Sale la tensione in Cisgiordania a causa di una campagna di arresti lanciata dalle forze di occupazione israeliane

Redazione di Palestine Chronicle

28 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Middle East Monitor ha riferito che lunedì notte hanno avuto luogo scontri tra le forze di occupazione israeliane e i palestinesi mentre le truppe effettuavano alcuni arresti in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

Scontri hanno avuto luogo anche a Jenin, dove le forze israeliane hanno arrestato palestinesi accusati di prendere parte ad azioni di resistenza popolare contro le forze di occupazione e i coloni ebrei illegali.

Le incursioni sono state concentrate nei governatorati di Hebron (Al-Khalil), Nablus, Jenin e Betlemme. Sono state fatte irruzioni in decine di case e beni personali sono stati confiscati. Alcuni abitanti sono stati interrogati per molte ore.

Due dei palestinesi arrestati erano gli ex-prigionieri Ammar Jawabreh e Wael Al-Badawi. Le loro case nel campo di Al-Aroub a nord di Hebron sono state prese d’assalto dalle forze di occupazione israeliane.

Le truppe israeliane hanno anche arrestato Ismail Al-Hawamdeh di Al-Samou’, a sud di Hebron, dopo aver fatto incursione nella sua casa e confiscato i suoi beni.

Quando le forze di occupazione hanno preso d’assalto un’altra casa ad Al-Aroub, hanno arrestato un giovane mentre altri hanno tirato pietre ai veicoli blindati usati dalle truppe.

Scontri sono scoppiati anche tra un gruppo di palestinesi e le forze di occupazione al posto di controllo di Salem, ad ovest di Jenin. Non è stata riferita la presenza di vittime.

Nel governatorato di Gerusalemme, le forze di occupazione hanno fatto un’incursione nella casa di famiglia del ragazzo palestinese Muhammad Al-Zaliani nel campo di Shuafat. Esse hanno preso le misure della casa in previsione di una successiva demolizione.

Secondo le autorità israeliane, il ragazzo ha provato ad effettuare un accoltellamento al posto di controllo di Shuafat alcuni mesi fa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Gas algerino contro ideologia di destra: l’Italia cambierà la sua posizione su Gerusalemme?

Romana Rubeo e Ramzy Baroud

21 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Il 9 marzo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato Tel Aviv per andare a Roma, è stato portato all’aeroporto Ben Gurion in elicottero perché manifestanti antigovernativi avevano bloccato tutte le strade di accesso.

La visita di Netanyahu non è stata accolta con molto entusiasmo neppure in Italia. Nel centro di Roma è stato organizzato un sit-in di attivisti filo-palestinesi con lo slogan “Non sei il benvenuto”. Anche una traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di tradurre il suo discorso nella sinagoga di Roma previsto per il 9 marzo.

Persino la presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, benché come prevedibile abbia ripetuto il suo amore e sostegno a Israele, ha manifestato le sue preoccupazioni per le istituzioni dello Stato di Israele.

Di ritorno a Tel Aviv il viaggio di Netanyahu in Italia è stato stroncato dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid come “un dispendioso e inutile fine settimana a spese dello Stato.” Ma il viaggio di Netanyahu in Italia, oltre a passare un fine settimana a Roma o distogliere l’attenzione dalle continue proteste in Israele, aveva altri scopi.

In un’intervista pubblicata il 9 marzo dal quotidiano italiano La Repubblica il Primo Ministro ha spiegato gli ambiziosi obiettivi che stavano dietro al suo viaggio in Italia: “Vorrei che ci fosse una maggiore cooperazione economica,” ha affermato. “Abbiamo gas naturale, ne abbiamo tanto e vorrei parlare di come portarlo in Italia per contribuire al suo sviluppo economico.”

Nelle scorse settimane la Prima Ministra Giorgia Meloni ha fatto la spola tra vari Paesi alla ricerca di lucrosi contratti per il gas. Meloni non vuole solo garantire al suo Paese le necessarie forniture di energia in seguito alla crisi tra Russia e Ucraina, ma vuole che Roma diventi il principale snodo europeo per l’importazione e l’esportazione di gas. Israele lo sa ed è particolarmente preoccupato che l’importante accordo per il gas dell’Italia con Algeria del 23 gennaio possa minacciare la posizione economica e politica di Israele in Italia, in quanto l’Algeria continua a rappresentare il baluardo della solidarietà con i palestinesi in Medio Oriente e in Africa.

Oltre al gas, Netanyahu aveva altre questioni in mente. “Dal punto di vista strategico parleremo di Iran. Dobbiamo impedirgli di avere l’atomica perché i suoi missili potrebbero raggiungere molti Paesi, compresa l’Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista con armi nucleari,” ha detto Netanyahu con il consueto linguaggio allarmistico e stereotipato riguardo ai suoi nemici in Medio Oriente.

Netanyahu ha due principali richieste da fare all’Italia: non votare contro Israele alle Nazioni Unite e, cosa più importante, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Benché Gerusalemme sia considerata dalla comunità internazionale una città palestinese occupata, Netanyahu vuole che, in base all’inconsistente logica della “forte ed antica tradizione tra Roma e Gerusalemme”, Roma cambi la propria posizione, che è coerente con il diritto internazionale.

