Sabra e Shatila: una lezione di vasta portata

Ramzy Baroud

12 settembre 2022 – Middle East Monitor

Il quarantesimo anniversario del massacro di Sabra e Shatila cade il 16 settembre. Circa 3.000 profughi palestinesi furono uccisi dalle milizie falangiste libanesi che agivano sotto il comando dell’esercito israeliano.

Sono passati quattro decenni, eppure i sopravvissuti dell’eccidio o i parenti delle vittime non hanno ottenuto giustizia. Da allora molti sono morti e altri invecchiano, con le cicatrici di ferite fisiche e psicologiche, sperando che, forse, durante il corso della vita, vedranno i carnefici dietro le sbarre.

In ogni caso molti dei comandanti israeliani e falangisti che ordinarono l’invasione del Libano e orchestrarono o eseguirono gli efferati massacri nei due campi di profughi palestinesi nel 1982 sono già morti. Ariel Sharon che, un anno dopo, fu accusato per la sua “responsabilità indiretta” nel macabro omicidio di massa e stupri dalla Commissione ufficiale israeliana Kahan, in seguito fece carriera e divenne il primo ministro di Israele nel 2001. Morì nel 2014.

Anche prima della strage a Sabra e Shatila, il nome di Sharon era sempre stato sinonimo di eccidi e distruzioni su larga scala. Nel 1953 fu la cosiddetta “Operazione Shoshana” nel villaggio di Qibya, nella Cisgiordania palestinese, [quando a capo dell’Unità 101 fece saltare 45 abitazioni uccidendo 69 persone, ndt.] che guadagnò a Sharon la sua infamante reputazione. Se in seguito all’occupazione israeliana di Gaza nel 1967 il generale israeliano divenne noto come “il bulldozer”, dopo Sabra e Shatila diventò “il macellaio”.

Anche il primo ministro israeliano dell’epoca, Menachem Begin, è morto. Non mostrò mai rimorso per l’uccisione di oltre 17.000 libanesi, palestinesi e siriani durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982. La sua reazione d’indifferenza verso i delitti nei campi profughi nei quartieri occidentali di Beirut incarna l’atteggiamento israeliano verso tutte le uccisioni di massa e tutti i massacri compiuti contro i palestinesi negli ultimi 75 anni: “I goyim uccidono i goyim,” [gentili, non ebrei, ndt.] disse “e danno la colpa agli ebrei.”

Testimoni che arrivarono a Sabra e Shatila dopo i giorni del massacro descrivono una realtà che richiede una profonda riflessione, non solo fra palestinesi, arabi e specialmente israeliani, ma da parte dell’intera umanità.

La giornalista americana Janet Lee Stevens, scomparsa nel 1983, descrisse ciò a cui aveva assistito: “Ho visto donne morte nelle loro case con le gonne sollevate fino alla cinta e le gambe spalancate, decine di ragazzi a cui avevano sparato dopo averli messi in fila davanti al muro di un vicoletto, bambini con le gole tagliate, una donna incinta con l’addome martoriato, gli occhi spalancati, la faccia annerita in un silenzioso urlo d’orrore, innumerevoli bimbi e neonati accoltellati o squartati buttati su mucchi di immondizia.”

La dottoressa Swee Chai Ang era appena arrivata in Libano come chirurga volontaria, assegnata alla Società della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa nei Paesi musulmani, ndt.] nell’ospedale di Gaza a Sabra e Shatila. Il suo libro, From Beirut to Jerusalem: A Woman Surgeon with the Palestinians [Da Beirut a Gerusalemme: una chirurga tra i palestinesi] ,resta una delle letture più critiche sull’argomento.

In un recente articolo la dottoressa Swee ha scritto che alla pubblicazione delle fotografie dei “cumuli di cadaveri nelle stradine del campo”, era seguito uno sdegno internazionale, ma di breve durata: “Le famiglie delle vittime e i sopravvissuti furono rapidamente lasciati soli a tirare avanti con le proprie vite e rivivere il ricordo di quella doppia tragedia del massacro e delle precedenti dieci settimane di bombardamenti intensivi da terra, aria e mare e il blocco di Beirut durante l’invasione.”

Le perdite libanesi e palestinesi nella guerra israeliana furono devastanti in termini di numeri. Comunque la guerra cambiò per sempre anche il Libano e, in seguito all’esilio forzato di migliaia di palestinesi, oltre a tutti i leader dell’OLP, le comunità palestinesi nel Paese rimasero politicamente vulnerabili, socialmente svantaggiate ed economicamente isolate.

La storia di Sabra e Shatila non è stata solo un capitolo nero di un’era passata, ma un’ininterrotta crisi morale che continua a definire le relazioni di Israele con i palestinesi, mettendo in luce la trappola demografica e politica in cui vivono numerose comunità palestinesi in Medio Oriente e accentuando l’ipocrisia della comunità internazionale, dominata dall’Occidente che sembra preoccuparsi solo di alcuni tipi di vittime, ma non di altri.

Nel caso dei palestinesi le vittime sono spesso ritratte dai governi e dai media occidentali come aggressori. Anche durante la spaventosa guerra israeliana contro il Libano 40 anni fa alcuni leader occidentali ripetevano l’abusato mantra che “Israele ha il diritto di difendersi.” È questo incrollabile sostegno a Israele che ha reso l’occupazione israeliana, l’apartheid e l’assedio di Cisgiordania e Gaza politicamente possibili e finanziariamente sostenibili, anzi redditizi.

Se non fosse per il supporto militare, finanziario e politico americano e occidentale Israele sarebbe in grado di invadere e massacrare a piacimento? La risposta è un netto “no”. A coloro che mettono in dubbio questa conclusione basterebbe solo considerare il tentativo, nel 2002, dei sopravvissuti dei massacri dei campi profughi libanesi di considerare responsabile Ariel Sharon. Hanno portato la loro causa in Belgio, sfruttando una legge belga che permetteva [di avviare] un’azione penale contro sospettati di crimini di guerra internazionali. Dopo varie contrattazioni, ritardi e intensa pressione da parte del governo USA, il tribunale belga archiviò del tutto il caso. Alla fine Bruxelles cambiò le proprie leggi per garantire che queste crisi diplomatiche con Washington e Tel Aviv non si ripetessero.

Comunque per i palestinesi il caso non sarà mai chiuso. Kifah Sobhi Afifi’, nel suo saggio “Avenging Sabra and Shatila” [Vendicare Sabra e Shatila], ha descritto l’attacco congiunto falangista-israeliano contro il suo campo profughi quando aveva solo 12 anni.

“Quindi siamo scappati, cercando di stare il più vicino possibile ai muri del campo,” ha scritto. “È stato in quel momento che ho visto le montagne di cadaveri tutto intorno a noi. Bambini, donne e uomini, mutilati o che gemevano dal dolore mentre spiravano. Ovunque volavano le pallottole. Intorno a me la gente cadeva, abbattuta. Ho visto un padre che con il corpo cercava di proteggere i propri figli. Tutti furono comunque uccisi.”

Kifah ha perso parecchi familiari. Anni dopo si unì a un gruppo della resistenza palestinese e, dopo un raid sul confine libanese-israeliano, fu arrestata e torturata in Israele.

I massacri israeliani intendono porre termine alla resistenza palestinese ma senza volerlo la alimentano. Mentre Israele continua ad agire impunemente, anche i palestinesi continuano a resistere. Questa non è solo la lezione di Sabra e Shatila, ma anche la più ampia lezione su vasta scala dell’occupazione israeliana della Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)