Incubo a Sde Teiman: la storia mai raccontata di Ibrahim Salem

Yousef M. Aljamal

20 agosto 2024 – Mondoweiss

Ibrahim Salem è stato arrestato dalle forze israeliane a Gaza e trattenuto per 8 mesi, di cui 52 giorni nell’ormai famigerato centro di tortura di Sde Teiman. Salem racconta le torture che ha subito, tra cui abusi fisici, fame e scosse elettriche.

Le forze israeliane hanno arrestato Ibrahim Salem, 35 anni, nel dicembre 2023 presso l’ospedale Kamal Edwan di Jabalia, nella Striscia di Gaza. Era lì con i suoi figli, che si trovavano in terapia intensiva dopo che un attacco aereo israeliano aveva preso di mira la sua casa di famiglia, uccidendo alcuni dei suoi fratelli, nipoti e pronipoti. Dopo il suo arresto è stato spogliato e tenuto nudo per due giorni in una fossa sotterranea in un luogo sconosciuto e poi trasferito nella prigione del Negev. Dopo essersi lamentato con i suoi carcerieri sul motivo per cui era stato arrestato, è stato trasferito al centro di detenzione di Sde Teiman, dove per 52 giorni ha vissuto “un incubo” fatto tra l’altro di torture, scosse elettriche, percosse, umiliazioni e stupri.

La Cnn ha pubblicato una sua foto diventata virale, in cui compare in piedi con le mani sulla testa come punizione, il che è accaduto dopo aver discusso con un soldato israeliano sul perché avesse lasciato che un uomo anziano si urinasse addosso invece di permettergli di usare il bagno.

Quella che segue è un’intervista esclusiva condotta con Ibrahim Salem l’11 agosto 2024 da Yousef Aljamal, che lavora per il Palestine Activism Program dell’American Friends Service Committee [società religiosa di quaccheri che si batte per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt].

Grazie per aver accettato questa intervista. Per favore, si presenti e descriva come è stato arrestato.

Mi chiamo Ibrahim Atef Salem, sono nato nel campo profughi di Jabalia nel 1989. Sono stato arrestato l’11 dicembre presso l’ospedale Kamal Adwan. Ho scelto di non evacuare verso il sud [dopo l’ottobre 2023]. Due giorni prima del mio arresto, la mia casa è stata bombardata in pieno tra le 7:30 e le 8 del mattino mentre le mie sorelle e i miei figli dormivano. Una delle mie sorelle, Ahlam, è stata uccisa e i miei figli sono rimasti feriti. Quando sono stato in grado di cercare i miei figli, li ho trovati in condizioni terribili. Mio figlio Waseem era ferito ed era in coma a causa di una commozione cerebrale. Mia figlia Nana aveva molte ferite, tra cui una frattura completa del cranio. Naturalmente, anche lei era in coma. Mia figlia Fatima, mia moglie e un’altra sorella erano rimaste ferite, ero con loro in ospedale. Dopo sono riuscito a seppellire mia sorella e i nostri parenti nel cortile dell’ospedale.

Il giorno dopo l’esercito israeliano è venuto all’ospedale e ha ordinato a tutti gli uomini di scendere al piano di sotto. Loro sono scesi, ma io no. Dopo due, due ore e mezza, i soldati sono saliti. Mi hanno chiesto cosa stessi facendo. Ho raccontato loro la mia storia e ho mostrato il referto medico in mio possesso. Prima che l’esercito ordinasse agli uomini di scendere, il medico aveva scritto un referto sulle condizioni dei miei figli, che attestava che non era loro permesso di muoversi e che avevano bisogno di cure. Il soldato ha detto: “Non muoverti”, e ha chiamato un altro soldato. Quando ha letto il referto, ha detto: “Prendetelo”. Mi hanno preso, non so perché; mi hanno preso, e questo è tutto. Dopo di che, siamo scesi. Ho camminato per un po’ con altri uomini, e un soldato ci ha detto: “Fermatevi, toglietevi i vestiti e metteteli a terra”. E’ stato l’inizio della persecuzione, l’inizio dell’umiliazione psicologica che mi tormenta [ancora oggi]..