In base alla stessa logica di esportazione di materie prime e armi in cambio di fedeltà politica con Israele all’ONU, Netanyahu ha ottenuto grandi successi nel normalizzare i rapporti tra il suo Paese e molte Nazioni africane. Ora sta applicando lo stesso modus operandi in Italia, una potenza europea e la nona economia mondiale.

Che questa strategia sia un risultato della crescente sudditanza dell’Europa nei confronti di Washington e Tel Aviv o dell’incapacità di Netanyahu di comprendere il cambiamento delle dinamiche geopolitiche nel mondo è un’altra questione. Ma è chiaro che Netanyahu ha percepito che l’Italia è un Paese che ha disperatamente bisogno dell’aiuto di Israele. Durante l’incontro con Meloni Netanyahu ha promesso di fare dell’Italia uno snodo del gas per l’Europa e di aiutare Roma a risolvere i suoi problemi idrici, mentre da parte sua Meloni ha insistito che “Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e a livello globale.”

Tuttavia la risposta più entusiastica alla visita di Netanyahu è venuta dal ministro italiano delle Infrastrutture Matteo Salvini, di estrema destra, che ha fortemente appoggiato la richiesta israeliana di riconoscere Gerusalemme come sua capitale “in nome della pace, della storia e della verità.” Per quanto in contraddizione con la politica estera italiana, la sua reazione non è affatto sorprendente. Il capo della Lega in passato è stato spesso criticato per il suo linguaggio razzista. Tuttavia Salvini negli ultimi anni si è “trasformato”, soprattutto dopo una visita nel 2018 in Israele, dove ha dichiarato il suo amore per Israele e ha criticato i palestinesi. È stato allora che Salvini ha iniziato a crescere a livello politico italiano in generale, invece che regionale.

Ma questa non è la posizione solo di Salvini. Il governo italiano ha accolto positivamente la visita di Netanyahu senza alcuna critica nei confronti delle politiche radicali del suo governo di estrema destra portate avanti nella Palestina occupata. Mentre questa posizione è in linea con la politica estera italiana, non c’è da stupirsene neanche da un punto di vista ideologico.

Benché in passato, grazie alle forze rivoluzionarie che hanno avuto un grande impatto nel definire il discorso politico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva liberazione del Paese dal fascismo, la politica italiana abbia dimostrato una notevole solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la liberazione e il diritto all’autodeterminazione, questa posizione è cambiata nel corso degli anni. Mentre la politica interna italiana arretrava verso destra, l’agenda della sua politica estera in Palestina e Israele si è spostata decisamente verso una posizione filo-israeliana. Ora quanti vengono percepiti come filo-palestinesi nel governo italiano sono pochi e spesso definiti politici radicali.

Tuttavia, nonostante il discorso ufficiale a favore di Israele in Italia, le cose per Netanyahu non sono così facili come possono sembrare, soprattutto quando si tratta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In effetti Meloni non ha manifestato un sincero impegno verso la richiesta israeliana. Al contrario, lo scorso agosto, in un’intervista con la Reuter [agenzia di stampa inglese, ndt.], ancor prima di diventare prima ministra italiana Meloni era sembrata cauta, affermando solo che si tratta di “una questione diplomatica e dovrebbe essere valutata insieme al ministero degli Esteri.”

C’è una ragione dietro all’esitazione di Meloni. Il riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale di Israele collocherebbe Roma fuori dal diritto internazionale. In una lettera aperta a Meloni la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha ricordato al governo italiano che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele rappresenterebbe un’aperta violazione del diritto internazionale.

La politica estera italiana deve anche rendere conto a quella collettiva dell’Unione Europea, di cui Roma è parte integrante. L’UE sostiene la posizione dell’ONU, secondo cui Gerusalemme est è una città palestinese occupata e l’annessione della città nel 1980 da parte di Israele è illegale.

Oltretutto il recente accordo storico dell’Italia con la compagnia statale algerina del gas, Sonatrach, a gennaio, rende particolarmente difficile per Roma prendere una posizione estremista a favore di Israele. Il delicato equilibrio geopolitico risultante dalla crisi del gas, di per sé un risultato diretto della guerra tra Russia e Ucraina, rende ogni cambiamento nella politica estera italiana riguardo a Palestina e Israele simile a un atto di autolesionismo.

Almeno per il momento il gas arabo è per l’Italia molto più importante di quello che potrebbe offrire Netanyahu. Secondo quanto riferito da “BNE Intellinews” il nuovo accordo tra Roma e Algeri garantirà all’Italia 9 miliardi di m3 di gas, oltre alle forniture che già passano per il gasdotto TransMed. Questa infrastruttura vitale connette l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia che, a sua volta, utilizza gasdotti sotto il mar Mediterraneo. “L’espansione di questi percorsi vitali è già stata programmata, al fine di aumentare l’attuale capacità di 33,5 miliardi di m3 all’anno”, aggiunge il sito web di notizie economiche.

