I registi boicottano il TLVFest del pinkwashing israeliano

Tamara Nassar

14 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La schermata del sito web del TLVFest del 2 novembre mostra il ministero degli Affari Strategici israeliano elencato come uno dei principali sponsor del Festival internazionale del film LGBTQ di Tel Aviv, sostenuto dal governo.

Più di una decina di registi hanno seguito l’invito palestinese a boicottare il TLVFest, il Festival Internazionale del Film LGBTQ di Tel Aviv, sostenuto dal governo.

Sei di questi si sono anche uniti ad altri 170 artisti da tutto il mondo i quali hanno firmato un impegno lanciato all’inizio di quest’anno per boicottare il festival.

Il TLVFest, che si terrà questo mese, ha rafforzato quest’anno la sua intesa col governo israeliano di estrema destra, in particolare col ministero degli Affari Strategici.

Il ministero è l’organismo che guida l’impegno globale di Israele nel diffamare e sabotare in tutto il mondo il movimento per i diritti dei palestinesi.

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TLVFest è una pietra miliare della strategia di propaganda israeliana nota come pinkwashing [copertura di atteggiamenti e pratiche impopolari o illegali con la tolleranza e ospitalità nei confronti degli omosessuali, ndtr.].

Ciò spiega il presunto atteggiamento di disponibilità di Israele verso le questioni LGBTQ coll’intento di deviare le critiche dai suoi abusi riguardo i diritti umani e dai crimini di guerra contro i palestinesi.

Il pinkwashing mira anche a presentare falsamente Tel Aviv come un luogo sicuro per i palestinesi alla ricerca di relazioni omosessuali, mentre si esagera o si mente sui pericoli che essi affronterebbero all’interno della propria comunità.

La strategia è tipicamente rivolta ad un pubblico progressista occidentale.

Sponsorizzazione del ministero

Il multimilionario ministero degli Affari Strategici è uno dei principali sponsor del festival.

Formato da funzionari delle agenzie di spionaggio israeliane, conduce una guerra globale contro il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Quando i primi registi hanno iniziato a ritirarsi, il TLVFest ha cercato di nascondere la sua collaborazione con il ministero oscurando il suo logo sul sito web del festival.

“Ha prima sostituito la versione inglese del logo del ministero con una versione ebraica, poi l’ha rimosso del tutto solo per sostituirlo di nuovo con un logo senza marchio”, ha riferito la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI).

Ma, nonostante gli sforzi per nasconderlo, il sostegno al festival da parte del ministero persiste.

Il ministero, ad esempio, sta ancora caricando sul suo canale YouTube i video di presentazione del festival.

Partenariati

Anche diversi governi europei stanno sponsorizzando il festival.

Le ambasciate europee partecipano spesso all’altro grande evento di pinkwashing di Israele, il gay pride annuale di Tel Aviv.

Il TLVFest collabora anche con Creative Community for Peace, un gruppo di facciata

dell’ organizzazione della lobby israeliana di estrema destra StandWithUs.

Il suo scopo è screditare l’appello della società civile palestinese a favore del BDS, soprattutto tra coloro che si identificano come LGBTQ.

In un’e-mail rilevata da The Electronic Intifada, Creative Community for Peace ringrazia i registi che partecipano al festival.

Il direttore del gruppo, Ari Ingel, sostiene che il movimento BDS “sta diffondendo menzogne su di noi”.

“Posso assicurarvi che non siamo allineati con nessuna di quelle organizzazioni citate”, ha aggiunto Ingel, senza nominare le organizzazioni a cui si riferiva.

“Siamo più che felici di chattare e rispondere a qualsiasi dubbio possiate avere”, ha detto Ingel agli artisti.

Questo atteggiamento amichevole, tuttavia, non viene dimostrato nei confronti degli artisti che si sono ritirati dal festival.

Gli organizzatori del TLVFest hanno rifiutato di rispettare le richieste di sette registi che hanno chiesto il ritiro dei loro film.

L’email di Ingel rileva che un film che il festival ha in programma è The Polygraph, realizzato da Samira Saraya, una cittadina palestinese di Israele.

Questa non è la prima volta che Saraya partecipa al TLVFest e ad altri festival cinematografici israeliani.

Saraya si descrive come “una palestinese-israeliana che vive in un luogo che nega la mia esistenza e una donna lesbica araba in una società conservatrice e omofoba”.

Saraya contribuisce alla falsa narrazione israeliana secondo cui la società palestinese sarebbe particolarmente intollerante nei confronti delle relazioni omosessuali o LGBTQ molto più di quanto lo sia la società israeliana.

Al di fuori della Tel Aviv, presuntamente progressista, gran parte della società ebraica israeliana considera l’omosessualità un tabù. È condannata anche dai più rispettati rabbini israeliani.

Anche la comunità LGBTQ israeliana è stata bersaglio di attacchi violenti.

Nel 2014, alcuni riservisti della famigerata unità militare israeliana di spionaggio 8200 hanno ammesso di aver utilizzato i dati privati più intimi dei palestinesi, comprese le informazioni sulle loro attività sessuali, per ricattarli e farli diventare informatori su conoscenti e familiari ricercati da Israele.

È anche degno di nota il fatto che la stragrande maggioranza dei palestinesi e degli arabi che intrattengono relazioni omosessuali non si identifichino in base al binomio euro-americano omosessuale-eterosessuale, come ha ampiamente descritto il docente della Columbia University Joseph Massad.

Inoltre per la legge palestinese i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso non sono illegali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un tempo tabù, i diritti LGBTQ si prendono il centro della scena nella società palestinese

Fady Khouri

21 agosto 2020 + 972 Mag

Nonostante il rifiuto dei conservatori e la cautela dei politici, i palestinesi queer stanno guadagnando nuovo terreno nella loro lotta per la legittimità – e intendono restarci.

L’ultimo anno è stato di trasformazione – perfino storico – per la comunità Palestinese LGBTQ.

Da molto tempo, i palestinesi queer vivono sotto due sistemi di cancellazione dell’identità diversi e sovrapposti. Uno è quello degli israeliani che hanno continuamente negato la nostra esistenza come palestinesi, sostenendo che “non esiste qualcosa come il popolo palestinese”. Il secondo è quello dei palestinesi che hanno negato per la maggior parte la nostra esistenza come omosessuali, bisessuali, transgender, queer e così via; quando uno di noi si alza e insiste sulla loro esistenza, allora siamo etichettati come malati, eretici, una deviazione dalla natura o il prodotto di influenze occidentali.

