora locale e portata in luogo sconosciuto.

Secondo la figlia Yara Jarrar, la casa è stata circondata da più di 70 soldati, arrivati con 12 veicoli militari.

La mamma e [mia] sorella dormivano quando sono arrivati,” ha detto Yara in un post su Twitter.

La 56enne Jarrar, che appartiene al movimento di sinistra Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (PFLP) – considerato da Israele un gruppo “terrorista”- era già stata arrestata nel 2015 e nel 2017.

L’ultimo rilascio da una prigione israeliana è avvenuto lo scorso febbraio dopo 20 mesi di “detenzione amministrativa”- un sistema di incarcerazione inbase al quale un detenuto è tenuto in arresto senza un’accusa e senza processo.

Secondo “Samidoun”, una rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, Jarrar da molto tempo si batte per la liberazione dei prigionieri palestinesi ed è stata in passato vice presidente e direttrice esecutiva del gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”.

“Samidoun” ha scritto sul suo sito: “All’interno delle prigioni dell’occupazione israeliana Jarrar ha svolto un ruolo di guida nel favorire l’educazione delle ragazze minorenni recluse, organizzando lezioni sui diritti umani e dando ripetizioni alle ragazze quando la direzione del carcere negava loro un insegnante per gli esami obbligatori alle superiori”

Attualmente ci sono sette politici palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, di cui cinque in condizione di detenzione amministrativa.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




ISRAELE. Gantz, nemico di Netanyahu non delle sue politiche

Michele Giorgio

20 settembre Nena News

Il vincitore, di misura, delle elezioni del 17 settembre, in politica estera e nei confronti di Iran e dei palestinesi non è lontano dalle posizioni del premier sconfitto.

Benyamin “Benny” Gantz in politica interna prenderà, in parte, le distanze dalla linea di Benyamin Netanyahu e promuoverà la «serenità sociale» tra ebrei laici e religiosi. Ma non farà alcuna rivoluzione nei rapporti tra gli israeliani ebrei e i cittadini di serie B, gli arabi, i palestinesi d’Israele. E in politica estera non marcherà una differenza sostanziale da quella svolta dal leader della che ha sconfitto il 17 settembre. Userà il pugno di ferro, come Netanyahu, con l’Iran e i suoi alleati – che alla Conferenza di sicurezza di Monaco dello scorso febbraio ha indicato Tehran come una delle principali sfide all’Occidente – e non rinuncerà all’abbraccio di Donald Trump. Il presidente Usa mercoledì sera ha segnalato che lui ha rapporti non solo con Netanyahu ma con tutto lo Stato di Israele. Se Netanyahu è, come sembra, avviato sul viale del tramonto, ciò non vuole dire che la fine della sua lunga era politica genererà una svolta.

Nato 60 anni fa, sposato, quattro figli, una vita trascorsa nelle forze armate, conclusa con il grado di generale e l’incarico di capo di stato maggiore, Gantz solo in apparenza è un uomo di centro. Il programma del suo partito “Resilienza” – che ha fondato lo scorso dicembre e ha poi unito ad altre formazioni dando vita a “Blu e Bianco” – si avvicina molto a quello della destra quando sul tavolo ci sono questioni come l’Iran, il mondo arabo e i territori palestinesi occupati. Gantz non rientra nel solco del sionismo religioso, che ha ispirato Netanyahu e ora domina nella società israeliana, ma non è riconducibile ideologicamente neppure al sionismo di marca laburista (tramontato da tempo). Semplicemente è un sionista laico fautore delle politiche israeliane di sicurezza e di mantenimento dell’ occupazione.

In questa campagna elettorale, e in quella per il voto del 9 aprile, l’ex capo di stato maggiore non ha fatto mai riferimento alla soluzione a “Due Stati”, Israele e Palestina. Il sito progressista, +972, sostiene che a Gantz piace lo status quo, l’occupazione, con Israele che controlla tutto il territorio della Palestina storica senza però annettere ufficialmente la Cisgiordania come vorrebbe fare Netanyahu. Gantz si era recato a fine luglio nella Valle del Giordano dichiarando che quel territorio palestinese rimarrà sotto Israele in qualsiasi futuro accordo. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, si presentò nelle comunità israeliane di confine di Gaza promettendo «azioni incisive per abbattere i leader di Hamas». In pratica una nuova guerra. D’altronde da comandante delle forze armate ha guidato due offensive contro Gaza, nel 2012 e nel 2014, che hanno provocato oltre duemila morti palestinesi, migliaia di feriti e distruzioni immense. La scorsa primavera Gantz, per recuperare voti a destra, si vantava di aver ridotto in macerie Gaza. Nena News




