Cancellazione o resilienza: come la Nakba è giunta a definire l’identità collettiva dei palestinesi

Ramzy Baroud

25 aprile 2023 – Middle East Monitor

Il 15 maggio la Nakba palestinese compirà 75 anni. I palestinesi in tutto il mondo commemoreranno la “Catastrofe” durante la quale, con la minaccia delle armi, circa 800.000 dei loro progenitori furono cacciati dalle loro case e terre e 500 città e villaggi spazzati via dalla faccia della terra dalla pulizia etnica iniziata nella Palestina storica fra la fine del ‘47 e la metà del ‘48.

Lo spopolamento della Palestina è durato mesi, anzi anni, dopo che la si pensava finita. Ma in realtà la Nakba è sempre continuata. A oggi le comunità palestinesi a Gerusalemme Est, nelle colline a sud di Hebron, nel deserto del Naqab e altrove stanno ancora patendo le conseguenze della ricerca di Israele della supremazia demografica. E naturalmente, milioni di rifugiati palestinesi restano apolidi, a loro vengono negati elementari diritti politici e umani.

Nel 2001 l’intellettuale palestinese Hanan Ashrawi in un discorso alla Conferenza mondiale contro il razzismo dell’ONU descrisse in modo appropriato il popolo palestinese come una “una nazione imprigionata ostaggio di una Nakba continua”. Ashrawi poi approfondì e descrisse questa ” Nakba continua” come ” la più complessa e diffusa espressione di colonialismo, apartheid, razzismo e vittimizzazione persistenti.” Ciò significa che non dobbiamo pensare alla Nakba solo come a un evento accaduto in un tempo e luogo definiti.

Sebbene la gigantesca ondata di rifugiati del 1947-48 fosse il risultato diretto della campagna sionista di pulizia etnica ideata con il “Piano Dalet”, il progetto diede ufficialmente inizio a una più ampia Nakba che continua ancora oggi. Il “Piano Dalet” (la lettera “D” nell’alfabeto ebraico) fu intrapreso dai leader sionisti ed eseguito dalle milizie sioniste per sgombrare la Palestina della maggioranza dei suoi abitanti autoctoni. Ebbero successo e, nel fare ciò, spianarono la strada a decenni di violenze e sofferenze subite ancora oggi dal popolo palestinese.

In realtà l’attuale occupazione israeliana e il radicato e razzista regime di apartheid imposto in Palestina non sono semplicemente le conseguenze volute, intenzionali o meno, della Nakba, ma anche le manifestazioni dirette di una Nakba che non è mai veramente finita.

Il fatto che secondo il diritto internazionale i rifugiati palestinesi, indipendentemente dagli eventi specifici che hanno innescato la loro rimozione forzata, abbiano diritti “inalienabili” è ampiamente riconosciuto, sebbene tristemente disatteso. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite rende legalmente impossibile a Israele violare tali diritti. Inoltre, la risoluzione 194 (III) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1948 afferma che “ai rifugiati che vogliano ritornare alle loro case e vivere in pace con i propri vicini deve essere permesso di farlo appena possibile.” Secondo l’ONU ciò doveva essere realizzato “dai governi o dalle autorità responsabili.”

In Israele il governo “responsabile” si è mosso rapidamente per mettersi al riparo da ogni condanna o responsabilità. Documenti “top secret” rinvenuti da ricercatori israeliani e pubblicati sul quotidiano israeliano Haaretz, includono un fascicolo etichettato GL-18/17028. Il documento dimostra come, subito dopo il completamento della prima e maggiore fase di pulizia etnica della Palestina, il primo ministro di Israele David Ben Gurion cercò di “riscrivere la storia”. Per raggiungere il proprio scopo Ben Gurion scelse la più vergognosa di tutte le strategie: incolpò le vittime palestinesi. Ma perché i vittoriosi sionisti si sarebbero preoccupati di temi apparentemente tanto triviali come le narrazioni?

Haaretz aggiunge: “Proprio come il sionismo aveva forgiato una nuova narrazione per l popolo ebraico, in pochi decenni, [Ben Gurion] capì che anche l’altra nazione che era vissuta nel Paese prima dell’avvento del sionismo si sarebbe impegnata a formulare una narrazione sua propria”. Ovviamente questa ” altra nazione ” è il popolo palestinese.

Il punto cruciale della narrazione sionista della pulizia etnica della Palestina fu quindi basato sull’affermazione continuamente ripetuta che i palestinesi se ne erano andati “per scelta “, anche se stava diventando chiaro ai sionisti stessi che “solo in pochi casi gli abitanti avevano abbandonato i villaggi su istruzione dei loro leader [locali] o mukhtar.”

Comunque, anche in questi pochi casi isolati, in tempi di guerra cercare salvezza altrove non è reato e non dovrebbe costare a un/una rifugiato/a il diritto inalienabile di far ritorno alla propria terra. Se la bizzarra logica sionista venisse accolta nel diritto internazionale, allora i rifugiati di Siria, Ucraina, Libia, Sudan e di tutte le altre zone di guerra perderebbero i loro diritti legali alle loro proprietà e cittadinanza nelle rispettive patrie.

Tuttavia la logica sionista non intendeva solo sfidare i legittimi diritti politici del popolo palestinese, ma faceva anche parte integrante di un processo più ampio chiamato dagli intellettuali palestinesi ‘cancellazione’, cioè la sistematica distruzione della Palestina, della sua storia, cultura, lingua, memoria e naturalmente del suo popolo. Questo processo si ritrova già nelle trattazioni dei primi sionisti prima che la Palestina fosse svuotata dei propri abitanti, trattazioni in cui la patria del popolo palestinese era percepita perfidamente come “una terra senza popolo”. La negazione dell’esistenza stessa dei palestinesi è stata espressa numerose volte nella narrazione sionista e continua a essere usata ancora oggi.

Tutto ciò significa che 75 anni di continua Nakba e la negazione del fatto stesso del gigantesco crimine da parte di Israele e dei suoi sostenitori richiedono una comprensione molto più profonda di quello che è successo, e continua a succedere, al popolo palestinese.

I palestinesi devono insistere che la Nakba non è una singola questione politica da discutere o negoziare con Israele o con coloro che sostengono di rappresentarli. “I palestinesi non hanno alcun obbligo morale o legale di assecondare gli israeliani a proprie spese,” ha scritto il famoso storico palestinese Salman Abu Sitta in riferimento alla Nakba e al diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. “Secondo qualsiasi norma Israele ha l’obbligo di porre rimedio alla monumentale ingiustizia commessa.”