Questa negazione si è tipicamente manifestata nel silenzio sui diritti LGBTQ. Inoltre, i palestinesi queer sono stati considerati indegni di rappresentanza politica nonostante abbiano guidato da molto tempo l’accusa contro il pinkwashing, che è, come sostengo altrove, una questione nazionale palestinese. Ad esempio, quando i giornalisti – di solito israeliani – hanno chiesto al parlamentare della Knesset Jamal Zahalka del Partito Balad la sua posizione sui diritti LGBTQ, lui ha risposto che la questione “semplicemente non è nella nostra agenda”. Ma quello che una volta era un tabù si è ora trasformato in un argomento di intenso dibattito nella società palestinese, costringendo anche le élites politiche a rompere il prolungato silenzio e a prendere posizione.

Non sono esagerato né dichiaro vittoria. E non sto suggerendo che questo sia il meglio per cui possiamo e dobbiamo lottare. Ma, per quanto sia difficile vederlo in questa fase, stiamo vivendo un momento di cambiamento, o meglio ancora – di progresso.

Solo nell’ultimo anno, ci siamo trovati al centro di molte discussioni che ci hanno permesso di iniziare almeno ad uscire dalla nostra forzata oscurità. Un paio di questi eventi hanno riguardato la recente tragica morte di persone queer: il talentuoso ballerino gay palestinese, Ayman Safieh, che ha perso la vita in mare e il cui funerale, con danze e bandiere arcobaleno, ha fatto infuriare alcuni conservatori; e Sarah Hegazi, l’attivista comunista egiziana che è stata detenuta e torturata dalla polizia egiziana dopo aver sventolato la bandiera arcobaleno a un concerto di Mashrou ‘Leila al Cairo, morta suicida dopo aver trovato rifugio in Canada. Entrambi questi stimolanti individui sono diventati oggetto di accese discussioni sui social media, tra amici e alleati che li piangevano e li celebravano pubblicamente di fronte a conservatori che hanno cercato di infangare i loro nomi.

A queste tragedie ne sono seguite molte altre, come l’attivista trans Maya Haddad morta suicida un anno dopo essere sopravvissuta a un tentato omicidio, e un adolescente gay palestinese sopravvissuto a un’accoltellamento da parte di suo fratello. Nell’agosto 2019 si è svolta ad Haifa la prima storica manifestazione guidata da LGBTQ palestinesi, alla quale hanno partecipato anche rappresentanti della società civile e la parlamentare Aida Touma-Sliman, una dei pochi politici palestinesi a esprimere pubblicamente sostegno per i diritti LGBTQ.

Poi, a luglio, si sono verificati altri due incidenti che sembravano catalizzare questo cambiamento. Nonostante la loro complessità, evidenziano il progressivo cambiamento di atteggiamento nei confronti delle questioni LGBTQ all’interno della società palestinese.

La deputata della Knesset della Joint Lista Aida Touma-Sliman dirige una riunione del Comitato sullo stato delle donne e l’uguaglianza di genere al parlamento israeliano il 27 dicembre 2016 (Yonatan Sindel / Flash90)

Il primo è stata una modesta donazione da parte di Julia Zaher, CEO di una società locale di tahina palestinese al-Arz, per finanziare una linea diretta per queer palestinesi presso un’organizzazione LGBTQ israeliana. La donazione è stata criticata da alcuni palestinesi conservatori e religiosi, portando diversi negozi di alimentari a rimuovere i prodotti dell’azienda dagli scaffali in segno di protesta. Allo stesso tempo, alcuni palestinesi progressisti hanno criticato il fatto che, invece di sostenere i gruppi LGBTQ palestinesi, la donazione è stata fatta a una ONG coinvolta negli sforzi di propaganda del pinkwashing israeliano.

Eppure, agli appelli al boicottaggio di al-Arz è stata opposta una contro-campagna per incoraggiare le persone ad acquistare i prodotti dell’azienda, con molti utenti dei social media che hanno sostituito le loro immagini del profilo con il famoso tahini di al-Arz. Persino alcuni politici palestinesi sono stati spinti a dare i loro due centesimi e partecipare al dibattito in corso sui social media. Ayman Odeh, il capo della Joint List, ad esempio, ha descritto la campagna di boicottaggio contro la compagnia come ipocrita, sebbene non abbia espresso sostegno diretto alla comunità LGBTQ. Touma-Sliman è stata l’unica parlamentare palestinese a sostenere apertamente Zaher e parlare della necessità di accettare la differenza.

E poi è arrivata la legge della Knesset volta a criminalizzare la “terapia di conversione” (pratica pseudoscientifica per cambiare l’orientamento sessuale di un individuo n.d.t.) che ha approfondito le divisioni tra i membri della Lista Congiunta guidata dai palestinesi. Tre hanno votato a favore del disegno di legge (MK Touma-Sliman, MK Odeh e MK Ofer Cassif del partito palestinese-ebraico al-Jabha / Hadash), tre hanno votato contro (MK Said al-Harumi, MK Walid Taha e MK Mansour Abbas del United Arab List Party, l’ala politica del ramo meridionale del Movimento Islamico). Il resto era assente dal voto, ed è stato particolarmente deludente e considerato ipocrita, dato il loro discorso sui diritti umani, e l’enfasi sui valori laici e universali nelle loro piattaforme politiche, borse di studio accademiche e attivismo di base

Questo non era il primo disegno di legge a sostegno dei diritti LGBTQ presentato alla Knesset, e storicamente alcuni deputati di quei partiti hanno votato a favore di questo tipo di legislazione, come il disegno di legge per istituzionalizzare il matrimonio civile nel 2018 che avrebbe consentito matrimoni tra persone dello stesso sesso. Anche se questa legge non ha provocato molte discussioni tra i palestinesi, diversi parlamentari della lista congiunta hanno votato favore.

Tuttavia, a differenza della legislazione precedente su questo tema, il disegno di legge sulla “terapia di conversione” ha ricevuto attenzione sui social media. I parlamentari che hanno votato per mettere fuorilegge la misura sono stati criticati dai palestinesi conservatori e i parlamentari che non si sono presentati al voto sono stati criticati dai palestinesi liberali e progressisti.

Aswat, il Centro femminista palestinese per le libertà sessuali e di genere, ha rilasciato una dichiarazione in cui ribadiva la sua posizione contro la cosiddetta pratica della “terapia di conversione”, descrivendola come una forma di violenza e tortura verso i corpi LGBTQ, facendo riferimento sia alla Dichiarazione della Società psichiatrica libanese del 2013 sulla questione che alla decisione del 1973 dell’American Psychiatric Association di rimuovere l’omosessualità dal DSM. Inoltre, l’organizzazione ha invitato la Lista congiunta a dichiarare pubblicamente e chiaramente il suo sostegno al disegno di legge, per proteggere i diritti umani e le libertà di tutti e porre fine a pratiche violente e dannose contro “coloro che hanno esperienze sessuali e legate al genere diverse . ” La stessa dichiarazione è stata condivisa da alQaws for Sexual and Gender Diversity in Palestinian Society sulla loro pagina Facebook.