Benché sia una figura politica di estrema destra senza una particolare vicinanza o rispetto per le regole stabilite a livello internazionale, Meloni comprende che gli interessi economici prevalgono sull’ideologia. “Oggi l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas,” ha affermato Meloni in una conferenza stampa ad Algeri dopo aver firmato l’accordo. Il contratto, ha detto, fornirà al Paese “un mix di energia che difenderà l’Italia dall’attuale crisi energetica.”

Un simile fatto renderebbe impossibile per l’Italia allontanarsi, almeno per ora, dalla sua attuale posizione riguardo a Gerusalemme e all’illegale occupazione israeliana della Palestina. Mentre sarà difficile per Israele convincere l’Italia a cambiare posizione, Algeria, Tunisia e altri Paesi arabi potrebbero alla fine trovare un varco per scoraggiare l’Italia dal suo cieco appoggio a Israele.

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese vicino a Ramallah

Redazione di Palestine Chronicle

18 marzo 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale di notizie WAFA ha informato che venerdì notte un giovane palestinese è stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane all’ingresso nord della città di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato in una dichiarazione che il giovane, identificato come il ventitreenne Yazan Omar Khasib, è stato colpito da soldati israeliani al posto di controllo militare all’ingresso di Ramallah.

Khasib è stato arrestato in condizioni critiche dai soldati israeliani, ed è stato dichiarato deceduto a causa delle ferite pochi minuti dopo.

All’ambulanza e al personale medico palestinesi è stato negato dall’esercito israeliano l’accesso alla area in cui il giovane è stato ferito.

In seguito alla sparatoria l’esercito israeliano ha chiuso il posto di controllo al traffico palestinese.

L’ultimo crimine israeliano porta a 89 il numero di palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane dall’inizio dell’anno, tra cui 17 minorenni e una donna anziana.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Coloni ebrei aggrediscono un anziano contadino palestinese, i soldati israeliani lo arrestano

Redazione di Palestine Chronicle (WAFA, PC)

7 marzo 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie WAFA [agenzia di stampa dell’ANP, ndt.] ha riferito che martedì un anziano agricoltore palestinese è stato arrestato dalle forze israeliane dopo essere stato aggredito da coloni ebrei illegali mentre stava lavorando la sua terra nella Cisgiordania settentrionale

Ghassan Daghlas, un attivista locale, ha detto a WAFA che i coloni ebrei provenienti dalla colonia illegale di Yitzhar hanno attaccato un anziano agricoltore mentre stava lavorando la sua terra nella parte orientale della città di Urif, vicino a Nablus.

L’uomo è stato successivamente arrestato dai soldati dell’occupazione israeliana che sono intervenuti a proteggere i coloni.

Daghlas ha affermato che gli abitanti della città sono corsi ad aiutare l’agricoltore e hanno respinto i coloni che hanno attaccato le case palestinesi, ma sono stati affrontati da soldati israeliani che gli hanno tirato contro gas lacrimogeni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Vera emancipazione: un incontro con le donne pugili di Gaza

Salsabeel M.A. Abu Loghod

27 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Dopo aver lottato negli ultimi 5 anni senza nessun tipo di appoggio e allenandosi in un piccolo luogo sotto la casa del capitano Osama Ayoub, nel dicembre 2022 è stato finalmente aperto il Palestinian Women’s Boxing Center [Centro Pugilistico delle Donne Palestinesi].

Ma sicuramente ci sono delle difficoltà. Il Centro è la prima società pugilistica femminile di Gaza City. Con le sue 30 associate intende migliorare le capacità di autodifesa, forma fisica e perdita di peso delle donne palestinesi attraverso l’integrazione delle donne nel mondo pugilistico palestinese.

La società affronta diverse sfide dovute all’ermetico assedio israeliano imposto alla Striscia così come al rifiuto da parte della società palestinese di insegnare alle ragazze tale sport. Nonostante rispetti le tradizioni e costumi della società, compresa una sala coperta, e con una donna per allenare le allieve, nonostante gli appelli di oltre 90 mezzi di comunicazione arabi, locali e internazionali non ci sono trasporti per le ragazze e non è stato fornito alcun sostegno finanziario.

Sui nostri account nelle reti sociali abbiamo ricevuto alcuni commenti negativi, in cui si sostiene che le donne non dovrebbero allenarsi ma stare a casa accanto ai loro mariti. Altri affermano di non volere donne in grado di picchiare gli uomini,” sostiene Ayoub.

Tuttavia è comparso anche qualche commento positivo, che invita Ayoub a continuare con la sua idea di rafforzare le donne in una società maschilista.

Abbiamo ragazze di talento che possono rappresentare la Palestina in tornei pugilistici all’estero,” osserva Ayoub.

Tra le giovani atlete c’è la quindicenne Farah Abu Al-Qumsan. Cinque anni fa, durante una vacanza scolastica, Al-Qumsan ha parlato con un’amica dello sport. Ha saputo di Ayoub da un’amica parente del capitano, che le ha raccontato del club pugilistico aperto da poco. Farah ha deciso di andarci. I suoi genitori sono stati d’accordo a consentirle di iscriversi per prima. Ha iniziato a boxare all’età di 11 anni, nel novembre 2020 ha partecipato a un torneo locale presso il King’s Club di Gaza e ha vinto il premio come migliore pugile.