Anzi la Nakba è una storia palestinese del passato, presente e futuro, che racchiude tutto. Non è solo una storia di vittime, ma anche della resilienza palestinese, sumud. È l’unico programma più unificante che riunisce tutti i palestinesi, oltre i limiti di fazioni, politiche o geografia. La Nakba ha finito per definire l’identità collettiva palestinese.

Quindi per i palestinesi la Nakba non è semplicemente una singola data da ricordare ogni anno. È l’intera loro storia, la cui conclusione sarà scritta, a tempo debito, dai palestinesi stessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




90 organizzazioni sollecitano la Commissione Indipendente Internazionale di Indagine sulla Palestina dell’ONU a riconoscere e affrontare il colonialismo sionista di insediamento e l’apartheid quali cause alla radice delle continue violazioni di Israele.

Al Haq

28 giugno 2022 – Al-Haq, Defending Human Rights

Il 31 maggio 2022 Al-Haq e 90 organizzazioni palestinesi e internazionali hanno inviato alla Commissione Internazionale Indipendente di Indagine sulla Palestina delle Nazioni Unite (CoI) una richiesta congiunta di esame del colonialismo sionista di insediamento e dell’apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni dei diritti inalienabili del popolo palestinese. La richiesta congiunta è una risposta al mandato unico assegnato alla CoI istituita (dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, ndtr.) nel maggio 2021, il primo ente investigativo dell’ONU incaricato di esaminare le cause profonde alla radice della sistematica discriminazione e repressione dell’intera Palestina colonizzata, consentendo così di riconoscere che le violazioni israeliane in Palestina sono radicate nel progetto coloniale di insediamento storico e attuale e di considerare il popolo e il territorio palestinese come un insieme che si autodetermina, invece di un popolo e un territorio frammentati.

Le organizzazioni richiedenti riconoscono che lo specifico mandato della CoI è principalmente relativo alla popolazione palestinese sul campo che nel maggio 2021 si è mobilitata in una lotta collettiva di resistenza popolare. Questa resistenza popolare è una sfida a 73 anni di frammentazione imposta dalla colonizzazione israeliana di insediamento e apartheid con quella che è nota come Intifada/Rivolta dell’Unità.

Prima di analizzare il regime di colonialismo sionista di insediamento e di apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni di Israele, il documento spiega la necessità che sta dietro a questa impostazione, alternativa alla narrativa egemone riguardo alla Palestina, che dipinge ancora la situazione come “conflitto israelo-palestinese”, incentrato ‘solo’ sull’occupazione a partire dal 1967. Adottare l’impostazione basata sul colonialismo di insediamento e sull’apartheid consente di considerare la condizione del popolo palestinese nella sua complessità. Ciò sposta il discorso da un focus sulle cosiddette soluzioni politiche alla lotta per l’autodeterminazione, finalizzata a smantellare il regime israeliano di colonialismo di insediamento, invece di perseguire “modifiche” alle condizioni di vita sotto il dominio del sionismo, o una “uguaglianza liberale”.

Il documento congiunto approfondisce poi la storia del movimento sionista di colonialismo di insediamento, intendendo lo Stato coloniale israeliano come un prodotto di tale movimento. Il documento si occupa della nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo e di come esso abbia adottato insieme le ideologie di autoidentificazione razziale delle persone di fede ebraica e di colonialismo di insediamento, che comporta l’eliminazione della popolazione nativa e l’annessione delle sue terre a beneficio del gruppo razziale colonizzatore costituito ex-novo.

Le organizzazioni sottolineano come il movimento sionista abbia utilizzato un apparato proto-statale e sia stato complice delle potenze imperialiste per “creare una patria in Palestina garantita dal diritto pubblico per il popolo ebraico”. Il documento rileva il ruolo illegittimo della Gran Bretagna nel facilitare la colonizzazione sionista in Palestina, in violazione della Convenzione della Lega delle Nazioni che prevedeva il riconoscimento provvisorio dell’indipendenza del popolo palestinese ed il suo diritto all’autodeterminazione, e in violazione dell’obbligo della potenza mandataria di amministrare il territorio nell’interesse del popolo autoctono palestinese.

Inoltre il documento prende in esame la pianificazione del trasferimento e ricollocazione del popolo palestinese prima della Nakba da parte del movimento sionista di colonialismo di insediamento, analizzando il “Piano Dalet” [piano militare messo a punto dalla dirigenza sionista per espellere i palestinesi dal loro territorio, ndtr.) e la sua attuazione, che portò alla distruzione di almeno 531 villaggi palestinesi e all’espulsione della loro popolazione indigena, cosa che trasformò l’80% dei palestinesi in rifugiati e sfollati interni nel loro stesso Paese.(1) Quindi la creazione dello Stato di Israele sul 77% della Palestina fu il culmine del movimento sionista di colonialismo di insediamento, ma non ne fu la fine. Lo Stato coloniale israeliano adottò l’ideologia sionista del trasferimento e reinsediamento della popolazione palestinese autoctona, instaurò ed istituzionalizzò un regime di dominazione razziale ebraica e di oppressione del popolo palestinese che configura il crimine di apartheid.

Il documento esamina poi il regime di apartheid di Israele, prendendo in considerazione la serie di leggi e di politiche sviluppate da Israele fin dalla sua creazione, in particolare negli ambiti della terra, della pianificazione urbanistica, della nazionalità, residenza e immigrazione, operando una netta separazione tra la popolazione palestinese indigena e gli ebrei israeliani, in modo da legalizzare e legittimare i crimini commessi prima della Nakba e garantire la continuità dei trasferimenti e spoliazioni. Il documento spiega come queste politiche e piani di apartheid proseguano dopo l’occupazione bellica, per mantenere il dominio e la sottomissione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [confini stabiliti dagli accordi di armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi, ndtr.).

Viene poi presa in esame la frammentazione strategica del popolo palestinese da parte di Israele, come strumento per consolidare il proprio regime di apartheid mediante il diniego ai rifugiati palestinesi del diritto al ritorno, l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento, alla residenza e all’ingresso e la negazione della vita familiare.

Il documento analizza l’intenzione di Israele di mantenere il proprio regime di apartheid annientando la resistenza palestinese attraverso il governo militare, le uccisioni deliberate, la repressione delle manifestazioni, la detenzione arbitraria, la tortura ed altri abusi e punizioni collettive, come anche tramite campagne diffamatorie contro associazioni e individui difensori dei diritti umani che cercano di sfidare il regime di apartheid.

