Le risorse dimenticate di petrolio e gas della Palestina

Mahmoud Elkhafif

Coordinatore, Unità Assistenza al popolo palestinese, UNCTAD

21 giugno 2021 – Al Jazeera

Sarà necessaria un’equa distribuzione delle risorse di petrolio e gas nel bacino di Levante per il raggiungimento di un duraturo accordo politico ed economico tra Israele e Palestina.

Dopo l’ultima operazione militare di Israele e la conseguente massiccia devastazione a Gaza, la comunità internazionale ha promesso centinaia di milioni di dollari per aiutare la ricostruzione della Striscia. Tuttavia, una fine duratura del conflitto tra Israele e Palestina non sarà possibile senza investimenti a lungo termine nello sviluppo economico e umano della Palestina, pari a miliardi di dollari all’anno.

Uno strumento trascurato per generare queste entrate sarebbe quello di destinare alla Palestina la sua giusta quota di benefici dalle riserve di petrolio e gas naturale nei territori occupati e nel Mediterraneo orientale, che sono attualmente sfruttate solo da Israele.

Un recente studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sottolinea che le nuove scoperte di gas naturale nel bacino di Levante sono dell’ordine di 3 trilioni di metri cubi, mentre si stima che il petrolio recuperabile sia di 1,7 miliardi di barili. Queste riserve offrono l’opportunità di distribuire e spartire circa 524 miliardi di dollari tra le varie parti della regione.

L’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi dal 1967 e il blocco della Striscia di Gaza dal 2007 hanno impedito al popolo palestinese di esercitare qualsiasi controllo sulle proprie risorse di combustibili fossili, negandogli le tanto necessarie entrate fiscali e di esportazione e lasciando l’economia palestinese sull’orlo del collasso.

I costi economici inflitti al popolo palestinese sotto occupazione sono ben documentati: severe restrizioni alla circolazione di persone e merci; la confisca e distruzione di proprietà e beni; perdita di terra, acqua e altre risorse naturali; frammentazione del mercato interno ed esclusione dai mercati limitrofi e internazionali; e l’espansione delle colonie israeliane illegali secondo il diritto internazionale.

Il popolo palestinese esercita un controllo limitato anche sui propri margini e politiche di bilancio. Secondo le disposizioni del Protocollo di Parigi sulle relazioni economiche, Israele controlla la politica monetaria, i confini e il commercio palestinesi. Riscuote anche dazi doganali, IVA e imposte sul reddito dei palestinesi impiegati in Israele che poi versa al governo palestinese. L’UNCTAD stima che, sotto l’occupazione, il popolo palestinese abbia perso nel periodo 2007-2017 39,9 miliardi di euro di entrate fiscali, comprese le entrate trafugate da Israele e gli interessi maturati. In confronto, nello stesso periodo la spesa per lo sviluppo da parte del governo palestinese è stata di circa 3,7 miliardi di euro.

Il blocco prolungato e le ricorrenti operazioni militari a Gaza hanno ridotto più della metà della popolazione del territorio a vivere al di sotto della soglia di povertà e hanno un costo di 13,9 miliardi di euro di PIL all’anno. Questa cifra non tiene conto dell’enorme costo connesso all’opportunità negata al popolo palestinese di sfruttare il proprio giacimento di gas naturale al largo delle coste di Gaza.

L’accordo israelo-palestinese del 1995 sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, noto come Accordo di Oslo II, ha conferito all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) la giurisdizione marittima sulle sue acque fino a 20 miglia nautiche dalla costa. Nel 1999 l’ANP ha firmato con il British Gas Group un contratto di 25 anni per l’esplorazione del gas e nello stesso anno è stato scoperto un grande giacimento di gas, Gaza Marine, a 17-21 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, nonostante le discussioni iniziali tra il governo israeliano, l’ANP e British Gas sulla vendita di gas ottenuto da questo giacimento e la fornitura dei tanto necessari ricavi ai territori palestinesi occupati, i palestinesi non hanno ottenuto alcun beneficio.

Dal blocco di Gaza del 2007 il governo israeliano ha stabilito di fatto il controllo sulle riserve di gas naturale al largo di Gaza. L’appaltatore, British Gas, da allora ha avuto a che fare con il governo israeliano, aggirando di fatto il governo palestinese per quanto riguarda i diritti di esplorazione e sviluppo.