Bassam al-Sayeh, Faris Baroud e il lento omicidio dei prigionieri palestinesi

Ramzy Baroud

19 settembre Middle East Monitor

Bassam Al-Sayeh è solo l’ultima vittima della malasanità nelle prigioni israeliane. Al-Sayeh, palestinese di Nablus di 47 anni, è morto l’8 settembre scorso. Prima di lui, fu Faris Baroud a morire in una prigione di Nafha il 6 di febbraio.

Nel 2011, ad al-Sayeh fu diagnosticato un cancro alle ossa e al sangue, secondo quanto riportato da Samidoun, la Rete di Solidarietà dei Prigionieri Palestinesi. Pochi anni dopo è stato arrestato dai soldati israeliani dell’occupazione. Nel 2015 una corte militare israeliana lo ha condannato all’ergastolo per il presunto concorso nell’omicidio di un ufficiale israeliano in Cisgiordania.

Le organizzazioni e gli attivisti per i diritti umani che hanno seguito il caso avevano più volte segnalato quanto la vita di al-Sayeh fosse in pericolo a causa delle condizioni di vita estremamente dure nelle carceri di Ramleh e la scarsa attenzione medica dedicata ai malati di cancro. Si poteva fare ben poco per salvargli la vita.

In una dichiarazione del 9 settembre, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato Israele di essere responsabile della morte di al-Sayeh. Altri gruppi hanno evidenziato come la malasanità sia un modo usato nelle prigioni israeliane per infliggere ulteriori punizioni ai palestinesi che resistono all’occupazione israeliana  persino dopo il loro arresto e condanna.

Secondo il movimento per i diritti dei prigionieri Samidoun, “Al-Sayeh è il 221º prigioniero palestinese a perdere la vita in una prigione israeliana, dove la malasanità e gli abusi medici hanno un ruolo rilevante nella contrazione di malattie e nella morte dei prigionieri palestinesi proprio come la tortura e il maltrattamento nell’assedio”.
Il gruppo di supporto ai prigionieri Addameer, di base a Ramallah, concorda: la Corte Suprema Israeliana “ha adottato una politica di malasanità volontaria contro prigionieri e detenuti”. Nell’arco delle rivolte della Seconda Intifada tra il 2000 e il 2008, 18 prigionieri sono morti per essere stata loro negata la dovuta cura medica.

Chi non muore deve affrontare il cronicizzarsi di malattie che spesso li accompagneranno per il resto della vita. Secondo Addameer “il numero di persone malate tra i prigionieri e detenuti è salito a 1000 casi, in confronto agli 800 casi di malattia registrati nel 2013”. Duecento di questi pazienti soffrono di malattie croniche, tra cui tumori, e 85 sono disabili a vita. Faris Baroud era uno di questi malati cronici e, proprio come Bassam al-Sayeh, è morto in prigione per l’omissione delle cure.

Baroud fu arrestato il 23 marzo 1991. Una corte militare israeliana lo ha condannato a 134 anni di reclusione, accusandolo di aver ucciso un colono ebreo israeliano armato che stava prendendo parte all’occupazione di Gaza.

Alla madre di Faris, Ria, fu proibito di far visita a suo figlio nella prigione di Nafha per tutti gli ultimi 15 anni. Alla donna, ormai settantenne, fu detto che la decisione era stata presa per “questioni di sicurezza”.

Faris era il suo unico figlio: era nato nel 1968, due anni dopo l’inizio dell’occupazione militare di Gaza. Suo padre, Ahmad Mohammad Baroud, era morto quando Faris era ancora un bambino. Ria, che non si risposò mai, ha dedicato la sua vita alla crescita del figlio, con cui viveva in una piccola casa nel campo profughi di Shati’, a Gaza.

