Insegnare Edward Said a Gaza

Haidar Eid

27 settembre 2019 Mondoweiss

Questa settimana cade l’anniversario della morte di Eward Said. Sono tentato dall’idea di scrivere della sua vita di intellettuale all’opposizione, figura organica del dissenso, come avrebbe detto Antonio Gramsci. In questi tempi di crisi, non solo in Palestina, ma a livello globale, è importante ricordare Said come lui avrebbe voluto che lo ricordassimo, uno “fuori posto”. [Sempre nel posto sbagliato Feltrinelli 1999]

Personalmente, ho comunicato con lui per email solo due volte, per invitarlo in Sud Africa quando studiavo e lavoravo là, una volta per un evento organizzato dai gruppi di solidarietà e poi in occasione della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza svoltasi a Durban nel 2001, per chiedergli se avrebbe partecipato. Purtroppo, mi rispose che si stava sottoponendo a una terapia contro la leucemia.

In quel periodo, durante una conferenza, avevo avuto una discussione con un simpatico accademico sudafricano bianco sull’analogia fra l’apartheid sionista e la Palestina e la lotta contro l’apartheid in Sud Africa. Il dibattito proseguì e si arrivò a citare gli straordinari successi dei sudafricani, dai 4 premi Nobel al premio internazionale Man Booker …ecc. Lui non aveva la minima idea di Ghassan Kanafani, Fadwa Touqan, Toufiq Zayyad, Samih El-Qasim, Mouin Bseiso, per citare solo alcuni dei giganti palestinesi. Poi ha deciso di lanciare una bomba: “Noi abbiamo Nelson Mandela, e voi chi avete?” E io, senza un minimo di esitazione, ho ribattuto: Edward Said! Fine della discussione.

A febbraio di quest’anno, mi sono offerto volontario per lavorare con la nostra università a Gaza per tenere quella che è stata probabilmente la prima conferenza in memoria di Edward Said in Palestina; la sala era stracolma di accademici, personalità della cultura e studenti che ascoltavano l’intervento, appassionato e ben articolato, di uno degli studenti di Said, il Dr Samah Idriss, direttore di Al-Adab, rivista libanese molto prestigiosa.

Quello che io, come palestinese e “altro orientale” ho capito grazie a Said è insuperabile: la complicità della cultura nell’imperialismo europeo, inclusa la narrazione sionista; ‘la lettura contrappuntistica’ vista come ‘contro-narrativa’; l’interrelazione fra ‘affiliazione’ e ‘cosmopolitismo’, il ‘criticismo secolare’ quale strategia di interferenza intellettuale. Una cosa che faccio nella mia classe, dove capita che i miei studenti siano palestinesi, è il ribaltamento del ruolo dell’estetica nel colonialismo come sua caratteristica più saliente. Nelle nostre discussioni analizziamo la dialettica di conoscenza e potere che compare nel suo lavoro seminale Orientalismo, per confutare la ‘purezza’ e il ‘disinteresse’ degli studi orientalisti. La nostra conclusione è che non c’è un ambito ‘innocente’ del discorso europeo sull’Oriente. La differenza fra Oriente e Occidente è chiarita in questo magnifico passo tratto da Orientalismo: 

Dopo un’impresa come quella di Napoleone, in Occidente il corpo di conoscenze sull’Oriente si modernizzò … c’era ovunque fra gli orientalisti l’ambizione di descrivere le loro scoperte, esperienze e intuizioni con una terminologia adeguatamente moderna, per portare le idee sull’Oriente in stretto contatto con le realtà moderne.

