La storia della Palestina e di Israele

La storia più convincente e sensata della Palestina e di Israele

PalestineChronicle – 19 giugno 2018

Di Rima Najjar

La storia che sta dietro alla Palestina e a Israele è una storia di colonialismo di insediamento di ebrei europei – cioè, sionismo.   E dato che il razzismo è un sintomo e uno strumento del colonialismo di insediamento, il sionismo è visto anche come antisemitismo, e come supremazia etnica o ebraica, arabofobia e islamofobia. 

La triangolazione di antisemitismo, islamofobia e arabofobia nella storia della Palestina e di Israele è parte del movimento coloniale di insediamento del sionismo e non è una “nuova storia” nel senso di come il termine è stato presentato dallo storico israeliano Benny Morris nel 1980 per rendere umane, nel discorso accademico israeliano, le vittime del sionismo.   Riflette semplicemente una terminologia moderna e comprende eventi storici che la mentalità sionista in buona misura ancora non accetta.

In linea generale questi avvenimenti storici sono semplici. Gli ebrei sionisti (che si autoproclamavano atei) decisero di costruire uno Stato ebraico in Palestina e finirono per prendersi con la forza la maggior parte della terra e per espellere la maggior parte della popolazione arabo-palestinese non ebraica, impedendole di tornare.

Ora Israele sta occupando il resto del territorio che l’Organizzazione Sionista Mondiale non era riuscita a prendersi e continua a “insediarvisi”.

Ne “La fine del sionismo: razzismo e lotta palestinese”, Joseph Massad [docente alla Columbia University, ndtr.] scrive:

“Il sionismo, in quanto movimento colonialista, è costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa e razziale attraverso la quale concepisce se stesso ed il mondo attorno a lui… Non si mette più in discussione, persino tra molti israeliani, che l’impatto del sionismo sul popolo palestinese nell’ultimo secolo include: l’espulsione di una maggioranza di palestinesi dalle loro terre e case, impedendone il ritorno, e la successiva confisca delle loro proprietà per uso esclusivo degli ebrei;  l’imposizione dal 1948 al 1966 di un sistema di  apartheid militare sui palestinesi rimasti in Israele, che da allora si è attenuato in un sistema civile discriminatorio di supremazia ebraica; l’occupazione militare e un sistema di apartheid imposto alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza ed alla loro popolazione per i rimanenti 35 (ora 51) anni, come anche la continua colonizzazione di quei territori occupati.”

In questo senso la storia del colonialismo di insediamento degli ebrei europei – cioè del sionismo – che sta dietro la Palestina e Israele (come opposto alla storia come “narrazione” o mito sionista) ha a monte la voce della ragione, perché rivela un’atrocità a cui si deve porre rimedio.

Riconoscere ed assumersi la responsabilità dei crimini storici ed attuali di Israele contro gli arabi palestinesi è il primo passo per risolvere la Nakba.  I particolari storici riguardo a come e perché questi tragici avvenimenti sono accaduti hanno riempito molti libri, ma non è questo il punto.

La questione generale ha di per sé la voce della ragione, se si considerano anche la giustizia come ragionevole e l’ingiustizia come irragionevole.

Per esempio, cos’è ragionevole e plausibile riguardo ad Ivanka Trump, figlia del presidente USA Donald Trump e moglie di Jared Kushner, che ora può comprarsi una casa a Gerusalemme e “tornare” in Israele grazie alla sua conversione all’ebraismo ed all’ebraicità del suo marito americano, mentre a Ghada Karmi, un’araba palestinese musulmana, viene negato il ritorno alla sua patria e non le viene neppure consentito di ricomprare la casa rubata a suo padre?