Ci hanno fatti spogliare e ci hanno portato in un posto sconosciuto, dove ci hanno lasciato nudi per due giorni. Di mattina ci hanno portato al campo di prigionia, che faceva parte di una caserma militare. Restammo lì al freddo e sotto la pioggia, completamente nudi.

Come venivano eseguite le torture in prigione, quanto duravano e quante ore le era concesso di dormire?

Non potevamo dormire. Ad esempio, nel campo di detenzione di Sde Teiman ci lasciavano dormire a mezzanotte e ci davano coperte inutili che non riscaldavano i nostri corpi. Erano sporche e piene di insetti. Alle 4 del mattino, e a volte prima a seconda dell’umore dei soldati, venivamo svegliati da picchiettii, rumori, urla e saltellii sulle lamiere, che ci strappavano al sonno facendoci sobbalzare. Chi si svegliava tardi veniva punito.

In che modo vi punivano?

C’erano diversi tipi di tortura. Essere in prigione di per sé è una tortura perché ti costringono a inginocchiarti dalle 4 del mattino fino a mezzanotte. Questa è tortura. Se ti siedi sul sedere o sul fianco, ti tirano fuori immediatamente e ti tengono sospeso. Devi stare in ginocchio. Tenere qualcuno in ginocchio per 20 ore è una tortura.

C’era anche la tortura psicologica, con cui i soldati maledicevano e umiliavano me, mia madre e mia sorella. Ci facevano maledire le nostre sorelle, ci facevano maledire le nostre madri, ci facevano maledire noi stessi e le nostre mogli. Una volta, mentre ero sotto interrogatorio, l’ufficiale mi ha detto: “Ibrahim, mi dispiace, ma ho delle brutte notizie da darti”. Gli ho risposto: “Dimmi”. Mi ha detto che mio figlio Waseem era morto. Che Dio abbia pietà di lui [piangendo].

Una volta, durante la tortura e l’interrogatorio, un soldato mi ha chiesto con atteggiamento molto ostile dove fossero i miei figli e dove mi avessero arrestato. Gli dissi che ero stato portato via da Kamal Adwan. Mi ha domandato cosa stessi facendo lì e gli ho risposto che stavo seppellendo mia sorella. Poi mi ha chiesto dove avevo seppellito mia sorella e io risposi che era a Kamal Adwan. Voleva sapere il luogo esatto, così gli mostrai dove l’avevo sepolta. Allora mi ha mostrato una foto di una ruspa che trasportava i cadaveri. E’venuto fuori che le ruspe avevano scavato l’intera area e portato via i corpi.

Mi ha chiesto: “Quanti corpi c’erano?” Sei, ho risposto. Poi mi ha mostrato una foto in cui c’erano tre corpi sulla lama della ruspa e tre a terra. Ho indicato i corpi sulla ruspa e ho detto: “Quei tre sono mia sorella e i suoi due figli. Li ho seppelliti io e li riconosco”. Ho domandato: “Cosa volete da questi corpi? Perché li avete presi?” Ho pianto a lungo. Poi ha detto: “Voi siete dei bastardi e dei bugiardi. Come puoi piangere su un cadavere mentre quando ti ho detto che tuo figlio era morto, non hai reagito?” Gli ho risposto: “Questo cadavere ha una sua santità e sacralità per noi, il che significa che è proibito anche solo toccarlo”.

Quanto spazio avevi per muoverti in prigione?

A Sde Teiman non c’è spazio. Non mi era nemmeno permesso di andare in bagno; le guardie continuavano a tergiversare quando glielo chiedevo. Nel Negev c’è solo una pausa e potevo muovermi solo durante quel lasso di tempo. Uscivo alle 13:30 per la pausa. Normalmente, nelle prigioni [dei centri di detenzione israeliani], ci sono tre pause: una al mattino, una al pomeriggio e una alla sera.

Ci concedevano una pausa di un’ora alle 13:30, il momento più caldo e peggiore della giornata, e non ci permettevano di stare lontani dal sole anche se non avevamo l’energia per camminare. Se non camminavamo, venivamo puniti. Dovevamo camminare per tutto il campo di detenzione, circa un dunam (1.000 metri quadrati), con tende sparse ovunque. Abbiamo finito per camminare in un’area di circa 200 metri.