L’Arab Psychiatric Association ha anche rilasciato una dichiarazione che elabora la sua posizione professionale riguardo al disegno di legge: “L’Arab Psychiatric Association vede che la diversità nelle identità sessuali e di genere è diventata un fatto sociale e psicologico … mentre la letteratura psicologica mostra chiaramente il fallimento della cosiddetta “terapia di conversione” e i suoi effetti distruttivi sulla salute psicologica e fisica dell’individuo “, hanno scritto. “La libertà equivale alla responsabilità verso se stessi e alla tutela dell’autenticità dell’essere, ed è in contraddizione con l’imposizione, la tortura e le violazioni della dignità umana. Perciò, l’azione della terapia non può impiegare violenza simbolica e mentale imponendo determinate identità e stili di vita a individui e gruppi ”, ha continuato la dichiarazione.

Il disegno di legge è diventato oggetto di discussione anche nei media palestinesi locali, con giornalisti che hanno intervistato molti parlamentari sulla questione: una svolta eccezionale. Ad esempio, il 23 luglio, i giornalisti Sanaa ’Hamoud e Mohammad Majadleh hanno intervistato MK Ahmad Tibi del Ta’al Party su Nas Radio, una stazione radio palestinese con sede a Nazareth, e hanno chiesto perché lui e il suo partito erano assenti al voto. Le risposte di Tibi sono state deludenti. Ha affermato che questa legge riguardava semplicemente gli standard psicologici professionali e non la legittimità dell’omosessualità, sottolineando che, sebbene accetti la logica medica del disegno di legge, il suo partito non sostiene la revoca della licenza a un terapeuta per praticare la terapia di conversione, né sosterrebbe l’omosessualità.

Anche MK Mtanes Shehadeh di Balad è stato intervistato nello stesso programma. Il suo partito si è tradizionalmente identificato con un’agenda secolare e con solidi principi dei diritti umani basati sugli standard del diritto internazionale. Quando è stato chiesto perché il suo partito fosse assente dal voto sul disegno di legge, Shehadeh ha spiegato che le discussioni in corso nella società palestinese rispecchiano i dibattiti che si svolgono all’interno di Balad. “Abbiamo sempre detto nella Lista congiunta che le questioni essenziali e fondamentali per le quali andiamo alla Knesset per affrontare e per cui lottare sono lo status della società palestinese, la discriminazione, la causa palestinese”, ha continuato, ma i diritti LGBTQ non sono ” una questione politica essenziale. Non la politicizziamo. ” Il giornalista ha quindi chiesto a Shehadeh se la decisione di astenersi dal voto sia di per sé una posizione e se ciò vada contro la loro piattaforma. Shehadeh ha risposto che il luogo appropriato per questo tipo di conversazione dovrebbe essere all’interno di istituzioni come l’High Follow-Up Committee, un’organizzazione ombrello che rappresenta i cittadini palestinesi di Israele.

Dr Mtanes Shehadeh della Joint (Arab) List e leader del Balad party parla durante la campagna elettorale August 20, 2019. Foto Gili Yaari / Flash90

Shehadeh è stato duramente criticato per i suoi commenti, tanto che alla fine ha pubblicato una dichiarazione su Facebook ammettendo di aver “fatto una valutazione sbagliata”, anche se ha continuato a tenersi lontano dall’impegnarsi a difendere i diritti LGBTQ. Per Shehadeh, la questione riguarda meno i diritti LGBTQ e più il modo in cui i quattro partiti che formano la Joint List dovrebbero impegnarsi su questioni controverse.

Molti Palestinesi hanno commentato il post di Shehadeh, definendo le sue scuse vili, evasive e problematiche per non aver preso una posizione chiara su una questione che riguarda intrinsecamente i diritti umani. Ma non è stato l’unico parlamentare palestinese a essere colto impreparato: questo contenzioso ha profondamente imbarazzato i partiti palestinesi. D’un tratto, voci della base progressista si sono alzate abbastanza da sfidare senza scusarsi i politici su questo tema. E non è un’impresa da poco. L’ avanti e indietro sui diritti LGBTQ che si svolgono all’interno della società palestinese, e tra gli elettori e i loro rappresentanti, sta creando il tipo di movimento che è destinato a dare i suoi frutti.

Diversi sviluppi hanno reso possibile questo momento storico di trasformazione, non ultimo il lavoro incrollabile e testardo delle organizzazioni palestinesi LGBTQ, come al-Qaws e Aswat, e attivisti indipendenti che si sono mostrati affrontando le forze conservatrici che cercano di negare la nostra esistenza e legittimità. A questi sforzi ha anche notevolmente contribuito l’ubiquità dei social media, non solo per riunire coloro che altrimenti non si sarebbero incontrati, ma anche – e soprattutto – per rompere il monopolio delle élites politiche su ceti tipi di discorso e sull’accesso al fare politica, che storicamente ha escluso le voci subalterne ed emarginate e reso loro impossibile essere ascoltate.

Questo, ovviamente, non significa che la questione dei diritti LGBTQ sia stata risolta all’interno della società palestinese. Il nostro percorso verso l’accettazione è ancora pieno di sfide e la lotta per l’uguaglianza è lungi dall’essere vinta. Ma questo recente episodio, accompagnato da altri degli ultimi anni, segna un cambiamento qualitativo che segnala un cambio di paradigma nel modo in cui abbiamo operato. I palestinesi queer non sono più tabù o “semplicemente non all’ordine del giorno”.

Palestinesi LGBT manifestano al centro di Haifa 29 luglio 2020 (Suha Arraf)

Per coloro che vivono in paesi che hanno fatto passi da gigante sui diritti LGBTQ, può sembrare strano parlare di questo momento in termini di progresso. Ma qualsiasi lotta di successo verso il riconoscimento e l’accettazione inizia con la rottura del silenzio su di noi, costringendo la società a riconoscere la nostra esistenza. E mentre molto di ciò che ascoltiamo e vediamo ora è un rifiuto da parte di forze conservatrici, ciò significa che l’ago della bilancia si è spostato abbastanza su questo problema da motivare una risposta così forte.

La comunità LGBTQ palestinese e i suoi alleati prendono la parola e chiamano ad una assunzione di responsabilità sia la società palestinese che il suo establishment politico. “Un grido queer di libertà” era ciò che gli attivisti queer e i loro alleati hanno cantato all’ultima manifestazione di fine luglio. Erano animati da rabbia, dolore, delusione e frustrazione, ma motivati dalla speranza e dalla forte convinzione della nostra capacità di ottenere il cambiamento. Per come la vedo io, questo slogan e le emozioni che rappresenta racchiudono perfettamente questo momento di trasformazione.

Fady Khoury è un avvocato per i diritti umani e un dottorando presso la Harvard Law School.

