Come i palestinesi che fanno lo sciopero della fame contrastano il monopolio della violenza di Israele

Basil Farraj – 12 maggio 2016,Al-Shabaka

Nota redazionale: l’articolo che segue è stato pubblicato da Al-Shabaka nel maggio 2016. Tuttavia, trattandosi di un approfondimento sulla storia ed il contesto politico e penitenziario relativo allo sciopero della fame dei detenuti palestinesi si ritiene interessante proporlo ai lettori di Zeitun in occasione della protesta dei prigionieri politici palestinesi che hanno iniziato lo sciopero della fame in questi giorni.

Mentre sto scrivendo, tre prigionieri palestinesi stanno facendo lo sciopero della fame per protestare contro la loro incarcerazione senza imputazione, una pratica nascosta dal termine anodino “detenzione amministrativa”. Sami Janazra è al suo 69° giorno e la sua salute si è notevolmente deteriorata, Adeeb Mafarja è al suo 38° giorno e Fuad Assi al 36°. Questi detenuti sono tra gli almeno 700 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane che sono attualmente tenuti in detenzione amministrativa, una pratica che Israele utilizza usualmente in violazione dei rigidi parametri stabiliti dalle leggi internazionali.

I detenuti politici palestinesi hanno a lungo utilizzato gli scioperi della fame come forma di protesta in risposta alle violazioni dei loro diritti da parte delle autorità israeliane. L’associazione di solidarietà con i detenuti e per i diritti umani “Addameer” indica come inizio dell’uso dello sciopero della fame da parte di detenuti palestinesi il 1968. Da allora ci sono stati oltre 25 scioperi della fame di massa e collettivi con richieste che spaziano dalla fine del regime di isolamento e delle detenzioni amministrative fino al miglioramento delle condizioni di carcerazione e la concessione delle visite di familiari.

Poiché sempre più prigionieri palestinesi sono obbligati a ricorrere a lunghi scioperi della fame come forma estrema di protesta, infliggendo violenza ai propri corpi fino alla conquista dei propri diritti, vale la pena di ripercorrere l’uso di questo strumento politico in vari Paesi e nei secoli e di illustrare il modo in cui detenuti palestinesi lo stanno utilizzando per contrastare il monopolio israeliano della violenza all’interno delle mura delle prigioni.

Uso passato e presente degli scioperi della fame

Benché le origini esatte degli scioperi della fame – il rifiuto volontario di cibo e/o di liquidi – non siano ben note, ci sono esempi del loro utilizzo in vari periodi storici ed in vari luoghi. Il primo uso di scioperi della fame è indicato nell’Irlanda medievale, in cui una persona si sedeva sulla soglia di casa di un’altra che aveva commesso un’ingiustizia nei suoi confronti come un modo per stigmatizzarlo. Usi più recenti e meglio noti di scioperi della fame includono quelli delle suffragette britanniche nel 1909, del Mahatma Gandhi durante la rivolta contro il governo britannico in India, di Cesar Chavez durante la lotta per i diritti dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti e dei prigionieri incarcerati dagli USA a Guantanamo.

C’è un gravissimo rischio di danni fisici irreversibili per il corpo durante uno sciopero della fame, compresa la perdita dell’udito, della vista e gravi emorragie. In effetti la morte è stata il risultato di molti scioperi della fame, come nel caso dello sciopero dei prigionieri repubblicani irlandesi nel 1981.

Le richieste di chi fa lo sciopero della fame variano, ma sono, in tutti i casi, un riflesso di più vasti problemi e di ingiustizie sociali, politiche ed economiche. Per esempio, la richiesta dello sciopero della fame dei prigionieri repubblicani irlandesi del 1981 del ripristino dello status di categoria speciale rifletteva il più complessivo contesto dei “disordini” nell’Irlanda del Nord.

Uno dei primi scioperi della fame dei palestinesi fu quello di sette giorni nella prigione di Askalan (Ashkelon) del 1970. Durante questo sciopero le richieste dei prigionieri erano scritte su un pacchetto di sigarette, in quanto era loro vietato di avere quaderni, e includevano il rifiuto di rivolgersi ai loro carcerieri chiamandoli “signore”. I prigionieri ottennero la loro richiesta e non dovettero più utilizzare il termine “signore”, ma solo dopo che morì Abdul-Qader Abu Al-Fahem in seguito all’alimentazione forzata, diventando li primo martire del movimento dei prigionieri palestinesi.

Scioperi della fame continuarono ad essere portati avanti nella prigione di Ashkelon durante gli anni ’70. Inoltre altri due prigionieri, Rasim Halawe e Ali Al-Ja’fari, morirono dopo essere stati alimentati forzatamente durante uno sciopero della fame nella prigione di Nafha nel 1980. In seguito a questi e ad altri scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di garantire alcuni miglioramenti delle loro condizioni di detenzione, compreso il permesso di avere fotografie della famiglia, carta per scrivere, libri e giornali.

Negli ultimi anni la fine delle detenzioni amministrative è stata una richiesta costante dei prigionieri palestinesi, dato l’incremento del loro uso da parte di Israele dallo scoppio della Seconda Intifada nel 2000. Per esempio, lo sciopero della fame di massa del 2000, che ha coinvolto 2.000 prigionieri, chiedeva di porre fine all’utilizzo delle detenzioni amministrative, all’isolamento e ad altre misure punitive, compreso il divieto di visite dei familiari per i prigionieri di Gaza. Lo sciopero terminò dopo che Israele accettò di limitare l’uso delle detenzioni amministrative.

Tuttavia presto Israele sconfessò l’accordo, portando ad un altro sciopero della fame di massa nel 2014 da parte di oltre 100 detenuti amministrativi che chiedevano la fine di quella pratica. Lo sciopero della fame terminò 63 giorni dopo senza aver posto fine alle detenzioni amministrative. La decisione dei prigionieri pare sia stata influenzata dalla scomparsa di tre coloni della Cisgiordania e dalle operazioni militari su grande scala di Israele in Cisgiordania (che fu seguita da un attacco massiccio contro Gaza).

In più ci sono stati una serie di scioperi della fame individuali, a volte in coincidenza o che hanno portato alla decisione di iniziare scioperi della fame più estesi. Infatti sia gli scioperi della fame del 2012 che del 2014 sono stati innescati da scioperi della fame individuali per chiedere la fine dell’uso delle detenzioni amministrative. Lo sciopero della fame individuale coinvolse Hana Shalabi, Khader Adnan, Thaer Halahleh e Bilal Diab, ognuno dei quali ottenne la fine della propria detenzione amministrativa. Tuttavia alcuni di loro furono nuovamente arrestati dopo il loro rilascio, come nel caso di Samer Issawi, Thaer Halahleh e Tareq Qa’adan, come anche di Khader Adnan, rilasciato dopo un prolungato sciopero della fame in protesta per il suo nuovo arresto nel 2015.

La violenza che Israele infligge ai prigionieri palestinesi

Israele continua ad assoggettare i detenuti palestinesi a molte forme di violenza, come è stato ben documentato da organizzazioni dei diritti umani e dei diritti dei prigionieri, così come nelle lettere dei detenuti e in molti documentari. In un rapporto del 2014 Addameer nota: “Ogni palestinese arrestato è stato sottoposto a qualche forma di tortura fisica o psicologica, a trattamento crudele comprese violente percosse, isolamento, aggressioni verbali e minacce di violenza sessuale.”

Inoltre, e in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dello Statuto di Roma, Israele ha deportato detenuti palestinesi fuori dai territori occupati e in prigioni all’interno di Israele ed ha anche minacciato prigionieri della Cisgiordania di deportarli nella Striscia di Gaza se non avessero confessato. Nega o limita sistematicamente ed arbitrariamente le visite dei familiari. I detenuti sono soggetti deliberatamente a negligenza medica e ad abusi, così come a restrizioni nelle chiamate telefoniche, alla consultazione degli avvocati e alla disponibilità di libri e televisione.

Oltretutto le autorità israeliane classificano di prigionieri politici palestinesi come “detenuti per ragioni di sicurezza”, una definizione che rende legalmente possibile sottometterli automaticamente a molte restrizioni. Questa caratterizzazione nega ai prigionieri palestinesi alcuni dei diritti e dei privilegi di cui godono i detenuti ebrei – persino quei pochi che sono etichettati come prigionieri per ragioni di sicurezza – comprese visite a casa sotto sorveglianza, la possibilità di un rapido rilascio e la concessione di permessi.

La violenza a cui i prigionieri palestinesi sono sottoposti deve essere considerata all’interno del contesto del progetto coloniale di Israele e dell’assoggettamento dell’intera popolazione palestinese a differenti forme di violenza, compresi la perdita della terra, la distruzione delle case, l’espulsione e l’esilio. Vale la pena ricordare che da quando è iniziata l’occupazione israeliana nel 1967, Israele ha arrestato più di 800.000 palestinesi, circa il 20% della popolazione totale e il 40% della popolazione maschile. Questo solo fatto chiarisce quanto gli arresti e le detenzioni siano un meccanismo utilizzato da Israele per controllare la popolazione mentre la espropria, collocando ebrei israeliani al suo posto.

E’ all’interno di questa più ampia comprensione della violenza che gli scioperi della fame emergono come un modo in cui i prigionieri palestinesi sono in grado di opporsi alle varie forme di violenza dello Stato israeliano.

Usare il corpo dei detenuti per sovvertire il potere dello Stato

Attraverso gli scioperi della fame i prigionieri non rimangono più destinatari silenziosi della continua violenza delle autorità carcerarie: invece essi infliggono violenza ai loro stessi corpi per imporre le proprie richieste. In altre parole, gli scioperi della fame sono uno spazio fuori dalla portata del potere dello Stato israeliano. Il corpo dei prigionieri in sciopero sconvolge uno dei più fondamentali rapporti di violenza all’interno delle mura carcerarie, in cui lo Stato israeliano e le sue autorità carcerarie controllano ogni aspetto delle loro vite dietro le sbarre e sono gli unici ad infliggere la violenza. In effetti, i prigionieri ribaltano il rapporto tra oggetto e soggetto della violenza fondendoli entrambi in un solo corpo – il corpo del prigioniero in sciopero – e così facendo rivendicano un’azione. Affermano il proprio status di prigionieri politici, rifiutano di essere ridotti allo status di “prigionieri per ragioni di sicurezza” e reclamano i propri diritti e la propria esistenza.

Il fatto che lo Stato israeliano usi varie misure per porre fine agli scioperi della fame e per ristabilire il suo potere sui prigionieri e sull’uso della violenza dimostra la sfida che i corpi di chi fa lo sciopero della fame pone allo Stato israeliano. Tra le altre misure, le autorità carcerarie continuano a sottomettere i prigionieri in sciopero a violenze e torture. Infatti le violenze a cui sono soggetti i detenuti che fanno lo sciopero si intensificano e cambiano forma. Per esempio, durante lo sciopero della fame del 2014 ai prigionieri sono state negate cure mediche e visite dei familiari e sono stati incatenati mani e piedi ai letti d’ospedale per 24 ore al giorno. Sono rimasti ammanettati quando gli è stato permesso di andare in bagno, e le porte spalancate dei bagni hanno negato loro ogni diritto alla privacy. Le autorità israeliane hanno anche intenzionalmente lasciato del cibo vicino agli scioperanti per spezzare la loro volontà. L’ex scioperante Ayman Al-Sharawna ha affermato: “Hanno portato un tavolo con il cibo migliore e l’hanno messo vicino al mio letto..Lo Shin Bet [servizio segreto israeliano, ndt.] sapeva che mi piacciono i dolci. Portavano ogni genere di dolci.”

Israele ha recentemente dato una copertura giuridica all’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero attraverso la “Legge per evitare danni provocati dagli scioperi della fame”, che equivale a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, secondo il relatore speciale dell’ONU sulla tortura. La legge è anche in contraddizione con la dichiarazione di Malta sugli scioperi della fame dell’Associazione Medica Mondiale.

Israele etichetta anche i prigionieri in sciopero come “terroristi” e “criminali” per compromettere la loro rivendicazione di azione politica e i loro tentativi di invertire l’oggetto ed il soggetto della violenza dello Stato. Durante lo sciopero della fame di massa del 2014 i funzionari israeliani hanno sostenuto che gli scioperanti erano “terroristi”. La ministra israeliana della Cultura e dello Sport Miri Regev, una dei sostenitori della recente legge, ha affermato: “I muri della prigione non significano che un’azione non sia terroristica (…) C’è terrorismo nelle strade e c’è terrorismo nelle prigioni.” Gilad Erdan, il Ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, ha dichiarato che gli scioperi della fame sono un “nuovo tipo di attacco suicida”.

La fondamentale importanza dell’appoggio nazionale ed internazionale

Per il successo di ogni sciopero della fame è fondamentale la capacità degli scioperanti di mobilitare comunità, organizzazioni ed entità politiche in loro appoggio e di esercitare pressioni sulle autorità perché soddisfino le richieste degli scioperanti o negozino un accordo.

Attraverso gli scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di imporre le loro lotte a livello politico palestinese e spesso internazionale. Dato che in genere non ci sono alternative attraverso le quali i detenuti possono garantirsi la libertà o un cambiamento nelle politiche israeliane, l’importanza della mobilitazione di comunità ed organismi politici attorno ai diritti dei prigionieri non può essere sottovalutata.