Fin da bambina sono sempre stata affascinata dal pugilato e sognavo di diventare una campionessa come Muhammad Alì o Mike Tyson,” afferma Al-Qumsan.

Spesso le viene detto che si tratta di uno sport solo per ragazzi. Tuttavia molte persone la lodano e ciò l’aiuta ad affrontare le critiche. “In genere rispondevo alle osservazioni negative dicendo che ogni ragazza dovrebbe praticare il pugilato,” afferma Al-Qumsan. Sua madre, la trentanovenne Umm Sufyan, l’ha incoraggiata a fare pugilato. “Se dio vuole continuerò ad appoggiarla fino in fondo e lei terrà alto il nome della Palestina in tutti i Paesi arabi e all’estero,” afferma la madre di Farah.

Come Al-Qumsan, Malak Tariq Ziyad Musleh è stata spesso criticata perché pratica il pugilato.

Musleh è pugile nel Palestinian Women’s Boxing Center. Ha iniziato a boxare a 12 anni, cinque anni fa. Anche lei ha partecipato al torneo del King’s Club nel 2020. “Dato che ero solita vedere la boxe su YouTube, mi sono sempre chiesta perché non abbiamo uno sport come questo. Quindi quando alla fine ne abbiamo avuto la possibilità, ho voluto provare,” mi dice Musleh.

Mio padre mi ha molto appoggiata, dato che la mia famiglia sapeva che ero molto timida. L’ho scelto perché mi piace pensare fuori dagli schemi. Si è rivelata una bellissima esperienza,” dice Musleh. Molte persone che hanno assistito al torneo hanno incoraggiato le ragazze con slogan e cori. Ciò ha dato loro la forza di andare avanti, mentre qualcuno è rimasto critico.

Le mie amiche si sono vergognate e hanno pianto quando hanno ricevuto commenti negativi. Quindi, dato che sono la più vecchia della squadra, sono stata dalla loro parte e le ho incoraggiate,” afferma Musleh.

In seguito ai commenti negativi alcune ragazze non hanno boxato per un po’, ma grazie all’appoggio di Ayoub hanno superato ogni difficoltà.

Sviluppano le loro capacità guardando su internet gli allenamenti della boxe femminile internazionale.

Il mio sogno è quello di rappresentare la bandiera palestinese, partecipare a competizioni locali e internazionali e far vedere al mondo che in Palestina c’è un popolo che ha incredibili capacità,” mi dice Musleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi non sono bugiardi – contro la violenza della delegittimazione dei media

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

24 gennaio 2023, PalestineChronicle

Il 19 gennaio, durante uno dei suoi raid nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Al-Khalil (Hebron), l’esercito israeliano ha arrestato un giornalista palestinese, Abdul Muhsen Shalaldeh. È solo l’ultima di un numero impressionante di violazioni contro i giornalisti palestinesi e contro la libertà di espressione.

Pochi giorni prima durante una conferenza stampa a Ramallah il capo del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) Naser Abu Baker ha diffuso alcuni numeri tremendi. “Dal 2000 sono stati uccisi cinquantacinque giornalisti dal fuoco o dalle bombe israeliane”, ha detto. Altre centinaia sono stati feriti, arrestati o detenuti. Sebbene scioccante, questa realtà è in gran parte censurata dai principali media.

L’omicidio dell’11 maggio ad opera dell’esercito di occupazione israeliano della veterana giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata un’eccezione, in parte a causa dell’importanza mondiale della sua testata, Al Jazeera Network. Tuttavia, Israele e i suoi alleati si sono impegnati a nascondere la notizia, ricorrendo alla consueta tattica di diffamare coloro che sfidano la narrativa israeliana.

I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per portare avanti la loro missione di diffondere la verità sull’attuale oppressione israeliana dei palestinesi. Il loro lavoro non è solo fondamentale per una buona ed equilibrata copertura mediatica, ma anche per la causa stessa della giustizia e della libertà in Palestina.

In un recente rapporto del 17 gennaio, PJS ha dettagliato alcune delle spaventose esperienze dei giornalisti palestinesi. “Decine di giornalisti sono stati presi di mira dalle forze di occupazione e dai coloni durante lo scorso anno, che ha (registrato) il maggior numero di gravi attacchi contro giornalisti palestinesi”.

Tuttavia, il danno inflitto ai giornalisti palestinesi non è solo fisico e materiale. Sono anche costantemente esposti a una minaccia molto sottile ma ugualmente pericolosa: la costante delegittimazione del loro lavoro.

La violenza della delegittimazione

Romana Rubeo, co-autrice di questo articolo, ha partecipato il 18 gennaio a un incontro riservato che ha coinvolto oltre 100 giornalisti italiani con lo scopo di consigliarli su come riferire in modo accurato della Palestina. Rubeo ha fatto del suo meglio per illustrare alcuni dei fatti discussi in questo articolo, su cui è impegnata quotidianamente come caporedattrice di Palestine Chronicle.