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da PalestinaCulturaèLibertà




Gay pride e bandiera palestinese

Perché sono andato a una manifestazione del Gay Pride in Israele con una bandiera palestinese

Respingo la strumentalizzazione della lotta del movimento LGBTQ+ da parte del governo per perseguire le sue mire suprematiste.

 

Shai Gortler e Haokets

17 luglio 2020 – +972

 

A quanto pare una manifestazione della comunità LGBTQ+ in Israele non è politica almeno fino a quando non si sventola la bandiera palestinese. Quando l’ho fatto al Pride di Tel Aviv il mese scorso, un omonazionalista ha prima cercato di coprirla con la bandiera arcobaleno più grande che aveva in mano, poi ha finito con l’aggredire violentemente Sapir Sluzker-Amran, attivista e avvocata, intervenuta in aiuto di un’altra donna che stava cercando di difendermi.

Alcuni potrebbero chiedersi quale sia il legame fra la lotta LGBTQ+ e la bandiera palestinese. Durante tutto il mio attivismo nelle politiche LGBTQ+ in Israele-Palestina sono stato testimone di due tentativi effettuati da chi sta al potere di sfruttare le battaglie della comunità LGBTQ+ per portare avanti obiettivi di suprematismo bianco e di colonialismo di insediamento. Sto raccontando questi eventi per sviluppare una teoria: i diritti conquistati a scapito di quelli più marginalizzati di noi sono solo temporanei, mentre solo ampie coalizioni di svantaggiati ci possono evitare di essere noi i prossimi ad essere perseguitati dai regimi repressivi.

Nel 2010 facevo parte di un gruppo dell’associazione israeliana LGBT che chiedeva di tenere il primo Pride in assoluto a Beersheva. Il sindaco Ruvik Danilovich pose la condizione per concedere il finanziamento municipale che l’evento si tenesse nella piazza della Grande Moschea di Beersheva. Nel 1948, dopo aver espulso dalla città i residenti palestinesi, Israele prese il controllo della moschea, usandola prima come prigione, poi come tribunale e infine trasformandola in un museo. Il comune continua a rifiutarsi di riconsegnare l’edificio al culto degli abitanti musulmani. Quando abbiamo ricevuto il messaggio rivoluzionario che la città era intenzionata a sostenere il nostro evento, il direttore del museo ci chiese di astenerci dal tenere spettacoli di drag queen, in ossequio alla relazione della commissione intergovernativa che raccomanda di rispettare la moschea quale luogo sacro.

Noi attivisti locali della sezione israeliana di Beersheva dell’associazione LGBT sostenemmo che il comune forse stava cercando di rafforzare le sue pretese nei confronti della moschea rappresentando i musulmani come omofobi (basandosi sul loro presupposto che i musulmani avrebbero protestato per la realizzazione di un evento del Pride nei pressi di una moschea), mentre simultaneamente cercavano di ingraziarsi l’opposizione omofoba alla manifestazione presentandola come un’iniziativa ebraica che avrebbe ulteriormente deprivato i musulmani. Noi abbiamo rifiutato di essere usati in questo modo e il Comune ha fatto marcia indietro. Da quella decisione in poi i musulmani della comunità LGBTQ+ continuano a partecipare a eventi e parate del Pride a Beersheva.

Vorrei aggiungere un fatto personale: io e il mio partner siamo stati inseriti in quella che il Ministero del lavoro, affari sociali e servizi sociali chiama “lista di attesa B” per le adozioni. Il diritto israeliano ci discrimina in quanto coppie dello stesso sesso e stabilisce che solo “un uomo e la propria moglie” possa adottare bambini. Ma, nel 2008, è diventato possibile per le coppie dello stesso sesso adottare bambini nei casi in cui non ci fossero coppie eterosessuali disposte a farlo a causa dell’età o delle condizioni di salute del bambino.

L’anno scorso ad agosto, Amir Ohana, il ministro della Giustizia, lui stesso gay, ha presentato una proposta di legge che cerca di emendare la discriminazione contro le coppie dello stesso sesso (ma lasciando intatta la discriminazione contro i genitori single). Comunque, con la scusa della legge sull’uguaglianza, Ohana ha infilato un altro emendamento per cui le adozioni sarebbero autorizzate dal tribunale anche nel caso in cui “non si trovasse una persona della stessa religione dell’adottato.”

Il diritto israeliano impone rigide limitazioni alle adozioni interconfessionali. Questa scelta, secondo il professor Michael Karayanni, è stata condizionata dai rapimenti di bambini ebrei da parte di cristiani durante e dopo l’Olocausto e dal desiderio del legislatore di evitare atti simili. Ma l’emendamento proposto da Ohana avrebbe, in effetti, permesso a genitori ebrei di adottare bambini musulmani, dato che la richiesta di adozioni nella comunità ebraica israeliana supera il numero dei bambini a disposizione per l’adozione, mentre la tendenza è all’opposto nella comunità musulmana nel Paese.

Il numero di bambini interessati da questa proposta di emendamento a breve termine non è alto: nel 2019 sono stati adottati solo nove bambini musulmani. Comunque, pur modificando parzialmente la discriminazione legale contro la comunità LGBTQ+, la versione corrente della legislazione proposta potrebbe danneggiare i cittadini palestinesi in Israele, perché faciliterebbe la possibilità di portar via bambini palestinesi dalle loro case, persino senza il consenso dei loro genitori. Anche se gli emendamenti alla legge israeliana, incluso quello sull’adozione interreligiosa, sono molto necessari, quelli di noi che stanno lottando contro la discriminazione omofobica non desiderano l’uguaglianza a scapito di altri.

E allora perché ho sventolato la bandiera palestinese a una manifestazione del Pride? Non perché la libertà di espressione è riservata esclusivamente a ebrei, non per una sopravalutazione del nazionalismo e neppure per i giovani queer palestinesi che sventolavano bandiere arcobaleno a fianco di quelle di trans-bisessuali per il resto della parata del corteo dopo il violento attacco.

Io impugnavo la bandiera palestinese per ricordare a coloro fra noi che rifiutano l’uso che il governo fa della lotta dei LGBTQ+ per calpestare altri. A differenza della coalizione che al momento si è formata fra i settori privilegiati della nostra comunità e il regime suprematista, noi chiediamo di  immaginare delle alternative.