Organizzazioni di base e dei diritti umani ed entità pubbliche sia all’interno che fuori dalla Palestina si sono mobilitate durante scioperi della fame dei prigionieri palestinesi. Le forme di sostegno hanno compreso raduni quotidiani, proteste fuori dagli uffici di organizzazioni internazionali, appelli al governo israeliano perché ascoltasse le richieste dei prigionieri e manifestazioni fuori da prigioni ed ospedali. Organizzazioni locali ed internazionali, comprese tra le altre “Addameer”, Jewish Voice for Peace, Amnesty International e Samidoun [rete di solidarietà con i detenuti palestinesi, ndt], hanno messo in luce le ingiustizie che devono affrontare i prigionieri palestinesi per unirsi alle pressioni sulle autorità israeliane affinché acconsentissero alle richieste dei prigionieri e negoziassero un accordo con loro.

Oltretutto, attraverso queste reti, la lotta degli scioperanti palestinesi e più in generale dei detenuti, si internazionalizza ponendosi in parallelo con le ingiustizie passate e presenti che devono affrontare popoli di tutto il mondo. In reportages e analisi sugli scioperi della fame dei palestinesi vengono continuamente fatti riferimenti, tra gli altri, alla difficile situazione dei prigionieri irlandesi durante i “disordini”, alle detenzioni di massa negli USA e alle condizioni a Guantanamo. In questo modo le lotte dei detenuti palestinesi diventano parte dei crescenti movimenti di solidarietà e delle campagne che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ciò contribuisce ad opporsi al fatto che Israele li etichetti come “criminali” e “terroristi” e al suo monopolio sull’argomento.

Come altre forme di resistenza dentro e fuori i muri delle prigioni, gli scioperi della fame sono azioni di resistenza attraverso cui i palestinesi affermano la propria esistenza politica e chiedono i propri diritti. E’ vitale sostenere e alimentare questa resistenza. Oltre a darle forza e appoggiare i prigionieri nella loro lotta per i diritti, questa forma di resistenza infonde continuamente e fortemente la speranza tra i palestinesi in generale e il movimento di solidarietà. E’ nostra responsabilità sia appoggiare i prigionieri palestinesi, sia lavorare perché venga il momento in cui i palestinesi non abbiano più bisogno di ricorrere a simili atti di resistenza attraverso cui la loro unica risorsa è mettere a rischio la propria vita.

Basil Farraj

Membro di Al-Shabaka, Basil Farraj ha ottenuto una laurea in Pace e Studi Globali presso l’ Earlham College, negli USA. E’ un ricercatore Thomas J. Watson che ha intrapreso un progetto indipendente sull’identità palestinese e le sue espressioni nella diaspora. Basil è membro di “Defence for Children International – assemblea generale della sezione palestinese” e consulente del progetto “Impollination”. Le sue aree di interesse includono la difesa dei diritti dei bambini, la teoria della pace e della giustizia e la costruzione di una efficace e critica solidarietà internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Lo sciopero della fame palestinese è rivolto oltre le carceri

Amira Hass – 19 aprile 2017, Haaretz

Lo sciopero della fame da parte dei detenuti palestinesi è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle tante celle che esistono all’esterno.

Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, iniziato e guidato da Marwan Barghouti, ha un potenziale sovversivo rigenerante e non necessariamente contro il servizio carcerario israeliano. Come dicono parecchi rappresentanti dei carcerati fuori dalle prigioni, non si tratta di uno sciopero conflittuale o ideologico. Si tratta di diritti umani fondamentali che spettano persino ai prigionieri, persino a quelli che sono membri dell’’altra nazione.

Fornire loro un telefono pubblico, e farla finita con le guardie carcerarie che fanno molti soldi con il contrabbando di cellulari. Permettere loro di incontrasi con le famiglie senza affrontare il continuo iter angoscioso per ottenere un permesso una volta l’anno. Prolungate le visite e vedrete quale impatto positivo avrà sulla situazione. Quello che stanno cercando di dire i detenuti al servizio carcerario ed all’opinione pubblica israeliani è che entrambe le parti hanno interesse che le prigioni conservino un certo livello di decenza.

L’effettivo livello di sovversione è interno. Si può osservare nello sciopero un tentativo di fare in modo che i palestinesi si scuotano di dosso il loro fatalismo e la loro passività alla luce della sempre più potente ostilità di Israele e di far uscire i loro litigiosi dirigenti dall’acquiescenza nei confronti dello status quo e dalla loro illusione di sovranità.

Non è una cosa da poco nell’era della privatizzazione. Cosa sono gli scioperi della fame dei singoli se non una privatizzazione della lotta? Cosa sono gli attacchi all’arma bianca, le minacce con un coltello e gli investimenti con le auto se non la privatizzazione di una rivolta (o utilizzarla per sfuggire a problemi e frustrazioni personali e familiari, e persino per morire)? Gli scioperi della fame individuali di detenuti amministrativi [cioè senza un’imputazione, ndt] sono stati un peso per le organizzazioni di appoggio ai prigionieri, ma questi gruppi sono stati travolti dalla preoccupazione naturale per il benessere dei detenuti, ed hanno investito negli scioperi moltissimo tempo e discussioni che non hanno portato da nessuna parte. L’uso troppo frequente di scioperi della fame individuali li ha completamente usurati come strumento di mobilitazione, di impatto o di cambiamento.

La carcerazione di palestinesi è una politica pianificata di Israele. Ma, oltre alle prigioni normali, Israele ha creato e continua a creare ogni genere di altri mezzi per tener prigionieri i palestinesi. Questa, in fin dei conti, è la descrizione sintetica del vero processo di Oslo, non quello riflesso nelle promesse altisonanti. Agglomerati ed ancora agglomerati di carceri in mezzo a noi, e tutti noi – ebrei israeliani – siamo i secondini. Quindi l’esperienza della carcerazione, che si tratti di una prigione formale o di altro genere, è condivisa da tutti i palestinesi.

Ma con la frammentazione dello spazio dei palestinesi – utilizzando collaudati trucchi colonialisti che Israele ha aggiornato e raffinato, e a cui ha aggiunto un sacco di faccia tosta – ha creato decine di meccanismi diversi di incarcerazione, di unità geo-sociali con diversi livelli di mancanza di libertà e asfissia. Il culmine è naturalmente Gaza, dove due milioni di persone stanno scontando l’ergastolo. Ma anche nelle altre parti del Paese (compreso il territorio sovrano di Israele), i muri in cui sono imprigionati i palestinesi variano: norme burocratiche che cambiano continuamente, crescente discriminazione, Area C, arroganza, coloni violenti, un divieto di passaggio attraverso il ponte di Allenby [tra la Cisgiordania e la Giordania, ndt], umiliazioni all’aeroporto Ben Gurion, ecc.

Questa frantumazione in dozzine di unità carcerarie ha creato diversi livelli di coscienza tra le persone imprigionate in ognuna di esse, a seconda del livello di soffocamento e detenzione. Quelli per i quali il livello di incarcerazione è minore (libertà di viaggiare all’estero ma non a Gerusalemme, solo metà della terra del villaggio è stata rubata, il filo spinato e la base militare si trovano a un chilometro dalla loro casa invece che a mezzo chilometro) hanno un’ esperienza diversa del secondino israeliano rispetto ad una donna che vive nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che è tagliata fuori dal mondo a 300 metri da casa sua. I dirigenti ufficiali, guarda caso, hanno esperienza del minor grado di detenzione. Il grado di urgenza per cambiare la situazione è diverso da una prigione all’altra.

Lo sciopero della fame è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle molteplici celle carcerarie che esistono fuori. La sua sfida è la costruzione di una collettività di prigionieri come un’entità che definisca il programma palestinese, un’entità che veda i palestinesi fuori dalle prigioni come una collettività smembrata e frammentata che deve essere riunificata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le donne palestinesi si uniscono allo sciopero della fame, gli avvocati dichiarano il boicottaggio dei tribunali israeliani

Ma’an News 19 aprile 2017

RAMALLAH (Ma’an) – Mercoledì centinaia di prigionieri palestinesi in sciopero della fame hanno iniziato il terzo giorno di sciopero per la “Libertà e Dignità”, mentre le donne palestinesi detenute hanno lanciato forme di protesta e gli avvocati che rappresentano i detenuti in sciopero hanno annunciato il boicottaggio dei tribunali israeliani.

I prigionieri chiedono che le autorità carcerarie israeliane garantiscano loro diritti fondamentali, come ricevere regolari visite, e nel lungo elenco di richieste stilato dal movimento Fatah e dal suo leader detenuto, Marwan Barghouthi,chiedono anche la fine della deliberata negligenza sanitaria, dell’isolamento, della detenzione amministrativa.

Secondo quanto dichiarato mercoledì da un comitato unificato per i media, composto dal Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri e dalla Società Palestinese dei Prigionieri (PPS), circa 1500 prigionieri continuano lo sciopero iniziato nel “Giorno dei Prigionieri Palestinesi”, il 17 aprile.

Secondo la dichiarazione, gli avvocati di istituzioni come il PPS [Ong palestinese che si occupa dell’assistenza ai detenuti, ndtr.] e il “Comitato dei prigionieri” hanno deciso di boicottare i tribunali israeliani. Come ha sottolineato Barghouthi in un editoriale pubblicato dal New York Times prima dello sciopero della fame, in base ai dati del Dipartimento di Stato USA il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è circa del 90%.

L’articolo ha scatenato l’indignazione generale tra i dirigenti israeliani; Barghouthi potrebbe essere incriminato per averlo scritto, mentre alcuni membri del governo israeliano hanno anche suggerito di chiudere la redazione del New York Times a Gerusalemme.

Intanto, il capo del “Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri”, Issa Qaraqe, ha chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite di convocare una riunione di emergenza dell’Assemblea Generale dell’ONU per discutere delle “condizioni sempre più gravi e pericolose” nei centri di detenzione e nelle prigioni israeliane, con la prosecuzione dello sciopero.

Mercoledì il Comitato ha riferito che le donne palestinesi nella prigione israeliana di Hasharon, dove sono detenute 58 donne, hanno lanciato forme di protesta in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame.

L’avvocato del Comitato, Hiba Masalha, ha detto che le donne rifiuteranno il cibo ogni dieci giorni, sottolineando che le proteste aumenteranno nei prossimi giorni se Israele non risponderà alle richieste dei detenuti in sciopero.

Nel frattempo, dopo che sette prigionieri palestinesi nella prigione israeliana di Ashkelon sofferenti di diverse patologie hanno deciso di unirsi allo sciopero a tempo indeterminato, l’avvocato del comitato dei prigionieri Karim Ajweh venerdì ha detto che le autorità carcerarie israeliane hanno continuato a tenerli in punizione.

Dopo aver visitato i prigionieri ad Ashkelon, Ajweh ha detto che il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) ha confiscato i loro dispositivi elettronici ed altri oggetti, lasciando i detenuti ammalati solo con tre coperte, un paio di mutande, un piccolo asciugamano ed uno spazzolino da denti da dividere tra i sette uomini.

Ajweh ha detto che i sette prigionieri, identificati come Said Musallam, Othman Abu Khurj, Ibrahim Abu Mustafa, Yasser Abu Turk, Nazih Othman, Ayman Sharabati e Abd al-Majid Mahdi, hanno anche subito una perquisizione fisica, sono stati trasferiti dalle loro abituali celle ed “umiliati”.

L’avvocato ha aggiunto che i prigionieri ammalati hanno deciso di intraprendere lo sciopero per protesta contro la negligenza sanitaria, nonostante le pericolose conseguenze che lo sciopero potrebbe avere sulla loro salute. I sette uomini hanno anche minacciato di smettere di assumere i farmaci se sottoposti ad alimentazione forzata.

Da quando è iniziato lo sciopero della fame le autorità israeliane hanno installato ospedali da campo per i prigionieri palestinesi, come ha confermato il Ministro israeliano per la Pubblica Sicurezza. Ciò ha destato il timore che le persone in sciopero, che probabilmente nei prossimi giorni verseranno in condizioni di salute in peggioramento, verranno sottoposte in massa ad alimentazione forzata – in violazione degli standard internazionali di deontologia medica e del diritto internazionale, che considerano questa pratica come inumana o addirittura come una forma di tortura.

 

I medici israeliani negli ospedali civili finora hanno rifiutato di alimentare forzatamente chi è in sciopero della fame, nonostante la recente sentenza della Corte Suprema israeliana che ha ritenuto costituzionale questa pratica.

Oltre alle misure punitive nei confronti del gruppo dei prigionieri malati, l’IPS ha punito le altre centinaia di persone in sciopero della fame sospendendo il diritto alle visite dei familiari, impedendo agli avvocati di far visita ad alcuni di loro e spostando i prigionieri in sciopero all’interno della struttura di detenzione, in modo da separarli dai prigionieri palestinesi che non partecipano allo sciopero della fame.