Tuttavia, una giornalista israeliana veterana, spesso lodata per i suoi coraggiosi reportage sulla Palestina, ha scioccato tutti quando ha suggerito che non ci si può sempre fidare dei palestinesi per i particolari. Ha detto qualcosa del genere: sebbene la verità sia dalla parte palestinese, non ci si può fidare totalmente di loro sui particolari, mentre gli israeliani sono più affidabili sui dettagli ma mentono sul quadro generale.

Per quanto oltraggioso tale pensiero possa apparire – per non parlare del suo orientalismo [costruzione imperialista della disuguaglianza, dall’omonimo libro 1978 di Edward Said, ndt.] – è una minuzia in confronto alla macchina dell’hasbara [controllo e manipolazione delle notizie sulle politiche del governo e sull’esercito israeliani, ndt.] gestita dallo Stato del governo israeliano.

Ma è vero che non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari?

Quando a Jenin Abu Akleh è stata uccisa non era l’unica giornalista presa di mira. Era presente il suo collega Ali al-Samoudi, un altro giornalista palestinese anch’egli colpito e ferito da un proiettile israeliano alla schiena.

Naturalmente al-Samoudi era il principale testimone oculare di quanto era accaduto quel giorno. Ha detto ai giornalisti dal suo letto d’ospedale che non c’erano combattimenti in quella zona; che lui e Shireen indossavano giubbotti stampa chiaramente contrassegnati; che sono stati intenzionalmente presi di mira dai soldati israeliani e che i combattenti palestinesi non erano neanche lontanamente vicini alla distanza di tiro da cui sono stati colpiti.

Tutto ciò è stato negato da Israele e, a propria volta, dai principali media occidentali, poiché presumibilmente “non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari”.

Tuttavia, le indagini di organizzazioni internazionali per i diritti umani e infine una timida ammissione israeliana di possibile colpevolezza hanno dimostrato che quello di al-Samoudi era il racconto più dettagliato e onesto della verità. Questo episodio si è ripetuto centinaia di volte nel corso degli anni per cui all’inizio le opinioni palestinesi vengono respinte come false o esagerate e la narrazione israeliana accolta come l’unica verità possibile finché infine viene alla luce la verità che conferma ogni volta la versione palestinese. Molto spesso, la verità dei fatti viene rivelata troppo poco e troppo tardi.

Il tragico assassinio del ragazzo palestinese di 12 anni Mohammed al-Durrah rimane fino ad oggi l’episodio più vergognoso del pregiudizio dei media occidentali. La morte del ragazzo, ucciso dalle truppe di occupazione israeliane a Gaza nel 2000 mentre cercava rifugio accanto al padre è stata essenzialmente attribuita ai palestinesi, prima che la narrazione del suo assassinio fosse riscritta suggerendo che fosse rimasto ucciso nel “fuoco incrociato”. Quella versione della storia alla fine è cambiata con la riluttante accettazione del racconto palestinese sull’evento. Tuttavia, la storia non è finita qui, poiché l’hasbara sionista ha continuato a perseguire la propria narrativa, diffamando coloro che adottano la versione palestinese come anti-israeliani o addirittura “antisemiti”.

(Nessuna) Autorizzazione a narrare

Nonostante il giornalismo palestinese abbia dimostrato negli ultimi anni la sua efficacia – esempio lampante le guerre di Gaza – grazie al potere dei social media e alla loro capacità di diffondere informazioni direttamente ai fruitori di notizie, le sfide rimangono grandi.

Quasi quattro decenni dopo la pubblicazione del saggio di Edward Said “Permission to Narrate” [Autorizzzione a narrare, Journal of Palestine Studies XIII/3 1984, pp. 27-48] e più di dieci anni dopo il fondamentale poema di Rafeef Ziadah “We Teach Life, Sir” [“…non pensi si risolverebbe tutto se la smetteste di insegnare così tanto odio ai bambini?…”] sembra che, in alcune piattaforme mediatiche e ambienti politici i palestinesi debbano ancora ottenere il permesso di narrare, in parte a causa del razzismo anti-palestinese che continua a prevalere ma anche perché, secondo il giudizio della giornalista supposta filo-palestinese, i palestinesi non sono affidabili nei particolari.

Tuttavia, c’è speranza in questa storia. C’è una nuova generazione di attivisti palestinesi, emancipata e coraggiosa – autori, scrittori, giornalisti, blogger, registi e artisti – più che qualificata a rappresentare i palestinesi e a presentare un discorso politico coeso, non fazioso e universale sulla Palestina.

Una nuova generazione alla ricerca della verità

In realtà i tempi sono cambiati e i palestinesi non hanno più bisogno di filtri – come quelli che parlano a loro nome, posto che i palestinesi siano – come si presume – intrinsecamente incapaci di farlo.

Gli autori di questo articolo hanno recentemente intervistato due rappresentanti della nuova generazione di giornalisti palestinesi, due voci forti a favore di un’autentica presenza palestinese nei media internazionali: la giornalista e il redattore Ahmed Alnaouq e Fahya Shalash.

