Israele arresta due palestinesi sospettati di un accoltellamento mortale

Redazione di Al-Jazeera

8 maggio 2022-Al Jazeera

I due sospetti sono stati arrestati in un’area boschiva vicino al luogo dell’attacco nell’insediamento di Elad, dopo una caccia all’uomo durata tre giorni.

Le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi sospettati di aver ucciso tre persone in un attacco a coltellate la scorsa settimana nell’insediamento di Elad vicino a Tel Aviv.

I due palestinesi, identificati come Asad Yussef al-Rifai, 19 anni, e Subhi Imad Sbeihat, 20 anni, sono stati arrestati nei pressi di una cava non lontano da Elad a seguito di una vasta caccia all’uomo.

Domenica la polizia, l’esercito e l’agenzia di sicurezza interna in una dichiarazione congiunta hanno affermato “I due terroristi che hanno ucciso tre civili israeliani nell’attacco omicida a Elad sono stati catturati”.

Il primo ministro Naftali Bennett ha dichiarato: “Abbiamo detto che avremmo catturato i terroristi e così abbiamo fatto”.

Testimoni oculari hanno riferito al sito di notizie Maan che in seguito forze israeliane dotate di veicoli militari hanno fatto irruzione nelle loro case nel villaggio di Rummaneh a ovest di Jenin.

Giovane palestinese ucciso

Secondo il Ministero della Salute palestinese domenica sera le forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un giovane palestinese vicino al posto di blocco militare di Jabara a sud di Tulkarem nella Cisgiordania occupata.

Il giovane è stato identificato come Mahmoud Sami Khalil, secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa.

Gli accoltellamenti di giovedì sono avvenuti in quello che Israele celebra come il suo Giorno dell’Indipendenza.

Per i palestinesi l’anniversario della dichiarazione di indipendenza di Israele nel 1948 segna la Nakba, o catastrofe, quando almeno 750.000 persone furono espulse violentemente dalle loro case e dai loro villaggi nella Palestina storica.

Elad, una città ebraica ultra-ortodossa, è costruita sui resti del villaggio palestinese al-Muzayriyah, che fu etnicamente ripulito e distrutto nel luglio 1948.

Le forze israeliane affermano che almeno altri quattro sono rimasti feriti nell’attacco con ascia e coltello.

Stefanie Dekker di Al Jazeera, che riporta da Gerusalemme Ovest, ha detto che sono stati trovati in una zona boscosa di Elad.

Non è la prima volta che questo tipo di attacchi viene effettuato in una città israeliana. Ce ne sono stati sei, sette negli ultimi due mesi”, ha detto Dekker.

“La valutazione delle forze di sicurezza interna israeliane è che questo tipo di attacchi sono effettuati a livello individuale, il che li rende molto più difficili da prevenire”, ha affermato.

“Questa è sicuramente una preoccupazione che si trascinerà nel futuro”.

Aumento delle tensioni

L’accoltellamento è stato l’ultimo di una serie di assalti mortali nel cuore del Paese durante ultime settimane. È accaduto quando le tensioni israelo-palestinesi erano già state acuite dalla violenza e dalle ripetute incursioni delle forze israeliane nel complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

In una dichiarazione il Ministro della Pubblica Sicurezza Omer Barlev ha affermato: “Continueremo a dare la caccia con determinazione in ogni momento a quelli che vogliono farci del male e li prenderemo.”

Mentre le forze armate perlustravano l’area alla ricerca degli uomini, la polizia ha invitato la gente a liberare l’area e ha esortato gli israeliani a denunciare veicoli o persone sospette.

La polizia ha detto che gli attaccanti provenivano dalla città di Jenin nella Cisgiordania occupata, la città è riemersa come un punto focale [era stata protagonista della seconda intifada, ndtr.] nell’ultima ondata di violenza, la peggiore che Israele abbia visto da anni. Molti aggressori arrivavano da Jenin.

Quasi 30 palestinesi sono morti nelle violenze succedute da marzo, tra cui una donna disarmata e due passanti. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che Israele usa spesso una forza eccessiva con poca o nessuna responsabilità.