In conclusione, le organizzazioni denunciano l’impunità di Israele ed il ruolo della comunità internazionale nel rendere possibile la colonizzazione della Palestina. Le organizzazioni apprezzano la CoI come promettente opportunità di riconoscere la situazione nella Palestina colonizzata per ciò che è e di agire in prospettiva della decolonizzazione, di una vera giustizia e di risarcimenti al popolo palestinese. 

    1. Ilan Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld, 2007 [La pulizia etnica in Palestina, Fazi, 2008].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il piano di annessione di Netanyahu è una finzione. L’apartheid è in atto da decenni

Richard Silverstein

24 giugno 2020 Middle East Eye

L’annessione è una finzione.

Non fraintendetemi: questo non significa che il proposito di annessione della Valle del Giordano da parte di Israele non causerà ulteriori espropriazioni ai palestinesi. Israele ruberà il 30% della terra riservata a uno Stato palestinese sulla base di precedenti proposte di pace fallite, causando ulteriore sofferenza ai palestinesi.

Ma questa particolare proposta di annessione, sulla quale il nuovo governo israeliano si è accordato nel suo programma di coalizione, rappresenta un diversivo, una distrazione dalla natura sistemica dell’espropriazione israeliana nei confronti dei palestinesi. Essa consente ai sionisti progressisti e alla comunità internazionale di focalizzare la loro attenzione sul come annullare questa grave ingiustizia, sollevandoli dalla responsabilità riguardo all’intero regime di apartheid sviluppato da Israele, sia all’interno che all’esterno della linea verde [linea di demarcazione fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti esistente dalla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 -1949 n.d.tr.].

Intolleranza religiosa

Dichiarazioni di leader ebrei britannici, membri del Congresso degli Stati Uniti, funzionari dell’Unione Europea ed esperti in diritti umani hanno ammonito sulle conseguenze dell’annessione. Hanno preso di mira il ventre molle, “moderato”, della coalizione di governo, i membri della Knesset del partito Blu e Bianco [partito di centro, ndtr.], dicendo loro con quanta riprovazione il mondo avrebbe guardato Israele se questa proposta fosse stata approvata.

Ma tutto questo lamentarsi dei progressisti distoglie da un male molto più profondo: un regime di suprematismo ebraico basato sull’intolleranza religiosa e sulla pulizia etnica.

Il problema con lo Stato israeliano non è legato ad una politica particolare, per quanto odiosa. Risale alle stesse fondamenta dello Stato e al pensiero dei suoi fondatori, in primis David Ben-Gurion. Mentre tra i primi leader sionisti esistevano alcune voci che cercavano l’integrazione, o almeno la coesistenza pacifica, con i loro vicini palestinesi, Ben-Gurion era un massimalista che nei suoi diari e lettere ha fatto propria la pulizia etnica molto prima di fondare lo Stato.

Il sine qua non dello Stato era per lui una maggioranza e la superiorità degli ebrei. Gli “arabi” avrebbero potuto rimanere all’interno dei confini della nuova Nazione, ma solo se avessero accettato la loro condizione di inferiorità.

Anche allora Ben-Gurion temeva così tanto la presenza palestinese che lui e la milizia Palmach [“compagnie d’attacco”, forze paramilitari fondate all’epoca del protettorato britannico, ndtr.] organizzarono e condussero il Piano Dalet, [“Piano D”, redatto durante la prima fase della guerra arabo-israeliana del 1948, ndtr.] che provocò la Nakba – l’espulsione di 750.000 palestinesi, in concomitanza con la fondazione di Israele nel 1948.

Le comunità palestinesi sopravvissute alla guerra rimasero sotto la legge marziale per due decenni, sebbene non rappresentassero alcuna minaccia per la sicurezza.

Bollire la rana

Come ebreo americano, sono cresciuto con il sionismo progressista. Mi è stato insegnato sin da piccolo che Israele era uno Stato ebraico e democratico. Mi è stato insegnato ad essere orgoglioso della coesistenza reciproca di quei due termini. Ma la componente religiosa dell’identità israeliana, come è stata definita, preclude la democrazia; non possono coesistere. Mi ci sono voluti decenni per rendermene conto.

Mentre sarebbe sconsigliato tentare di eliminare o reprimere la religione in uno Stato Israele-Palestina veramente democratico, la religione dovrebbe essere separata dalla governance politica se questo Stato dovesse mai diventare normale.

Le religioni dei cittadini ebrei e palestinesi di Israele rimarranno determinanti per loro e per le loro identità. Se praticate in modo appropriato, arricchirebbero il tessuto dello Stato senza pregiudicare un gruppo religioso o etnico rispetto a un altro. Ma l’attuale regime israeliano ha molto in comune con la repubblica islamica iraniana, il protettorato islamico dell’Arabia Saudita o i talebani afgani piuttosto che con la democrazia occidentale.

Uno degli aspetti astuti dell’espansionismo sionista è quello di perseguire i suoi obiettivi gradualmente, piuttosto che tutti in una volta. La povera rana non si rende conto di essere bollita nella pentola fino a quando non è troppo tardi, perché la fiamma aumenta la temperatura gradualmente e quasi impercettibilmente.

Pertanto, Netanyahu ha già rinunciato alla sua proposta originale di annettere l’intera Valle del Giordano. Ora si sta baloccando con un'”annessione leggera”, che comprenda le principali enclavi di colonie di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, lasciando intatto il resto del territorio. Ciò nasconde il fatto che una volta che questi blocchi diverranno parte di Israele, il territorio circostante risulterà palestinese solo di nome; tutto ciò che rimarrà sarà circondato da recinzioni, strade e infrastrutture israeliane. E Israele potrebbe, in un secondo momento, annettere il resto.

L’unica cosa positiva

In un recente webinar su Middle East Eye, il professor Rashid Khalidi [noto storico americano-palestinese, ndtr.] ha descritto l’annessione come “in gran parte un diversivo”, osservando che essa è in corso in un modo o nell’altro dal 1967, con le leggi israeliane già applicate in tutti i territori occupati.