In “Umanizzare il testo: la ‘nuova storia’ israeliana e il percorso della storiografia sul 1948”, Ilan Pappe [storico israeliano attualmente docente in Gran Bretagna, ndtr.], universalmente noto per il suo “La pulizia etnica della Palestina”, scrive:

“Una cosa è chiara quando si analizzano le sorti della nuova storia israeliana dal tempo dei suoi inizi, alla fine degli anni ’80, fino alla sua breve/momentanea scomparsa nel 2000: la ricostruzione storica è strettamente legata agli sviluppi e sconvolgimenti politici generali. In società lacerate da fratture e conflitti interni ed esterni, il lavoro degli storici è costantemente pervaso dal dramma politico intorno a loro. In questi contesti geopolitici la pretesa di obiettività è particolarmente fuori luogo, se non totalmente infondata.”    

Storici ebrei dissidenti radicali come Ilan Pappe in Israele sono fondamentali per una storia che ha dalla sua parte la voce della ragione. Sono un ponte verso un pubblico più vasto in Israele.

Spesso i palestinesi si chiedono cosa sia necessario per fare breccia nella coscienza dell’opinione pubblica occidentale riguardo alla tragica storia della Palestina lunga 70 anni.

Credo che il modo migliore per spostare l’opinione pubblica occidentale dall’appoggio ad Israele verso il sostegno alla causa palestinese sia continuare a sottolineare quello che ha già avuto luogo attraverso l’abbandono del cosiddetto “processo di pace” e della “soluzione dei due Stati” – la comprensione, finora  poco chiara, che il problema di Israele risiede nella sua natura di progetto sionista di colonialismo d’insediamento in Palestina, piuttosto che di “occupante” militare.

In “Perché il termine ‘occupazione israeliana’ deve essere rifiutato”, Ramzy Baroud scrive:

“…Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le norme sull’occupazione come stabilite dalle leggi internazionali. Sarebbe stato così un anno, due anni o cinque anni dopo che l’occupazione iniziale ha avuto luogo, ma non 51 anni dopo. Da allora l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.”

Molte persone credono che la “Grande Marcia del Ritorno” abbia riscosso reazioni giornalistiche così positive nei media occidentali perché le proteste sono state essenzialmente non violente – ad esempio, non si può dire che abbiano minacciato la sicurezza di Israele e quindi la forza mortale che Israele utilizza è “sproporzionata” e criminale.

È il massimo a cui arriva l’azione non violenta palestinese. Ciò non fa nulla per cambiare la percezione dell’opinione pubblica occidentale di Israele come uno Stato legittimo simile a quelli occidentali, che protegge le proprie frontiere (benché con una forza sproporzionata) contro un mare di arabi o la percezione dei palestinesi come “turbolenti” e “barbari”, il cui unico desiderio malvagio è di uccidere ebrei.

La resistenza non violenta sicuramente ha i suoi vantaggi, ma a mio parere non deve mai essere imposta ad un popolo oppresso e brutalizzato come se fosse un terreno moralmente superiore di resistenza.

Inoltre l’enfasi sulla tattica della resistenza non violenta delegittima implicitamente altre forme di resistenza, santificando alcuni martiri palestinesi e prigionieri tenuti in detenzione amministrativa [cioè senza un’imputazione né una condanna, ndtr.] in sciopero della fame ed accettando le giustificazioni di Israele per l’uccisione e l’arresto di migliaia di altri palestinesi.

Quello che c’è di diverso nella “Grande Marcia del Ritorno” è che la sua richiesta di tornare mette in rapporto l'”occupazione” e l’assedio [di Gaza] con la Nakba, mettendo in scena per il pubblico occidentale, con la protesta e la resistenza, la colonizzazione di tutta la Palestina.

Questa richiesta, udita per la prima volta nella storia recente della resistenza palestinese, sta spostando la percezione dell’opinione pubblica occidentale.