Si dice che Faris sia stato torturato e tenuto in isolamento per più di dieci anni, e che gli fossero state vietate le visite dei familiari per più di metà della sua detenzione. Prima del suo arresto soffriva già di asma, condizione che si era poi aggravata.
Anni dopo il suo il suo incarceramento, Faris sviluppò una malattia renale che peggiorò per la negligenza nelle cure e fu inasprita ulteriormente dalla sua partecipazione a vari scioperi della fame per solidarietà verso altri prigionieri.

A Faris fu negata più volte la scarcerazione, da immediatamente dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 a uno scambio di prigionieri nel 2011. Ne fu poi programmato lo scarceramento, insieme ad altri 29 detenuti, nel 2013 o 2014 nell’ambito di un accordo speciale anch’esso mandato a monte dal governo israeliano.

Dal 2002, a Ria fu proibito di far visita a suo figlio. Nonostante la sua salute peggiorasse e stesse perdendo la vista per un glaucoma, Ria è famosa per non aver mancato una sola delle veglie organizzate ogni lunedì dalle famiglie dei prigionieri palestinesi di fronte agli uffici della Croce Rossa, nella famosa Jala’ Street di Gaza.

A volte era l’unica a presentarsi, con in mano sempre la stessa fotografia incorniciata di suo figlio Faris vicino al cuore. Ria Baroud è morta il 18 maggio 2017, aveva 85 anni. Aveva passato quasi un terzo della sua vita lottando per rivedere suo figlio di nuovo libero.

Subito dopo la morte della madre, la salute di Faris si aggravò, sviluppando anche una forma di glaucoma molto aggressiva che secondo quanto riferito lo aveva portato a perdere l’80% della vista. Faris muore il 6 febbraio 2019 nella prigione di Nafha nel deserto di Naqab. Aveva 51 anni.

Questi non sono che cenni a due sole storie,nell’apparentemente infinita serie di episodi di sofferenza inflitta a migliaia di palestinesi e le loro famiglie.

I diritti dei prigionieri sono protetti da leggi internazionali, in particolar modo dagli Articoli 76 e 85 della quarta Convenzione di Ginevra. A Israele non dovrebbe essere permesso di continuare indisturbato questa mistificazione dei valori morali. I gruppi internazionali e le organizzazioni che rivendicano i diritti umani dovrebbero far sentire la propria voce per Bassam, Faris e le migliaia di detenuti palestinesi che soffrono e spesso muoiono soli nelle carceri israeliane.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Maria Monno)




Gantz criminale di guerra e colonialista

Il capo dell’opposizione afferma che l’occupazione è un bene per i palestinesi

Ali Abunimah

10 settembre 2019 – Electronic Intifada

 

Benny Gantz, capo dell’esercito israeliano durante il massacro a Gaza nel 2014 da parte di Israele, sta prendendo in prestito argomentazioni dell’apartheid sudafricano per promuovere la sua campagna elettorale.

Gantz guida la coalizione di opposizione presuntamene di centro-sinistra che spera di spodestare Benjamin Netanyahu nelle elezioni israeliane di questo mese.

Lunedì, durante un attacco elettorale contro il primo ministro israeliano, Gantz ha dichiarato che, a differenza di Netanyahu, avrebbe consentito alle deputate USA Ilhan Omar e Rashida Tlaib di visitare Israele e i territori occupati.

Gantz ha sostenuto che, se l’avessero potuto fare, avrebbero visto “con i propri occhi” che “il miglior luogo in cui essere arabo in Medio Oriente è Israele… e il secondo miglior posto in cui essere arabo in Medio Oriente è la Cisgiordania.”

L’affermazione di Gantz secondo cui l’occupazione militare e la colonizzazione israeliane sono una benedizione per i palestinesi costituisce una diretta imitazione dei governanti dell’apartheid sudafricano, che insistevano sul fatto che il loro brutale regime suprematista bianco era un bene per la popolazione di colore.

Lo scrittore Ben White ha segnalato un’intervista del “New York Times” nel 1977 con John Vorster, che all’epoca era il primo ministro del regime razzista del Sud Africa.

“Il livello di vita dei neri in Sud Africa è da due a cinque volte più alto di quello di qualunque altro Paese africano,” sostenne Vorster.

Questa affermazione era un pilastro della propaganda del Sud Africa quando, durante gli anni ’80, il movimento globale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni si rafforzava.

Non è sorprendente, in quanto i colonialisti sostengono sempre che il loro dominio violento è un regalo per il popolo che sfruttano ed opprimono.

