Aumentano i casi di violenza domestica contro le donne palestinesi

Farah Najjar

20 aprile 2020 – Al Jazeera

Secondo le attiviste, dall’inizio del lockdown da coronavirus almeno cinque donne sono state uccise dai loro aguzzini

A colpi di pentole e padelle e sventolando striscioni fatti in casa, decine di palestinesi hanno espresso la loro solidarietà alle donne che subiscono varie forme di violenza domestica durante il blocco imposto dalla pandemia di coronavirus.

L’iniziativa di lunedì, che ha visto sia donne che uomini affacciarsi alle finestre e ai balconi nei Territori palestinesi occupati e nella Palestina storica, mirava a far luce sulla condizione delle donne chiuse in casa con i loro persecutori.

Secondo un calcolo effettuato da Tal’at, il movimento politico femminista indipendente che ha organizzato la campagna, undici palestinesi sono state uccise a causa della violenza domestica dall’inizio dell’anno, cinque delle quali sono morte dall’implementazione del blocco agli inizi di marzo. Di queste cinque, quattro sono decedute in seguito a ferite da armi da fuoco. 

Soheir Asaad, attivista di Tal’at, ha precisato che, mentre a molte la parola “quarantena” fa pensare allo stare al sicuro in casa, per altre vuol dire “inferno”.

“Significa vivere con qualcuno che potrebbe toglierti la vita”, ha riferito Assad ad Al Jazeera da Haifa, descrivendo la realtà in cui si trovano alcune donne durante il blocco.

Assiwar, una ONG di sostegno alle donne, sostiene che il numero di chiamate ricevute nelle ultime settimane è aumentato del 30%, oltre alla valanga di messaggi arrivati sulle sue piattaforme social. Altri gruppi riportano aumenti simili e la PWWSD, l’Associazione delle donne lavoratrici palestinesi per lo sviluppo, [ong fondata nel 1981 per fornire alle donne palestinesi strumenti per emanciparsi, ndtr.] riferisce che, fra il 22 marzo e il 15 aprile, la sua helpline di sostegno ha ricevuto 924 chiamate.

Lamia Naamneh, a capo di Assiwar e difenditrice dei diritti delle donne da oltre 20 anni, ha detto che la maggior parte delle richieste arrivavano da donne che avevano ricevuto minacce di morte.

“Appena ieri una chiamata ci ha messo in contatto con una donna che poteva comunicare da casa solo con una chat di Messenger,” ha riferito lunedì ad Al Jazeera.

“Ci ha detto che era stata minacciata e picchiata e noi abbiamo mandato la polizia a trasferirla in un domicilio protetto,” ha detto.

Naamneh ha poi aggiunto che, in seguito alle misure di lockdown, c’è stato anche un incremento dei casi di violenza sessuale e domestica contro i bambini.

C’è inoltre grande preoccupazione perché si teme che molti casi non siano denunciati.

“La paura è l’ostacolo maggiore per le donne vittime di violenza… Paura di essere ostracizzate, escluse, abbandonate, di non essere brave mamme o figlie,” commenta Amany Khalifa, un’assistente sociale che ha, anche lei, partecipato alla manifestazione di lunedì.

La situazione diventa ancora più difficile quando le autorità non lavorano per proteggere le donne, ha comunicato ad Al Jazeera da Gerusalemme Est occupata.

“Non possiamo chiedere a un’istituzione di per sé violenta di cambiare la realità delle donne palestinesi.”

È normale che non tutti i casi siano denunciati in certe zone della Cisgiordania, come nell’Area C, che è sotto il totale controllo militare israeliano. Questo perché è difficile per la polizia raggiungere le case, secondo Futna Khalifa, coordinatrice della PWWSD, che fa anche notare che i checkpoint ostacolano i movimenti dei palestinesi.

“Molte famiglie palestinesi vivono in piccoli appartamenti in condomini e gli spazi limitati possono far aumentare le occasioni di attriti e liti fra marito e moglie,” dice Khalifa.

“Questo è particolarmente vero per quelle donne che già avevano subito violenze prima del blocco. Quella che magari era una violenza psicologica di questi tempi può trasformarsi in forme di abusi fisici.”

Intervenire nella sfera pubblica’

Nel mondo molte donne sperimentano realtà simili, ma per le palestinesi la violenza è particolarmente complessa e sistematica, precisa Tal’at’s Asaad. Le palestinesi vivono in una condizione di “frammentazione” e devono già far fronte alle numerose conseguenze dell’occupazione israeliana, aggiunge.

“La realtà vissuta dalle donne palestinesi è unica,” fa notare Assad.