Israele ha anche preso il controllo del giacimento di petrolio e gas naturale del Meged, situato all’interno della Cisgiordania occupata. Israele afferma che il campo si trova a ovest della linea di armistizio del 1948, ma la maggior parte del bacino si trova sotto il territorio palestinese occupato dal 1967.

Più di recente Israele ha iniziato a sviluppare nuove scoperte di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, esclusivamente a proprio vantaggio.

Nel requisire e sfruttare le risorse di petrolio e gas palestinesi, Israele sta agendo in violazione della lettera e dello spirito del Regolamento dell’Aia, della Quarta Convenzione di Ginevra e di un insieme corposo di leggi umanitarie internazionali e dei diritti umani che si occupa dello sfruttamento di risorse comuni da parte di una potenza occupante, senza riguardo per gli interessi, i diritti e le quote della popolazione che subisce l’occupazione.

Dopo il recente attacco a Gaza la comunità internazionale ha finora promesso 860 milioni di dollari per la ricostruzione ma, anche prima dell’ultima aggressione militare, l’UNCTAD ha stimato necessaria una spesa di almeno 838 milioni di dollari per far uscire la popolazione di Gaza dalla povertà. Una quota equa dei proventi del petrolio e del gas fornirebbe ai palestinesi finanziamenti sostenibili da investire nella ricostruzione, riabilitazione e ripresa economica a lungo termine. L’alternativa è che queste risorse comuni vengano sfruttate individualmente ed esclusivamente da Israele e diventino un altro fattore scatenante di conflitti e violenze.

Naturalmente una ripresa economica sostenibile e una soluzione politica sostenibile vanno di pari passo. L’ONU mantiene la sua posizione di vecchia data secondo cui una pace duratura e globale può essere raggiunta solo attraverso una soluzione negoziata a due Stati. L’ONU continua a lavorare per la creazione di uno Stato di Palestina indipendente, democratico, contiguo, sovrano e vitale, che esista in pace e sicurezza con Israele. La sopravvivenza economica di uno Stato palestinese dipenderà dalla capacità dei palestinesi di controllare la propria economia e di avere un accesso equo alla loro quota di riserve di petrolio e gas in Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




PALESTINA.Economia e occupazione:dal Protocollo diParigi ad oggi(Iparte)

Francesca Merz

18 novembre 2019 Nena News

Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

Nel 1994, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo di Israele firmarono il Protocollo di Parigi, che era collegato agli Accordi del Cairo e Oslo II. Tale protocollo stabiliva un “accordo contrattuale” volto a formalizzare le relazioni economiche, prima stabilite unilateralmente da Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per un periodo transitorio di 5 anni. Nonostante tale termine sia scaduto da molti anni, il protocollo continua tutt’ora a costituire la base delle relazioni economiche tra le due parti, ed è il quadro di riferimento principale per la condotta economica, monetaria e fiscale dell’Autorità Palestinese.

Il protocollo contiene 11 articoli: due fanno riferimento all’ambito di applicazione, al quadro generale e a un comitato economico congiunto; gli altri nove si riferiscono a commercio, tassazione, importazioni, attività bancarie, organizzazione del lavoro, nonché alle politiche relative ai settori agricolo, industriale e turistico. La scelta dell’unione doganale invece di una zona di libero scambio, come inizialmente chiesto dai palestinesi, non era dettata sostanzialmente dagli interessi economici di Israele, ma piuttosto dall’interesse politico a mantenere una “no-state solution”. Come fa notare Amal Ahmad, l’unione doganale non prevede la delimitazione delle frontiere, né la loro eliminazione, o integrazione. Ciò ha permesso a Israele di rimandare del tutto la questione dei confini, mantenendoli provvisoriamente mentre procede con la colonizzazione e l’isolamento dei Territori Occupati.