Nelle attuali iniziative di Israele gli echi della propaganda del Sud Africa sono forti.

E come i razzisti sudafricani che cercavano di lottare contro l’isolamento del loro regime, Gantz ha dichiarato che “chiunque collabori con il BDS sta agendo contro lo Stato di Israele.”

L’ex capo dell’esercito ha anche sostenuto che il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi – è una “forma di antisemitismo”.

Nei fatti è un movimento antirazzista radicato nelle leggi internazionali e nei diritti universali.

Le affermazioni di Gantz mostrano che, nonostante i tentativi di presentarlo come un’alternativa ripulendone l’immagine, egli non rappresenta niente di diverso rispetto a Netanyahu.

 

Gantz deve affrontare un processo per crimini di guerra

Le elezioni israeliane da rifare cadono il 17 settembre.

Quello stesso giorno in Olanda ci sarà un’udienza in tribunale del processo di Ismail Ziada contro Benny Gantz.

Zaida, un cittadino palestino-olandese, ha citato in giudizio Gantz e un altro comandante israeliano per l’attacco del 20 luglio 2014 contro la casa della sua famiglia nel campo di rifugiati di al-Bureij a Gaza.

Il bombardamento israeliano uccise sette persone – la madre settantenne di Ziada, Muftia Ziada, tre fratelli, una cognata, un nipote di 12 anni e un amico che era andato a trovarli.

L’assalto contro Gaza del 2014 diretto da Gantz uccise 2.200 palestinesi, compresi 550 minori.

Ben lungi dal vergognarsi dei suoi crimini, nelle elezioni israeliane di aprile – che non sono riuscite ad esprimere un chiaro vincitore, provocando quindi queste votazioni di settembre – Gantz ha anzi messo annunci pubblicitari in cui si vantava di quanti palestinesi aveva massacrato nel 2014.

 

Il “dialogo” dell’UE con un criminale di guerra

I sanguinari precedenti e la difesa del colonialismo da parte di Gantz forniscono anche un metro di giudizio con il quale misurare il presunto sostegno dell’Unione Europea ai diritti umani.

Invece di stare dalla parte delle vittime di Gantz e della loro campagna per la giustizia, l’UE sta promuovendo il responsabile.

Proprio lo scorso mese Emanuele Giaufret, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, e i suoi colleghi europei si sono incontrati con Gantz per un’amichevole chiacchierata.

“Abbiamo intenzione di continuare il dialogo,” ha twittato Giaufret.

Ciò dimostra che non c’è un livello di razzismo e di crimini che un leader israeliano possa commettere contro i palestinesi che lo escluda dal caldo abbraccio dell’UE.

Speriamo che i giudici olandesi abbiano il senso della giustizia, della decenza e del coraggio di cui molti diplomatici e politici europei sono privi in modo così spregevole.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto ONU su crisi economica in Palestina

L’Onu segnala il gravissimo collasso dell’economia palestinese

11 settembre 2019 – Middle East Monitor

 

Ieri la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha avvertito riguardo al gravissimo collasso dell’economia palestinese a causa delle misure distruttive dell’occupazione israeliana.

In un rapporto l’UNCTAD afferma che le prestazioni dell’economia palestinese e le condizioni umanitarie hanno raggiunto nel 2018 e all’inizio del 2019 il livello minimo da sempre.  Aggiunge: “Nel territorio palestinese occupato, nel 2018 il livello di crisi dovuto al tasso di disoccupazione ha continuato ad aumentare, arrivando al 31%: al 52% a Gaza e al 18% in Cisgiordania.”

Afferma anche: “Il salario reale e la produttività del lavoro sono diminuiti. Nel 2017 il salario reale e la produttività per singolo lavoratore sono stati rispettivamente inferiori del 7% e del 9% rispetto ai livelli del 1995.”

Il reddito pro capite si è ridotto, la disoccupazione di massa è aumentata, la povertà si è accentuata e sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania è aumentato il degrado ambientale causato dall’occupazione.

In conseguenza delle misure dell’occupazione israeliana, “l’economia di Gaza ha subito una contrazione del 7% ed è aumentata la povertà, gli investimenti sono praticamente scomparsi, scendendo al 3% del PIL, di cui l’88% è stato destinato alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte durante varie pesanti operazioni militari negli ultimi 10 anni.”