Invece di fare video di propaganda per la polizia, noi chiediamo a Itai Pinkas, rappresentante di spicco della comunità LGBT nel consiglio comunale di Tel Aviv-Giaffa, di fare i nomi di alcuni di quelli che sono assassinati dalla brutalità della polizia: Iyad al-Hallaq [palestinese autistico, ndtr.], Solomon Teka [ebreo israeliano di origine etiope, ndtr.] e Shirel Habura [israeliano con problemi psichiatrici]. Per Tel Aviv chiediamo, invece dell’attuale sindaco Ron Huldai che una volta ha detto che “due gay che si baciano mi fanno schifo come scarafaggi” e che “ogni città ha bisogno di un buco del culo” durante una discussione sui quartieri LGBTQ+ e mizrahi [ebrei originari di Paesi arabi e musulmani, ndtr.] che circondano la stazione centrale degli autobus di Tel Aviv e che ha profanato il cimitero di al-Is’af a Giaffa ignorando i suoi abitanti, un sindaco che si impegni per tutti.

Non potevo fare a meno di pensare, in silenzio perché alcuni pensieri non possono essere detti ad alta voce nelle piazze cittadine, agli abitanti che vivevano nel villaggio palestinese di Summayl [i cui abitanti furono espulsi nel dicembre 1947, ndtr.], un tempo situato all’incrocio delle strade Arlozorov e Ibn Gabirol, la cui storia la maggior parte degli israeliani non ha modo di conoscere. La manifestazione del Pride per l’eguaglianza si è svolta sulla loro terra senza chiedere il loro consenso mentre loro stessi, rifugiati o sfollati, vorrebbero far ritorno a quella stessa terra.

I mizrahi mandati dal governo israeliano a occupare Summayl sono stati sostituiti, e continuano a esserlo, con ricchi padroni di Huldai. Anche i gay che una volta si incontravano al parco dell’Indipendenza, che ha preso il posto del cimitero di Summayl, sono stati cacciati.

Cosa succederebbe se, invece di permettere a un regime bianco colonialista e suprematista di sfruttare le comunità LGBTQ+ prima di rivolgere il suo potere contro di noi, continuassimo a formare coalizioni con altri che lo combattono? Mi sembra già di sentire gli omonazionalisti imbracciare le armi, ma so che sbagliano. Non sono io ad aver portato relazioni di potere tra israeliani e palestinesi alla manifestazione, sono sempre state davanti ai nostri occhi.

Il prof. Shai Gortler è un borsista post-dottorato presso il Centre for Humanities Research, University of the Western Cape, Cape Town.

Haokets è una rivista online israeliana senza scopo di lucro, indipendente e progressista che ospita discussioni critiche su temi socioeconomici, culturali e filosofici, di attivismo per i diritti umani, di femminismo e politiche mizrahi, con un blog in inglese.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Eurovision e hasbara

Sole, gay, misoginia e shawarma: la promozione dell’Eurovision ancora un altro fallito tentativo israeliano di legittimazione

Denijal Jegić

13 maggio 2019- Mondoweiss

 

La competizione musicale dell’Eurovision di quest’anno avrà luogo a Tel Aviv. L’evento di musica pop potrebbe essere una grande opportunità propagandistica per l’ultima colonia europea. Gli ultimi tentativi di Israele di promuovere se stesso rivelano tuttavia ancora una volta la sua convulsa lotta per legittimarsi. L’hasbara [propaganda, ndtr.] finanziata dal governo continua a riciclare gli stessi miti colonialisti, cercando di nascondere l’appartenenza al colonialismo d’insediamento e la cancellazione degli indigeni dietro a immagini colorate di sole, mare, bandiere arcobaleno e shawarma [kebab, ndtr.].

L’emittente televisiva pubblica KAN ha diffuso un video sulle reti sociali, con l’intento scontato di pubblicizzare la  competizione canora dell’Eurovision e di promuovere Israele come destinazione turistica.

Il filmato è tristemente emblematico del più generale approccio di Israele verso il pubblico occidentale. Mostra Lucy Ayoub, una degli ospiti dell’Eurovision, ed Elia Grinfeld, un dipendente di KAN, che cantano e ballano, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di due turisti europei bianchi che sembrano scettici. Lucy ed Elia guidano i due turisti in un teatro, obbligandoli a “unirsi a questo rapido indottrinamento”, in modo che possano aiutarli “ad avere delle fantastiche vacanze”. Quel momento potrebbe implicare che i creatori del video siano consapevoli di quanto possa essere estenuante per il mondo esterno il carattere ridicolo dell’hasbara.

“So proprio quello che avete sentito, che questa è una terra di guerra e occupazione,” dichiara Elia. “Ma abbiamo molto più di quello,” aggiunge Lucy. Riflettendo le pratiche del governo israeliano di perpetuare fisicamente la guerra e l’occupazione cercando al contempo di nascondere a parole quella politica, il video sostituisce in modo sonoro e visivo la situazione palestinese con il benessere sionista.

Quello che segue è un riciclaggio dei noti argomenti dell’hasbara, di “un piccolo Paese con un grande orgoglio” e della “Nazione delle start-up” altamente tecnologica. L’orrore delle gerarchie in base alla razza è celato, in quanto Israele viene presentato come un mosaico multietnico. Lucy, figlia di madre ebrea israeliana e di padre palestinese cristiano, usa le sue origini “arabe” per mascherare i soprusi di Israele contro i palestinesi, proclamando: “Sono araba, sì, alcuni di noi vivono qui,” senza menzionare che la maggior parte di loro è stata espulsa. Quando Elia aggiunge che è scappato dalla Russia, Israele appare come un rifugio per le minoranze perseguitate. Dopo tutto, come propagandano Lucy ed Elia, Israele è “la terra del miele”, “la terra del latte”, e “sempre soleggiato.”

Nessuna propaganda israeliana sarebbe completa senza utilizzare il pinkwashing [il ricorso alla presunta tolleranza verso gli omosessuali per mascherare l’oppressione dei palestinesi, ndtr.], ovvero l’occultamento retorico da parte di Israele della violenza del colonialismo di insediamento dietro l’auto-glorificazione per il suo presunto progresso riguardo ai diritti LGBT+.

In generale l’hasbara si affretta a mostrare una coppia di uomini gay che si baciano in pubblico, per far pensare al proprio pubblico che include le minoranze e, al contempo, dipingere gli arabi e i musulmani come intrinsecamente omofobi (ciò è in linea con il luogo comune orientalista secondo cui i palestinesi non meritano la libertà perché Hamas ha ucciso omosessuali). Quindi è assolutamente prevedibile che nel video di KAN due uomini dimostrino affetto in pubblico davanti a una bandiera arcobaleno a Tel Aviv. Elia canta che “i gay si abbracciano per strada”, nel caso ciò non fosse ovvio. La prassi israeliana di pinkwashing appare notevolmente omofobica. Poiché la popolazione LGBT+ sta lottando per uguali diritti ed è ancora perseguitata in molte parti del mondo, è a dir poco offensivo esibire gay e utilizzarli come una copertura per la persecuzione dei palestinesi. Anche il fatto che Israele abbia preso di mira in modo strategico palestinesi

non–eterosessuali è stato ben documentato.