I dirigenti dell’IPS hanno anche posto in isolamento parecchi prigionieri in sciopero – compresi Barghouthi e Karim Yunis [il palestinese detenuto da più anni nelle carceri israeliane, ndt]– ed hanno vietato ai prigionieri di vedere la televisione, dichiarando “uno stato di emergenza” nelle strutture carcerarie che ospitano prigionieri palestinesi.

Migliaia di palestinesi lunedì hanno marciato in solidarietà con i prigionieri in sciopero, mentre le forze israeliane hanno pesantemente represso una manifestazione nella città di Betlemme, nel sud della Cisgiordania occupata, ed hanno arrestato quattro giovani palestinesi in un’altra manifestazione nel distretto centrale di Ramallah in Cisgiordania.

Come affermano le organizzazioni palestinesi in una dichiarazione congiunta resa pubblica sabato, dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, con la successiva occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza nel 1967, le autorità israeliane hanno imprigionato circa un milione di palestinesi.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Marwan Barghouthi dalla prigione di Hadarim

Da AssopacePalestina

Articolo originale pubblicato sul NY Times il  16.4.2017

Dopo la pubblicazione dell’articolo Barghouthi è stato messo in isolamento!

“Dopo aver trascorso gli ultimi 15 anni in una prigione israeliana, sono stato sia un testimone, sia vittima, del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti di prigionieri palestinesi.

Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c’era altra scelta che resistere a questi abusi cominciando uno sciopero della fame.

Circa 1.000 prigionieri palestinesi hanno deciso di prendere parte a questo sciopero, che inizia oggi, giorno che qui celebriamo come Giorno dei prigionieri. Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza a disposizione. Esso infligge dolore esclusivamente a coloro che vi partecipano e ai loro cari, nella speranza che gli stomaci vuoti e il sacrificio aiutino il messaggio a risuonare al di là dei confini delle buie celle.

Decenni di esperienza hanno dimostrato che il sistema inumano di occupazione coloniale e militare israeliana punta a sfibrare lo spirito dei prigionieri e della nazione a cui appartengono, infliggendo sofferenze sui loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, utilizzando misure umilianti per costringere alla sottomissione. A dispetto di tale trattamento, non ci arrenderemo ad esso.

Israele, la potenza occupante, ha violato il diritto internazionale in molti modi per quasi 70 anni, ma gli è stata garantita impunità per le proprie azioni. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, tra cui uomini, donne e bambini, non fanno eccezione.

Avevo solo 15 anni quando sono stato imprigionato per la prima volta. Avevo appena 18 anni quando un ufficiale israeliano mi ha costretto a divaricare le gambe mentre mi trovavo nudo nella stanza degli interrogatori, prima di colpire i miei genitali. Sono svenuto dal dolore, e la caduta conseguente ha lasciato una grande cicatrice che da allora segna la mia fronte. L’ufficiale mi prese in giro, dicendo che non avrei mai potuto procreare, perché dalla gente come me nascono solo terroristi e assassini.

Pochi anni dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana, conducendo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Invece dei dolci che di solito distribuiamo per celebrare simili eventi, ho distribuito agli altri prigionieri del sale. Quando aveva appena 18 anni, mio figlio a sua volta è stato arrestato e ha trascorso quattro anni nelle prigioni israeliane.

Il più anziano dei miei quattro figli è ora un uomo di 31. Eppure, io sono ancora qui, continuando questa lotta per la libertà insieme a migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e il sostegno di così tanti in tutto il mondo. L’arroganza dell‘occupante oppressore e dei suoi sostenitori li rende sordi a questa semplice verità: prima che riescano a spezzare noi, saranno le nostre catene ad essere spezzate, perché è nella natura umana rispondere al richiamo della libertà a qualsiasi costo.

Israele ha costruito quasi tutte le sue carceri all’interno dei propri confini, piuttosto che nel territorio occupato. In tal modo, ha illegalmente e forzatamente trasferito civili palestinesi in cattività, usando questa situazione per limitare le visite dei familiari e per infliggere sofferenze attraverso lunghi trasferimenti in condizioni crudeli. I diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale – tra cui alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti scioperi della fame – sono stati trasformati in privilegi che l’amministrazione penitenziaria può decidere di concedere o sottrarre.

I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subito torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi durante la detenzione. Secondo gli ultimi dati, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 a causa di tali azioni. I prigionieri palestinesi e le loro famiglie rimangono anche un obiettivo primario della politica di Israele di imposizione di punizioni collettive.

Nel corso degli ultimi cinque decenni, secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer, più di 800.000 palestinesi sono stati imprigionati da Israele – pari a circa il 40 per cento della popolazione maschile del territorio palestinese. Oggi, circa 6.500 sono ancora in carcere, tra i quali alcuni che detengono il triste primato dei più lunghi periodi di detenzione dei prigionieri politici al mondo. È difficile trovare una sola famiglia in Palestina che non abbia patito la detenzione di uno o più dei suoi componenti.

Come dar conto di questo assurdo stato di cose?

Israele ha stabilito un regime giuridico duale, una forma di apartheid giudiziaria, che garantisce potenziale impunità per gli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, mentre criminalizza la presenza e la resistenza palestinese. I tribunali di Israele sono una parodia della giustizia, palesi strumenti di occupazione coloniale e militare. Secondo il Dipartimento di Stato, il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è del 90 per cento circa.

Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha arrestato, ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, accademici, esponenti politici, militanti e familiari dei detenuti. Tutto con un unico obiettivo: seppellire le legittime aspirazioni di un’intera nazione.

Al contrario, le prigioni di Israele sono diventate la culla di un duraturo movimento per l’autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Libertà e la Dignità, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.

Le autorità israeliane e il servizio carcerario hanno trasformato i diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale in privilegi da concedere o sottrarre discrezionalmente. Israele ha provato ad etichettare tutti noi come terroristi per legittimare le sue violazioni, tra cui gli arresti di massa arbitrari, le torture, le misure punitive e le rigide restrizioni. Come parte dello sforzo di Israele di minare la lotta palestinese per la libertà, un tribunale israeliano mi ha condannato a cinque ergastoli e 40 anni di carcere in un processo farsa che è stato denunciato dagli osservatori internazionali.

Israele non è la prima potenza occupante o coloniale a ricorrere a tali espedienti. Ogni movimento di liberazione nazionale nella storia ricorda pratiche simili. Questo è il motivo per cui così tante persone che hanno lottato contro l’oppressione, il colonialismo e l’apartheid sono dalla nostra parte. La campagna internazionale per ‘la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi’ che l’icona anti-apartheid Ahmed Kathrada e mia moglie, Fadwa, hanno lanciato nel 2013 dalla ex cella di Nelson Mandela a Robben Island ha avuto il sostegno di otto vincitori del Premio Nobel per la Pace, 120 governi e centinaia di dirigenti, parlamentari, artisti e accademici di tutto il mondo.

La loro solidarietà smaschera il fallimento morale e politico di Israele. I diritti non sono elargiti da un oppressore. La libertà e la dignità sono diritti universali che sono connaturali all’umanità e devono essere goduti da ogni nazione e da tutti gli esseri umani. I Palestinesi non saranno un’eccezione. Solo porre fine all’occupazione potrà cessare questa ingiustizia e segnare la nascita della pace”.

Traduzione di Luigi Daniele

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Il comitato dei prigionieri fa appello a tutte le fazioni palestinesi perché si uniscano allo sciopero della fame guidato da Fatah

11 aprile 2017 Ma’an news agency

BETLEMME (Ma’an) – Il capo del Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri Issa Qaraqe ha invitato tutte le fazioni palestinesi nelle prigioni israeliane ad unirsi all’imminente sciopero della fame di massa, che è stato originariamente indetto dal movimento Fatah.

Tutti i prigionieri appartenenti a Fatah si sono impegnati ad unirsi allo sciopero condotto dal leader di Fatah incarcerato Marwan Barghouthi, che si prevede abbia inizio il 17 aprile, nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi – con contraddittorie informazioni sul fatto se vi si uniranno o meno i prigionieri appartenenti ad altre fazioni politiche.

Qaraqe ha detto che i prigionieri appartenenti a Fatah costituiscono il 65% di tutti i prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, vi sono in totale 6.500 prigionieri palestinesi.

Nella dichiarazione del comitato si afferma che Qaraqe ha invitato tutte le fazioni ad unirsi, allo scopo di concretizzare una “vera unità nazionale per contrastare le procedure e le prassi dell’amministrazione penitenziaria e del governo di Israele.”

Dopo che è stato annunciato lo sciopero della fame, è stato riferito che un ufficiale del Servizio Penitenziario israeliano ha affermato che loro non avrebbero risposto a nessuna delle richieste dei prigionieri, mentre la televisione israeliana ha riferito che la sicurezza israeliana ha espresso il timore di un “crollo nelle condizioni di sicurezza” nelle carceri durante lo sciopero.

Intanto il Canale 2 israeliano ha riferito che il Ministro israeliano della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha dato ordine di installare un ospedale militare per garantire che i prigionieri palestinesi in sciopero della fame non vengano trasferiti in ospedali civili – i quali finora hanno rifiutato di sottoporre ad alimentazione forzata i prigionieri palestinesi in sciopero della fame.

Mentre la Suprema Corte israeliana ha recentemente sentenziato che l’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero della fame è costituzionale, i medici israeliani hanno aderito alla deontologia professionale dei sanitari internazionalmente accettata, che considera questa pratica una forma di tortura.

La rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi Samidoun ha allertato che è “altamente probabile” che la proposta di Erdan di un ospedale da campo sia “un tentativo di imporre l’alimentazione forzata di massa ai prigionieri palestinesi in sciopero, al di fuori delle strutture sanitarie civili.”

Il Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri ha ribadito l’elenco di richieste poste dallo sciopero, formulate da Marwan Barghouthi, che sta scontando l’ergastolo nelle prigioni israeliane:

1. Installare un telefono pubblico per i detenuti palestinesi in tutte le prigioni e le sezioni perché possano comunicare con i familiari.

2. Visite:

* Ripristinare le seconde visite mensili ai prigionieri palestinesi, che sono state interrotte lo scorso anno dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.

* Garantire la regolarità delle visite ogni due settimane senza che vengano impedite da qualunque parte.

* Ai parenti di primo e secondo grado non dovrà essere impedito di visitare il detenuto.

* Aumentare la durata della visita da 45 minuti a un’ora e mezza.

* Permettere ai detenuti di scattare fotografie con i loro familiari ogni tre mesi.

* Creare servizi di conforto per le famiglie dei detenuti.

* Consentire ai figli e ai nipoti minori di 16 anni di visitare i detenuti.

3. Cure mediche:

* Chiudere il cosiddetto Ospedale carcerario di Ramla, poiché non fornisce cure adeguate.

* Porre fine alla politica israeliana di deliberata incuria sanitaria.

* Condurre esami medici periodici.

* Eseguire gli interventi con alti standard medici.

* Consentire a medici specializzati al di fuori del servizio carcerario israeliano di curare i prigionieri.

* Rilasciare i detenuti ammalati, specialmente quelli che presentano disabilità e malattie incurabili.

* Le cure mediche non devono essere a carico dei detenuti.

4. Rispondere alle necessità e alle richieste delle donne palestinesi detenute, soprattutto al problema dei trasferimenti che durano molte ore tra i tribunali israeliani e le prigioni.

5. Spostamenti:

* Trattare i detenuti in modo umano durante il loro trasferimento.

* Ricondurre i detenuti nelle prigioni dopo la visita a ospedali o tribunali e non trattenerli ulteriormente ai vari posti di controllo.

* Adeguare i posti di controllo all’utilizzo umano e fornire pasti per i detenuti.

6. Aggiungere canali satellitari che rispondano alle esigenze dei detenuti.

7. Installare condizionatori nelle prigioni, soprattutto in quelle di Megiddo e Gilboa.

8. Ripristinare le cucine in tutte le prigioni e porle sotto il controllo dei detenuti palestinesi.

9. Permettere ai detenuti di avere libri, giornali, vestiti e cibo.

10. Porre fine alla politica della detenzione in isolamento.

11. Porre fine alla politica di detenzione amministrativa.

12. Consentire ai detenuti di studiare presso l’Università Aperta Ebraica.

13. Consentire ai detenuti di sostenere gli esami finali della scuola superiore (tawjihi tawjihi [esame di maturità delle scuole palestinesi. Ndtr.]) in modo ufficiale e concordato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La tormenta gialla in Israele

Nota redazionale: Nel giugno 2016 lo scrittore peruviano e premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ha scritto una serie di reportage dalla Palestina per il quotidiano spagnolo “El País”. Dal suo viaggio è stato tratto anche il documentario “Cinco días con Mario” (“Cinque giorni con Mario”).

I redattori di Zeitun non condividono alcune affermazioni contenute in questi testi per quanto riguarda i giudizi su Israele (tra cui ad esempio le notazioni finali sulle virtù del Paese, che ignorano il fatto che il 20% dei cittadini israeliani, soprattutto non ebrei, si trova sotto il livello di povertà ed il razzismo che colpisce tuttora gli ebrei sefarditi e quelli etiopi: vedi http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4753118,00.html; https:// en. wikipedia. org/wiki/Racism_in_Israel) e su alcuni degli scrittori che vengono qui definiti “pacifisti” (Grossman e Oz, che in varie occasioni hanno appoggiato le iniziative militari di Israele). Ritengono tuttavia importante tradurre e diffondere questi reportage, sia per l’autorevolezza dell’autore, sia perché contengono una esplicita denuncia dell’occupazione israeliana.