Secondo la UNCTAD il rallentamento dell’economia in Cisgiordania “si spiega con la diminuzione dell’appoggio da parte dei donatori, la contrazione del settore pubblico e il deterioramento generale della sicurezza, il che ha scoraggiato le attività del settore privato.”

“La partecipazione complessiva della produzione nel valore aggiunto totale si è ridotta dal 20% all’11% del PIL tra il 1994 e il 2018, mentre la partecipazione dell’agricoltura e della pesca è diminuita da più del 12% a meno del 3%.”

“Al popolo palestinese viene negato il diritto di sfruttare le risorse di petrolio e gas naturale e pertanto lo si priva di migliaia di milioni di dollari di entrate”, aggiunge.

La UNCTAD ha ancora aggiunto: “La comunità internazionale deve aiutare il popolo palestinese a garantire il proprio diritto al petrolio e al gas nel territorio palestinese occupato e stabilire la sua legittima partecipazione alle risorse naturali, che sono proprietà collettiva di diversi Stati vicini nella regione.”

Nel contempo l’organizzazione sostiene: “Nel marzo 2019 il governo di Israele ha iniziato a ridurre di 11,5 milioni di dollari al mese le entrate di liquidità palestinese [si riferisce alle tasse che Israele riscuote e che dovrebbe poi girare all’ANP, ndtr.] … Questo impatto fiscale è aggravato dalla diminuzione dell’appoggio dei donatori.”

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Issawiya, la cittadina palestinese che resiste alle punizioni collettive di Israele

Hanadi Qawasmi – ISSAWIYA, Gerusalemme est occupata

Lunedì 12 agosto 2019 – Middle East Eye

L’ultima campagna israeliana contro questo quartiere della conurbazione di Gerusalemme est, una delle più lunghe e violente della sua storia recente

Nel quartiere palestinese di Issawiya le auto della polizia israeliana non sono tollerate.

Nel comune ogni traccia della presenza poliziesca degenera rapidamente in scontri, con giovani palestinesi che lanciano pietre e molotov contro i veicoli, mentre le forze israeliane fanno uso di proiettili veri, di pallottole d’acciaio ricoperte di gomma e di lacrimogeni.

Questo quartiere, che conta più di 15.000 abitanti, è ben noto ai palestinesi come un faro della resistenza civile all’occupazione israeliana.

Issawiya è una delle zone più ribelli di Gerusalemme,” dichiara a Middle East Eye Fadi Elayan, un abitante trentatreenne della cittadina.

La polizia obbedisce alla logica in base alla quale se Issawiya viene sottomessa e il suo rifiuto dell’occupazione è ridotto al silenzio, il resto di Gerusalemme sarà domato.”

La portata della determinazione della polizia israeliana nel demonizzare questa zona periferica è stata svelata lo scorso martedì, quando si è saputo che, durante una serie televisiva di reality show sulla polizia, alcuni agenti hanno messo un fucile M-16 nella casa di un abitante di Issawiya e in seguito hanno sostenuto di averlo scoperto lì.

Durante gli ultimi due mesi Issawiya è stata bersaglio di una violenta e dirompente repressione israeliana lanciata poco dopo l’Aid al-Fitr [festa musulmana per la fine del Ramadan, ndtr.] con il pretesto di garantirvi la sicurezza.

Da allora la cittadina è bersaglio di una politica di punizione collettiva: più di 250 arresti politici, centinaia di vessazioni perpetrate dalle forze israeliane ai danni di veicoli e negozi, decine di abitanti feriti dagli spari israeliani e il funerale per un giovane palestinese.

Il 27 giugno, durante un’incursione notturna, la polizia israeliana ha ucciso Mohammad Samir Obaid, provocando viva indignazione tra gli abitanti della cittadina. Due testimoni oculari hanno dichiarato a MEE che nel momento in cui è stato ucciso questo palestinese di 20 anni non rappresentava alcuna minaccia.

Il giorno prima le immagini di un soldato ricoperto di pittura rossa lanciata dai giovani della cittadina erano state ampiamente condivise dai palestinesi sulle reti sociali.

Repressione concertata

Tale repressione non è un fatto raro per la cittadina: di fatto non passa un anno senza azioni simili da parte delle forze israeliane.