Il video include anche stereotipi antisemiti: “Molti di noi sono ebrei, ma solo alcuni sono taccagni.” Fa riferimenti misogeni umilianti per le donne, quando Elia chiede ai turisti di “godersi le nostre care bitches [puttane, ndtr.]” invece delle beaches [spiagge, ndtr.].

Il video promuove il furto coloniale di cucina, cultura, storia e geografia palestinesi. Allo spettatore viene detto che c’è “buon shawarma” in tutto Israele, e il Mar Morto diventa israeliano in un luogo di villeggiatura orientalista, quando  Lucy sta seduta su un cammello coperto da stoffe colorate.

Gerusalemme viene definita “la nostra amata capitale” che, come apprende lo spettatore, è la sede dello “Yad Vashem” [il museo dell’Olocausto, ndtr.] e dei luoghi santi. Lucy ed Elia camminano per la Città Vecchia, che è sottoposta a un’occupazione illegale da oltre mezzo secolo. Infine, mentre Lucy ed Elia stanno ballando e dicendo agli spettatori “Vi stiamo aspettando”, Elia indossa una maglietta che dice “Amo Iron Dome” [il sistema antimissile israeliano, ndtr.], in supporto al complesso militare-industriale di Israele.

È come se i palestinesi e la Palestina non fossero mai esistiti. Non solo non sono nominati neanche una volta, la loro storia e la loro cultura sono sostituiti da una fragile narrazione della comunità dei coloni basata su un esclusivismo genocida.

Questo scopo di indottrinamento degli stranieri con miti colonialisti è centrale anche in un sito web che è stato messo in piedi dal governo israeliano. Intitolata boycotteurovision.net, la pagina è un ovvio tentativo di prendere di mira i sostenitori del movimento BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.]. Descrivendo Israele come “Bellissimo. Diverso. Sensazionale” (BDS), il sito consiste in testi e video di propaganda, comprese immagini di coppie gay, luoghi sacri di Gerusalemme e turisti bianchi. Come una guida di viaggio poetica, la pagina rende romantico Israele come un “Paese incantevole”, che “offre magnifiche vedute, spiagge dorate, panorami verdeggianti, vasti deserti, cime innevate e città dinamiche immerse nel valore millenario di straordinari siti storici e culturali.”

Il lettore apprende inoltre che “in Israele tutta la gente, ebrei e arabi, musulmani e cristiani, religiosi e laici, così come LGBT, vive insieme in un bastione di coesistenza nel cuore del Medio Oriente.” Tuttavia la realtà è l’apartheid e un’oppressione strutturale dei palestinesi musulmani e cristiani, delle persone di colore ebree e non e dei dissidenti politici indipendentemente dalla loro identificazione etnico-nazionale o religiosa. Ciò non ha niente a che vedere con la coesistenza.

Il “bastione” di pace e coesistenza è un tipico mito orientalista che sfrutta le convinzioni degli occidentali sull’inferiorità culturale delle civiltà islamica e araba. Nel luogo comune di un Medio Oriente presuntamene pericoloso, Israele, in quanto colonia europea, serve come simbolo di una libertà continuamente minacciata che deve essere salvaguardata.

Il sito web fa ricorso anche al mito orientalista di Israele “che fa fiorire il deserto e lo trasforma in un’oasi di tolleranza.” Questo argomento sionista non solo ignora la presenza storica dei palestinesi. Negandone completamente l’esistenza, la fantasia di un deserto vuoto è servita come una fondamentale giustificazione per la colonizzazione della Palestina.

La riscrittura nel sito web della storia palestinese include l’affermazione che “Israele, nella sua breve storia, ha assorbito più immigrati di qualunque altro Paese, con nuovi arrivati da più di cento Paesi.” La Nakba, la distruzione dei villaggi palestinesi e la violenta espulsione della maggioranza della sua popolazione rimangono assenti. Invece al lettore viene detto che “la vita in Israele è innovativa, e allo stesso tempo ancora legata alla sua ricca storia. Israele è una destinazione piena di cordialità, disponibilità e amore che lascerà a chiunque la visiti ricordi (e amici!) per tutta la vita.”

Ovviamente ciò non riguarda i milioni di rifugiati palestinesi della diaspora, i palestinesi profughi interni a Gaza, o i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il permesso di tornare nel territorio da cui sono stati espulsi nel 1948, mentre Israele continua a violare numerose risoluzioni ONU.

I tentativi propagandistici di Israele riguardo all’Eurovision sono parte integrante della sua cancellazione discorsiva di ogni cosa palestinese. E mentre la parola “Palestina” non viene pronunciata in nessuno dei colorati video e immagini, il linguaggio iperbolico, la necessità di verbalizzare le cose più semplici e di pregare letteralmente i turisti a visitarlo rivela che c’è qualcosa di inquietante dietro la facciata colorata dell’hasbara.

L’Eurovision è un semplice esempio di come Israele stia disperatamente cercando di guadagnarsi legittimità attraverso un’ostinata insistenza su vecchi miti e il quasi comico esaurimento degli stessi argomenti.  Poiché il sionismo è un moderno movimento colonialista che è incompatibile con i diritti umani universali e con le leggi internazionali e Israele non ha alcuna giustificazione morale o giuridica per la colonizzazione della Palestina e per i soprusi genocidari contro i palestinesi, il regime israeliano continuerà a avere disperatamente bisogno di una propaganda assurda nei suoi sforzi di raccontare al mondo esterno, e probabilmente a se stesso, una versione modificata della storia, cercando di dimostrare di avere una qualche legittimità.

 

Su Denijal Jegić

Denijal Jegić è uno studioso con un post-dottorato. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto di Studi Americani Transnazionali all’università Johannes Gutenberg di Magonza.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Registi LGBTQ rifiutano di consentire a Israele di utilizzarli per nascondere dietro al rosa i suoi crimini

Ali Abunimah

8 giugno 2018, Electronic Intifada

Arriva a 11 il numero di artisti che hanno lasciato il festival, parte di una crescente ondata di appoggio internazionale al Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) [contro Israele] in seguito ai massacri da parte di Israele di palestinesi disarmati durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Il canadese Marc-Antoine Lemire ha ritirato il suo corto “Pre-Drink”, che ha vinto il premio per il miglior corto canadese al festival internazionale del cinema di Toronto.

Recentemente siamo venuti a sapere della strategia israeliana di “pinkwashing” [lett. “lavaggio rosa” in riferimento all’uso propagandistico delle tematiche LGBTQ, ndt.], e desideriamo esprimere il nostro rifiuto a contribuirvi, oltre al nostro appoggio alla comunità LGBTQ+,” ha scritto Lemire.

In seguito al movimento di protesta di parecchi registi e artisti in disaccordo con le politiche di Israele contro la Palestina, abbiamo deciso di prendere posizione a favore di questo movimento. Soprattutto con i recenti avvenimenti, rifiutiamo la strumentalizzazione del nostro film.”