“Dobbiamo pensare in termini più ampi rispetto al linguaggio strettamente diplomatico che è stato utilizzato. Israele ha iniziato ad annettere, costruendo la realtà di uno Stato unico, dal 1967. Questo [attuale piano di annessione] è solo un piccolo passo nel processo”, ha detto Khalidi, osservando che la proposta più limitata di Netanyahu riguardante le tre enclavi di insediamenti coloniali equivale a una “farsa”.

“Dovremmo parlare in termini molto più essenziali dei problemi strutturali sistemici che sarà necessario affrontare se questo problema deve essere risolto su una base giusta ed equa”, ha affermato.

Se c’è un lato positivo nel piano di annessione, è che i sionisti progressisti, i quali una volta denunciavano il movimento di boicottaggio e chiunque etichettava Israele come uno Stato di apartheid, sono stati costretti a fare i conti con il fallimento della loro visione.

Benjamin Pogrund, attivista anti-apartheid sudafricano, che ha trascorso decenni a combattere l’idea che Israele sia uno Stato di apartheid, ha recentemente dichiarato in un’intervista: “Se annettiamo la Valle del Giordano e le aree coloniali, siamo un’apartheid. Punto. Non ci sono dubbi al riguardo.”

I bantustan sudafricani [enclavi di confinamento razziale del Sudafrica dell’era dell’apartheid, n.d.tr.] “erano semplicemente una forma più raffinata di apartheid per mascherare la realtà”, ha aggiunto Pogrund, osservando che le conseguenze della prevista annessione da parte israeliana “saranno ovviamente estremamente gravi. I nostri amici nel mondo non saranno in grado di difenderci ”.

Crepe e divisioni

Allo stesso modo, anche il partito tedesco pro-Israele Die Linke [La Sinistra, ndtr.] ha chiesto di sanzionare Israele se questo programma andrà avanti. “Se il governo israeliano dovesse decidere di attuare l’annessione – ha affermato in una nota – Die Linke proporrà la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Questo protocollo UE è importante non solo perché offre a Israele scambi senza dazi doganali e privilegi degli Stati membri, ma anche per lo status che conferisce a Israele, sia in Europa che nel mondo. Perdere questi privilegi sarebbe un duro colpo economico e politico.

Come notato dal giornalista Ali Abunimah, la dichiarazione del partito, si avvicina all’abbandono della soluzione dei due Stati, che è il nucleo del sionismo progressista che Die Linke sostiene: “Di fronte all’apparente rifiuto del governo israeliano di un equa soluzione con due Stati, in cui i cittadini di entrambe le parti vivrebbero con pari diritti, Die Linke chiede pari diritti civili per palestinesi e israeliani “, ha affermato il partito.

“Per Die Linke, il seguente principio vale ovunque e sempre: tutti gli abitanti di ogni Paese dovrebbero godere di pari diritti, indipendentemente dalla loro religione, lingua o gruppo etnico.”

È importante non esagerare il significato di questi cambiamenti. Sicuramente segnano delle variazioni nelle fila dei sostenitori progressisti di Israele. Non vi sono, inoltre, dubbi sugli scivolamenti tettonici nella politica americana su Israele / Palestina, che hanno notevolmente ampliato il dibattito. Ma come abbiamo visto in passato, proprio come le placche tettoniche possono rompersi e dividersi, le forze geologiche possono riportarle di nuovo insieme.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato ad esporre gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. I sui lavori sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out [Un tempo per parlare a voce alta, ndtr.] (Verso) ed è autore di un altro saggio della raccolta, Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: punti di vista alternativi sulla governance] (Rowman & Littlefield)

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Deir Yassin, 9 aprile 1948/2020 Il diritto alla memoria.

Dirar Tafeche,

8 aprile 2020.

A Gerusalemme ci sono due colline affacciate l’una di fronte all’altra che raccontano due diverse storie. La prima è famosa in tutto il mondo, viene visitata anche da alcuni capi di Stato e sulla quale è situato lo Yad Vashem, simbolo della condanna dei crimini contro l’umanità. Sulla seconda, oggi, è ubicata la cittadina israeliana Kfar Sha’ul, dove un giorno c’era il villaggio di Deir Yassin.

Le due colline sono separate nello spazio da una vallata, ma anche nel tempo, in quanto ognuna racconta dei fatti generati da contesti differenti. Cosicché non esistono paragoni, anche se Edward Said, saggista palestinese, afferma che ce n’è uno: ebrei e palestinesi, nella loro tragedia, sono stati lasciati da soli. La sofferenza degli ebrei è ricordata e celebrata. Invece non una targa, una lapide o un monumento che ricordi il massacro di Deir Yassin: mancanza imposta dalla legge dello Stato di Israele. E’ un sentenza che nega ed elimina deliberatamente un evento di commemorazione. Il messaggio “mai più” atrocità e barbarie per lo Stato di Israele, vale per gli uni e non per gli “altri”. Ripeto, è la legge dello Stato di Israele che vieta ogni celebrazione della Nakba (catastrofe) perchè Palestina e palestinesi finiscano nell’oblio della storia.  Il nome del villaggio deriva dall’esistenza di un Deir (che tradotto dall’arabo, significa monastero) e da una tomba di un dotto musulmano di nome Yassin. Le case (nel 1944 erano 144) erano state edificate con  pietre massicce e separate da vie strette e curve. Alcune di queste case si possono vedere ancora oggi. La popolazione (nel 1948 c’erano 708 abitanti) era in buona parte benestante, lavorava la terra nella vallata, ricca di due sorgenti che permettevano di coltivare olivi, grano e mandorle. Alcuni abitanti, data la posizione strategica della vicinanza alla strada di collegamento tra Giaffa Gerusalemme, erano commercianti. Altri, soprattutto ai tempi del mandato britannico, erano famosi tagliapietre nelle ricche quattro cave che fornivano pietre solide e buon guadagno.

Gli scolari, all’inizio, studiavano nella scuole della vicina Lifta, ma nel 1943 Deir Yassin si arricchì di due scuole, una femminile e l’altra maschile, e di una moschea. Nel 1906, ad ovest nacque la colonia Kfar Sha’ul e più tardi, a sud est, Yefe Nof e Beit HaKerem. Attualmente la collina è letteralmente circondata da molte altre cittadine israeliane. I rapporti tra palestinesi ed ebrei, prima della dichiarazione di Balfour nel 1917 che promise agli ebrei un focolare nazionale in Palestina, erano di buon vicinato, con scambi commerciali. Man mano, quando divenne chiara l’intenzione sionista di costruire uno Stato ebraico, l’atmosfera pacifica si incrinò, fino a rompersi durante la rivolta palestinese del 1933 contro gli inglesi che assicurarono la migrazione ebraica in Palestina, per essere poi ripresa dopo che la Gran Bretagna sedò la rivolta nel 1939.