Ma secondo gli abitanti l’ultima campagna è una delle più lunghe e violente della storia recente del quartiere – dura consecutivamente da più di 50 giorni ed è stata messa in atto da diversi organi militari e civili israeliani.

Le incursioni delle forze israeliane sembrano una sfilata organizzata: quattro grossi SUV arrivano nel quartiere, insieme a guardie di frontiera e a volte a un reparto a piedi, gli agenti lanciano delle bombe assordanti nelle strade per disperdere i giovani e seminare la paura, poi procedono a un’operazione di controllo e perquisizione umiliante e aggressiva.

La polizia di frontiera, le forze speciali, la polizia stradale, così come le autorità municipali e fiscali israeliane si danno da fare durante tutta la giornata, concentrandosi sui giovani nelle strade e sugli abitanti che ritornano a casa dopo il lavoro.

Come il resto di Gerusalemme est, Issawiya è passata sotto occupazione israeliana nel 1967 ed oggi è circondata da ogni parte dalle colonie israeliane e dalle loro infrastrutture, che in base al diritto internazionale sono tutte illegali.

L’autostrada 1, che si trova al limite est del quartiere, è stata costruita per collegare le colonie della Cisgiordania occupata a Gerusalemme e Tel Aviv.

A sud Issawiya è a cavallo del campus dell’Università Ebraica. A nord e a ovest si trovano le colonie della Collina Francese e di Tsameret HaBira. 

La cittadina è sottoposta a restrizioni, come blocchi stradali e perquisizioni arbitrarie, che sconvolgono la vita quotidiana.

Punire la cittadina e i suoi abitanti”

Quando procedono a degli arresti, le autorità israeliane non esitano a ricorrere alla forza, aggredendo i giovani, sfondando le porte delle case prima di perquisirle e procedendo a perquisizioni violente.

Fonti locali hanno dichiarato a Middle East Eye che negli ultimi due mesi, soprattutto durante retate notturne, sono stati arrestati dalla polizia non meno di 250 giovani maschi.

La maggioranza di loro è stata arrestata per brevi periodi e poi rilasciata, spesso su cauzione, e posta agli arresti domiciliari per periodi variabili, a volte fino a una settimana.

Secondo l’avvocato Mohammad Mahmoud, che li rappresenta davanti ai tribunali israeliani, almeno cinque di essi sono ancora detenuti.

L’avvocato Mahmoud ha dichiarato a MEE che questi giovani devono rispondere di diverse accuse, come partecipazione a manifestazioni e a scontri con le forze israeliane, compreso il lancio di pietre e di molotov, in particolare dopo l’annuncio della morte di Obaid.

Sempre secondo il loro avvocato, le cauzioni di quelli che sono stati liberati superano i 60.000 shekel (più di 15.000 €).

Mohammad Abu al-Hummos, un attivista politico di Issawiya, ritiene che le misure israeliane siano assolutamente arbitrarie e costituiscano una forma di punizione collettiva. Rappresentano il “desiderio della polizia dell’occupazione israeliana di procedere a una qualunque perquisizione o detenzione, poco importa il motivo, semplicemente per punire la cittadina e le sue famiglie,” ha dichiarato a MEE.

Un padre convocato dalla polizia per un bambino

Il 30 luglio la storia di Mohammad Elayyan, 4 anni, è diventata virale sulle reti sociali quando lui e suo padre sono stati convocati dalla polizia israeliana per un interrogatorio.

Il nonno del bambino, Nayef Elayan, ha dichiarato in un’intervista che Mohammad giocava per la strada con altri bambini quando un veicolo della polizia israeliana ha fatto irruzione nella zona.

Più tardi, durante la giornata, le forze israeliane si sono recate al domicilio di Mohammad alla ricerca del bambino, sostenendo che aveva lanciato delle pietre contro di loro. Quando si sono resi conto che aveva 4 anni e che in base alla legge non poteva essere arrestato, hanno consegnato a suo padre, Rabiaa, un mandato di comparizione per l’indomani mattina, chiedendogli di portare con sé Mohammad.

Per appoggiare il padre e il figlio un gruppo di abitanti di Issawiya li ha accompagnati al commissariato di polizia di via Salah al-Din, la principale arteria commerciale di Gerusalemme est.