Sulle reti sociali attivisti per la giustizia in Palestina hanno a lungo utilizzato diverse tattiche (soprattutto documentando e rendendo pubbliche le violazioni delle leggi internazionali e della dignità umana da parte di Israele) per raggiungere il pubblico occidentale (per aprirsi un varco nei principali media dell’Occidente). Le più efficaci sono le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS – PACBI), che hanno convinto grandi nomi dell’accademia e celebrità della cultura e dello sport ad abbracciare la causa dei palestinesi.

L’opinione pubblica occidentale è anche diventata più informata della reazione violenta sionista contro le campagne del BDS, soprattutto in quanto incide sulla libertà di parola.

In generale, per rivolgersi a un pubblico occidentale, soprattutto quello di sinistra, è efficace fare riferimento ai valori progressisti applicabili alle ingiustizie contro tutti i gruppi marginalizzati nella società occidentale, in quanto ciò evidenzia la contraddittorietà di  prendere in considerazione unicamente la causa palestinese come se fosse un’eccezione.

Il pubblico occidentale si presume faccia parte della tradizione giudaico-cristiana, un termine coniato da George Orwell nei lontani anni ’30 per combattere l’antisemitismo. Sfortunatamente questa tradizione umanistica è stata infangata perché ora antisemitismo e antisionismo vi sono inesorabilmente legati, e quindi lottare contro uno significa lottare contro l’altro.

La civiltà occidentale è stata a lungo definita dalle conquiste coloniali (in Medio oriente con islamofobia e arabofobia) e dal potere imperialista; ciò ha dato vita al sionismo.

Oltretutto,

“… una volta occupata la posizione di superiorità militare, la cultura colonialista produce, attraverso un’ampia gamma di mezzi di comunicazione, un’infinita serie di asserzioni che lentamente e sottilmente – con l’aiuto di libri, giornali, scuole e i loro testi, pubblicità, film, radio – invade le menti e plasma la visione del mondo del gruppo a cui si appartiene…La colonizzazione efficace porta l’oppresso a identificarsi con la visione del mondo dell’oppressore.” [citazione da “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon, ndtr.]

L’Autorità Nazionale Palestinese ora si identifica con il suo oppressore in modo così profondo che non si vergogna, come imposto da Israele, di reprimere brutalmente i palestinesi che in Cisgiordania si riuniscono contro le misure economiche punitive di Mahmoud Abbas a Gaza.

Ciò che alla fine cambierà la percezione del pubblico occidentale saranno gli stessi palestinesi che comunque scelgono di resistere. Devono insistere sulla liberazione – sulla decolonizzazione e non solo sulla “fine dell’occupazione”.

– Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna viene dal villaggio di Lifta, nella periferia occidentale di Gerusalemme, svuotato dei suoi abitanti con la forza. È un’attivista, una ricercatrice e docente in pensione di letteratura inglese all’università di Al-Quds, nella Cisgiordania occupata.   Ha offerto quest’articolo a PalestineChronicle.com. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Middle East Eye

 

Thomas Vescovi – 1 giugno 2018

 

Per gli israeliani il 1948 incarna l’ora della gloria del progetto sionista, il momento in cui gli ebrei ritornano nelle pagine della Storia come attori del loro destino e, soprattutto, riescono a realizzare l’utopia diffusa 50 anni prima da Theodor Herzl: la costruzione in Palestina di uno Stato come rifugio per il “popolo ebraico”.

Per i palestinesi, il 1948 simbolizza l’avvento del processo coloniale che li ha spogliati della loro terra e del loro diritto alla sovranità, la loro “Nakba” (catastrofe).

Le prime voci dissonanti

Con differenti modalità, alcuni israeliani, fin da subito dopo il 1948, hanno testimoniato sugli avvenimenti passati. Durante il conflitto alcuni quadri del movimento sionista chiamano in causa i dirigenti in merito al trattamento della popolazione araba di Palestina, che giudicano indegna dei valori che i combattenti ebrei sostengono di difendere. Altri prendono appunti nell’attesa di testimoniare quando ci sarà il cessate il fuoco.