Shalash è una giornalista residente in Cisgiordania; ha trattato della copertura mediatica a partire dalle priorità palestinesi raccogliendo molti esempi di storie importanti che spesso non vengono riportate. “Come donne palestinesi nella nostra vita troviamo molti ostacoli e sono (tutti) legati all’occupazione israeliana; è molto pericoloso lavorare come giornalista. “Tutto il mondo ha visto cosa è successo a Shireen Abu Akleh per aver riferito la verità sulla Palestina”, ha detto.

Shalash ritiene che essere una giornalista palestinese che scrive sulla Palestina non è solo un’esperienza professionale, ma anche emotiva e personale. “Quando lavoro e sono al telefono con le famiglie dei prigionieri o dei martiri palestinesi, a volte scoppio a piangere”.

In effetti, le storie sugli abusi e gli attacchi contro le donne palestinesi da parte dei soldati israeliani raramente sono un argomento mediatico. “Israele indossa la maschera della democrazia; fingono di avere a cuore i diritti delle donne, ma non è affatto quello che succede qui”, ha detto la giornalista palestinese.

Colpiscono le giornaliste palestinesi perché sono fisicamente più deboli; le insultano con un linguaggio davvero spudorato. Sono stata personalmente detenuta dalle forze israeliane per essere interrogata. La cosa ha influenzato il mio lavoro. Mi hanno minacciato, dicendo che se nel mio lavoro avessi continuato a raffigurarli come criminali mi avrebbero impedito di fare la giornalista”.

Nei media occidentali continuano a parlare dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, ma noi non abbiamo alcun diritto. Non viviamo come in qualsiasi altro paese”, ha aggiunto.

Da parte sua Alnaouq, capo dell’organizzazione palestinese “We Are Not Numbers”, ha spiegato come i principali media non permettano mai alle voci palestinesi di essere presenti nei loro reportage. Gli articoli scritti da palestinesi sono anche “pesantemente modificati”.

“È anche colpa dei redattori”, ha detto. “A volte commettono grossi errori. Quando un palestinese viene ucciso a Gaza o in Cisgiordania, i redattori dovrebbero dire chi è l’autore, ma la stampa spesso omette questa informazione. Non menzionano Israele come colpevole. Hanno una specie di agenda da imporre”.

Quando gli abbiamo chiesto come avrebbe cambiato l’informazione sulla Palestina se avesse lavorato come redattore in un importante media occidentale, Alnaouq ha detto:

Direi solo la verità. È questo ciò che vogliamo come palestinesi. Vogliamo la verità. Non vogliamo che i media occidentali siano prevenuti nei nostri confronti o attacchino Israele, vogliamo solo che dicano la verità come è giusto che sia”.

Dare priorità alla Palestina

Solo le voci palestinesi possono trasmettere l’emozione delle drammatiche storie palestinesi, che non arrivano mai alla più vasta copertura mediatica e, quando succede, le storie spesso mancano di contesto, danno la priorità alle opinioni israeliane – se non a vere e proprie bugie – e a volte omettono del tutto i palestinesi. Ma come continua a dimostrare il lavoro di Abu Akleh, al-Samoudi, Alnaouq e Shalash e di centinaia di altri, i palestinesi sono qualificati per produrre giornalismo di alta qualità, con integrità e professionalità.

I palestinesi devono essere il fulcro della narrativa palestinese in ogni sua manifestazione. È tempo di rompere con il vecchio modo di pensare che vedeva i palestinesi incapaci di narrare, o passivi all’interno della propria storia, personaggi secondari che possono essere rimpiazzati o sostituiti da altri ritenuti più credibili e veritieri. Qualcosa di diverso sarebbe giustamente collocato nel pensiero orientalista di un’epoca passata, o peggio.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter e The Last Earth. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Resistere all’occupazione illegale israeliana della Palestina: conversazione con Issa Amro

Redazione di Palestine Chronicle

18 dicembre 2022, Palestine Chronicle

In questa puntata di “Palestina in prospettiva” conduttore e giornalista per The Palestine Chronicle Paul Salvatori, che vive a Toronto, conversa con il difensore dei diritti umani ed attivista palestinese Issa Amro.

Da un luogo segreto dove ha dovuto rifugiarsi per tutelare la propria vita Amro condivide la sua esperienza di essere un costante bersaglio di molestie, violenze, abusi e detenzione arbitraria da parte dell’esercito israeliano, nonché di coloni israeliani che lo terrorizzano in modo analogo, spesso con la protezione e l’appoggio dell’esercito stesso.

Lo fanno perché lui, insieme ad altri attivisti pacifisti in Cisgiordania, cerca di porre fine all’ulteriore sviluppo di colonie israeliane illegali. 

Parallelamente all’appello urgente delle Nazioni Unite perché finisca l’aggressione contro Amro e perché Israele smantelli la “zona chiusa militarizzata” che ha istituito intorno alla sua casa – in violazione del diritto umanitario internazionale –, Amro invita gli ascoltatori a far pressione sui loro governi per assicurare che l’appello sia preso in considerazione.