In uno dei corsi che tengo, studiamo dei testi che trattano le stereotipate posizioni europee, condizionate da un’opposizione binaria per cui ‘l’Occidente’ è caratterizzato da idee di illuminismo, progresso, ragione e ‘civiltà’, mentre ‘l’Oriente’ incarna la classica inversione negativa di queste caratteristiche. Questo in base alla sua tesi secondo cui “tutte le rappresentazioni sono in qualche modo fuorvianti …”

I testi che studiamo nelle mie classi vanno dal romanzo estremamente razzista di V.S. Naipaul Sull’ansa del fiume [A Bend in the River] a quello critico di Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante [The Reluctant Fundamentalist], ai racconti africani anti-coloniali di Njabulu Ndebele, Ousmane Sembene e Noureddin Farah, alla “letteratura della resistenza” di Ghassan Kanafani: Uomini sotto il sole, Ritorno ad Haifa, [Men in the Sun, Returning to Haifa, All That Is Left to You]La terra delle arance tristi e La morte nel letto numero 12 [Land of Sad Oranges, Death of Bed 12]. La scelta di questi testi deriva dall’enfasi posta da Said sull’esistenza di una resistenza all’Orientalismo non solo dall’esterno, ma anche all’interno dell’orientalismo stesso. Le nostre sono letture “contrappuntistiche” che rivelano quello che lui stesso chiamava “la grande cultura di resistenza emersa in risposta all’imperialismo.”

Da qui l’importanza dei suoi ripetuti riferimenti all’ “agency individuale” come componente sostanziale del suo lavoro critico. È qui che il ruolo dell’intellettuale come figura di opposizione diventa colui che trasgredisce la linea ufficiale del potere, come sostiene in Representations of the Intellectual.  L’intellettuale nello svolgere il suo ruolo ha un vantaggio, e non può interpretarlo senza avere la percezione di essere qualcuno il cui ruolo è sollevare pubblicamente domande imbarazzanti, combattere, non creare, l’ortodossia e i dogmi, una figura che non può essere facilmente cooptata da governi o corporazioni, la cui raison d’être è nel rappresentare tutti quei popoli e quelle battaglie che sono regolarmente dimenticate o nascoste sotto il tappeto .

Questo è il motivo per cui in aggiunta a “critica” lui usa costantemente “di opposizione”. E questo è il motivo per cui abbiamo deciso di portare in classe i lavori letterari di Ghassan Kanfani. Comunque, insegnare le opere di Naipaul si deve al fatto post-coloniale secondo cui il progetto imperialista europeo nel mondo non occidentale è stato consolidato dalla cultura europea alta con la collusione di raffinati intellettuali che razionalizzavano e nascondevano l’uso del potere morale per raggiungere quella che Said chiama una “pacificazione ideologica”. Nel suo Cultura e imperialismo [Culture and Imperialism] sostiene eloquentemente, alla Fanon, [Frantz Fanon è stato un grande intellettuale, critico del colonialismo] che questi intellettuali avevano tradito le loro proprie idee quando si erano convinti che esistesse una gerarchia fra i popoli, cosa che fa nascere serie domande ideologiche sull’uso del termine “post-colonialità”, per certi versi una continuazione della sottomissione coloniale.

Come lui, e Vico prima di lui, noi crediamo fermamente che la cultura umana, dato che è stata creata dal genere umano, possa essere positivamente modellata con gli sforzi delle persone. Ecco perché, ispirati dalle sue idee, abbiamo cominciato la campagna di BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per “rispondere” al sionismo, al neo-colonialismo, per sollevare morali in merito alla Palestina, rivelare ingiustizie e, cosa più importante di tutte, dire la verità al potere.

Sono tempi duri per noi palestinesi, con la negazione dei nostri diritti fondamentali, le elezioni israeliane in cui la competizione è solo fra partiti di destra, un “accordo del secolo” con il quale ci viene chiesto di firmare la nostra estinzione…ecc. Cosa avrebbe detto, scritto e fatto Edward Said?

(traduzione di Mirella Alessio)




Il New York Times cerca di mettere a tacere la vicenda di Ahed Tamimi

James North

23 dicembre 2017,Mondoweiss

Oggi il New York Times ha pubblicato un articolo sul modo molto diverso in cui israeliani e palestinesi considerano l’episodio degli schiaffi che ha visto coinvolti la sedicenne Ahed Tamimi e un soldato israeliano.

Il titolo è “Atti di resistenza e di repressione in Cisgiordania che sfuggono ad una facile definizione”, ed è stato scritto da David Halbfinger.