Le traduzioni che seguono includono due articoli di presentazione scritti dal giornalista de “El País” Juan Cruz e i reportage di Vargas Llosa.

Mario Vargas Llosa visita la Cisgiordania e scrive del dramma dei territori occupati

El País – Gerusalemme, 19 giugno 2016

Juan Cruz

L’agenda degli impegni di Mario Vargas Llosa, che ha 80 anni, è stata quasi quella di un inviato di guerra, e lui stesso la presenterà divisa in vari episodi su “El País” attraverso la pubblicazione di vari reportage a partire dal 30 giugno. Inoltre l’esperienza è stata raccolta da “El País TV” in un documentario che sarà trasmesso anche dalla rete del giornale.

Infatti l’esperienza è stata molto intensa. Sia la sua che la nostra, che l’abbiamo potuto accompagnare. Abbiamo visto come si alzava alle 4 del mattino per assistere alle code dei lavoratori palestinesi che devono attendere ore davanti al cancello implacabile in un checkpoint per entrare a lavorare in Israele, o come saliva e scendeva dalle strade o dai sentieri o dalle grotte impraticabili dei villaggi in cui i palestinesi resistono, o come si andava a cercare le informazioni di cui aveva bisogno per poi redigere il suo racconto. Avendo assistito al suo modo di fare non solo si capisce come ha fatto a scrivere alcuni dei suoi libri più famosi, ma anche come mantiene in forma la sua idea dell’impegno dello scrittore con la realtà. Non è affatto frequente che un premio Nobel della letteratura, autore di romanzi come “Conversazione nella ‘cattedrale'” o “La festa del caprone”, si dedichi a un esercizio di questo tipo.

David Grossman è uno dei grandi scrittori israeliani. Era un giovane giornalista della radio ufficiale nel 1987 quando decise di abbandonare la routine delle notizie per addentrarsi nel dramma provocato dagli insediamenti dei coloni nei territori occupati della Palestina fin dalla guerra del 1967.

In 20 anni nessuno scrittore vi si era avvicinato. Ora un’alta percentuale di israeliani non sa cosa succede in quella zona, dove si sviluppa quella che allora Grossman (Gerusalemme, 1954) vide come un’aggressione ai diritti umani. La situazione è peggiorata. Il risultato di quella visita fu un libro, “Il vento giallo”, che commosse milioni di lettori e provocò la sua espulsione dalla radio e l’ostilità di alcuni dei suoi colleghi. Quest’opera di Grossman è servita a far in modo che ora un gruppo di scrittori diano seguito con i propri testi all’esperienza drammatica dello scrittore israeliano. Tra questi c’è il premio Nobel Mario Vargas Llosa, che ha appena finito di rivisitare i territori occupati della Cisgiordania.

Ci furono comandanti dell’esercito, principale responsabile di quell’aggressione ai diritti umani dei palestinesi, che consigliarono ai propri ufficiali di leggere anche “Il vento giallo”. Yehuda Shaul, che ora ha 33 anni, non ha avuto bisogno che glielo consigliassero i suoi superiori: lo lesse quando era ancora sergente operativo a Hebron, una delle metafore della politica di colonizzazione israeliana, e trovò che quello che raccontava Grossman sulla discriminazione razziale, politica e civile dei palestinesi doveva essere denunciato.

Egli, con Miki Kratsman, ebreo argentino, che arrivò in Israele a 12 anni e qui è diventato fotografo e professore, ha creato “Breaking the silence” (Rompere il silenzio) il 12 marzo 2004. Formata da soldati di leva, l’organizzazione decise di raccogliere testimonianze anonime di militari la cui identità mantengono segreta. Lo scandalo è stato tanto grande quanto le minacce che ora si sono intensificate contro di loro. Con la tranquillità di un veterano (ha 57 anni), Miki Kratsman dice che il livello di questa repressione aumenterà. E le prove che ne hanno a “Breaking the silence” sono schiaccianti. “Però non ci arrendiamo. Vinceremo,” dice Shaul.

“La lotta è contro le colonie. Non è contro Israele”, continua: “Sono un patriota, un sionista, la mia è una famiglia conservatrice, ho 10 fratelli, alcuni sono coloni; non andrei dove ci sono coloni, ma non voglio che i miei nipoti crescano senza di me né io voglio vivere senza di loro. Per cui vado a trovarli.” La sua è una lotta etica: né lui né Miki né le circa 50 persone che costituiscono il loro gruppo, né i mille collaboratori che in un modo o nell’altro partecipano alla loro lotta (molti dei quali militari che hanno testimoniato il lato oscuro del loro lavoro), sono contro lo Stato di Israele. Vogliono che finisca la discriminazione contro i palestinesi.

 Rappresaglie

I documenti che denunciano le forze armate sono stati controllati dalla censura militare. Non hanno niente da temere in merito alla legittimità della loro lotta, però questo non basta per essere sicuri che non patiranno rappresaglie.

Questa lotta ha molto a che vedere con quel libro di Grossman. Per dargli continuità, questo lettore che è stato militare e ora confessa di non essere pacifista (“darei la mia vita per Israele”) ha concepito un progetto a cui lui e i suoi dedicano una passione irrefrenabile: convocare scrittori da tutto il mondo perché testimonino quello che Grossman ha già scritto tempo addietro. Il libro uscirà nel maggio 2017 in tutto il mondo e non ha ancora un titolo. Allora sarà passato mezzo secolo di occupazione.

Mario Vargas Llosa è uno di loro. Collaboratore de “El País”, reporter in Iraq, in Israele e in altre parti del mondo, ha attraversato in quest’ultima settimana quei territori occupati per condividere le informazioni che hanno sia i palestinesi espulsi dalla loro terra, che vivono una vita stentata in alcuni villaggi o città (come Hebron) che ora sono luoghi tanto fantasmatici come il “Pedro Páramo” di Juan Rulfo [scrittore messicano. Il romanzo si svolge in un villaggio fantasma. Ndtr.], sia quelli che sono coloni di quegli stessi territori.

Il libro di Grossman si intitolava “Il vento giallo” perché in Israele il giallo è il colore dell’odio. Quello che adesso vuole “Breaking the silence” è sradicare questo colore dalle relazioni difficili, politicamente impossibili, umanamente degradanti tra israeliani e palestinesi, questi ultimi condannati a vivere all’ultimo posto della storia.

 Il colore dell’odio

Alcuni dei rappresentanti di BTS (come lo stesso Shaul, come Morial Rothman-Zecher, un giovane di 26 anni che ha studiato Scienze Politiche, ha rinunciato al servizio militare ed ha pagato per questo) parlano arabo e cercano di smentire quel colore di odio che segna lo stupore con cui quasi 40 anni fa Grossman ha disegnato il corpo e l’anima di questo conflitto.

Loro hanno invitato Vargas Llosa (e Colm Tóibín, Colum McCann [scrittori irlandesi. Ndtr] e fino a 26 autori tra poeti, narratori o saggisti di tutto il mondo, compresi Israele e Palestina) perché vedano questa lotta etica e ottengano le testimonianze degli abitanti dei territori occupati. Questi scrittori stanno arrivando.

L’autore de “La zia Giulia e lo scribacchino” ha raccontato a “El País TV” che la prima volta che è venuto in Israele è stato nel 1974, ” e allora ero ancora di sinistra”. Quell’Israele lo affascinò, perché esprimeva ideali di giustizia sociale che facevano parte dell’ideologia della sinistra di cui egli faceva parte. Il fenomeno delle colonie ha smentito in seguito quell’immagine.

Né lui né quelli che lo hanno invitato mettono in dubbio lo Stato di Israele; egli dirà, nelle puntate del suo reportage (che iniziano a pubblicarsi ne “El País” dal prossimo giovedì 30 giugno [2016]), come ha visto questo problema ed altri sollevati dalla questione cruciale delle colonie.

Quello che “Breaking the Silence” mette in discussione, e per questo l’organizzazione lavora perché finisca l’odio tra palestinesi ed israeliani, è che ci siano cittadini condannati a vivere come esseri senza diritti elementari nel territorio comune, in Cisgiordania, a Gerusalemme, in tutte le zone in cui i coloni ricevono una protezione negata ai palestinesi espulsi dalle loro terre.

Il libro che ha ispirato questa lotta è “Il vento giallo”. Il nuovo libro, al quale lavora “Breaking the Silence” e per questo hanno invitato Vargas Llosa e gli altri, deve ancora essere definito. Abbiamo prospettato allo stesso Grossman, che tanto ha segnato Shaul e i suoi compagni, se quel vento potrebbe essere adesso una tempesta: “Sì, probabilmente”, ha affermato.

Qui il giallo è il colore dell’odio. Persino i più ottimisti credono che Israele viva la continuazione pericolosa di una lunga tormenta gialla. “Breaking the Silence” è nato per rompere il silenzio che ha stimolato questo odio. E insiste nel voler rompere l’origine di questa tormenta.

Vargas Llosa racconta “i disastri dell’occupazione”.

El País-30 giugno 2016

di Juan Cruz

Il Nobel racconta l’esperienza del suo incontro con la realtà dei territori occupati in Cisgiordania.

Gideon Levy, uno dei maggiori giornalisti israeliani, ha apostrofato Mario Vargas Llosa, quando lo ha visto con il notes in mano, mentre entrava a Hebron, questo luogo che l’occupazione israeliana ha trasformato in una luce spenta.

Cosa ci fai tu qui?

Poi i due si sono messi a camminare per Hebron fino ad arrivare ad un promontorio sul quale un circolo culturale palestinese ha ricevuto il premio Nobel e i suoi accompagnatori intorno a un vecchio ulivo a cui era avvolto uno striscione di tela: “Free Palestine”. Il Nobel ha preso il suo libretto degli appunti, con in testa il cappello che lo proteggeva dal sole, e ha preso nota di quello che stava ascoltando. Non si è mai separato del suo block notes. Prendeva appunti con l’impegno e la costanza di un reporter perso in un buco del mondo. Voleva sapere quello che succede per poterlo raccontare a una società che, come gli hanno detto, sa di Israele e Palestina solo quando ci sono attentati, intifada e scontri che iniziano con lanci di pietre o coltelli e finiscono con tumulti che poi diventano le prime pagine dei giornali o dei servizi televisivi in tutto il mondo.

Lì gli hanno raccontato questa parte del problema. Quando la conversazione è diventata più informale ed erano le sette di sera ad Hebron, i palestinesi, gli israeliani che accompagnavano Vargas Llosa e noi giornalisti de “El País” che lo abbiamo seguito in questo viaggio abbiamo visto, sul computer di uno dei palestinesi, il finale della partita Repubblica Ceca -Spagna, quello del gol di Piqué.

Tutti, compreso Gideon, anche se all’inizio era convinto che la Repubblica Ceca fosse la Spagna (“Come gioca male la Spagna” ha detto), hanno applaudito il gol del catalano. Quando stavano tornando a Gerusalemme, per continuare il viaggio, il Nobel Vargas Llosa, , ha ricevuto un altro saluto da Gideon Levy, che si congedava:

– Grazie, Mario, per essere venuto a raccontarlo.

Glielo hanno detto altre volte. Però questa volta glielo diceva un giornalista che conosce molto da vicino sia quello che il governo israeliano ha fatto nei territori occupati (ha lavorato in stretto contatto con Simon Peres, ex-presidente di Israele) sia quello che pensa la società civile (intellettuali, scrittori) di entrambi i lati (israeliani, palestinesi) su questo dualismo di odio da una parte e di odio dall’altra che si è andato costruendo durante più di mezzo secolo in questa parte difficile del Medio Oriente, come un muro che qualcuno vuole rompere. Tra costoro, quelli che hanno invitato Vargas Llosa a fare questo viaggio, che vogliono mitigare un odio che ormai sembra eterno.

“Buchi neri”

Il premio Nobel peruviano è stato varie volte in Israele e in Palestina, come in Iraq o in Afghanistan o in Congo, cercando “in quei buchi neri del mondo”, come dice Carlos Granés, uno dei suoi esegeti, “le radici dei conflitti, per cercare di aiutare a capirli, al di fuori di quei difficili abissi.”

Dieci anni fa il Nobel peruviano ha conosciuto Yehuda Shaul, che all’epoca era un giovane ex-sergente israeliano di ventitre anni che aveva contribuito a fondare ” Breaking the silence” (Rompere il silenzio), un’organizzazione inconsueta in questo Paese in guerra: sergente proprio a Hebron, Yehuda aveva annotato nella sua mente le atrocità a cui le autorità civili israeliane obbligavano i militari in servizio nei territori occupati e volle mettere insieme commilitoni che avevano provato lo stesso orrore di fronte alle nefandezze che avevano visto.

Nel suo “Pietra di paragone” di quest’ultima domenica, Vargas Llosa ne “El País” ha raccontato questo incontro e quello che ne è seguito fino a culminare nella visita che da domani racconterà qui.