Questo comporta rendere l’occupazione illegale della Palestina “costosa”, in modo che gli stessi governi, o chiunque altro coinvolto, perda di più (economicamente, politicamente, ecc.) di quanto guadagni sostenendo l’occupazione. Simile ad un moderno Gandhi, Amro auspica che questo avvenga in modo nonviolento e attraverso la disobbedienza civile, smascherando pubblicamente la disumanità dell’occupazione – dalla distruzione delle abitazioni e dell’agricoltura palestinesi all’uccisione e bombardamento di civili palestinesi indifesi.

Palestina in prospettiva” è un recente podcast su The Palestine Chronicle e una sotto-serie del podcast dedicato alla giustizia sociale e ai diritti umani, The Dark Room.

Attraverso schiette interviste e discussioni con voci filo-palestinesi – da studiosi ed attivisti ad artisti e intellettuali – “Palestina in prospettiva” illumina questioni centrali sulla giustizia palestinese, la resistenza e la lotta internazionale contro l’apartheid israeliano. Lo spettacolo è ospitato dal giornalista, attivista e musicista di Toronto Paul Salvatori.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Indebolire il ‘legame indissolubile’: ecco perché l’indagine dell’FBI su Israele è importante

Ramzy Baroud

23 novembre 2022 – Palestine Chronicle

La recente decisione del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aprire un’inchiesta sull’omicidio, a maggio, della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh non è una svolta epocale, ma tuttavia è importante e degno di riflessione.

In base alla lunga storia del sostegno militare e politico a Israele da parte degli USA e del loro continuo scudo offerto a Tel Aviv a protezione contro le responsabilità dell’occupazione illegale della Palestina, si può con certezza concludere con sicurezza che non ci sarà nessuna vera inchiesta.

Una vera e propria inchiesta sull’uccisione di Abu Akleh potrebbe aprire il vaso di Pandora di ulteriori scoperte concernenti molte altre pratiche israeliane illegali e violazioni di leggi internazionali, e persino di quelle statunitensi. Per esempio, gli investigatori americani dovrebbero esaminare l’uso israeliano di armi e munizioni USA che sono utilizzate quotidianamente per soffocare le proteste palestinesi, confiscare terre palestinesi, imporre assedi militari contro aree civili e così via. Una legge USA, la Leahy Law, proibisce specificamente al “governo USA di usare fondi per assistere unità di forze di sicurezza ove ci siano informazioni attendibili che implichino quell’unità nella perpetrazione di gravi violazioni di diritti umani.”

Inoltre un’indagine comporterebbe anche l’assunzione di responsabilità se concludesse che Abu Akleh, una cittadina statunitense, fosse stata deliberatamente uccisa da un soldato israeliano, come parecchie organizzazioni per i diritti umani hanno già concluso.

Anche questo è irrealistico. Infatti uno dei principali pilastri su cui si poggiano le relazioni USA-Israele è che, sul palcoscenico internazionale, il primo gioca il ruolo del protettore del secondo. Ogni tentativo palestinese, arabo o internazionale di indagare sui crimini israeliani ha totalmente fallito semplicemente perché Washington ha sistematicamente bloccato ogni possibile inchiesta con la scusa che Israele è in grado di investigare sé stesso, sostenendo a volte che ogni tentativo di ritenere Israele responsabile sia una caccia alle streghe e equivale all’antisemitismo.

Secondo Axios, [sito web americano fondato nel 2016 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz, per un pubblico sinistra moderata, N.d.T.] questo era il senso della risposta ufficiale israeliana alla decisione USA di aprire un’indagine sull’assassinio della giornalista palestinese. “I nostri soldati non saranno sottoposti a indagini da parte dell’FBI o di qualsiasi altro Paese o organismo stranieri,” ha detto il primo ministro israeliano uscente Yair Lapid, aggiungendo: “Noi non abbandoneremo i nostri soldati nelle mani di indagini straniere.”

Sebbene quella di Lapid sia la tipica reazione israeliana, è piuttosto interessante, se non scioccante, vederla usata nel contesto di un’indagine americana. Storicamente tale linguaggio era riservato alle indagini del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite e da giudici di diritto internazionale, come Richard Falk, Richard Goldstone e Michael Lynk. Ripetutamente tali indagini erano condotte o bloccate senza la cooperazione israeliana e sottoposte a intensa pressione americana.

Nel 2003, la portata dell’intransigenza israeliana e il cieco sostegno USA a Israele arrivarono fino al punto di far pressione sul governo belga perché riscrivesse le proprie leggi nazionali affinché archiviasse una causa per crimini di guerra contro Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano.

Inoltre, nonostante i continui sforzi di molte organizzazioni per i diritti umani con sede negli USA perché venisse aperta un’indagine sull’omicidio di un’attivista americana, Rachel Corrie, gli USA rifiutarono persino di esaminare il caso, basandosi invece sui tribunali israeliani che scagionarono il soldato israeliano che nel 2003 era passato con un bulldozer sul corpo della ventitreenne Corrie che gli stava semplicemente chiedendo di non demolire una casa palestinese a Gaza.