Yosef Nahmani, ufficiale superiore dell’Haganah [principale milizia armata sionista, legata al partito Laburista, ndt.], la forza armata dell’Agenzia ebraica che diventerà l’esercito israeliano, così scrive nel suo diario, il 6 novembre 1948: “A Safsaf, dopo (…) che gli abitanti hanno sventolato bandiera bianca, (i soldati) hanno riunito separatamente gli uomini e le donne, legato le mani a cinquanta o sessanta contadini e li hanno giustiziati e sepolti tutti in una fossa comune. Hanno anche violentato molte donne del villaggio (…) Dove hanno imparato un comportamento così crudele, simile a quello dei nazisti? (…) Un ufficiale mi ha raccontato che i più spietati sono stati quelli che venivano dai campi [di concentramento].”

In realtà, dal momento in cui la guerra finisce, il racconto dei vincitori si impone e la società civile israeliana affronta numerose altre sfide, molto più urgenti della sorte dei rifugiati palestinesi. Quelli che vorrebbero testimoniare lo fanno attraverso la narrativa e la letteratura.

Così lo scrittore e uomo politico israeliano Yizhar Smilansky fin dal 1949 pubblica Khirbet Khizeh, dove evoca l’espulsione dall’omonimo villaggio arabo. Per l’autore, non c’è nessun bisogno di avere rimorsi su questa parte della storia, questo “lavoro sporco” era necessario per costruire il progetto sionista. La sua testimonianza riflette una sorta di espiazione del peccato: riconoscere i propri torti e svelarli per liberarsi di un peso.

Diventato un successo, il romanzo viene adattato a film per la televisione nel 1977, ma la sua diffusione suscita vivaci dibattiti perché rimette in discussione la versione israeliana di un popolo palestinese partito volontariamente dalle sue terre per non vivere accanto agli ebrei.

Altre opere vengono pubblicate, ma poche danno altrettanta prova di realismo della trilogia di Netiva Ben-Yehuda, pubblicata nel 1984, il cui titolo, tradotto dall’ebraico, è “Il cammino dei legami: romanzo su tre mesi del 1948”. Comandante del Palmach, l’unità d’elite dell’Haganah, evoca le atrocità e le vessazioni commesse contro la popolazione civile araba e fornisce degli elementi sul massacro di Ein Zeintoun, che avvenne intorno al 1^ maggio del 1948.

La focalizzazione su Deir Yassin

Il 4 aprile 1972 il colonnello Meir Pilavski, membro del Palmach, nelle pagine di Yediot Aharonot, uno dei tre principali quotidiani israeliani, si confida sul massacro di Deir Yassin, che ebbe luogo il 9 aprile 1948 e in cui quasi 120 civili persero la vita. Afferma che i suoi uomini si trovarono nei pressi degli avvenimenti, che venne loro consigliato di ritirarsi quando compresero che erano in azione i miliziani dell’Irgun e dello Stern, gruppi di estremisti che si erano separati dall’Haganah.

Da allora le discussioni si concentrano sugli avvenimenti di Deir Yassin, fino al punto di dimenticare le altre circa 70 stragi di civili arabi. La questione è importante per la sinistra sionista: attribuire la responsabilità dei massacri ai gruppi estremisti.

Nel 1987, quando appaiono le prime opere dei “nuovi storici” israeliani, quali quelle di Ilan Pappé, una parte consistente dei battaglioni ebrei del 1948 è messa in discussione. Per chi aveva taciuto durante gli ultimi decenni, è tempo di parlarne pubblicamente.

Anche una parte della società israeliana sembra pronta a capire. Nel contesto della prima Intifada palestinese e dei negoziati che hanno preceduto [gli accordi di pace di] Oslo, gli ambienti pacifisti hanno intenzione di interrogare la loro società sul rapporto con l’Altro e sulla storia nazionale.