Il regista francese Antoine Héraly ha annullato una sua prevista apparizione al festival per la proiezione del suo film “Furniture Porn Project”.

Dopo un’intensa settimana di riflessione e di letture e di discussioni con organizzazioni e un ampio spettro di intellettuali, sono arrivato alla conclusione che, se io dovessi partecipare fisicamente alla proiezione per presentare “Furniture Porn Project”, la mia coscienza sarebbe assente dalla sala cinematografica,” ha scritto Héraly agli organizzatori del festival.

Se avessi avuto un periodo di tempo più lungo in cui mettere insieme le mie idee, vi avrei chiesto di togliere il mio film dal festival, con cui non mi posso identificare, in quanto è finanziato dallo Stato e quindi parte delle politiche israeliane di ‘pinkwashing’”, ha aggiunto Héraly.

Egli ha sottolineato che il festival in ogni caso ha proiettato film di altri registi che avevano chiesto che venissero cancellati, una cosa che Héraly ha definito “inaccettabile”.

TLVFest è una pietra miliare della campagna di “pinkwashing” di Israele. Il “pinkwashing” è una strategia di pubbliche relazioni che utilizza la presunta apertura di Israele verso le questioni LGBTQ per sviare critiche contro le sue violazioni dei diritti umani e fare appello in particolare al pubblico progressista dell’Occidente.

Ciò spesso implica grossolane esagerazioni delle politiche progressiste israeliane, insieme ad assolute menzogne sui palestinesi.

Governi filo-israeliani che hanno puntualmente evitato di condannare o agire per porre fine alla deliberata uccisione a Gaza di palestinesi disarmati, compresi minori, medici e giornalisti, da parte di Israele, sono diventati sostenitori particolarmente entusiasti del “pinkwashing”.

Venerdì molte ambasciate dell’Unione Europea hanno di nuovo partecipato alla sfilata dell’orgoglio gay a Tel Aviv, come parte dei loro tentativi di etichettare la città come una destinazione turistica aperta e progressista, nonostante il modo in cui ha rappresentato un contesto violento, razzista e ostile per i palestinesi e gli africani [si riferisce soprattutto alle vicende dei richiedenti asilo africani, ndt.].

TLVFest è finanziato dal ministero della Cultura di Israele, che è guidato dall’esponente politica di estrema destra Miri Regev.

Regev è nota per la sua esternazione razzista, in cui ha paragonato rifugiati da Stati africani a un “cancro”, e per aver postato su Facebook un video in cui lei e un gruppo di tifosi di calcio israeliani incitavano alla violenza contro i palestinesi.

Tra gli sponsor di TLVFest c’è la “Saison France-Israël”, un’iniziativa di pubbliche relazioni sostenuta da entrambi i governi e intesa a promuovere l’immagine di Israele.

Boicottaggio di “Pop-Kultur”

Il musicista americano John Maus è diventato il quarto artista a ritirarsi dall’imminente festival “Pop-Kultur” di Berlino, in seguito alla sponsorizzazione da parte dell’ambasciata israeliana.

Il festival ha emesso un comunicato in base al quale Maus e il suo gruppo “preferiscono non suonare all’interno di uno scenario politicizzato.”

Tre artisti britannici – Gwenno Saunders, Richard Dawson e Shopping – hanno già annunciato il proprio ritiro.

Saunders ha scritto: “Non posso mettere in discussione il fatto evidente che il governo e l’esercito israeliani stanno uccidendo palestinesi innocenti, violando i loro diritti umani, e che questa situazione disperata deve cambiare.”

Richieste di annullare la partita di Israele in Irlanda

Queste ultime azioni in solidarietà con i palestinesi sono arrivate dopo che i grandi nomi Shakira e Gilberto Gil hanno abbandonato il progetto di esibirsi a Tel Aviv, e dopo l’annuncio congiunto dello scorso mese di decine di gruppi musicali che avrebbero rispettato l’appello palestinese al boicottaggio.

Ci sono state anche crescenti richieste di boicottare la gara canora “Eurovisione” del prossimo anno se, come è stato anticipato, Israele la ospiterà in seguito alla vittoria di quest’anno di Netta Barzilai.

Ma il maggior risultato per i palestinesi è stato la cancellazione da parte dell’Argentina di una partita “amichevole” contro Israele che era prevista a Gerusalemme questo fine settimana.

L’incontro, parte della preparazione per la Coppa del Mondo di quest’estate, sarebbe stata il fiore all’occhiello delle iniziative propagandistiche israeliane.

Sulla base dell’impulso che viene da quella vittoria della campagna BDS, il partito irlandese [della sinistra nazionalista, ndt.] Sinn Féin sta ora chiedendo la cancellazione di un’ “amichevole” tra Israele e l’Irlanda del Nord prevista a settembre.

Faccio questa richiesta in seguito al recente massacro di oltre 100 manifestanti e alle mutilazioni di migliaia di altri da parte dell’esercito israeliano,” ha detto Sinéad Ennis, parlamentare del Sinn Féin dell’Irlanda del Nord. “La comunità internazionale dovrebbe opporsi allo Stato israeliano per il massacro indiscriminato e le continue discriminazioni contro i palestinesi.”

Il Sinn Féin appoggia la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele che riguarda i rapporti culturali, accademici e sportivi,” ha affermato Ennis.

La IFA, l’ente che gestisce il calcio nell’Irlanda del Nord, si sta già opponendo a questa richiesta.

Il Sinn Féin rappresenta tradizionalmente i nazionalisti irlandesi che pensano che l’Irlanda del Nord dovrebbe diventare parte di uno Stato irlandese unitario.

In genere i nazionalisti non si identificano con la squadra dell’Irlanda del Nord nelle competizioni internazionali e tifano per la Repubblica d’Irlanda.

Il Sinn Féin è uno dei due maggiori partiti dell’Irlanda del Nord, mentre l’altro è il Partito Democratico Unionista (DUP), che appoggia decisamente il mantenimento della divisione dell’Irlanda e il Nord come parte del Regno Unito.

Come partito di tutta l’Irlanda, il Sinn Féin si candida alle elezioni anche nella Repubblica d’Irlanda, e il sindaco di Dublino del Sinn Féin è stato un sostenitore accanito dei diritti dei palestinesi, come riflesso dell’ampia solidarietà per la Palestina nella società irlandese.

In aprile il consiglio comunale di Dublino ne ha fatto la prima capitale europea a sostenere il BDS.

E in maggio il consiglio di Derry, una città della parte dell’Irlanda controllata dalla Gran Bretagna, ha approvato una mozione presentata dal Sinn Féin per l’illuminazione di edifici comunali con i colori della bandiera palestinese in segno di solidarietà.