In che modo le guardie carcerarie trattavano i prigionieri palestinesi?

Era orribile. Nella prigione del Negev, durante la nostra pausa di un’ora, se le guardie vedevano due persone andare in bagno o fare qualsiasi cosa mentre loro si trovavano nella torre di guardia, urinavano in una bottiglia e ce la rovesciavano addosso. Ci fermavano e ce la rovesciavano addosso. Ci dicevano di sollevare la testa e di guardarli, e nel momento in cui li guardavamo, ci rovesciavano addosso l’urina e ci insultavano. Se qualcuno li insultava o semplicemente chiedeva perché lo stessero facendo ci punivano ordinandoci di rimanere in piedi per più di due o tre ore, a seconda di quanto fossimo fortunati.

Com’era la qualità del cibo che vi veniva dato?

Non c’era quasi cibo. Non ne vedevamo quasi mai. Alcuni prigionieri riuscivano a prendere del cibo dal carceriere. Impedivamo ai prigionieri che avevano del cibo di avvicinarsi a noi perché spesso era disgustoso. A volte il cibo arrivava con mozziconi di sigaretta dentro. Le ciotole in cui veniva servito il cibo sembravano non essere state lavate da mesi. A un certo punto, abbiamo chiesto di lavarle noi stessi, ma i soldati si sono rifiutati e si sono scagliati contro di noi per questo.

Come comunicava con la famiglia? Come aveva le loro notizie?

Non avevo contatti con la mia famiglia e non sapevo nulla di loro [mentre ero in prigione]. Quando sono stato rilasciato e sono sceso dall’autobus a Khan Younis, ho chiesto: “Dove siamo?” Mi hanno risposto: “Sei al confine tra Khan Younis e Deir al-Balah, nella zona di Khan Younis”. Ho detto: “Sono del nord; non ci sto a far niente qui. Perché mi avete portato a Khan Younis?” Ho chiesto se potevo andare a nord e il soldato ha detto: “No, c’è un posto di blocco lungo la strada; non puoi andarci”.

Gli ho detto che non volevo scendere dall’autobus lì. Come avrei potuto vedere i miei figli? Volevo vedere i miei figli e la mia casa. Allora il soldato accanto a me mi ha dato un pugno sull’orecchio e ha detto: “Scendi qui, non sono affari miei”. Appena sceso dall’autobus, ho chiamato la mia famiglia e mia moglie. Ho chiesto prima dei bambini. Mia moglie mi ha detto che Waseem era uscito dal coma il mese prima, il che significava che era rimasto in coma per oltre sei mesi. Ho ringraziato Dio e gli ho chiesto come stava. Ha detto: “Grazie a Dio, sta bene, ma ha bisogno di cure e di un intervento chirurgico. Nana sta bene, Fatima sta bene, grazie a Dio, ma anche loro hanno bisogno di un intervento chirurgico”.

Le ho detto: “passami uno dei miei fratelli con cui parlare, chiunque si trovi nelle vicinanze”. Poi ho chiesto a mio padre: “Papà, voglio chiederti una cosa”. Ha detto di sì e gli ho chiesto dei corpi dei miei fratelli, Ahlam e Muhammad. Ha detto: “Figlio mio, i soldati israeliani li hanno presi da Kamal Adwan”. Mi sono ricordato di quando il carceriere mi aveva mostrato le foto e l’incubo è diventato realtà. Per me era un incubo; ne avevo davvero paura.

Hai avuto modo di conoscere in prigione qualcuno e di apprendere le sue vicende?

Certo, ho avuto modo di conoscere alcuni prigionieri. Abbiamo parlato mentre eravamo nel Negev, dove vivevamo insieme e conversavamo. Nella caserma di Sde Teiman ho fatto delle conoscenze ma eravamo bendati, quindi non potevamo vederci.

Ognuno ha la sua storia. La mia foto diventata virale, in cui venivo torturato, costretto a stare in piedi per sei ore con le mani sulla testa solo perché avevo protestato contro un carceriere che ha costretto un anziano palestinese a farsi la pipì addosso. La scena catturata nella foto non era nulla in confronto alle altre punizioni che abbiamo subito. Ovviamente c’è indignazione per questo – le persone dovrebbero essere indignate – ma ci sono cose più gravi che sono successe. Ad esempio, gli insulti che abbiamo sopportato, ci hanno privato della nostra dignità! Stare seduti in ginocchio per 20 ore, non è forse una punizione più grande? Le scosse elettriche che abbiamo sopportato, il freddo che ci ha quasi reso inabili.