Questi spazi di dibattito si chiudono brutalmente con lo scoppio della seconda Intifada, più militarizzata e che si inserisce in un contesto di fallimento dei colloqui di Camp David e di rottura dei negoziati israelo-palestinesi. Il caso Teddy Katz incarna questo cambiamento di contesto.

Il “caso” Teddy Katz

Membro sessantenne di un kibbutz, nel 1985 Teddy Katz decide di riprendere i suoi studi e segue un percorso di ricerca storica all’università di Haifa sotto la direzione di Ilan Pappé. Intende chiarire gli avvenimenti che si sono svolti in cinque villaggi palestinesi, spopolati nel 1948. Realizza 135 interviste a combattenti ebrei, di cui 65 riguardanti la tragedia che avrebbe avuto luogo nel villaggio di Tantura, svuotato dei suoi 1.200 abitanti il 23 maggio 1948 da un battaglione del Palmach.

Dopo due anni di ricerca, nei suoi lavori Katz afferma che da 85 a 110 uomini vennero uccisi a sangue freddo sulla spiaggia di Tantura, dopo aver scavato la propria fossa. La strage continuò in seguito nel villaggio, casa per casa. Una caccia all’uomo si svolse anche nelle strade. Il massacro terminò con l’intervento degli abitanti ebrei del villaggio vicino di Zikhron Yaakov. Alla fine furono uccise più di 230 persone.

Nel gennaio del 2000 un giornalista di Maariv [uno dei principali quotidiani israeliani, considerato indipendente, ndtr.] decide di tornare a visitare alcuni dei testimoni di cui parla Katz. Il principale testimone, Bentzion Fridan, comandante del battaglione del Palmach che ha operato a Tantura, nega tutto e, con altri ufficiali, presenta denuncia contro Katz. Questi deve affrontare una decina di avvocati decisi a difendere l’onore degli “eroi” della Nazione.

Sotto pressione mediatica – che parla di lui come di un “collaborazionista” che racconta la versione del nemico – e giudiziaria, accetta di firmare un documento in cui riconosce di aver falsificato le testimonianze. Benché qualche ora dopo decida di ritrattare e una commissione accademica sia intervenuta in suo favore, la procedura giudiziaria viene chiusa.

Tra il tracollo di Oslo, il ritorno al potere del Likud, il fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba, la seconda Intifada e gli attentati kamikaze, la versione palestinese del 1948 non interessa più ai pacifisti israeliani, troppo impegnati per lo più a rientrare nei ranghi per non subire la condanna di una società ripiegata su se stessa.

Testimoniare per i posteri

Nel 2005 il regista Eyal Sivan e l’Ong israeliana Zochrot lavorano al progetto “Towards a Common Archive” [Verso un Archivio Comune], inteso a raccogliere le testimonianze di combattenti ebrei del 1948. Circa una trentina accetta di testimoniare, senza remore o quasi, su quello che ha fatto e visto durante questo periodo ricco di avvenimenti e in cui le narrazioni si scontrano.

Perché qualche anno dopo dei combattenti accettano di testimoniare? Per Pappé, direttore scientifico del progetto, ci sono tre ragioni. In primo luogo la maggior parte è arrivata alla fine della propria vita e quindi non ha più paura di parlare.

In secondo luogo, questi ex-combattenti ritengono di essersi battuti per un ideale che vedono degradarsi con l’ascesa in Israele degli ambienti religiosi, d’estrema destra e dello choc neoliberista imposto da Netanyahu durante i suoi successivi governi. Infine, si sono convinti che prima o poi le giovani generazioni verranno a conoscenza dell’origine dei rifugiati palestinesi e pensano che la trasmissione di questa storia imbarazzante faccia parte della loro responsabilità.

Le testimonianze di questi combattenti non sono omogenee. Alcuni si lasciano andare apertamente, mentre altri non desiderano affrontare certi argomenti. Tuttavia se tutti concordano sulla necessità, nel 1948, di espellere le popolazioni arabe per costruire lo Stato di Israele, le loro opinioni a volte si scontrano sull’utilità di sparare sui civili.