Il massacro

Il villaggio è stato teatro di un massacro, nonostante il trattato di non belligeranza stipulato tra i notabili del villaggio di Deir Yassin e i capi dell’ Haganah [la principale milizia sionista]. L’attacco cominciò all’alba del 9 aprile 1948. Fu opera delle due bande ebraiche del IZL (Irgun Zvai Leumi) capeggiate dal futuro Primo Ministro e Premio per la Pace Menachem Begin, e dalla banda Stern di Yizhak Shamir, anch’egli futuro Primo Ministro. Le due squadre entrarono nel villaggio alle 4.00 del mattino, con lancio di bombe da un aeroplano, seguite dall’invasione di uomini e carri armati. 120 uomini armati con mitragliatrici avanzarono nel villaggio lanciando bombe a mano nelle finestre e minando la base di ogni edificio. Gli abitanti, barricati nelle case, riuscirono a fermare l’attacco per breve tempo ma la resistenza finì presto per le scarse munizioni e per l’arrivo, in aiuto agli assalitori, dell’unità del Palmach, compagnia d’élite dell’ Haganah, futuro esercito di Israele. “Il comandante [ dell’ Haganah] Ya’akov Vaag portò i suoi uomini a Deir Yassin e cominciò a bombardare il villaggio con i mortai. Eliminata la resistenza, Meir Pa’il, l’ufficiale di collegamento dell’ Haganà che accompagnava la “missione”, ordinò a Ya’akov Vaag di ritirare i suoi uomini e di  lasciare il seguito nelle mani degli uomini dell’Irgun e della Stern”… “Gli abitanti vengono rastrellati casa per casa e uccisi. Decine di cadaveri vengono gettati nel pozzo nella piazza del villaggio”.(1)

Quel 9 aprile, 120 assalitori eseguirono il massacro uccidendo 254  abitanti inermi, secondo la Croce Rossa a Gerusalemme, giunta il giorno dopo sul luogo. Molti furono i cadaveri per terra e sotto le macerie delle case. I pochi sopravvissuti si rifugiarono a Gerusalemme, Jerico e Hebron. Alle cinque di sera, alcuni prigionieri ammanettati e scalzi, furono caricati su camionette e portati a Gerusalemme come vittoria, gridando slogan trionfalistici per le vie della città. Lo storico israeliano Benny Morris, nel libro Vittime [Rizzoli 2002,  pgg. 265-266] scrive: “I maschi adulti vennero portati in città su alcuni camion, fatti sfilare per le strade, [di Gerusalemme] riportati al punto di partenza e fucilati con mitragliatrici e fucili mitragliatori. Prima di caricarli sui camion, gli uomini dell’ IZL e della Lehi [acronimo di Lohamei Herut Israel, un gruppo paramilitare terroristico sionista, ndr] perquisirono donne, uomini e bambini e presero loro denaro e gioielli. Il trattamento riservato a costoro fu particolarmente barbaro, con calci, pressioni con le canne dei fucili, sputi e insulti (alcuni abitanti di Givat Shaul parteciparono alle sevizie)”. “Il servizio informazione dell’IDF (Israel Defense Forces) definì Deir Yassin ,” un fattore decisivo di accelerazione della fuga in massa”. ll massacro di Deir Yassin non è tra i più grandi commessi a danno dei civili palestinesi, ma servì a creare panico e paura in tutta la Palestina, costringendo gli abitanti a lasciare le loro case nel 1948.

Le testimonianze

La sistematica distruzione di più di 400 villaggi e la cacciata di 700/800mila palestinesi dalle loro case faceva parte del Piano Dalet, decretato dall’ Haganah, con la prima operazione che prese il nome di Operazione Nachshon ed era diretta precisamente ad occupare i villaggi rurali nell’area delle montagne di Gerusalemme. Al riguardo, ci sono molte testimonianze nei libri degli storici arabi, israeliani e di altri Paesi, alcuni dei quali sono pubblicati in Internet e sul sito “palestineremembered.com”. Credo però che la più efficace, netta e idonea al caso, sia la dichiarazione degli stessi esecutori, documentata in un lungo ed interessante articolo di Ofer Aderet nel quotidiano Haaretz, che consiglio di leggere per la loro consapevolezza della finalità e per la crudeltà dell’esecuzione. (2) Per essere breve, solo due stralci da quell’articolo al quale rimando per l’eventuale lettura: “Un giovane legato ad un albero e dato alle fiamme. Una donna ed un vecchio vengono fucilati alla schiena. Ragazze messe al muro e colpite con una pistola”; “Abbiamo confiscato un sacco di soldi, gioielli d’argento e d’oro sono caduti nelle nostre mani”. Invece dell’articolo di Aderet preferisco la citazione di un ragazzino documentata da Ilan Pappe, storico israeliano, nel libro “La  Pulizia Etnica della Palestina” [ Fazi Ed., 2008, pag.117]: “Fahim Zaydan, che a quei tempi aveva dodici anni, così ricorda l’esecuzione della sua famiglia, avvenuta davanti a suoi occhi: ‘Ci portarono fuori uno dopo l’altro; spararono a un uomo anziano e quando una delle sue figlie si mise a piangere spararono anche a lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammed e gli spararono davanti a noi, e quando mia madre gridò chinandosi su di lui, con in braccio la mia sorellina Hunda che stava ancora allattando, spararono anche a lei.’ Spararono allo stesso Fahim, che fu fortunato a sopravvivere, nonostante le ferite”.

L’Operazione Nachshon, dopo Deir Yassin, continuò nei villaggi vicini: Qalunia, Sais, Beit Surik e Biddo. Tuttavia, dopo alcuni giorni “cinquantatre bambini orfani furono trovati dalla signorina Hind Husseini lungo le mura della Città Vecchia, e portati a casa sua, che sarebbe diventata l’orfanotrofio di Dar El-Tifl El-Arabi(“casa del bambino arabo”)(3).  Questo orfanotrofio esiste ancora oggi.