Le sue cronache si intitolano “I disastri dell’occupazione” e si pubblicheranno il 1, il 2 e il 3 luglio, su due pagine in cui i lettori seguiranno i suoi incontri nei territori occupati e anche nei confini interni (i checkpoint) di questo territorio tanto complicato… Inoltre www.elpais.com offrirà da questa sera un documentario realizzato dall’equipe de “El País Video” in cui si raccolgono le esperienze del Nobel. Egli ha detto che uno scrittore non ha altro potere che la sua parola, e se questa gli serve per far conoscere quello che succede nei posti che ha visitato, onora il suo impegno morale.

Il giornalista e scrittore peruviano Alonso Cueto (a cui Vargas ha dedicato il suo ultimo romanzo, “Cinque angoli”) diceva ieri a proposito del giornalismo del Nobel: “Fa giornalismo in modo appassionato, come i suoi romanzi: continua a pensare che le parole sono azioni, e scrivere per lui è un’attestazione etica. E va in luoghi pericolosi, come l’Iraq, come l’Afghanistan, come questi territori in cui ha viaggiato ora, perché le persone che vivono vicino al pericolo rappresentano l’umanità in senso morale.” Granés aggiunge: “Va in luoghi di conflitti dalla cui soluzione dipende in buona misura il futuro del mondo.”

Questo era ciò di cui lo ringraziava Gideon Levy, che fosse lì a raccontarlo.

I giusti di Israele

Molti israeliani dedicano i propri sforzi a denunciare le ingiustizie sofferte dai palestinesi, senza preoccuparsi delle minacce, degli insulti o delle accuse di tradimento

El País

Mario Vargas Llosa – 26 giugno 2016

Yehuda Shaul ha 33 anni ma ne dimostra 50. Ha vissuto e vive con tale intensità che divora gli anni, come fanno i maratoneti con i kilometri. E’ nato a Gerusalemme, in una famiglia molto religiosa ed è uno di 10 fratelli. Quando l’ho conosciuto, 11 anni fa, portava ancora la kippah [il copricapo tipico degli ebrei osservanti. Ndtr.]. Era un giovane patriota, che deve essere stato molto bravo nell’esercito quando faceva il servizio militare perché, dopo i tre anni obbligatori, Tsahal [l’esercito israeliano. Ndtr] gli ha proposto di continuare un corso per reparti speciali ed è rimasto un anno in più a fare il militare, come sergente. Al ritorno alla vita civile, come molti altri giovani israeliani, ha viaggiato in India, per schiarirsi le idee. Lì ha riflettuto e ha pensato che i suoi compatrioti ignorassero le cose orribili che l’esercito commetteva nei territori occupati e di avere l’obbligo morale di farglielo sapere.

Per questo Yehuda e un fotografo, Miki Kratsman, il 1 marzo 2004 hanno fondato Breaking the Silence (Rompendo il silenzio), un’organizzazione che si dedica a raccogliere testimonianze di soldati congedati e in servizio (la cui identità rimane segreta). In incontri e pubblicazioni destinate a informare il pubblico, in Israele e all’estero, presentano la verità su quanto avviene in tutti i territori palestinesi che sono stati occupati dopo la guerra del 1967. (L’anno prossimo saranno passati 50 anni di occupazione). Prima di essere resi pubblici, i testi ed i video vengono controllati dalla censura militare, perché Yehuda e i suoi circa 50 collaboratori non vogliono violare la legge. Le testimonianze raccolte superano il migliaio.

Fino a relativamente poco tempo fa, grazie alla democrazia che regnava nel Paese per i cittadini israeliani, Breaking the Silence poteva operare senza problemi, anche se molto criticata dai settori nazionalisti e religiosi. Però da quando è entrato in carica l’attuale governo – il più reazionario ed estremista della storia di Israele – si è scatenata una durissima campagna contro i dirigenti dell’associazione, accusandoli di essere dei traditori e chiedendo che siano messi fuorilegge, in Parlamento, da parte di ministri e leader politici e sui giornali. Sulle reti sociali abbondano gli insulti e le minacce contro i suoi fondatori. Yehuda Shaul non si lascia intimidire e non pensa di fare alcuna concessione. Dice di essere un patriota e un sionista e di essersi impegnato in quello che fa non per ragioni politiche ma morali.

Nella millenaria storia ebraica c’è una tradizione che non si è mai interrotta: quella dei giusti. Quegli uomini e quelle donne che, di tanto in tanto, emergono nei momenti di transizione o di crisi e fanno sentire la propria voce, controcorrente, indifferenti all’impopolarità e ai pericoli che corrono agendo in quel modo, per esporre una verità o difendere una causa che la maggioranza, accecata dalla propaganda, la passione o l’ignoranza, si rifiuta di accettare. Yehuda Shaul è uno di loro, ai giorni nostri. E, per fortuna, non è l’unico.

C’è ancora, imperterrita, la giornalista Amira Hass, che se n’è andata a vivere a Gaza per soffrire sulla sua carne le miserie dei palestinesi e documentarle giorno dopo giorno nelle sue cronache su “Haaretz” [attualmente Amira Hass vive a Ramallah, in Cisgiordania. Ndtr.] . Devo a lei aver passato, qualche anno fa, nell’asfissiante e sovraffollata trappola per topi che è la Striscia, una notte indimenticabile in casa di una coppia di palestinesi che si dedica al lavoro sociale. E il suo collega Gideon Levy, instancabile scrittore, che incontro, dopo parecchio tempo, sempre a lottare per la giustizia con la penna in mano, anche se con l’animo meno forte di una volta perché attorno a lui si riduce ogni giorno di più il numero dei difensori della razionalità, della convivenza e della pace e crescono senza tregua i fanatici delle verità uniche e del Grande Israele che avrebbe niente meno che l’appoggio di Dio.

Però in questo viaggio ne ho conosciuti altri, non meno limpidi e coraggiosi. Come Hanna Barag che, alle cinque del mattino, all’incrocio di Qalandia, pieno di cancellate, videocamere e soldati, mi ha mostrato l’agonia dei lavoratori palestinesi che, pur avendo il permesso ed il lavoro a Gerusalemme, devono aspettare ore ed ore prima di poter andare a guadagnarsi da vivere. Hanna e un gruppo di donne israeliane si piazzano tutte le mattine all’alba di fronte a queste recinzioni, per denunciare i ritardi ingiustificati e protestare contro gli abusi che vi si commettono. “Cerchiamo di arrivare fino agli alti gradi,” mi dice, indicando i soldati, “perché questi non ci stanno neanche a sentire.” E’ un’anziana minuta e piena di rughe, ma nei suoi occhi chiari brillano una luce e una dignità accecanti.

Ed è un giusto, benché neppure lo sospetti, anche il giovane Max Schindler, che ho conosciuto a Susiya, un villaggio miserabile nelle montagne a sud di Hebron; è molto timido e devo tirargli fuori a forza cosa ci fa lì, circondato da bambini affamati, in questo luogo fuori dal mondo a cui i coloni delle vicinanze vengono a tagliare gli alberi e a distruggere i raccolti, e a volte a picchiare gli abitanti, e sulle cui misere case pesa un ordine di demolizione. E’ un volontario che è venuto a vivere – o meglio a sopravvivere – a Susiya per qualche mese e dedica il proprio tempo a insegnare l’inglese agli abitanti del paese. “Vorrei che sapessero che c’è un altro Israele,” mi dice, indicando gli abitanti.

Sì, ci sono i giusti, molti, anche se non sono tanti da vincere le elezioni. La verità è che, da anni, le perdono, una dietro l’altra. Ma non si lasciano abbattere da queste sconfitte. Sono medici ed avvocati che vanno a lavorare nei villaggi semi-abbandonati e a difendere le vittime dei soprusi nei tribunali, o giornalisti, o attivisti dei diritti umani che registrano le violenze ed i crimini e li espongono all’opinione pubblica.

Per esempio c’è un’associazione di fotografi, formata da ragazze e ragazzi molto giovani, che fissano in immagini tutti gli orrori dell’occupazione. Mi seguono ovunque vado e non gli importa di camminare in mezzo alla spazzatura puzzolente e di scottarsi per il calore nel deserto, se possono documentare con immagini tutto quello che l’Israele ufficiale nasconde e i benpensanti non vogliono sapere. Ma, benché i giornali ufficiali non pubblichino le loro foto, loro le espongono in piccole gallerie, in pannelli nelle strade, in pubblicazioni semiclandestine. Quanti sono? Migliaia, ma non abbastanza da cambiare questo movimento dell’opinione pubblica che sta spingendo sempre più Israele verso l’intransigenza, come se essere la prima potenza del Medio Oriente – e, a quanto pare, la sesta del mondo – fosse la miglior garanzia per la sua sicurezza.

Sanno che non è così, che, al contrario, trasformarsi in un Paese coloniale, che non ascolta, che non vuole negoziare né fare concessioni, che crede solo alla forza, ha fatto sì che Israele perda l’ aura prestigiosa e onorevole che aveva e che il numero dei suoi avversari e dei suoi critici, invece di diminuire, aumenti ogni giorno.

Due giorni prima di partire, ho cenato con altri due giusti: Amos Oz e David Grossman. Sono scrittori magnifici, vecchi amici ed entrambi infaticabili difensori del dialogo e della pace con i palestinesi. I tempi che affrontano sono difficili, ma non si lasciano abbattere. Scherzano, discutono, raccontano aneddoti. Dicono che, tirando le somme, nessuno potrebbe vivere fuori da Israele. Gideon Levy e Yehuda Shaul, che sono anche loro lì, si dichiarano d’accordo. Finalmente, per fortuna, è la prima volta, in tutti i giorni in cui sono stato qui, che un gruppo di israeliani concorda totalmente su qualcosa.

I villaggi condannati

Il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In questo primo articolo si concentra su alcuni villaggi del sud della Cisgiordania

El País

Mario Vargas Llosa – 1 luglio 2016

“Il principale problema di Israele è uno solo, le colonie in Cisgiordania, cioè l’occupazione dei territori palestinesi”, mi dice Yehuda Shaul. “L’anno prossimo sarà passato mezzo secolo. Però c’è una soluzione e la vedrò messa in pratica prima di morire.”

Rispondo al mio amico israeliano che bisogna essere molto ottimisti per credere che un giorno più o meno vicino i 370.000 coloni che si trovano nella terra invasa della Cisgiordania – veri bantustan che circondano i 2.700.000 abitanti delle città palestinesi e le separano le une dalle altre – possano andarsene da lì in nome della pace e della coesistenza pacifica. Però Yehuda, che lavora instancabilmente per far conoscere quello che la grande maggioranza dei suoi concittadini si rifiuta di vedere, la tragica situazione in cui vivono i palestinesi della sponda occidentale del Giordano, mi dice che forse sarò meno scettico dopo il viaggio che faremo insieme, domani, verso i villaggi palestinesi delle montagne a sud di Hebron.

Ci siamo già stati sei anni fa, noi due, tra queste montagne sul confine della Cisgiordania. Ed è vero, il villaggio di Susiya, che allora aveva 300 abitanti e sembrava destinato a scomparire come altri della zona, ora ne ha 450, perché, nonostante le calamità di cui continua ad essere vittima, un buon numero di famiglie che erano fuggite sono tornate; anche loro, come Yehuda, godono di un ottimismo a prova di atrocità.

Perché le persecuzioni di cui sono vittime Susiya e i villaggi vicini da molti anni non sono terminate, al contrario. Mi mostrano la recente demolizione delle case, i pozzi di acqua riempiti di pietre e spazzatura, gli alberi tagliati dai coloni e persino i video delle aggressioni di costoro – con armi e bastoni – contro gli abitanti che hanno potuto riprendere, così come gli arresti ed i maltrattamenti che ricevono dall’IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano. Ndtr.]). Nella casa comunale, una delle poche abitazioni ancora in piedi, chi fa le veci del sindaco, Nasser Nawaja, mi mostra gli ordini di demolizione che, come spade di Damocle, pendono sulle costruzioni ancora non distrutte dai bulldozer dell’occupante. Le formalità vanno rispettate: questa zona è stata scelta per esercitazioni militari dell’IDF ed i villaggi dovrebbero sparire (ma non le colonie né gli avamposti dei coloni che sorgono dappertutto nei dintorni). A volte il pretesto è che le fragili abitazioni sono illegali, perché non hanno il permesso di costruzione. “E’ una cosa da pazzi – mi dice Nasser -; quando chiediamo permessi edilizi per costruire o ripristinare i pozzi d’acqua ce li rifiutano, e poi ci demoliscono le case perché sono state costruite senza autorizzazione.” In questo villaggio, come negli altri dei dintorni, i contadini e i pastori non vivono in case ma in fragili tende costruite con teloni e lamiere o nelle grotte – ce ne sono molte nella zona – che i soldati non hanno ancora reso inutilizzabili riempiendole di pietre e spazzatura.