Tutti affermano di aver ricevuto ordini precisi relativi alla distruzione delle case arabe per impedire ogni volontà di ritorno della popolazione esiliata.

La “pulizia” dei villaggi veniva fatta in modo metodico: mentre si avvicinavano al posto, i soldati tiravano o lanciavano delle granate per spaventare la popolazione. Nella maggior parte dei casi questi atti erano sufficienti a far scappare gli abitanti. A volte, era necessario far saltare in aria una o due case all’entrata del villaggio per obbligare a fuggire i pochi che si ostinavano a non scappare.

Riguardo ai massacri, per alcuni questi atti facevano parte delle operazioni di “pulizia”, dato che la direzione del movimento sionista le aveva autorizzate, in certi casi, ad andare oltre questo limite. Il “limite”, appunto, veniva superato sistematicamente quando la popolazione si rifiutava di andarsene, oppure si trincerava per resistere e combattere.

A Lod più di un centinaio di abitanti si rifugiò così nella moschea, credendo alle voci secondo cui i combattenti ebrei non attaccavano i luoghi di culto. Un tiro di lanciarazzi distrusse il loro rifugio, che crollò su di loro. In seguito i corpi vennero bruciati.

Secondo altri, i dirigenti Yigal Allon, capo del Palmach, e David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, si sarebbero opposti a sparare contro i civili, dando l’ordine di lasciarli andare e poi di distruggere le case.

I combattenti testimoniano anche di un atteggiamento contraddittorio dei palestinesi. Nella maggior parte dei casi sembravano “terrorizzati” e completamente sconcertati dagli avvenimenti, il che accelerava il flusso dei rifugiati. Secondo queste testimonianze, alcuni arabi supplicavano i soldati di non far loro “come a Deir Yassin”.

Altri sembravano convinti di poter tornare a casa loro alla fine dei combattimenti, tanto che un testimone afferma che alcuni abitanti del villaggio di Bayt Naqquba lasciarono ai loro vicini ebrei del kibbutz di Kiryat-Avanim, con cui avevano buoni rapporti, le chiavi delle loro case in modo che potessero controllare che niente venisse saccheggiato.

Questi buoni rapporti tra ebrei e arabi ritornano regolarmente, e sono rare le testimonianze che parlano di astio prima dell’inizio della guerra. Durante un’espulsione presso Beersheba, dei contadini palestinesi andarono a chiedere aiuto agli abitanti del vicino kibbutz, che non esitarono a intervenire e a denunciare le azioni dei soldati sionisti.

Più di 60 anni dopo gli eventi, i combattenti non si dimostrano, o lo sono poco, pentiti.  Secondo loro era necessario liberare lo spazio del territorio promesso dall’ONU per fondarvi lo Stato ebraico e far sparire gli arabi dalla scena.

– Thomas Vescovi è docente e ricercatore di storia contemporanea. È autore di “Bienvenue en Palestine” [Benvenuti in Palestina] (Kairos, 2014) e di “La Mémoire de la Nakba en Israël” [La memoria della Nakba in Israele] (L’Harmattan, 2015).

Le opinioni esposte nell’articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché l’occupazione non è casuale

Rod Such

 18 settembre 2017 The Electronic Intifada

La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati, di Ilan Pappe, Oneworld Books (2017)

Secondo “La più grande prigione al mondo”, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.

La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito)- ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.

Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.

Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.

La novità contenuta in “La più grande prigione al mondo” è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”

Sistema di controllo

La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, “La pulizia etnica della Palestina”, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.

E in un certo senso “La più grande prigione al mondo” completa una trilogia, che comprende anche “I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele”, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.

Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.

Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker “Palestinian refugees: Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.

Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.

Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”

Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.

Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro “Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007.” [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.

Percepibile

Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.

E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.

Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza- con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)