Un’analisi di fondamentale importanza sul valore economico dell’occupazione, è stata fatta da Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, Gordon ci aiuta a capire come questa situazione sia stata costruita a tavolino negli anni dagli occupanti israeliani. “Quando si confronta il primo decennio di occupazione con quelli successivi, la caratteristica che emerge come quasi del tutto unica è il tentativo israeliano di gestire la popolazione palestinese mediante la promozione della prosperità. Furono introdotte una serie di pratiche per incrementare l’utilità economica degli abitanti palestinesi, sia per imbrigliare le energie della società palestinese a vantaggio degli interessi economici di Israele, sia anche per elevare il tenore di vita nei Territori Occupati, per agevolare la normalizzazione dell’occupazione. Date tali premesse non sorprende affatto che già durante la guerra Israele fornisse dei servizi agli agricoltori palestinesi per salvare le colture e per impedire la morte del bestiame, anche al fine di monitorare e prevenire la diffusione di epidemie tra il bestiame, suo interesse diretto. Aumentò dunque la produttività degli allevatori palestinesi” .

“Israele – aggiunge Gordon – usò il Dipartimento di ricerca della Banca d’Israele e l’Ufficio centrale di statistica per tenere sotto costante osservazione la forza lavoro palestinese. Si trovano tabelle che descrivono l’età e il sesso degli operai, il numero dei lavoratori in base alla loro occupazione e al settore in cui lavoravano, il numero delle imprese locali, nonché la loro dimensione e ubicazione, il tutto per ridurre il tasso di disoccupazione che il governo militare considerava come causa potenziale di disordini sociali. Nel 1974 in Israele lavoravano 64.900 palestinesi, che costituivano un terzo della forza lavoro. I palestinesi che lavoravano in Israele guadagnavano dal 10 al 100% in più di quanto avrebbero guadagnato lavorando nei territori. Israele aveva già iniziato la sua operazione perfetta di demolizione di ogni possibilità di economia autonoma per la Palestina. Il paniere palestinese aumentava, così come la capacità di acquisto dei palestinesi che vivevano nei territori, facendo aumentare esponenzialmente la produttività in Israele, e lasciando, gioco forza, le terre incolte e tutte le attività nei Territori al totale abbandono, per ostacolare lo sviluppo di un’economia indipendente palestinese.”

Ben prima della firma del Protocollo di Parigi, la chiarezza del rapporto di colonialismo spinto che sottendeva alle relazioni tra israeliani e palestinesi è verificabile dall’infinita serie di ordinanze militari che venivano emanate dallo Stato occupante per regimentare l’economia palestinese eliminando ogni possibilità di autonomia, e trasformando anzi l’economia palestinese in un mercato totalmente vincolato dai produttori israeliani, togliendo ogni possibilità di produzione ai palestinesi. La strategia era quella della creazione invece dei consumatori necessariamente dipendenti dalla produzione israeliana, che gli stessi palestinesi erano costretti a produrre ma in territorio occupato, un vero e proprio sistema di schiavitù economica. Israele inoltre spingeva gli abitanti palestinesi a diventare operai non specializzati così da indirizzare l’utilità economica dei palestinesi in modo ben precisoL’esercito introdusse molteplici norme e restrizioni espressamente mirate a modellare l’economia sotto occupazione secondo gli interessi israeliani.

Una delle prime azioni intraprese dopo la guerra del ‘67 fu la chiusura degli istituti finanziari e monetari arabi, tra i quali tutte le banche, e il conferimento dell’autorità su tutte le questioni monetarie alla Banca d’Israele. La valuta israeliana divenne la moneta legale e nelle due regioni furono applicati i controlli dei cambi israeliani. Come abbiamo già avuto modo di dire, Israele, nello stesso periodo in cui assumeva il controllo di tutte le istituzioni finanziarie e imponeva norme monetarie, aiutava i palestinesi a piantare migliaia di alberi da frutto, offriva ai coltivatori semi migliorati per gli ortaggi e addestrava gli agricoltori alle tecnologie moderne con corsi specifici, non abbiamo però accennato al fatto che cominciava anche a controllare i tipi di frutta e di ortaggi che si potevano piantare e diffondere e introduceva una serie di norme di pianificazione che stabilivano dove si potessero e soprattutto non si potessero piantare. Anche se le restrizioni alla semina sono comuni anche in altri paesi, gli obiettivi di quelle imposte nei Territori Occupati erano quelle di creare dipendenza dall’economia israeliana, minare lo sviluppo e l’indipendenza, e, come vedremo, agevolare la confisca di terre, grazie alla resurrezione di vecchie leggi addirittura dell’impero Ottomano.