Nonostante tutto, gli abitanti di Susiya e di Yimba, i due villaggi che ho visitato, continuano a stare lì, resistendo alle persecuzioni, appoggiati da alcune ONG e da organizzazioni israeliane di solidarietà, come “Breaking the Silence” (“Rompere il silenzio”), di cui Yehuda è membro e che mi ha invitato qui. A Susiya ho conosciuto un giovane molto simpatico, Max Schindler, ebreo statunitense; è venuto come volontario a vivere qualche mese in questo luogo ed insegna inglese ai bambini del villaggio. Perché lo fa? “Perché vedano che non tutti gli ebrei sono uguali.” In effetti, ce ne sono molti come lui – i giusti di Israele – che li aiutano a presentare ricorsi ai tribunali, che vengono a vaccinare i bambini, che protestano contro le sopraffazioni, e tra questi, scrittori come David Grossman e Amos Oz, che firmano manifesti e si mobilitano chiedendo di porre fine agli abusi e che si lascino vivere in pace questi villaggi.

“850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani fanno la guardia nella Città Vecchia blindata.”

Una dichiarazione di questo tipo, promossa da loro, qualche mese fa ha salvato- per il momento – dalla distruzione Yimba, un villaggio antichissimo, anche se sono state demolite 15 case. Ora sta aspettando un’ultima decisione della Corte Suprema sulla sua esistenza. Ha un’enorme grotta, ancora indenne, che, mi garantiscono, è dell’epoca romana. Allora il villaggio si trovava ai bordi del sentiero – si può ancora seguire il suo tracciato nell’aspro deserto di pietre, polvere e stoppie che ci circonda – che portava i pellegrini alla Mecca; allora Yimba era prospero grazie ai suoi negozi per i rifornimenti e i ristoranti. Ora la sua antichità nasconde un rischio: che, siccome si tratta di un luogo archeologico, le autorità israeliane decidano che debba essere spopolato perché gli archeologi possano recuperare i tesori storici del suo sottosuolo. Le lamentele sono le stesse che ho sentito a Susiya: “Appena riescono a cacciarci con questo pretesto, arriveranno i coloni; loro sì che possono convivere con i resti archeologici senza alcun problema.”

Come a Susiya, ho visitato Yimba circondato da bambini scalzi e scheletrici, che tuttavia non hanno perso l’allegria. Una bambina, soprattutto, con occhi birichini ride a crepapelle quando vede che non sono capace di pronunciare il suo nome arabo come si deve.

Basta esaminare una mappa dei territori occupati per capire la ragione delle colonie: circondano tutte le grandi città palestinesi e bloccano i contatti e gli scambi, allo stesso tempo stanno espandendo la presenza israeliana e scomponendo e frazionando il territorio che si suppone dovrebbe occupare il futuro Stato palestinese fino a renderlo impossibile. C’è una chiara intenzione in questa strategia: con la proliferazione delle colonie rendere irrealizzabile quella soluzione dei due Stati che, tuttavia, i dirigenti di Israele dicono di accettare. Sennò non si capisce perché tutti i governi, di centro, di sinistra e di destra, con l’unica eccezione dell’ultimo governo di Ariel Sharon, che nel 2005 ritirò le colonie israeliane da Gaza, abbiano permesso, e continuino a farlo, l’esistenza e l’espansione sistematica di colonie illegali – laiche, socialiste e molte di religiosi ultrà – che sono un motivo permanente di frizione e danno la sensazione ai palestinesi di vedere ridursi progressivamente il già ridotto spazio della Cisgiordania che hanno a disposizione.

Non ho la pretesa di leggere nella mente nascosta dell’elite politica israeliana. Ma basta seguire nella mappa il modo in cui negli ultimi decenni le occupazioni illegali ed il famoso “muro di Sharon” stanno mutilando i territori palestinesi, per avvertire in questo una politica tacita o esplicita che non ha mai cercato di affrontare queste occupazioni e, semmai, le stimola e le protegge. Non è solo un motivo costante di scontri con i palestinesi, è una realtà che fa pensare a molti che ormai sia impossibile mettere in pratica la formazione di due Stati sovrani, una cosa che, tuttavia, come una giaculatoria priva di verità, nient’altro che chiasso, l’ONU e i governi occidentali ancora promuovono.

Probabilmente, tra le spoliazioni che queste colonie comunque comportano, nessun caso è tanto drammatico come i cinque insediamenti eretti nel cuore di Hebron: 850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000 abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani montano la guardia nella Città Vecchia, che è stata blindata, le sue strade “sterilizzate” (secondo la definizione ufficiale) – chiusi tutti i suoi negozi, le porte d’ingresso delle case, tutte le attività commerciali – in modo che camminare da quelle parti è percorrere una città fantasma, senza gente e senz’anima. Undici anni fa sono andato a zonzo per queste strade morte; l’unica cosa che è cambiata è che sono scomparsi gli insulti razzisti contro gli arabi che ne decoravano i muri. Però dappertutto compaiono sempre le barriere con i soldati e continua la proibizione agli arabi di circolare in macchina nelle strade del centro, il che li obbliga a fare lunghissimi giri attraverso i campi per passare da un quartiere all’altro. Gli israeliani che mi accompagnano – sono quattro – mi dicono che il peggio di tutto è che ora ormai nessuno parla più dell’orrore rappresentato da Hebron e delle terribili ingiustizie che lì si commettono contro 200.000 abitanti in apparenza per proteggere 850 invasori.

I bambini terribili

Il premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di reportage riflette sull’occupazione israeliana. In un secondo reportage il Nobel descrive, attraverso quello che ha ascoltato in un tribunale militare israeliano che giudica palestinesi dai 12 ai 17 anni di età che attentano contro la sicurezza, come funziona un sistema per “prevenire il terrorismo seminando il panico.”

El País

Mario Vargas Llosa – 1 luglio 2016

Salwa Duaibis e Gerard Horton sono due giuristi – lei palestinese, lui anglo-australiano -, membri di un’istituzione umanitaria che controlla il modo di agire dei tribunali militari incaricati di giudicare in Israele giovani dai 12 ai 17 anni che attentano contro la sicurezza del Paese. La mattinata che ho passato con loro a Gerusalemme è stata una delle più istruttive tra quelle che ho trascorso.

Lo sapevate che nel 2012 non è stato assassinato neanche un colono delle colonie della Cisgiordania? E che la media dei crimini contro i membri delle colonie negli ultimi cinque anni è solo di 4,8 all’anno, il che significa che i territori occupati sono più sicuri per loro di quanto lo siano New York, Città del Messico e Bogotà per i loro abitanti? Se si tiene conto che in Cisgiordania i coloni sono circa 370.000 (se si aggiungono quelli di Gerusalemme est sarebbero mezzo milione) e i palestinesi 2.700.000, non c’è nessun dubbio: si tratta di uno dei posti meno violenti del mondo, nonostante le sparatorie, le demolizioni, le azioni terroristiche e gli scontri di cui parlano i giornali.

“Senza dubbio un grande successo delle Forze di Difesa di Israele (IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.])” dice Gerard Horton. “Bisogna far loro i complimenti per questo?” Una cosa del genere si ottiene solo con un piano intelligente, freddo e messo in pratica in modo metodico. In cosa consiste questo piano per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti? In un programma di intimidazione sistematica, astutamente concepito e messo in atto in modo impeccabile. Si tratta di mantenere questa popolazione giovane, dai 12 ai 17 anni, psicologicamente instabile. Per lei ci sono tribunali speciali che i giuristi dell’organizzazione tengono sotto controllo. Il metodo consiste nel “dimostrare la presenza” dell’IDF in modo massiccio, la “cauterizzazione della coscienza” e “operazioni simulate di disturbo della normalità.” Questo gergo esoterico si può riassumere in una frase semplice: prevenire il terrorismo seminando il panico. (Questo metodo è diverso da quello applicato agli adulti e, soprattutto, ai sospetti terroristi: in questo caso si includono assassinii selettivi, torture, lunghissime pene detentive e demolizioni e confisca delle case).

L’esercito ha un ufficiale dell’intelligence per ogni zona della Cisgiordania e un’efficiente catena di informatori comprati con corruzione o ricatti, grazie ai quali compila liste dei giovani che partecipano alle manifestazioni contro l’occupazione e tirano pietre alle pattuglie israeliane. Le operazioni si svolgono in genere di notte, con soldati mascherati che si fanno precedere da un rumore assordante, lanciando a volte granate stordenti durante le irruzioni nelle case, rompendo oggetti, dando ordini e gridando, con l’obiettivo di spaventare la famiglia, soprattutto i bambini. Le perquisizioni sono imprevedibili, minuziose e complesse. Tappano gli occhi e mettono le manette al giovane o al bambino denunciato; se lo portano via steso sul pavimento del veicolo, mettendogli sopra i piedi o dandogli qualche calcio per spaventarlo. Nel centro per gli interrogatori lo lasciano per terra per cinque o dieci ore, per demoralizzarlo e spaventarlo con l’incerta attesa al buio. L’interrogatorio segue regole precise: consigliargli che si dichiari colpevole di tirare pietre, in modo che passerà solo due o tre mesi in carcere; in caso contrario, il processo può essere lungo, sette o otto mesi, e, se dichiarato colpevole, potrebbe anche essere condannato ad una pena peggiore. Reso debole in questo modo, gli si può proporre che faccia l’informatore. Se non è abbastanza disponibile, lo si avverte che potrebbe essere violentato o torturato, qualcosa a cui non è necessario arrivare, tranne in casi eccezionali. Per qualcuno, basta avvertirlo che il suo comportamento potrebbe obbligare l’esercito ad arrestare le persone a lui più care, la madre o una sorella, per esempio. In qualche caso il giovane o il bambino accetta la proposta; e quasi sempre esce da quell’esperienza piegato, confuso, sgomento e vergognandosi di se stesso. Secondo quelli che hanno ideato il metodo, questo stato d’animo riduce la sua pericolosità potenziale e lo fa diventare vulnerabile. E non è impossibile che questo penoso stato d’animo si trasmetta al resto della famiglia.

Per questo non è tanto importante identificare i colpevoli del lancio di pietre: l’obiettivo è introdurre nelle case e in tutti i villaggi, attraverso i bambini e gli adolescenti, insicurezza e preoccupazioni costanti. Oppresse dal timore di essere vittime di queste perquisizioni, in piena notte, con distruzioni di stoviglie, letti e utensili, che si portino via figli, fratelli o nipoti, le angosciate famiglie diventano meno pericolose. I divieti insensati, i continui coprifuoco, le improvvise ordinanze, che alterano la routine e aumentano lo spavento quotidiano, perseguono questo stesso scopo. La confusione ed il disordine impediscono, o per lo meno scoraggiano, le congiure. Grazie alle modalità improvvise e scenografiche delle perquisizioni e a tutta la messa in scena che le accompagna, la popolazione in genere rimane psicologicamente priva di mezzi per organizzarsi ed agire; in questo modo si riduce il rischio che rappresentino un serio pericolo per quelle colonie tanto ben armate, e, soprattutto, strategicamente tanto ben posizionate.

Gli abitanti dei villaggi e delle città aggrediti e frammentati dagli insediamenti ricevono divieti tassativi di mettere piede nel territorio delle colonie, il che li obbliga a fare lunghi percorsi per comunicare tra loro. I coloni, invece, sono collegati da moderne strade che in genere possono utilizzare solo i cittadini israeliani. L’isolamento dei villaggi e delle città palestinesi e la possibilità di comunicare rapidamente delle colonie è un’altra garanzia di sicurezza. E’ vero che, a volte, vengono commessi crimini orribili contro i coloni, però, se si va a verificare una statistica inumana, le vittime sono meno numerose di quelle che nel resto del mondo sono causate dagli incidenti stradali. Israele dimostra così che nel XXI° secolo si può essere un Paese colonialista ed al contempo molto sicuro.

Cosa succede quando questi bambini e giovani sono infine consegnati ai giudici? Per saperlo, accompagnato da Gerard Horton e Salwa Duaibis, ho passato qualche ora in un carcere nei dintorni di Gerusalemme, dove sono in attività i tribunali minorili presieduti da giudici militari. Entrare nell’aula del tribunale è un impegno lungo: bisogna sottomettersi a perquisizioni e percorrere corridoi recintati e con telecamere che mi hanno ricordato quello che ha rappresentato entrare, ed uscire, dalla Striscia di Gaza.

Ancora più interessante dei processi è stato chiacchierare con le madri ed i padri, o fratelli e sorelle, dei giovani palestinesi che erano processati. Una signora del villaggio di Beit Fajjar mi racconta che suo figlio, di 15 anni, ha passato sette mesi in carcere e che, la notte che i soldati lo hanno arrestato, hanno rotto tutto quello che c’era in casa. Ciononostante, i suoi occhi luccicano di allegria e sorride tutto il tempo: suo figlio ha terminato la condanna e spera che tra un minuto o un’ora (o due o tre) il giudice la chiami e le dica che se lo può riportare a casa.

Nessun’altra tra le persone che sono nell’aula dimostra la stessa gioia. Un uomo alto e malaticcio mi racconta che ha due figli in prigione – uno di 15 e l’altro di 17 anni – e che non è ancora riuscito a vederli. Ci mette tre giorni ad arrivare dal suo villaggio e non è neanche sicuro che oggi potrà parlare con loro. Lo accompagna una figlia, molto giovane e timida, che è stata picchiata dai soldati la notte che sono entrati rompendo a pedate la porta di casa sua, perché si era dimenticata di fargli vedere il cellulare che aveva in tasca e con cui forse li stava registrando.