Tal’at, che può essere tradotto con “insorgere”, si è formata nel settembre scorso dopo l’assassinio della ventunenne Israa Gharib nella Cisgiordania occupata. Si ripromette di creare un contesto in cui si parli della violenza contro le donne palestinesi nel quadro della “liberazione politica e nazionale della Palestina”.

“Noi interpretiamo la violenza come un’ingiustizia sociale, economica e politica contro le donne, non solo come violenza domestica,” afferma Assad. “Questi aspetti hanno influenzato il modo in cui noi viviamo la violenza e la nostra capacità di resistere e persino di parlarne”. 

Accanto alle rigide misure dovute alla pandemia, la situazione è aggravata dalla pressione dell’occupazione israeliana, dall’oppressione economica e dall’apatia politica, dicono le attiviste.

“Questo è il motivo per cui abbiamo voluto creare uno spazio nel nostro movimento per le donne palestinesi”, ha specificato Assad a proposito dell’iniziativa di lunedì. “Se non possiamo scendere in strada… … staremo tutte nelle nostre case, ma non ci faremo zittire”.

Khalifa è d’accordo. È molto importante che nella sfera pubblica sia presente una voce critica, perché la vita non può continuare mentre esiste questa enorme presenza della violenza contro le nostre donne”. 

Ha poi aggiunto: “Noi dobbiamo renderci conto che la violenza coloniale e quella patriarcale sono connesse.”

La casa non è un posto sicuro’

In Israele ci sono solo due case rifugio destinate alle donne palestinesi, il che comporta una costante mancanza di spazi per accogliere nuove arrivate.

A complicare ulteriormente la situazione, di questi tempi le ONG come Assiwar devono per prima cosa garantire che le nuove ospiti non siano portatrici del coronavirus. Spesso a queste donne è richiesto di restare in albergo per 14 giorni a loro spese, un lusso che molte non possono permettersi.

“Abbiamo la fortuna che i sostenitori del nostro lavoro, in parecchie occasioni hanno accettato di ospitarle”. Naamneh ha inoltre aggiunto che alcune, quando non sono ammesse nelle case sicure, “finiscono in strada.”

Ultimamente molti palestinesi che lavorano in Israele nel settore dei servizi nelle ultime settimane hanno perso il loro lavoro, il che ha peggiorato la già disperata situazione economica.

Dato che sono confinati in casa, molti tendono a sfogare la propria frustrazione sulle donne, vulnerabili e rimaste senza i rifugi durante il blocco, dice Khalifa.

La violenza spesso è scatenata dalla frustrazione che si trasforma in abuso,” dice. “Ecco perché le case, per molte donne, non sono un posto sicuro.”

Il fatto che la polizia israeliana non presti attenzione alle comunità palestinesi non fa che peggiorare le cose. Quando l’occupazione non dà la priorità alla nostra sicurezza, è facile uccidere quando non si vive in un mondo sicuro,” conclude Naamneh.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Come Israele è stato assolto per le violazioni dei diritti delle donne palestinesi

Yara Hawari

8 marzo 2019, Al Jazeera

Dagli accordi di Oslo sono stati fatti sistematici tentativi di de-politicizzare l’attivismo per i diritti delle donne in Palestina

Benché la Giornata Internazionale della Donna abbia le proprie radici nei movimenti di base rivoluzionari e anti-capitalisti delle donne, nel Sud del mondo la sua celebrazione è appannaggio di settori dell’ONU e delle Ong. L’occasione è spesso sfruttata per rafforzare certe narrazioni di sviluppo dei diritti delle donne e per raccogliere fondi per i progetti.

In Palestina quest’anno le agenzie ONU, varie organizzazioni internazionali e Ong locali hanno lanciato una campagna durata una settimana chiamata “I miei diritti, il nostro potere”, intesa a “sensibilizzare sui diritti umani fondamentali delle donne” e in particolare sulla violenza domestica. Si è concentrata su cinque aree di interesse: il diritto ad una vita senza violenza, il diritto ad avere giustizia, il diritto a chiedere aiuto, il diritto a pari opportunità e il diritto alla libertà di scelta.

Tuttavia nel messaggio della campagna gli organizzatori hanno fatto una palese omissione: non hanno menzionato l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza come il principale fattore che contribuisce alle violazioni dei diritti commesse contro le donne palestinesi. Le parole “occupazione” o “Israele” non si trovano da nessuna parte nel comunicato stampa e nei materiali della campagna.

Quindi, dovremmo credere che le donne palestinesi siano in grado di ottenere giustizia e una vita libera dalla violenza nel contesto di un continuo progetto israeliano di pulizia etnica e di cancellazione di una cultura?