Israele limitò la bonifica dei terreni finalizzata a renderli coltivabili, restrinse anche l’accesso della popolazione alla terra e all’acqua, espropriando, fino al 1987, non meno del 40% delle terre e impossessandosi delle principali risorse idriche. Nello stesso tempo rese illegale piantare nuovi alberi di agrumi, sostituire quelli vecchi improduttivi o piantare altri alberi da frutto senza permesso, per la cui approvazione occorrevano dai cinque ai sei anni. Molti generi di frutta e di ortaggi che gli agricoltori palestinesi erano autorizzati a coltivare non potevano essere venduti in Israele, misura tesa a proteggere i produttori israeliani. Per contro, gli agricoltori israeliani avevano accesso illimitato ai mercati dei Territori Occupati e riuscivano a fornire alcuni prodotti a prezzi con cui le controparti palestinesi non potevano competere, portando a una riduzione nella varietà dei prodotti agricoli coltivati nei Territori, e l’assurda situazione per cui i prezzi di alcuni generi erano più alti nei Territori Occupati che in Israele. La strategia nel settore industriale fu analoga a quella usata in agricoltura. Inizialmente Israele fornì un certo sostegno all’industria perché le autorità militari ritenevano che la disoccupazione potesse destabilizzare i Territori Occupati, furono dunque concessi inizialmente piccoli crediti alle fabbriche esistenti così che potessero svilupparsi e dotarsi di nuove attrezzature. L’assenza di istituti finanziari intermediari, di banche per lo sviluppo e di fonti di credito di vario tipo ostacolò lo sviluppo industriale, nello stesso tempo Israele introdusse una serie di restrizioni tese a contrastare lo sviluppo di un’industria ad alta densità di capitale. Gli aiuti governativi sotto forma di agevolazioni fiscali, sovvenzioni all’esportazione, credito agevolato e obbligazioni di sicurezza non furono estesi ai palestinesi.

Le ordinanze militari poi controllavano anche tutto il commercio estero, Israele inserì un complesso sistema di procedure di certificazione sulle merci che ebbero l’ulteriore risultato di separare commercialmente la Palestina anche dai paesi arabi confinanti. “Israele – osserva Gordon – impose inoltre delle limitazioni al tipo e alla quantità di materie prime che si potevano importare nei Territori Occupati. I palestinesi divennero ben presto dipendenti da Israele per l’elettricità, i carburanti, il gas e le comunicazioni. Lo stesso fu per i generi di prima necessità come la farina, il riso, lo zucchero. Israele richiedeva delle licenze per tutte le attività industriali e, eliminando nel frattempo ogni concorrenza palestinese, usò tali licenze per ristrutturare le industrie in base alle sue necessità. Così, mentre si concedevano licenze alle aziende tessili che fornivano dei servizi ai produttori israeliani le si negavano quelle per la produzione della frutta, poiché potevano essere potenziali concorrenti ai produttori israeliani. In altre parole, la creazione di imprese sussidiarie a forte tasso di manodopera e l’esternalizzazione del lavoro a forte tasso di manodopera nelle fabbriche palestinesi fu la fonte principale di investimento industriale israeliano all’interno dell’economia palestinese.”

“Israele inoltre – continua Gordon – emanò numerose ordinanze riguardanti la registrazione delle società, i marchi d’impresa e i nomi commerciali; stabilì le condizioni di commercio, la tipologia e l’importo di tasse, dazi e imposte doganali da pagare; e impose una serie di tributi ai produttori palestinesi, i quali finirono col pagare fra il 35 e il 40 per cento in più di tasse rispetto ai produttori israeliani, va ricordato che un’ampia percentuale di quelle tasse non venne reinvestita nei Territori, ma trasferita direttamente nelle casse israeliane. Secondo alcune stime, queste politiche privarono i Territori Occupati di entrate doganali rilevanti, valutate tra circa 118 e 176 milioni di dollari nel solo 1986. Il mancato gettito complessivo nel periodo 1970-1987 oscillerebbe tra una stima minima di 6 miliardi di dollari e una massima di 11 miliardi di dollari, in teoria questi soldi avrebbero potuto essere investiti nella creazione di un’industria indipendente.




È l’economia, bellezza: la trattativa riservata di Israele con i palestinesi

Noa Landau

24 marzo 2018, Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha sviluppato legami diplomatici più profondi con Ramallah di quanto non voglia rivelare.