Peggio ancora, nel 2020 il governo USA è arrivato al punto di sanzionare la procuratrice della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda e altri funzionari senior della procura che erano impegnati nelle indagini su sospetti crimini di guerra USA e israeliani in Afghanistan e Palestina.

Tenendo presente tutto ciò ci si devono quindi porre domande sul tempismo e sui motivi delle inchieste degli USA.

Axios ha rivelato che la decisione di indagare sull’uccisione di Abu Akleh era “stata presa prima delle elezioni in Israele del primo novembre, ma il Dipartimento di Giustizia ha informato ufficialmente il governo israeliano tre giorni dopo le elezioni.” Infatti la notizia è stata rivelata ai media solo il 14 novembre, dopo le elezioni, sia in Israele che negli USA, rispettivamente il primo e il 7 novembre.

Funzionari a Washington erano desiderosi di sottolineare il fatto che la decisione non era politica, e che non era neppure legata a evitare di irritare la filoisraeliana lobby a Washington nei giorni precedenti le elezioni USA, né a influenzare i risultati di quelle israeliane. Se così fosse, allora perché gli USA hanno aspettato fino al 14 novembre per far trapelare la notizia? Il ritardo fa pensare a gravi retroscena politici e a una massiccia pressione israeliana per dissuadere gli USA dal renderla pubblica, rendendo quindi impossibile fare marcia indietro sulla decisione.

Sapendo che molto probabilmente non avrà luogo un’indagine seria, la decisione USA deve essere stata pensata in anticipo per essere meramente politica. Forse simbolica e in definitiva irrilevante, la decisione USA senza precedenti e calcolata si basa su solidi ragionamenti:

Primo, durante la sua vice-presidenza durante l’amministrazione Obama (2009-2017) il presidente USA Joe Biden ha avuto un’esperienza difficile nella gestione degli intrallazzi politici dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora che Netanyahu è destinato a ritornare al timone della politica israeliana, l’amministrazione Biden ha un bisogno urgente di far leva politica su Tel Aviv, nella speranza di controllare le tendenze estremiste del leader israeliano e del suo governo.

Secondo, il fallimento della cosiddetta ‘Ondata rossa’ Repubblicana nel marginalizzare i Democratici quale forza politica e legislativa nel Congresso USA ha ulteriormente imbaldanzito l’amministrazione Biden, che ha poi finito con rendere pubblica la notizia dell’investigazione, se vogliamo credere che la decisione fosse veramente stata presa in anticipo.

Terzo, la forte presenza di candidati palestinesi e filopalestinesi nelle elezioni di metà mandato statunitensi, sia a livello nazionale che statale, ha ulteriormente rafforzato il programma progressista del partito Democratico. Persino una decisione simbolica di investigare l’omicidio di un cittadino americano rappresenta uno spartiacque per le relazioni fra l’establishment del partito Democratico e il suo elettorato più progressista dei movimenti di base. Infatti la congressista palestinese Rashida Tlaib, rieletta, ha subito reagito alla notizia dell’inchiesta descrivendola come “il primo passo verso una vera presa di responsabilità”.

Anche se l’investigazione americana sull’uccisione di Abu Akleh difficilmente darà come risultato una vera giustizia, è un momento molto importante nelle relazioni USA-Israele e USA-palestinesi. Significa semplicemente che, nonostante il consolidato e cieco sostegno USA a Israele, ci sono margini nella politica americana che possono ancora essere utilizzati, se non per ribaltare il sostegno USA a Israele, almeno per indebolire l’apparente ‘legame indissolubile’ fra i due Paesi.

– Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle.  È autore di sei libri, l’ultimo curato con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi e intellettuali impegnati fanno sentire la propria voce]. Baroud è ricercatore non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Studenti dell’università di Birzeit accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di arresti politici

Redazione di The New Arab, PC, Social

2 novembre 2022 – The Palestine Chronicle

Una fonte locale vicina al consiglio degli studenti dell’università di Birzeit, presso Ramallah, ha riferito a The New Arab che, dopo che uno è stato rilasciato lunedì, altri otto studenti palestinesi continuano ad essere detenuti dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il consiglio degli studenti accusa l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] di aver arrestato gli studenti per motivazioni politiche.

Domenica il consiglio degli studenti ha rilasciato una dichiarazione in cui ha annunciato che le forze di sicurezza dell’ANP avevano arrestato tre studenti che sono attivi nel movimento studentesco.

Noi del consiglio studentesco rifiutiamo l’ingiustizia e l’arroganza che privano gli studenti dei loro diritti ad una vita universitaria sicura,” si legge nel comunicato.

Domenica, decine di palestinesi, inclusi molti studenti, hanno fatto una manifestazione a Ramallah contro quella che hanno definito “detenzione politica” da parte dell’ANP, chiedendo l’immediato rilascio dei prigionieri.

Nel frattempo un gruppo di studenti continua a fare un sit-in dentro il campus d Birzeit, come forma di protesta contro le detenzioni operate dall’ANP, chiedendo l’immediato rilascio degli arrestati.

Le forze di sicurezza dell’ANP non hanno fatto alcun commento pubblico sulle incarcerazioni degli studenti dell’università di Birzeit.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)