L’articolo fa di tutto per minimizzare il caso, in cui una coraggiosa ragazza di sedici anni, il cui cugino era stato da poco colpito, si ribella alla disumanità dell’occupazione. No, il senso dell’articolo è fare in modo che i sostenitori di Israele che potrebbero aver sentito parlare della vicenda scuotano la testa sulla “doppia narrazione”, per tornare ai propri affari.

Ecco il piano di insabbiamento del Times:

1.Fare in modo che nell’edizione a stampa non compaia nessuna delle impressionanti foto divenute virali della coraggiosa resistenza di Ahed Tamimi.

2.Non dire da nessuna parte che gli israeliani sono occupanti e che gli insediamenti (le colonie) sono illegali in base alle leggi internazionali.

3. Infilarci astutamente il seguente paragrafo: “L’apparente incoraggiamento della famiglia alle rischiose sfide della ragazzina ai soldati offende alcuni palestinesi e manda in bestia molti israeliani.”

4.Citare di sfuggita il fatto che l’illegale insediamento/colonia di Halamish ha preso il controllo dell’accesso del villaggio di Nabi Salh alla sua sorgente e non fare nessun tentativo di dare conto di chi abbia ragione. Trattare invece la questione come se fosse un “da una parte… ma dall’altra…”

5. Nella prima frase, far sembrare che il soldato israeliano sia la vittima: “Una ragazzina, con una kefiah sulla giacca di jeans, urlando in arabo, colpisce ripetutamente, schiaffeggia e prende a calci un ufficiale dell’esercito israeliano pesantemente armato, che l’affronta impassibile, incassando qualche colpo, schivandone altri, ma senza mai reagire.” (Di sicuro vi concentrate sulla kefiah e sugli “urli in arabo”: perle di perfetto orientalismo).

6. Far in modo che il colono Yossi Klein Halevi [presentato nell’articolo del NYT come uno scrittore e intervistato dal giornalista, ndt.] ribadisca il concetto che l’israeliano è la vittima: “La mia prima reazione è stata che sono fiero dei soldati, ma ero anche incerto: questo potrebbe incitare altre aggressioni, anche più gravi?”

7. Aggiungere un altro odioso paragrafo: “…la scena di una giovane donna trascinata via potrebbe aver fornito ai palestinesi l’evidente colpaccio propagandistico che gli era stato negato all’inizio dell’incidente.”

8. Mettere solo nel tredicesimo paragrafo l’informazione che ore prima dello scontro un soldato israeliano aveva sparato in faccia al cugino di Ahed Tamimi. Ignorare il nome del cugino, Mohammad, e la gravità delle ferite. No, per saperlo devi andare su Al Jazeera.

9 Citare 6 israeliani ebrei e solo 4 palestinesi. Ma soprattutto non citare nessun membro della coraggiosa famiglia Tamimi, nonostante siano stati menzionati nel fondamentale articolo di Ben Ehrenreich apparso sul “New York Times Magazine” [supplemento domenicale del NYT, ndt.] a proposito di Nabi Saleh. E nonostante il fatto che l’episodio degli schiaffi [al militare] sia avvenuto quando il soldato aveva violato la loro proprietà.

P.S. Louis Allday, un dottorando alla School of Oriental and African Studies [Scuola di Studi Orientali ed Africani, ndt.] dell’università di Londra, che sta digitalizzando documenti coloniali, aggiunge [citazioni da un tweet, ndt.]: 23 dicembre: Questo non è neppure un commento di opinione, questo è un reportage del responsabile della redazione di Gerusalemme del New York Times, David M. Halbfinger.

Lo strenuo tentativo di Halbfinger di far sì che qualcosa di molto semplice ed ovvio risulti complicato (elogiando efficacemente la “moderazione” israeliana) è un chiaro esempio di come i mezzi di comunicazione in generale parlino della Palestina, soprattutto il NYT.

(Una correzione: il post originale diceva: “La maggior parte di persone legge ancora il Times su carta.” In realtà il Times ha 2,5 milioni di abbonati alla versione digitale, contro 1 milione di abbonati alla versione cartacea).

(traduzione di Amedeo Rossi)