Sono stato interrogato forse 10 o 12 volte, mi venivano poste le stesse domande e venivano ripetute ogni volta le stesse cose. Ogni volta che andavo all’interrogatorio i soldati israeliani mi facevano spogliare e poi rivestire. Quando entri nella stanza, devi toglierti i vestiti e quando torni nella stanza, devi toglierli di nuovo. Non è un insulto e una vergogna?

C’erano soldatesse che ci colpivano sulle parti sensibili del corpo, e altri prigionieri si rifiutavano di parlarne, forse per imbarazzo. Una volta, un tizio si è seduto accanto a me e si è aperto. Gli ho chiesto: “Cosa ti è successo?” Lui ha risposto: “Dovresti chiedere cosa non mi è successo! Mi è successo di tutto; mi hanno fatto di tutto”. Questo mi è bastato per capire cosa aveva passato.

Cosa ha causato la debolezza fisica nel tuo corpo?

Mancanza di cibo, torture e percosse: c’erano molte torture. Ho le costole rotte, i denti rotti. Cosa pensi che abbiamo mangiato? Non ci portavano nemmeno abbastanza cibo. Al Negev il cibo che arrivava veniva distribuito tra 150 persone. Giuro su Dio che la porzione destinata a 150 persone non sarebbe stata sufficiente per sole cinque persone. Ma abbiamo dovuto dividerla tra di noi.

Abbiamo saputo che in prigione sei stato portato nel reparto clinico. Perché?

Un giorno mi si sono rotte le costole a causa delle percosse e delle torture. Anche dopo avermi rotto le costole, le guardie mi colpivano volutamente lì. Inoltre prima di essere arrestato avevo subito un’operazione al rene e la ferita era visibile. Quando mi spogliavo, vedevano la ferita e mi colpivano lì apposta. Un giorno mi hanno colpito molto forte con un bastone: è stato atroce. Ero esausto, molto stanco; sono rimasto così per due o tre giorni, incapace di alzarmi o di fare qualsiasi cosa, e urinavo sangue. Il sergente ha detto a una guardia che ero in condizioni talmente pessime che se fossi rimasto lì, sarei potuto morire o sarebbe potuto succedermi qualcosa di terribile.

Dopo circa tre giorni hanno accettato di portarmi in clinica. Al mio arrivo, il medico mi ha detto che avevo bisogno di un intervento chirurgico e che avrebbero eseguito una procedura endoscopica per valutare le mie condizioni. Mi hanno fatto la procedura endoscopica, o almeno così la chiamavano. Non lo so nemmeno per certo perché persino il medico mi picchiava e mi umiliava. Quando ho fatto delle domande al medico, lui non ha risposto.

Ho lasciato il reparto due giorni dopo e sono stato portato dentro per l’interrogatorio. Mi chiedevo: “Cosa ho fatto? Sono un civile, un barbiere. Qual è la mia colpa? Per favore, spiegatemelo così posso capire. Perché tutte queste torture, umiliazioni e percosse? Perché sono stato imprigionato per così tanto tempo? Qual è la mia accusa?” Alla fine, il giudice non è riuscito a trovare alcuna accusa contro di me. Tutti gli altri con me sono stati accusati di essere “combattenti illegali”, ma non mi è mai stato detto quale fosse la mia accusa.

Ibrahim Salem ora vive in una tenda a Khan Younis. Soffre di un grave disturbo post-traumatico da stress (PTSD) ed evita di stare vicino alle recinzioni. Il suo corpo è smagrito. Ha vissuto un incubo che è stato fotografato e fatto trapelare, lasciando i suoi familiari sopravvissuti a svegliarsi un giorno con una foto di lui che veniva torturato a Sde Teiman. Ibrahim vuole saperne di più sulle sue condizioni di salute e sapere quale intervento gli hanno eseguito i dottori israeliani. Il sogno di Ibrahim è di potersi riunire ai suoi figli nel nord di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)