I processi sono rapidi. Il o la giudice, in uniforme militare, parlano in ebraico e un ufficiale li traduce in arabo. Gli avvocati utilizzano l’arabo e sono tradotti in ebraico. Gli accusati, giovani semirapati e vestiti di nero, ascoltano in silenzio come si decide il loro destino. Improvvisamente, una ragazza, sorella di uno dei detenuti, si mette a piangere. Dal banco degli accusati, lui la implora con gli occhi e le mani di tranquillizzarsi, il suo pianto potrebbe peggiorare le cose.

La morte lenta di Silwan

In questo articolo descrive come avanzano le colonie in un quartiere di Gerusalemme est

El País

Mario Vargas Llosa – 2 luglio 2016

A differenza di altri quartieri di Gerusalemme, assolutamente puliti come quelli di una città svizzera o scandinava, gli abitanti palestinesi di Silwan, situato a est e limitrofo alla Città Vecchia e alla moschea di Al-Aqsa, rigurgita di spazzatura, pozzanghere puzzolenti e rifiuti. Temo che tanta sporcizia non sia casuale, ma piuttosto parte di un piano a lungo termine per cacciare progressivamente i 30.000 palestinesi che vivono ancora qui e rimpiazzarli con israeliani.

I coloni hanno iniziato ad infiltrarsi nel quartiere 11 anni fa dalla zona di Batan Al-Hawa. Quello che fino ad allora sembrava poco meno che casuale – gruppi di famiglie ultrareligiose che riuscivano a sistemarsi in una casa scelta a caso – ha preso le caratteristiche di un’operazione pianificata e con un chiaro obiettivo. I coloni che si sono installati nel quartiere di Silwan appartengono a due movimenti religiosi: Elad e Ateret Cohanim. Sono distribuiti in circa 75 case e non sono molti: circa 550. Ma si tratta di una testa di ponte, che, senza ombra di dubbio, continuerà a crescere. Il giorno successivo la mia visita al quartiere, è stato annunciato che le autorità di Israele avevano autorizzato la costruzione di un edificio nel quartiere per ospitare nuovi coloni di Ateret Cohanim.

Per sapere dove si trovano gli insediamenti basta guardare in alto: le bandiere israeliane, sventolando nella lieve brezza mattutina, indicano che hanno costituito un cerchio, come nel sud delle montagne di Hebron, all’interno del quale tutto il quartiere sta rimanendo incarcerato.

I modi con cui queste famiglie si impossessano di una casa sono diversi: sostenendo di possedere documenti antichi secondo i quali i proprietari erano ebrei; comprando un edificio attraverso un prestanome arabo; con atti ostili e minacce contro chi lo occupa fino a farlo scappare; presentando una denuncia nei tribunali perché decidano la demolizione di una casa in quanto non costruita con i necessari permessi, o, in casi estremi, approfittando di un viaggio o del fatto che i proprietari o gli inquilini sono usciti di casa per installarvisi a forza. Una volta che i coloni sono entrati, il governo israeliano manda la polizia o l’esercito a proteggerli, perché, chi potrebbe metterlo in dubbio, quelle gocce d’acqua degli invasori in mezzo a quel pelago di palestinesi sono in pericolo. Le gocce si trasformeranno in ruscelli, laghi, mari. I coloni religiosi che hanno messo radici qui non hanno fretta: l’eternità sta dalla loro parte. Così si sono progressivamente estese le enclave israeliane in Cisgiordania trasformandola in una groviera; così stanno crescendo anche nella Gerusalemme araba.

Si rispettano le forme, come nel resto della nazione: Israele è un Paese molto civile. A Batan Al-Hawa ci sono 55 famiglie palestinesi minacciate di espulsione, perché vivono in case che non hanno i documenti che ne garantiscano la proprietà e 85 immobili con ordine di demolizione, poiché, come al solito, sono state costruite senza ottenere i permessi adeguati.

Quando chiedo a Zuheir Rajabi, abitante e avvocato difensore palestinese del quartiere, che mi guida in questo percorso, se ha fiducia nell’onorabilità e nella neutralità dei giudici che devono pronunciarsi in merito, mi guarda come se fossi ancora più imbecille della mia domanda. “Abbiamo forse un’alternativa?”, mi risponde. E’ un uomo sobrio, che è stato varie volte in carcere. Ha tre figli di sette, nove e tredici anni che sono stati tutti e tre arrestati qualche volta. E una figlia, Darìn, di sei anni, che cammina attaccata a una delle sue gambe. La sua casa è circondata da due insediamenti ed ha ricevuto molte proposte di acquisto, per somme superiori al suo prezzo reale. Ma lui dice che non la venderà mai e che morirà nel quartiere; le minacce dei suoi vicini non lo spaventano.

Gli chiedo se i coloni installati a Silwan hanno figli. Sì, molti, ma escono molto di rado e generalmente scortati da poliziotti, soldati o dalla guardia privata che protegge gli insediamenti. Penso alla vita reclusa e terribile di quelle creature, chiuse in quelle case rubate, e a quella dei loro genitori e nonni, convinti che, perpetrando le ingiustizie che commettono, mettano in pratica un progetto divino e si guadagnino il paradiso. Naturalmente il fanatismo religioso non è patrimonio esclusivo di una minoranza di ebrei. Sono fanatici anche quei palestinesi di Hamas e della Jihad Islamica che si fanno a pezzi facendo scoppiare bombe in autobus o ristoranti, lanciano colpi di artiglieria sui kibbutz o cercano di accoltellare i soldati o pacifici passanti, senza capire che quei crimini servono solo ad allargare il solco, già molto grande, che separa e rende ostili le due comunità.

Improvvisamente, nel nostro girovagare per Silwan, Zuheir Rajabi mi indica un edificio di vari piani. E’ stato occupato tutto dai coloni, meno uno degli appartamenti, in cui rimane contro ogni avversità una famiglia palestinese di sette persone. Finora hanno resistito, nonostante il fatto che gli interrompano l’acqua, l’elettricità, che debbano suonare il campanello ai coloni per poter entrare ogni volta che escono in strada e, persino, che, quando aprono la finestra, li bombardino di spazzatura.

Mentre chiacchieriamo, senza che me ne sia reso conto, siamo stati circondati da ragazzini. Chiedo se qualcuno di loro è stato arrestato qualche volta. Quello che alza la mano ha una faccia birichina e sfrontata: “Io, quattro volte”. Ogni volta è stato solo un giorno e una notte; lo hanno accusato di tirare pietre ai soldati ed egli ha negato e negato e alla fine gli hanno creduto, per cui non lo hanno processato. Si chiama Samer Sirhan e suo padre ha avuto uno scontro con un colono, che gli ha sparato con la pistola e lo ha lasciato per la strada gravemente ferito. Nessuno lo ha soccorso per tutto il resto della notte e al mattino è morto, dissanguato.

Racconto queste storie tristi perché credo diano un’idea del problema più scottante che Israele deve affrontare: quello delle colonie, la crescente occupazione dei territori palestinesi che lo ha trasformato in un Paese coloniale, prepotente, e che ha fatto tanti danni all’immagine positiva e persino esemplare che ha avuto per molto tempo nel mondo.

Rimangono ancora molte cose di Israele da ammirare. Essersi trasformato, grazie al lavoro faticoso dei suoi abitanti, in un paese del primo mondo, con un livello di vita molto alto ed aver praticamente eliminato la povertà nella società israeliana grazie a politiche intelligenti, progressiste e moderne. E la maggior impresa che può vantare a proprio favore: aver integrato decine e decine di migliaia di ebrei provenienti da culture e costumi molti diversi, di lingue differenti, in una società in cui, nonostante l’unità della lingua ebraica che ne è il comune denominatore, coesistono fraternamente tutte, preservando la propria diversità (ditelo, sennò, al milione di russi che sono arrivati negli ultimi anni nel Paese).

Dalla prima volta che sono venuto in Israele, a metà degli anni ’70 del secolo scorso, ho sviluppato un grande affetto per questo Paese. Credo però che sia l’unico posto nel mondo in cui mi sento un uomo di sinistra, perché nella sinistra israeliana sopravvive l’idealismo e l’amore alla libertà che sono scomparsi in essa in buona parte del mondo. Con dolore ho visto come, negli ultimi anni, l’opinione pubblica locale stesse diventando ogni volta più intollerante e reazionaria, il che spiega che Israele abbia ora il governo più ultra nazionalista e religioso della sua storia e che le sue politiche siano ogni giorno sempre meno democratiche. Denunciarle e criticarle non è per me solo un dovere morale; è, allo stesso tempo, un atto di amore.

Gerusalemme, giugno 2016.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Comitato: “Un’enorme maggioranza” di minori palestinesi detenuti da Israele viene “torturata”

Ma’an Agency 18 ottobre 2016

Ramallah.(Ma’an).

Martedì il Comitato Palestinese per le Questioni dei Prigionieri, oltre a denunciare un deciso aumento della carcerazione e dei maltrattamenti da parte di Israele dei ragazzi palestinesi, ha dichiarato che nella “stragrande maggioranza” dei casi i minori palestinesi chiusi nelle carceri israeliane di Megiddo e Ofer sono stati torturati durante la detenzione e gli interrogatori.

L’avvocato del comitato Luay Ukka ha dichiarato che, durante una visita al carcere di Ofer, ha constatato che il numero dei giovani prigionieri era notevolmente aumentato nello scorso mese. A metà ottobre, ha detto, il numero dei prigionieri palestinesi sotto i 18 anni ad Ofer è salito a 28, di cui 14 minori di 14 anni.

Secondo l’associazione per i diritti umani Defense for Children International – Palestine (DCIP) [Difesa dei Minori Internationale – Palestina (DCIP)] , Israele ha anche drasticamente incrementato l’uso della detenzione amministrativa – incarcerazione senza accusa né processo – contro i minori.

Secondo la DCIP, nello scorso anno sono stati sottoposti a detenzione amministrativa 19 minori palestinesi. Prima dell’ ottobre 2015 Israele, a quanto risulta, non aveva trattenuto in detenzione amministrativa nessun minore palestinese della Cisgiordania occupata dal dicembre 2011.

Secondo Ukka, “la stragrande maggioranza” dei minori prigionieri detenuti a Ofer ha subito “torture, pestaggi, umiliazioni” durante le incursioni da parte dei militari israeliani per arrestarli e anche durante gli interrogatori.

Ukka ha anche detto che la maggioranza dei minori prigionieri proveniva dal campo profughi di Aida e dalla città di al-Ubeidiya, che si trovano nel distretto di Betlemme, nella parte meridionale della Cisgiordania occupata. Proprio la settimana scorsa militari israeliani in borghese hanno arrestato otto minori palestinesi nel campo profughi di Aida, mentre i residenti del campo – in particolare minori – hanno recentemente subito un’intensificazione di violente incursioni militari.

Il quattordicenne Tamir Abu Salem, arrestato circa un anno fa ad Aida, ha detto a Ukka che le incursioni hanno scatenato scontri tra i giovani del luogo ed i soldati israeliani e che lui è stato colpito alla testa da una pallottola d’acciaio rivestita di gomma prima di essere portato in carcere, dove gli hanno anche dato un pugno in faccia. Tamir ha aggiunto che la pallottola gli ha fratturato un osso della testa e che “quando respiro una parte del mio cuoio capelluto si muove su e giù.”

Il quattordicenne ha raccontato che le uniche cure che ha ricevuto dal servizio carcerario israeliano (IPS) sono state alcuni antidolorifici – lamentela comune tra i prigionieri palestinesi malati e feriti, parte di una deliberata politica di negligenza sanitaria da parte delle autorità carcerarie israeliane.

Lunedì, in una sede diversa, Hiba Masalha, un altro avvocato che lavora con il comitato, ha dichiarato che il numero di minori prigionieri nel carcere di Megiddo è anch’esso recentemente aumentato. “Per la maggior parte i minori prigionieri vengono torturati ed umiliati durante l’arresto”, ha detto, aggiungendo che i minori palestinesi vengono anche perquisiti fisicamente all’arrivo nei centri di detenzione israeliani.

La pubblicazione delle testimonianze è avvenuta un giorno dopo che la DCIP ha pubblicato un rapporto in cui afferma che almeno cinque minori palestinesi sono stati arrestati da Israele senza accuse negli ultimi mesi, in merito a post su Facebook che le autorità israeliane hanno considerato “istigazione”.

Intanto il Comitato Palestinese per le questioni carcerarie in un rapporto di settembre ha segnalato che almeno 1000 minori palestinesi tra gli 11 e i 18 anni sono stati imprigionati da Israele a partire da gennaio, parecchi dei quali hanno riferito di aver subito violenza ed essere stati torturati durante la detenzione.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, sono attualmente detenuti da Israele come prigionieri politici in totale 340 minori palestinesi.