Al contrario il DUP, cristiano sionista e fortemente filo-israeliano, attualmente tiene in piedi il governo londinese della prima ministra Theresa May, il che gli dà un enorme potere nel Regno Unito.

I politici del DUP appoggiano decisamente la partita Israele-Irlanda del Nord.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




‘Ringraziate di non essere gay a Gaza’

Noa Bassel

(tradotto in inglese Si Berrebi)

7 giugno 2018,  +972

Visto che i palestinesi sono privati dall’occupazione dei loro diritti, non si possono considerare le conquiste della comunità LGBTQ israeliana come un indice di tolleranza. Il nostro compito è di contrastare queste opinioni e continuare a chiedere eguali diritti per tutti.

Ogni anno a giugno, durante il “Mese dell’Orgoglio Gay”, il paradosso insito costruito all’interno del discorso politico israeliano raggiunge un’altissima intensità: più un gruppo sociale è oppresso, più ci si aspetta che sia grato per quello che è dato per scontato dal resto della popolazione.

I palestinesi dovrebbero essere grati di poter frequentare l’università, le femministe dovrebbero ringraziare Israele perché non vivono in Iran, gli immigrati ebrei dall’Etiopia dovrebbero essere felici di non trovarsi nella loro patria e le persone LGBTQ dovrebbero ringraziare di poter camminare per strada.

Questi gruppi sono sistematicamente attaccati o discriminati dalla polizia, dal sistema giuridico, dalle istituzioni statali e dal mercato del lavoro. Eppure si chiede loro di essere grati per la loro situazione, non fosse altro che per il confronto con scenari immaginari se fossimo nati in altri luoghi, tutto ciò al contempo mantenendo lo stigma che ci condanna all’ inferiorità.

Il discorso “di dover essere grati” viene diffuso da internet, da membri del parlamento, da giudici della Corte Suprema e da alcuni membri della comunità LGBTQ, e si basa su alcune significative contraddizioni. Primo, in ogni lotta ci si chiede di smettere di combattere e di essere grati per ciò che abbiamo già ottenuto – che in primo luogo non avremmo ottenuto se all’epoca non avessimo smesso di dire grazie. Sono sicura che i gay negli anni ’70 avrebbero potuto essere contenti che non fosse stata applicata la legge che puniva il sesso tra uomini, che si potesse sempre ingannare il proprio capo ed avere una relazione omosessuale dopo aver messo al mondo dei figli all’interno delle comodità del matrimonio.

Negli ultimi due anni abbiamo dovuto spiegare perché non possiamo essere gay solo nel privato delle nostre case, e la settimana scorsa nella città di Kfar Saba [nella zona centrale del Paese, ndt.] la polizia ha chiesto agli organizzatori del corteo dell’“Orgoglio Gay” di pagare per la costruzione di un muro intorno ai manifestanti “per proteggerli”. Fortunatamente in ognuna di queste circostanze ci sono state persone coraggiose che dissentivano; grazie a loro adesso ci mostriamo orgogliosamente di fronte a uomini in giacca e cravatta che ci chiedono di ringraziarli.

Una contraddizione più complessa è data dal raffronto tra i diritti LGBTQ in Israele, in Cisgiordania e a Gaza. Anzitutto perché chi solleva la questione non deve mai provare le proprie affermazioni: tutti sostengono che gli omosessuali vengono buttati giù dai tetti. Ma se si prova a calcolare soltanto quante persone gay sono state assassinate a Gaza, ed in quali circostanze, ciò risulta molto difficile. La posizione ufficiale di Israele è che le persone LGBTQ non subiscono sistematiche persecuzioni in Cisgiordania.

Lo status della popolazione LGBTQ nella società palestinese è tutt’altro che perfetto, ma dirlo non è compito di chi solleva la questione come mezzo per tacitare le critiche alle azioni di Israele. Inoltre, se la vediamo dal punto di vista degli LGBTQ israeliani, l’accusa che la società palestinese o musulmana sia intrinsecamente più omofoba di quella ebrea appare una volgare generalizzazione. In entrambe le società si possono trovare soggetti che accettano gli LGBTQ ed altri che li contrastano. Da entrambe le parti vi sono organizzazioni che lottano per i diritti LGBTQ.

Esponenti religiosi minacciano la comunità da entrambe le parti. Il movimento LGBTQ in Israele ha subito violenza, resistenza e difficoltà – proprio come la sua controparte palestinese.

Purtroppo i genitori israeliani cacciano ancora di casa i loro figli gay e le persone LGBTQ e i loro sostenitori vengono ancora attaccati. La violenta aggressione contro una transessuale a Tel Aviv, i due accoltellamenti da parte di Yishai Schlissel [estremista religioso, ndt.] alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” a Gerusalemme e la sparatoria mortale al centro giovanile LGBTQ [2 morti e 15 feriti nel 2009, delitto rimasto tuttora impunito, ndt.], sono solo alcuni esempi (altri non trovano spazio nei media).

Ogni membro della comunità ha subito un attacco violento, o almeno una aggressione verbale per la strada. I minori israeliani sono tuttora mandati in terapia di conversione [dell’orientamento sessuale, ndtr.] (l’anno scorso la Knesset ha votato contro una legge che intendeva vietare questa pericolosa pratica). Solo la settimana scorsa il vicepresidente della Liberia – che ha proposto una legge per rendere le relazioni omosessuali un reato di primo grado punibile con 10 anni di prigione – ha visitato Israele come ospite del ministero degli Esteri.

I giovani israeliani piangono l’israeliana Shira Banki, che è stata assassinata da un ultra- ortodosso alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” di Gerusalemme, il 2 agosto 2015. L’aggressore, Yishai Schlissel, accoltellò sei persone. (Yotam Ronen/Activestills.org). La relativa apertura che riscontriamo oggi nell’opinione pubblica israeliana è il risultato di una continua lotta da parte dei membri della nostra comunità. Ma vi è anche una fondamentale differenza tra la situazione delle persone LGBTQ dai due lati della barriera: chi è dal lato di Israele gode di libertà di movimento, di maggior tempo libero e reddito ed anche di miglior accesso all’istruzione superiore e all’informazione, che consente di proseguire la lotta. Di questi diritti gli LGBTQ palestinesi sono privati dallo Stato di Israele.

Perciò non si possono considerare le conquiste della comunità in Israele – che sono state ottenute in assenza dell’oppressione che subiscono i palestinesi LGBTQ in Cisgiordania e a Gaza – come un indice di tolleranza e pluralismo di Israele. Il nostro impegno come comunità inclusiva è di resistere a queste opinioni e continuare a chiedere niente di meno che eguali diritti per tutti.

Noa Bassel è studentessa di lingue e attivista sociale. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Haokets’ [rivista progressista israeliana online, ndtr.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)