Deir Yassin oggi

L’Operazione Nachshon è stata progettata dall’ Haganà, futuro esercito di Israele e mirava al controllo totale dei villaggi del distretto di Gerusalemme per la loro posizione strategica di vicinanza alla strada Giaffa-Gerusalemme. Dopo il massacro, le bande ebraiche occuparono il villaggio, ormai evacuato e liberato da palestinesi. Qua e là, restano in piedi alcuni case oggi usate da israeliani ebrei come abitazioni e magazzini commerciali. Alla periferia, nei campi, qualche albero d’olivo sommerso dall’erba, come anche il cimitero dove le lapidi, attestano alcuni defunti in data remota.

Conclusione

“Il popolo che non ha memoria, non ha storia”.

Deir Yassin è stato un evento molto doloroso e in gran parte è stato sepolto da Israele e non dai palestinesi. Oggi questi ultimi, a dispetto di ogni avversità, stanno cercando di far rinascere la loro storia e di promuovere il lato umano, politico e culturale di un popolo, vittima del razzismo sionista portato avanti da un Stato che si dichiara democratico. Attraverso associazioni, iniziative con presentazioni di documenti, dibattiti, filmati, mostre e quant’altro, si vuole rianimare la memoria per accrescere la consapevolezza dell’ingiustizia subita dai palestinesi per mano delle bande ebraiche. Tutte le iniziative sono intimamente connesse a due principi: il Diritto al Ritorno e il Diritto alla Memoria. In entrambi i casi, Israele è sempre stata un impedimento e un oppressore.

(1)- Dal libro “Palestina” pag. 60. edizione Zambon, 2010.

(2)- Haaretz del 17.7.2017, titolo: Testimonies From the Censored Deir Yassin Massacre: ‘They Piled Bodies and Burned Them’ di Ofer Aderet.

(3)- Dal libro (pubblicato in arabo in palestineremembered.com) “La Nakba e il Paradiso Perduto” di Aref el Aref, storico palestinese e sindaco di Beer Sheba nel ‘48.




70 anni di promesse mancate: la storia non raccontata del piano di partizione

Ramzy Baroud

22 novembre 2017, Palestine Chronicle

In un recente discorso prima del gruppo di ricerca di Chatham House [Ong britannica che si occupa di ricerche di politica internazionale, tra i più influenti al mondo, ndt.] di Londra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione dello Stato palestinese da un punto di vista astratto.

Prima di pensare alla creazione di uno Stato palestinese, ha affermato, “è tempo che noi riconsideriamo se il nostro modello di sovranità, e di sovranità illimitata, sia applicabile ovunque nel mondo.”

Non è la prima volta che Netanyahu getta discredito sull’idea di uno Stato palestinese. Nonostante le chiare intenzioni di Israele di vanificare ogni possibilità di creare un tale Stato, l’amministrazione USA di Donald Trump, a quanto sembra, sta mettendo a punto piani per un “accordo di pace definitivo.” Il New York Times suggerisce che “il piano previsto dovrà essere costruito intorno alla cosiddetta soluzione dei due Stati”.

Ma perché sprecare sforzi, quando tutte le parti in causa, compresi gli americani, sanno che Israele non ha intenzione di consentire la creazione di uno Stato palestinese e gli USA non hanno né l’influenza politica, né il desiderio, per imporla?

La risposta forse non si trova nel presente, ma nel passato.

Inizialmente uno Stato arabo palestinese era stato proposto dagli inglesi come tattica politica, per fornire una copertura giuridica alla creazione di uno Stato ebraico. Questa tattica politica continua ad essere utilizzata, anche se mai con l’obbiettivo di trovare una “giusta soluzione” al conflitto, come spesso viene propagandato. Quando, nel novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour promise al movimento sionista di garantire uno Stato ebraico in Palestina, l’ipotesi, in precedenza remota e poco plausibile, iniziò a prendere forma. Si sarebbe realizzata senza sforzo, se i palestinesi non si fossero ribellati.

La rivolta palestinese del 1936-1939 dimostrò un impressionante livello di consapevolezza politica collettiva e di capacità di mobilitazione, nonostante la violenza britannica.

Allora il governo britannico inviò in Palestina la Commissione Peel per analizzare le radici della violenza, nella speranza di sedare la rivolta palestinese.

Nel luglio 1937 la Commissione pubblicò il suo rapporto, che scatenò immediatamente la rabbia della popolazione nativa, che era già consapevole della collusione tra inglesi e sionisti.

La Commissione Peel concluse che “le cause sottostanti ai disordini” erano il desiderio di indipendenza dei palestinesi e il loro “odio e timore per la creazione del focolare nazionale ebraico.” Sulla base di questa analisi, raccomandava la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese, quest’ultimo destinato ad essere incorporato nella Transgiordania, che era sotto il controllo britannico.

La Palestina, come altri Paesi arabi, era teoricamente pronta per l’indipendenza, in base ai termini del mandato britannico, come garantito nel 1922 dalla Società delle Nazioni. Per di più, la Commissione Peel raccomandava un’indipendenza parziale per la Palestina, diversamente dalla piena sovranità assicurata allo Stato ebraico.

Ancora più allarmante era il carattere arbitrario di quella divisione. Allora il totale della terra posseduta dagli ebrei non superava il 5,6% dell’estensione dell’intero Paese. Lo Stato ebraico avrebbe incluso le regioni più strategiche e fertili della Palestina, compresa la Galilea Fertile [nota come Bassa Galilea, ndt.] e molta parte dell’accesso al mar Mediterraneo.

Durante la rivolta furono uccisi migliaia di palestinesi, che continuavano a rifiutare la svantaggiosa spartizione e lo stratagemma britannico teso ad onorare la Dichiarazione Balfour e privare i palestinesi di uno Stato.

Per rafforzare la propria posizione, la leadership sionista cambiò rotta. Nel maggio 1942 David Ben Gurion, allora rappresentante dell’Agenzia Ebraica, partecipò a New York ad una conferenza che riuniva i dirigenti sionisti americani. Nel suo intervento chiese che l’intera Palestina divenisse un “Commonwealth ebraico.”

Un nuovo potente alleato, il presidente [americano] Harry Truman, incominciò a colmare il vuoto lasciato aperto, in quanto gli inglesi erano propensi a terminare il loro mandato in Palestina. In “Prima della loro diaspora”, Walid Khalidi scrive:

(Il Presidente USA Harry Truman) fece un passo avanti nel suo appoggio al sionismo, sostenendo un piano dell’Agenzia Ebraica per la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese. Il piano prevedeva l’annessione allo Stato ebraico di circa il 60%della Palestina, in un momento in cui la proprietà ebraica della terra del Paese non superava il 7%.”

Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, in seguito a forti pressioni dell’amministrazione USA di Truman, approvò, coi voti favorevoli di 33 Stati membri, la Risoluzione 181 (II), che auspicava la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno Stato palestinese ed un regime di governo internazionale per Gerusalemme.

Se la proposta britannica di partizione del 1937 era già abbastanza negativa, la risoluzione dell’ONU fu motivo di totale sgomento, in quanto assegnava 5.500 miglia quadrate [circa 14.000 Km2, ndt.] allo Stato ebraico e solo 4.500 [circa 11.000 Km2, ndr.] ai palestinesi – che possedevano il 94,2% della terra e rappresentavano oltre i due terzi della popolazione.

La pulizia etnica della Palestina iniziò immediatamente dopo l’adozione del Piano di Partizione. Nel dicembre 1947 attacchi sionisti organizzati contro le zone palestinesi provocarono l’esodo di 75.000 persone. Di fatto, la Nakba palestinese – la Catastrofe – non iniziò nel 1948, ma nel 1947.

Quell’esodo di palestinesi fu congegnato attraverso il Piano Dalet (Piano D), che fu attuato per fasi e modificato per adeguarsi alle esigenze politiche. La fase finale del piano, iniziata nell’aprile 1948, comprese sei importanti operazioni. Due di esse, operazioni “Nachshon” e “Harel” , avevano lo scopo di distruggere i villaggi palestinesi all’interno e nei dintorni del confine tra Jaffa e Gerusalemme. Separando i due principali conglomerati centrali che costituivano il proposto Stato arabo palestinese, la leadership sionista intese spezzare ogni possibilità di coesione geografica palestinese. Questo continua ad essere l’obiettivo fino ad oggi.

I risultati conseguiti da Israele dopo la guerra non si attennero molto al Piano di Partizione. I territori palestinesi separati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est costituivano il 22% della dimensione storica della Palestina.

Il resto è una triste storia. La carota dello Stato palestinese viene esibita di tanto in tanto proprio dalle forze che spartirono la Palestina 70 anni fa e poi collaborarono diligentemente con Israele per garantire il fallimento delle aspirazioni politiche del popolo palestinese.

Infine il discorso della partizione è stato rimodellato in quello della “soluzione dei due Stati”, propugnato negli ultimi decenni da diverse amministrazioni USA, che hanno mostrato poca sincerità nel trasformare in realtà persino un simile Stato.

Ed ora, 70 anni dopo la partizione della Palestina, esiste un solo Stato, benché governato da due diversi sistemi giuridici, che privilegia gli ebrei e discrimina i palestinesi.

Esiste già da molto tempo un solo Stato”, ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy in un recente articolo su Haaretz. “È giunto il momento di lanciare una battaglia sulla natura del suo regime.”

Molti palestinesi lo hanno già fatto.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo libro in uscita è “L’ultima terra: una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi sulla Palestina all’università di Exeter ed è ricercatore ospite presso il Centro Orfalea per gli Studi globali ed internazionali dell’università Santa Barbara della California. Il suo sito web è:

www.ramzybaroud.net

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




“Pulizia etnica” e propaganda filo-araba

Di Benny Morris

Haaretz22 ottobre 2016

Gli indiretti confronti fatti da Daniel Blatman con i crimini tedeschi contro gli ebrei ed altri non riflettono un modo serio di scrivere di storia.

E’ un peccato che i miei critici Daniel Blatman e Ehud Ein-Gil non leggano con attenzione, ammesso che leggano; mi riferisco ai loro articoli su Haaretz in cui sostengono che Israele ha perpetrato una pulizia etnica. Se Blatman avesse letto il mio libro “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi, 1947-49”- pubblicato in inglese nel 1988 e in ebraico nel 1991, con un’edizione aggiornata in inglese nel 2004 – avrebbe visto che le mie opinioni sulla storia del 1948 non sono affatto cambiate.

Le mie conclusioni sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi non sono cambiate in questi libri, né nel mio libro “1948”, che è stato pubblicato in inglese nel 2008 e in ebraico nel 2010. Qualche palestinese è stato espulso (da Lod e Ramle, per esempio), a qualcun altro è stato ordinato o è stato suggerito di andarsene dai suoi leader (da Haifa, per esempio) e la maggior parte è scappata per paura degli scontri, evidentemente nella convinzione che sarebbero tornati alle loro case dopo la prevista vittoria araba.

Ed effettivamente, all’inizio di giugno, il nuovo governo israeliano adottò una politica per impedire il ritorno dei rifugiati – quegli stessi palestinesi che avevano combattuto l’Yishuv, la comunità ebraica prestatale, e cercato di distruggerla.

Quanto al fatto che ho cambiato opinione, ciò è avvenuto durante gli anni ’90 solo riguardo ad una cosa – la volontà palestinese di fare la pace con noi. All’inizio del decennio, pensavo che forse qualcosa fosse cambiato nel movimento nazionale palestinese e che volessero riconoscere la realtà e arrivare ad un compromesso per i due Stati per due popoli.

Ma nel 2000, dopo il “no” di Arafat a Camp David (appoggiato dal suo successore Mahmoud Abbas), e alla luce della seconda Intifada e delle caratteristiche di quella intifada, ho capito che non erano interessati alla pace. Sfortunatamente da allora la situazione non è cambiata.

Nel 1947-48 non c’era un’intenzione a priori di espellere gli arabi, e durante la guerra non ci fu una politica di espulsione. Ci sono “storici” che odiano chiaramente Israele, come Ilan Pappé e Walid Khalidi, e forse anche Daniel Blatman, considerando quello che ha detto, che vedono il “Piano Dalet” dell’Haganah del 10 marzo 1948 come un progetto complessivo di espellere i palestinesi. Non lo è.

Se Blatman e Ein-Gil avessero davvero letto il piano – reso pubblico negli anni ’70 – avrebbero visto che intendeva congegnare una strategia ed una tattica perché l’Haganah conservasse il controllo delle strade strategiche in quello che sarebbe diventato lo Stato ebraico. Intendeva anche rendere sicuri i confini nell’imminenza della prevista invasione araba in seguito alla partenza degli inglesi. La tesi di Blatman secondo cui il “Piano Dalet” “discuteva dell’intenzione di espellere quanti più arabi possibile dal territorio del futuro Stato ebraico” è una falsificazione in malafede. Sono le parole di un propagandista filo-arabo, non di uno storico.