A causa della crescente pressione popolare, le autorità israeliane non hanno incontrato il bambino, ma hanno interrogato il padre.

Quest’ultimo ha dichiarato che dei poliziotti l’avevano minacciato che non avrebbe mai più visto suo figlio se quest’ultimo avesse lanciato loro delle pietre.

I bambini non costituiscono una minaccia,” ha dichiarato Fadi Elayyan, uno dei parenti di Mohammed.

Quello che avviene è un tentativo di terrorizzare le famiglie di Issawiya – dai giovani agli anziani.” 

Perquisita la casa di una persona malata

Un giorno dopo il caso di Mohammad, la polizia israeliana ha convocato un altro abitante palestinese di Issawiya per azioni di cui era accusato suo figlio di 6 anni.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, WAFA, Firas Obaid ha ricevuto un mandato di comparizione nel commissariato della polizia israeliana per essere interrogato riguardo a suo figlio Qais, accusato di aver tentato di lanciare pietre contro la polizia israeliana che stava di pattuglia nella cittadina.

In un altro episodio molto pubblicizzato tre settimane fa, le forze israeliane hanno cercato di arrestare Iyad Attiyah, un giovane uomo di 24 anni colpito dalla sindrome di Williams, un disturbo genetico raro che può causare problemi fisici e cognitivi. Sua madre, Laila Attiyah, ha dichiarato a MEE che la polizia aveva effettuato un’irruzione a casa loro dopo mezzanotte alla ricerca di suo figlio.

Iyad è stato convocato dai servizi di intelligence, un’ingiunzione che è stata annullata solo quando i servizi sociali sono intervenuti e hanno presentato documenti che provano la sua malattia.

Motivi ridicoli” 

Nel quadro della recente repressione, la polizia stradale israeliana è stata messa di guardia ad ognuno degli ingressi di Issawiya.

Gli agenti fermano arbitrariamente i veicoli per effettuare dei lunghi controlli della vettura, della patente, dell’assicurazione e della carta d’identità, prima di infliggere multe dai 250 ai 1000 shekel (da 65 a 255 euro), rendendo così più pesante il peso economico a scapito degli abitanti.

Secondo Mohammad Abu al-Hummos, durante improvvisi controlli sono state revocate decine di libretti di circolazione a causa di presunte infrazioni al codice della strada per i “motivi più ridicoli”.

In una situazione normale nei quartieri non palestinesi ragioni del genere non comporterebbero dei reati o l’annullamento di un libretto di circolazione,” sostiene. “Ci sono dei veicoli che hanno semplicemente superato di un mese il periodo di immatricolazione, cosa che non è illegale, ma ciononostante i loro proprietari ricevono delle multe.”

Giovedì scorso la polizia ha fermato un autobus che trasportava bambini dagli 8 ai 12 anni in viaggio per una gita ricreativa.

L’autista è stato accusato di aver commesso un’infrazione, il suo libretto di circolazione è stato revocato e cinque giovani che accompagnavano i bambini come guide sono stati arrestati.

Neppure i negozi sono stati risparmiati. Le squadre israeliane del Comune e della finanza hanno effettuato parecchie perquisizioni nei negozi, soprattutto sulla strada principale, ed hanno controllato le autorizzazioni, le attrezzature ed i pagamenti delle imposte.

Come reazione, i commercianti hanno cercato di evitare di ricevere troppe multe del fisco chiudendo i propri negozi e aprendoli solo dopo la partenza della polizia.

Di conseguenza l’attività commerciale della cittadina è stata notevolmente rallentata.

Messaggio di resistenza

Interrogate sulle ragioni della repressione israeliana, le famiglie di Issawiya hanno sottolineato la posizione contro l’occupazione adottata da molto tempo dal quartiere.

La cittadina è una delle più note a Gerusalemme per le sue reazioni alle aggressioni delle forze israeliane, e le azioni dei suoi cittadini non si limitano a respingere le misure prese da Israele in nome della sicurezza.

Le famiglie di Issawiya rifiutano anche la presenza delle istituzioni “civili” israeliane, come un centro comunitario finanziato dal governo nella cittadina.

I giovani di Issawiya, per inviare a Israele un messaggio di resistenza, hanno più volte incendiato il centro comunitario, in particolare l’ultima volta dopo l’assassinio di Obaid.

(traduzione di Amedeo Rossi)