La tensione dei giorni di rabbia che seguirono il riconoscimento da parte dell’America di Gerusalemme come capitale di Israele rimane palpabile. I palestinesi hanno tagliato del tutto i rapporti con l’amministrazione Trump. Un accordo di pace sembra più lontano che mai. E un anziano ministro israeliano è entrato a passo di marcia nella Muqata [il quartier generale dell’ANP ndt] a Ramallah e, con un grande sorriso sul volto, ha dichiarato in arabo “Rahat a-Quds!” (“Avete perso Gerusalemme!”)

In un altro luogo e in un altro tempo, questo sicuramente sarebbe stato un casus belli, ma in questa storia, che è accaduta alla fine del mese scorso, i presenti hanno risposto divertiti e tolleranti e hanno stretto la mano al loro ospite – il ministro delle finanze e membro del gabinetto di sicurezza Moshe Kahlon.

Non era la prima visita di Kahlon a Ramallah, né il suo primo incontro con alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il suo gesto è stato accettato con leggerezza perché hanno familiarità con lo stile diretto ma accattivante di Kahlon. Da quando è diventato ministro delle finanze, questo ex membro del Likud – che ora guida un partito, Kulanu, che non ha una chiara agenda diplomatica – è riuscito a sviluppare un canale riservato con la leadership palestinese. In primo luogo è stato per la cooperazione economica e il coordinamento sotto l’egida del sistema della sicurezza, mentre in seguito sono state affrontate altre questioni, mosse dall’abbraccio dell’orso americano. In sostanza, poiché i palestinesi hanno dichiarato che non siederanno al tavolo dei negoziati se Washington resta il mediatore, Kahlon è attualmente l’unico canale diplomatico attivo.

Alcuni funzionari palestinesi si riferiscono a lui con ironia come ministro del campo profughi, perché durante uno dei suoi incontri ha raccontato della difficile infanzia nei quartieri popolari di Givat Olga. Le sue conversazioni sono inframmezzate dall’arabo che ha imparato dai genitori tripolitani. Questo dettaglio ha attirato l’attenzione delle agenzie di stampa straniere, che lo hanno etichettato come “l’oratore arabo che potrebbe guidare Israele”. Solo Kahlon comprende veramente l’arabo: così hanno raccontato ad Haaretz persone al corrente di questi incontri, con una frecciata chiaramente rivolta al ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma si affrettano ad aggiungere che l’arabo di Kahlon è molto semplice e le sue conversazioni con i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese sono condotte con l’aiuto di interpreti o in inglese.

Sebbene questi incontri non siano mai stati veramente segreti, anche se tutti i dettagli non sono noti, il presidente di Kulanu si sforza molto di nascondere questo aspetto del suo lavoro. Su tutti i suoi vivaci social network, tra le centinaia di annunci sui nuovi benefici finanziari e le immagini della anziana madre (che vive ancora a Givat Olga), troverete solo una manciata di riferimenti agli affari diplomatici o di sicurezza in generale e ai suoi legami con Ramallah in particolare. Non è una coincidenza, ovviamente. Kahlon è orgoglioso del suo lavoro in quest’area, ma ha anche paura di erodere la propria immagine di destra.

Misure restrittive’

I contatti sono iniziati quando ha assunto il Ministero delle Finanze nel 2015, con una telefonata dal suo omologo palestinese Shukri Bishara, che ha portato a un incontro a cui ha preso parte anche il Ministro per gli affari civili dell’ANP Hussein al-Sheikh. Questo non era un gesto insolito né una dimostrazione di buona volontà. Con il Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e ANP – che è stato perfino aggiornato nel 2012 dal primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha dichiarato che era finalizzato a “sostenere la società palestinese e a rafforzare la sua economia” – Israele è obbligato a coordinare varie attività economiche con l’ANP, compreso il trasferimento delle imposte raccolte da Israele per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Nel corso degli anni, i governi israeliani hanno tenuto in ostaggio questi fondi palestinesi, ritardando o congelando il loro trasferimento come forma di pressione o di punizione. Stando così le cose, anche una decisione che regoli il trasferimento di fondi diventa una decisione diplomatica significativa, com’è la decisione del livello dei funzionari che partecipano alle riunioni. I colleghi di Kahlon dicono che anche il precedente ministro delle finanze, Yair Lapid, aveva incontrato Bishara nelle stesse circostanze, ma la relazione non fu mai così e non si riuscì ad affrontare [il problema] dei debiti.