Chiaramente questa omissione non è un errore o una svista, ma riflette piuttosto una tendenza evidente nel discorso della comunità internazionale di aiuti e donatori che parla di “problemi” e “barriere” nel campo dei diritti delle donne come se tutto ciò avvenisse in un vuoto politico.

In Palestina questa tendenza si è acuita dopo gli accordi di pace di Oslo, che sono serviti da catalizzatore della de-politicizzazione della Palestina. Venticinque anni fa Oslo introdusse una nuova cornice per la “pace” e la “costruzione dello Stato”, che non solo ha danneggiato il progetto di liberazione dei palestinesi, ma ha anche innescato una fondamentale trasformazione della società civile palestinese.

In base a questa nuova cornice, l’aiuto internazionale è stato convogliato in Palestina e utilizzato per de-politicizzare sistematicamente la società civile, rendendola dipendente da finanziamenti esterni e obbligandola a seguire l’agenda dei donatori stranieri.

Mentre questo processo di “ong-izzazione” ha smobilitato molti gruppi all’interno della società palestinese, le donne sono risultate particolarmente colpite. Anche le tendenze patriarcali all’interno delle istituzioni palestinesi hanno contribuito al processo di esclusione delle donne dalla sfera pubblica, compresa quella politica.

La de-politicizzazione delle donne è particolarmente evidente nell’uso del lessico successivo a Oslo sui diritti delle donne in Palestina. Le agenzie ONU e altre organizzazioni internazionali hanno intenzionalmente attribuito una definizione limitata a molti dei concetti riguardanti i diritti umani e l’attivismo. Un esempio è il termine “empowerment” [emancipazione, autoaffermazione, ndt.], che in apparenza sembra rivoluzionario, ma nel contesto dei progetti guidati dalle Ong e nel dibattito pubblico è quasi sempre limitato alla sfera socio-economica.

In pratica, il settore delle Ong non parla mai di emancipazione politica delle donne palestinesi, che potrebbe rafforzare la loro capacità di resistere alla violenza di genere e colonialista israeliana.

Dalla sua fondazione nel 1948 il regime israeliano ha costantemente e sistematicamente utilizzato l’oppressione di genere contro le donne palestinesi, in particolare contro quelle attive in politica.

La sua strategia include maltrattamenti, minacce di violenza e incarcerazione – quest’ultima è il modo più efficace di punire la politicizzazione.

Le donne palestinesi che sfidano attivamente l’occupazione israeliana e rifiutano di essere cooptate dal sistema politico ufficiale palestinese creato agli accordi di Oslo, come la deputata Khalida Jarrar [membro del parlamento dell’ANP e del gruppo della resistenza marxista FPLP, ndt.], che è stata in carcere per 20 mesi senza processo, e la poetessa Dareen Tartour, condannata a cinque mesi di prigione per aver scritto una poesia, sono presto diventate bersagli delle forze di sicurezza israeliane.

Gli interrogatori da parte di soldati o forze di sicurezza israeliani spesso includono molestie sessuali o minacce di violenza sessuale per fare pressione sulle donne e ragazze affinché firmino confessioni o diano informazioni.

Lo scorso anno un video filtrato clandestinamente ha mostrato l’adolescente palestinese Ahed Tamimi, arrestata per aver preso a schiaffi un soldato israeliano, sottoposta a maltrattamenti durante un interrogatorio.

Sfortunatamente le violazioni dei diritti delle donne palestinesi sono state accettate come una cosa della vita e quelli che dovrebbero garantire che questi diritti vengano rispettati sono diventati complici proprio delle loro violazioni.

Mentre le donne palestinesi dovrebbero essere messe nelle condizioni di combattere il patriarcato interno, soprattutto nella sfera privata, è indubitabile che la violenza di genere è intrinsecamente legata al regime israeliano che controlla la maggior parte degli aspetti della vita palestinese.

La comprensione del ruolo distruttivo che il colonialismo di insediamento israeliano gioca nelle vite delle donne palestinesi non assolve comunque la società palestinese nel suo complesso per il suo ruolo nell’oppressione delle donne.

L’incapacità a riconoscere come le strutture del potere colonialista e patriarcale si sovrappongano e siano al contempo complici nella persecuzione di donne e uomini palestinesi ha notevolmente limitato il progresso dei diritti delle donne in Palestina. In questo contesto faremmo bene a ricordarci che il femminismo radicale è stato fondato da donne di colore che hanno imposto una comprensione articolata e ricca di sfumature dell’oppressione femminile che è insita nel colonialismo, nelle strutture della gerarchia razziale, nella classe e nel capitalismo. È solo con questa consapevolezza in mente che possiamo sperare di smantellare l’oppressione delle donne in Palestina e nel resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)