Citare le affermazioni sbagliate

Il piano comprendeva le linee-giuda generali per i vari battaglioni e brigate relativamente al modo di comportarsi verso i villaggi rurali ed i quartieri urbani arabi. Riguardo ai villaggi, il piano stabilisce esplicitamente che gli abitanti dei villaggi che combattono contro gli ebrei devono essere espulsi ed i villaggi distrutti, mentre i villaggi neutrali o amici avrebbero dovuto essere lasciati intatti ( e avrebbero dovuto esservi stabiliti dei presidi).

Nel caso di quartieri arabi in città miste, i comandanti dell’Haganah sul terreno ordinarono che gli arabi dei quartieri periferici fossero trasferiti nei centri arabi di quelle città, come Haifa, non espulsi dal Paese.

In altre parole, questo non era un piano per “espellere gli arabi” come Blatman e Ein-Gil sostengono a proposito di questo documento. Ein-Gil cita del documento solo tre affermazioni che accennano alla possibilità dell’espulsione – non quelle che danno istruzioni ai comandanti di brigata e di battaglione di lasciare sul posto la popolazione araba.

Per inciso, la descrizione di Ein-Gil dell’occupazione del villaggio di Al-Qubab – con le sue case vuote dopo che gli abitanti erano semplicemente scappati – non è esattamente la descrizione di una violenta e crudele pulizia etnica. E le sue considerazioni sulla domanda a proposito di cosa gli ebrei avrebbero potuto fare se avessero trovato degli arabi in quelle case non testimonia della pulizia etnica nel 1948.

Oltretutto nel territorio trasferito a Israele nel 1948 dopo l’accordo di armistizio tra Israele e la Giordania, il numero di palestinesi che rimase sotto il controllo di Israele era la metà di quello che cita Ein-Gil.

Al contempo, se ci fossero stati un piano generale e una politica di “espulsione degli arabi”, ne avremmo trovato indicazioni nei vari ordini operativi per le unità in combattimento e nei rapporti al quartier generale, come “Abbiamo messo in atto un’espulsione in base al piano generale” o ” al Piano Dalet.” Tali riferimenti non ci sono.

Nelle decine di migliaia di documenti operativi dell’ Haganah/esercito israeliano dei mesi più importanti (da aprile a giugno 1948), ho trovato solo un riferimento a un’operazione messa in atto secondo il Piano Dalet. (Riguardava una certa operazione della brigata “Alexandroni”, se non ricordo male, ma in questo momento sono all’estero e non ho a disposizione il documento).

E’ risaputo che decine di migliaia di arabi rimasero nel territorio dello Stato ebraico – ad Haifa e a Giaffa, a Jisr al-Zarqa e a Fureidis, ad Abu Ghosh e Ein Nakuba, in Galilea e nel Negev.

Ho anche detto che in aprile-giugno 1948 sia nell’Haganah ed in generale nell’Yishuv c’era una “atmosfera favorevole al trasferimento”, e ciò è comprensibile alla luce delle circostanze: costanti attacchi da parte di milizie palestinesi durante quattro mesi e la previsione di un’imminente invasione degli eserciti arabi intenzionati ad annientare lo Stato ebraico che stava per nascere e forse anche il suo popolo.

Responsabilità condivisa

Tutto ciò richiedeva l’occupazione e l’espulsione degli abitanti dei villaggi che tendevano imboscate, prendevano di mira e uccidevano ebrei lungo i confini e sulle principali strade. Le circostanze non consentivano un esame attento delle azioni, intenzioni e opinioni di ogni singolo abitante, benché a quanto pare Blatman e Ein-Gil pensino che la guerra avrebbe dovuto essere condotta così in zone abitate con i mezzi a disposizione dell’Yishuv nel 1948. Ma come ho scritto, la grande maggioranza degli arabi fuggì, e gli ufficiali dell’Haganah/esercito israeliano non ebbero bisogno di affrontare la decisione se espellerli o meno.

E’ vero che all’inizio della mia carriera io “sono arrivato alla conclusione che Israele è responsabile della fuga di massa dei palestinesi nel 1948”, come sostiene Blatman. Ho sempre detto che la responsabilità è condivisa tra l’Yishuv/Israele, i palestinesi e i Paesi arabi – con enormi responsabilità che ricadono sui palestinesi che hanno iniziato il conflitto.

Non sono un esperto di pulizia etnica a livello mondiale (presumo che poca gente consideri Blatman un esperto di tal genere), ma sicuramente ne so qualcosa. Nel caso dei serbi in Jugoslavia, Belgrado ha adottato una politica di pulizia etnica fin dall’inizio e l’ha applicata sistematicamente. A Srebrenica nel 1993, in due giorni, hanno massacrato 9.000 musulmani e in varie zone hanno stuprato migliaia di donne in modo organizzato.

Se queste sono le caratteristiche della pulizia etnica, allora non fu attuata una pulizia etnica in Israele in nessuna delle due fasi della guerra, che fu iniziata dagli arabi. E tra parentesi, su un argomento di cui sono veramente ben informato, Blatman ha torto.

E’ vero che alla fine della Prima Guerra Mondiale decine di migliaia di armeni rimasero in Asia Minore (Blatman solleva questa questione per insinuare un parallelo tra il genocidio degli armeni e la fuga degli arabi nel 1948). Ma nella terza fase del genocidio armeno, dal 1919 al 1924, quasi ogni vittima fu espulsa ed uccisa. (Ciò, senza dubbio, è una novità per Blatman l'”esperto”).

Chiunque legga Blatman non può fare a meno di notare che egli suggerisce un confronto tra quello che Hitler ha fatto agli ebrei e quello che gli ebrei hanno fatto agli arabi della Terra di Israele. Egli insinua persino – di nuovo in modo ingannevole – un confronto tra le azioni dell’Yishuv e quelle dei tedeschi nell’Africa sud-occidentale tedesca (più tardi Namibia) all’inizio del XX° secolo, quando uccisero decine di migliaia di indigeni herero.

Questi paragoni sono immorali e riflettono intenzioni propagandistiche, così come un modo per niente serio di scrivere la storia. Alla fine Blatman mi definisce come “un beniamino della destra dei coloni”. E’ un insolente. Mi sono sempre opposto al progetto delle colonie in Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania. Ndtr.] e nella Striscia di Gaza, e lo faccio ancora adesso.

Il professor Benny Morris, uno storico, è l’autore di “La nascita del problema dei rifugiati palestinesi rivisto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)