Nel 2017 Kahlon ha iniziato a incontrare anche il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, con il beneplacito e la benedizione di Netanyahu. I due si sono incontrati tre volte a Ramallah e si prevede che terranno un altro incontro a Gerusalemme. I due, insieme ai propri collaboratori, si connettono anche telefonicamente. A questi incontri parteciperà il Coordinatore delle attività del governo nei Territori, il generale Yoav Mordechai, che è responsabile anche dei meccanismi del coordinamento finanziario e della sicurezza. A volte ha partecipato anche il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj.

In assenza di un autentico processo diplomatico, le Forze di Difesa israeliane si sono da tempo concepite come l’adulto responsabile, mantenendo aperti i canali di dialogo con la Cisgiordania e Gaza nella maggior parte dei settori vitali. Ciò è sempre rappresentato come uno sforzo per mantenere il controllo sulla sicurezza. L’esercito ritiene che le misure di costruzione della fiducia siano un modo significativo per prevenire proteste violente. “Misure restrittive”, le chiamano gli alti funzionari della sicurezza.

Di tanto in tanto l’esercito coinvolge anche i politici, e Kahlon era un candidato perfetto. Il suo nuovo partito era sufficientemente libero dai tradizionali lacci politici, ha manifestato il desiderio di essere coinvolto e possiede un certo fascino personale. E poi, non aveva esperienza diplomatica. Gli incontri iniziati nel quadro degli Accordi di Oslo sono proseguiti, sotto la direzione di Mordechai, su altre questioni, principalmente l’accordo per risolvere il debito dell’Autorità Nazionale Palestinese verso l’Israel Electric Corp. e per regolare il settore energetico dell’Autorità Nazionale Palestinese, accordo che Kahlon ha firmato nel settembre 2016 e che includeva complesse garanzie e disposizioni.

Il primo incontro fra Kahlon e Hamdallah è avvenuto nel mese di giugno 2017 a Ramallah, quando hanno condiviso il pasto iftar che rompe il digiuno del Ramadan. Erano passati più di 10 anni da quando un funzionario israeliano di così alto livello aveva visitato il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da allora le discussioni tra i loro staff hanno toccato questioni come facilitare le condizioni per le costruzioni palestinesi nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il completo controllo israeliano, o gli insediamenti, la situazione a Gaza, la riconciliazione tra le fazioni palestinesi e il terrorismo.

Ma i temi principali sono stati quelli economici, questioni come aumentare il numero di palestinesi che possono lavorare in Israele; affrontare la crisi idrica e fognaria; il potenziamento della copertura per i cellulari; l’installazione di un sistema informatico comune che bloccherebbe l’evasione fiscale ai terminali commerciali; la regolamentazione delle pensioni per i lavoratori palestinesi in Israele; l’ipotesi di una zona industriale congiunta nell’insediamento di Betar Illit che impiegherebbe 2.000 lavoratori ultraortodossi e palestinesi; un terminale di carburante; i risarcimenti da Israele alle banche che forniscono servizi all’ANP, in base alle leggi internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, e un fondo comune che sarà finanziato con le tasse di gestione che Israele raccoglie sulle imposte della ANP, che saranno utilizzate per incoraggiare iniziative congiunte ad alta tecnologia. (“Diciamo che un’azienda di Ra’anana che voglia lavorare con una compagnia di Ramallah otterrà dei finanziamenti”, dicono le fonti).

Fonti a conoscenza del contenuto degli incontri hanno detto ad Haaretz che, durante una delle discussioni sull’eliminazione dei debiti di riscossione, è scoppiato un litigio sull’ammontare totale. I palestinesi non avevano fatture da presentare, quindi le due parti si sono accordate sullo stesso importo dell’anno prima. Durante la discussione Kahlon gli ha detto: “Mi hanno riferito che non ci sono soldi per medicine o insegnanti. Vengo da una casa dove non si toglie il cibo di bocca ai bambini, e non importa se sono ebrei o palestinesi “. Questo commento ha facilitato il resto della conversazione.