Gli interrogatori dei minori palestinesi, secondo Addameer, possono durare fino a 90 giorni e, oltre ai pestaggi e alle minacce, sono stati riferiti anche casi di violenza sessuale e reclusione in isolamento per ottenere confessioni, mentre le confessioni che sono costretti a firmare sono in ebraico, lingua che la maggior parte dei minori palestinesi non conosce.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 20 settembre- 3 ottobre

Il 25 settembre, in una prigione israeliana, dopo 13 anni di detenzione è morto un detenuto palestinese di 40 anni, originario del villaggio di Ya’bad (Jenin). Secondo fonti ufficiali palestinesi, la morte sarebbe da attribuire al peggioramento dello stato di salute ed alla mancanza di cure mediche;

tale versione viene contestata dalle autorità israeliane. Il 29 settembre, a Beit Hanoun (Striscia di Gaza), un trentenne componente di un gruppo armato palestinese è morto e altri tre sono rimasti feriti, secondo quanto riferito, in conseguenza di un incidente verificatosi in una galleria sotterranea. Il 27 settembre, nella città di Nablus, nel corso di una operazione di ricerca-arresto, le forze di sicurezza palestinesi hanno ucciso un palestinese e ne hanno ferito altri tre.

Il 30 settembre, al checkpoint di Qalandia, a nord di Gerusalemme, un palestinese ha aggredito con un coltello le forze israeliane, ferendo un soldato. L’autore (28 anni), proveniente dalla città di Kafr ‘Aqab (Gerusalemme), è stato ucciso nel corso dell’episodio. Nelle due settimane di riferimento sono stati registrati altri tre presunti attacchi palestinesi contro israeliani: un 16enne palestinese è stato ucciso, con armi da fuoco, ad un posto di blocco volante all’entrata del villaggio di Bani Na’im (Hebron), dopo un presunto tentativo di accoltellamento di un soldato israeliano; altri due ragazzi palestinesi (14 e 15 anni) sono stati feriti, uno al checkpoint di Jaljoulia (Qalqiliya) e l’altro presso l’insediamento colonico di Kiryat Arba (Hebron), secondo quanto riferito, dopo aver tentato di compiere aggressioni con il coltello. In entrambi i casi non sono stati segnalati feriti israeliani.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 75 palestinesi, soprattutto durante scontri tra palestinesi e forze israeliane. Due soldati israeliani, a quanto riferito, sono stati feriti da una bottiglia incendiaria durante scontri nel campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). Inoltre, in un episodio verificatosi nei pressi della Scuola Al Khalil, nella zona H2 di Hebron controllata da Israele, 40 studenti hanno inalato gas lacrimogeno, subendo lesioni che hanno richiesto l’intervento medico.

Nella Striscia di Gaza, durante scontri con lancio di pietre da parte palestinese, le forze israeliane hanno ferito con armi da fuoco dieci civili palestinesi; gli scontri erano scoppiati nei pressi della recinzione perimetrale tra Israele e Gaza, nel corso di quattro diverse proteste. Inoltre, in almeno 28 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso persone presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno condotto quasi 200 operazioni di ricerca ed hanno arrestato circa 300 palestinesi, tra cui 18 minori; alcune delle operazioni hanno innescato scontri violenti. Nei governatorati di Betlemme, Hebron e Gerusalemme sono stati registrati i più alti numeri di operazioni e di arresti. A Gerusalemme, la polizia israeliana ha emanato ordini di interdizione all’ingresso nel Complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio per 19 palestinesi: sei mesi per cinque di loro, due settimane per i rimanenti.

Il 22 settembre, al checkpoint di Gilbert, nella città di Hebron, le forze israeliane hanno impedito a 23 studentesse di attraversare per recarsi a scuola. Inoltre, dopo una presunta aggressione con coltello vicino al checkpoint, le forze israeliane hanno dichiarato l’area “zona militare chiusa” e, per dieci giorni, hanno negato a due famiglie l’accesso alle loro case. Le forze israeliane hanno anche chiuso gli ingressi principali di sette villaggi ed impedito l’accesso veicolare alla strada 60 a più di 40.000 persone, soprattutto nel tratto compreso tra i checkpoint di Huwwara e di Za’atara (Nablus).

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 46 strutture, 16 delle quali erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni; fra esse un’aula scolastica e un parco giochi nella comunità beduina di Abu Nuwar (governatorato di Gerusalemme). Le demolizioni hanno comportato lo sfollamento di 56 palestinesi, tra cui 25 minori, mentre altre 185 persone sono state coinvolte in modi diversi. Due terzi di queste strutture sono state demolite tra il 26 e il 28 settembre presso nove comunità palestinesi. L’episodio più grave si è verificato a Khirbet Tell el Himma (Tubas), mentre 10 delle 16 demolizioni hanno avuto luogo nel governatorato di Gerusalemme.

Il 23, 29 e 30 settembre, 14 famiglie palestinesi (73 persone, tra cui 30 minori) della comunità Humsa al Bqai’a nella Valle del Giordano settentrionale (Tubas) sono state evacuate dalle loro case per cinque ore al giorno, per dare spazio ad esercitazioni militari israeliane. L’Amministrazione Civile israeliana aveva consegnato a queste famiglie gli ordini di evacuazione il 22 settembre.

In Al ‘Isawiya, zona di Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, l’Amministrazione Civile israeliana ha consegnato nove ordini di demolizione nei confronti di nove edifici, ponendo 40 famiglie palestinesi sotto minaccia di sfollamento. Altri dieci ordini di arresto lavori sono stati emessi a Khirbet ad Deir (Betlemme), Khallet Al Hajar (Hebron), e nei villaggi di Al Funduq e Jinsafut, entrambi in Qalqiliya.

Sono stati registrati cinque presunti attacchi di coloni israeliani che hanno provocato danni a proprietà palestinesi. In particolare: ulivi palestinesi nei villaggi di As Sawiya e Yatma (Nablus); altri 20 ulivi in Jinsafut (Qalqiliya); incendi di terreni coltivati nel villaggio di Yanun e di materiali da costruzione nel villaggio di Burin, entrambi in Nablus. Secondo i media israeliani, si sono verificati anche tre episodi di lancio di pietre da parte palestinese contro veicoli israeliani, con lievi danni alla metropolitana leggera di Gerusalemme e ad altri due veicoli: uno vicino al villaggio di Beit Liqya sulla strada 443, l’altro nei pressi della Barriera di sicurezza dell’insediamento colonico di Psagot, entrambi in Ramallah.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni (21-23 settembre) in una sola direzione, secondo quanto riferito, principalmente per consentire il rientro a Gaza di 2.290 pellegrini. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 27.000 persone sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri nel corso di una delle guerre combattute dall’esercito israeliano (IDF) nei primi decenni dell’esistenza dello Stato di Israele.

di Aluf Benn,

Haaretz ,16 settembre 2016

Secondo una testimonianza ottenuta da Haaretz, ai prigionieri fu ordinato di mettersi in fila e voltarsi, prima di essere colpiti alla schiena. L’ufficiale che diede l’ordine venne rilasciato dopo aver scontato sette mesi di prigione, mentre il suo comandante fu promosso ad un alto grado.

I soldati israeliani uccisero dozzine di prigionieri durante una delle guerre combattute dall’IDF nei primi decenni di esistenza dello stato di Israele. L’ufficiale che aveva dato l’ordine di uccidere i prigionieri subì un processo, ma se la cavò con una condanna ridicolmente mite. Il suo comandante fu promosso ad grado molto superiore e l’intera vicenda venne insabbiata.

Le dozzine di prigionieri erano soldati degli eserciti nemici. Si erano arresi dopo la battaglia ed avevano deposto le loro armi. Alcuni di loro erano gravemente feriti.

I soldati israeliani che presero inizialmente il controllo del luogo dove loro si erano arresi li radunarono in un cortile interno circondato da un muro, diedero loro del cibo e parlarono con loro delle loro vite e del servizio militare.

Alcune ore dopo questi soldati vennero assegnati ad un’altra missione ed altre forze militari israeliane vennero inviate a sostituirli nel luogo in cui erano tenuti i prigionieri. Questo cambio della guardia pose il problema tra gli ufficiali preposti su che cosa fare dei soldati nemici catturati, poiché i nuovi militari si rifiutarono di assumersene la responsabilità, mentre quelli in partenza non avevano mezzi per il trasporto dei prigionieri.

Il comandante della compagnia che era l’ufficiale responsabile del posto ordinò allora ai suoi soldati di uccidere i prigionieri. Secondo la testimonianza rilasciata ad Haaretz, ai prigionieri venne ordinato di mettersi in fila e di voltarsi, quindi furono fucilati alla schiena. Un ufficiale nemico che era stato utilizzato come traduttore fuggì, ma fu colpito a morte da soldati del nuovo contingente, che erano in una jeep. Dopo il massacro un bulldozer dell’esercito ammucchiò i corpi in una fossa improvvisata.

Due testimonianze oculari del massacro dei prigionieri furono rilasciate al reporter di Haaretz molti anni fa. Secondo una di esse, da parte di un uomo che disse di essersi rifiutato di ubbidire all’ordine, il comandante gli ordinò di scendere ed uccidere i prigionieri feriti. Lui rifiutò perché prima i prigionieri gli avevano chiesto se sarebbero stati uccisi e lui aveva risposto di no.

Il comandante lo minacciò di inviarlo alla corte marziale per disobbedienza ad un ordine, ma lui continuò a rifiutarsi. Allora un altro uomo – il secondo testimone – saltò in piedi e si offrì volontario per eseguire l’ordine.

La testimonianza della seconda persona, che confessò di aver partecipato all’uccisione dei prigionieri insieme a tre suoi commilitoni, concorda a grandi linee con quella del primo testimone, benché essi non fossero in contatto e nessuno dei due conoscesse il contenuto della conversazione svoltasi con l’altro. Una differenza era che il secondo uomo sosteneva di aver anch’egli inizialmente rifiutato di ubbidire all’ordine, ma quando il comandante aveva insistito, lui aveva accettato di eseguirlo. Aggiunse che, dopo aver ucciso i prigionieri, si avvicinò e li colpì nuovamente da soli cinque metri di distanza, per assicurarsi che fossero tutti morti.

L’esercito israeliano avviò un’indagine della polizia militare sull’incidente, che si concluse con un processo per omicidio nei confronti del comandante della compagnia. Fu condannato a tre anni di prigione e rilasciato dopo soli sette mesi.

Il comandante sostenne che gli venne ordinato di uccidere i prigionieri dal suo superiore, che in seguito ottenne un’alta carica nell’esercito. Non è chiaro se l’ufficiale superiore sia mai stato indagato, ma sicuramente non subì mai un processo. Il comandante della compagnia lavorò come guida turistica dopo aver lasciato l’esercito, e quando anni dopo fu intervistato sull’argomento da un giornalista di Haaretz, rispose che “l’argomento è riservato” e gli suggerì di rivolgere le domande “ai servizi di sicurezza”.

Questo assassinio di dozzine di prigionieri fu uno dei più gravi crimini nella storia dell’IDF, ma l’esercito lo nascose e lo insabbiò. Portare alla luce i fatti è importante anche oggi, per comprendere la storia delle regole morali di combattimento dell’IDF ed imparare lezioni di leadership, di educazione e di comando per il futuro.

Traduzione di Cristiana Cavagna




Il sistema giudiziario militare d’Israele sembra essersi spinto troppo lontano.

Editoriale Haaretz 6 giugno, 2016

La crescente resistenza violenta all’occupazione non deve dare a Israele e al suo apparato di sicurezza il diritto di negare la libertà a persone innocenti.

La parlamentare palestinese Khalida Jarrar è stata rilasciata venerdì dopo 14 mesi di detenzione in una prigione israeliana. Jarrar era una prigioniera politica e la sua detenzione è stata una detenzione politica.

Dapprima Israele voleva tenerla in prigione senza processarla; solamente dopo una protesta internazionale è stata giudicata da una corte militare per una serie di accuse, la maggior parte delle quali erano ridicole e assurde: aver partecipato ad una fiera del libro, aver pagato una telefonata di condoglianze a una famiglia palestinese e cose simili. Il fatto che Jarrar, in quanto rappresentante eletta, goda di un certo livello di immunità parlamentare è ininfluente per il sistema giudiziario militare; ci sono altri parlamentari palestinesi nelle carceri israeliane.

Jarrar, che presiedeva la commissione del Consiglio legislativo palestinese sui prigionieri politici, ha trascorso molti anni a lavorare a favore dei prigionieri palestinesi, cercando di ottenere il loro rilascio. Ma 700 palestinesi detenuti amministrativi sono attualmente nelle prigioni israeliane, alcuni dei quali sono stati incarcerati da lungo tempo senza processo. Mentre Jarrar era in carcere è stato raggiunto un altro record; 61 donne palestinesi, 14 delle quali sono minorenni, sono tenute nelle galere israeliane. Il Servizio israeliano delle prigioni [IPS] ha dovuto aprire una nuova ala nel carcere di Damon in aggiunta a quello di Hasharon per tenerle tutte in detenzione.

Insieme il numero totale di minori detenuti da Israele, più di 400 secondo B’Tselem, questi dati sono una prova dell’intollerabile e ignobile politica del sistema giudiziario militare nei confronti dei palestinesi. Nessuno si aspetta che agisca come un vero sistema di giustizia penale, ma persino per un sistema militare di giustizia sembra che si sia spinto troppo lontano nei mesi scorsi, [in quanto] Israele si è arrogato il diritto di negare la libertà alle persone che vivono sotto la sua occupazione in modo quasi illimitato.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)