Ma alcuni funzionari palestinesi sono meno entusiasti. Dicono che il rapporto con Kahlon è totalmente professionale e deriva dalla necessità di gestire gli accordi economici con Israele. Gli alti funzionari dell’ANP sottolineano che non hanno inclinazioni fra chi gestisce i contatti con loro, purché non sia un colono. Dicono che i palestinesi “comuni” preferirebbero tagliare tutti i contatti con Israele, ma non capiscono che l’ANP non può farlo perché ha degli obblighi.

Poco dopo che Donald Trump ha prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, il suo inviato speciale in Medio Oriente, Jason Greenblatt, si è inserito in questa relazione complessa e in via di sviluppo. Cominciò a incontrare Mordechai e in seguito capì il ruolo che stava giocando Kahlon. Il perseguimento della “pace economica” era qualcosa che Greenblatt aveva sempre sostenuto, ma la sua importanza crebbe quando divenne l’unica opzione sul tavolo a causa della brusca interruzione voluta dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Greenblatt e il segretario al tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin hanno incontrato Kahlon alcune volte e hanno iniziato a insistere per aumentare la cooperazione e ottenere risultati. Le poche immagini disponibili di questi incontri si trovano sull’account Twitter di Greenblatt, che in qualche misura ha spesso portato entrambe le parti fuori dall’armadio dove avrebbero preferito rimanere nascosti.

Il secondo incontro Kahlon-Hamdallah, svoltosi in ottobre, è stato tenuto segreto fino a quando non è stato rivelato dalla Radio dell’esercito. I due, con l’incoraggiamento americano, hanno discusso di aumentare le ore di apertura dell’Allenby Bridge e degli altri valichi della Cisgiordania da e verso la Giordania.. Più o meno nello stesso periodo, una delegazione guidata dal direttore generale del ministero delle Finanze, Shai Babad, ha visitato la nuova città palestinese di Rawabi per far avanzare la pavimentazione di una strada di accesso alla città. Il ministro dell’Economia e dell’Industria Eli Cohen, anch’egli [membro] di Kulanu, ha visitato la Cisgiordania per mandare avanti la creazione di una zona industriale congiunta. Successivamente, Cohen si è anche incontrato a Parigi con il suo omologo palestinese, Abeer Odeh.

A gennaio Kahlon è apparso con rappresentanti americani e palestinesi in un servizio fotografico per l’inaugurazione di una nuova postazione di controllo con scansione presso il ponte Allenby, acquistata con gli aiuti europei. Alla cerimonia, Kahlon ha detto: “Sono arrivato al ministero delle finanze dopo che c’era stato un lungo blocco nelle relazioni tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità e portare avanti una serie di progetti comuni. Il progetto che stiamo inaugurando qui è un esempio di come una piccola cosa può operare un grande cambiamento. Abbiamo molti progetti per continuare la cooperazione economica con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Le fonti israeliane, tuttavia, minimizzavano il significato del progetto Allenby. “Non ci sarà più passaggio lì, ma gli americani volevano un risultato subito”, ha detto uno.

Durante il suo terzo incontro con Hamdallah, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele, Kahlon era già diventato un canale significativo nelle comunicazioni tra l’amministrazione e i palestinesi. “Tornate a negoziare con gli americani, sono l’unico mediatore onesto nella regione”, avrebbe all’epoca detto Kahlon.

Sia Netanyahu che Abbas sono consapevoli di ciò che accade in questi incontri; a volte viene riferito anche agli altri membri del gabinetto di sicurezza. Avere là Kahlon, davanti e di fronte, fa bene a tutti. Quando c’è qualcosa di cui vantarsi, Netanyahu, che per anni ha promosso l’idea di “pace economica”, può farsi bello con l’amministrazione americana. Quando c’è una critica da destra, può dare la colpa a Kahlon.

Ma come sta progettando Kahlon di mantenere questo suo nuovo ruolo? Non è emerso alcun progetto diplomatico, nemmeno parziale. L’uomo che in passato ha detto a un intervistatore che la pace con i palestinesi potrebbe anche iniziare con “concorsi di cucina”, come per la diplomazia del ping-pong del presidente statunitense Richard Nixon, sta acquistando una significativa esperienza diplomatica, ma sta mantenendo le sue conclusioni per se stesso.

Né gli uffici di Kahlon né quelli di Hamdallah hanno reagito a questo articolo.

(Traduzione di Luciana Galliano)