Almeno 18 israeliani sono stati uccisi in cinque attacchi, tra cui un altro accoltellamento nel sud di Israele, due sparatorie nell’area di Tel Aviv e colpi di armi da fuoco lo scorso fine settimana in un insediamento israeliano nella Cisgiordania occupata.

Gli insediamenti israeliani sono considerati illegali secondo le leggi internazionali. I successivi governi israeliani hanno costruito e ampliato insediamenti nei territori palestinesi occupati – una mossa che secondo i palestinesi è mirata al cambiamento demografico.

Ci sono tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani che vivono in almeno 250 insediamenti nella Cisgiordania occupata ed a Gerusalemme est.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Ridisegnando l’UNRWA Washington distrugge le basi di una pace giusta in Palestina

Ramzy Baroud

3 maggio 2022 – Middle East Monitor

I palestinesi hanno tutte le ragioni di essere preoccupati perché il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi, UNRWA, potrebbe essere sul punto di terminare. La missione dell’UNRWA, in vigore dal 1949, ha fatto qualcosa in più del semplice aiuto e appoggio urgente a milioni di rifugiati. È stata anche una piattaforma politica che ha protetto e preservato i diritti di varie generazioni di palestinesi.

Benché non sia stata creata di per sé come una piattaforma politica o giuridica, il contesto del suo mandato è stato in larga misura politico, dato che i palestinesi si sono trasformati in rifugiati a seguito di avvenimenti militari e politici: la pulizia etnica del popolo palestinese da parte di Israele e il rifiuto di quest’ultimo di rispettare il diritto al ritorno dei palestinesi stabilito dalla risoluzione 194 (III) dell’ONU dell’11 dicembre 1948.

“L’UNRWA ha l’incarico umanitario e per lo sviluppo di fornire assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi finché si trovi una soluzione giusta e duratura alla loro situazione,” affermava la Risoluzione 302 (IV) dell’Assemblea Generale dell’ONU dell’8 dicembre 1949.

Disgraziatamente non si è raggiunta né una “soluzione duratura” alla difficile situazione dei rifugiati, né una prospettiva politica. Invece di approfittare di questa constatazione per rivedere il fallimento della comunità internazionale nel dare giustizia alla Palestina e per chiamare in causa Israele e i suoi benefattori statunitensi, sono l’UNRWA, e per estensione i rifugiati, che vengono sanzionati.

Con un severo monito, il 24 aprile il capo della commissione politica del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) Saleh Nasser ha affermato che il mandato dell’UNRWA potrebbe essere arrivato alla fine. Nasser ha fatto riferimento a una recente dichiarazione del Commissario Generale dell’organizzazione dell’ONU, Philippe Lazzarini, riguardo al futuro dell’organismo.

La dichiarazione di Lazzarini, pubblicata il giorno precedente, si prestava a varie interpretazioni, anche se risultava chiaro che stava per cambiare qualcosa di fondamentale nello status, nel mandato e nel lavoro dell’UNRWA. “Possiamo ammettere che la situazione attuale è insostenibile e che inevitabilmente darà come risultato l’erosione della qualità dei servizi dell’UNRWA o, peggio ancora, la sua chiusura,” ha detto Lazzarini.

Commentando la dichiarazione Nasser ha detto che questo “è il preludio al fatto che i donatori smettano di finanziare l’UNRWA.”

Il tema del futuro dell’UNRWA è ora una priorità nel discorso politico palestinese, ma anche arabo. Qualunque tentativo di cancellare o ridefinire la missione dell’UNRWA rappresenta una sfida seria, per non dire senza precedenti, per i palestinesi. L’UNRWA fornisce appoggio educativo, sanitario e di altro genere a 5,6 milioni di palestinesi in Giordania, Libano, Siria, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Con un bilancio annuale di 1.600 milioni di dollari questo appoggio e l’enorme rete che l’organizzazione ha creato non possono essere facilmente sostituiti.

Altrettanto importante è la natura politica dell’organizzazione. L’esistenza stessa dell’UNRWA rappresenta il fatto che c’è una questione politica che deve essere affrontata riguardo alla difficile situazione e al futuro dei rifugiati palestinesi. Di fatto quello che ha provocato l’attuale crisi non è stata una semplice mancanza di convinzione nel finanziamento dell’organizzazione. È qualcosa di più grande e molto più sinistro.

Nel giugno 2018 Jared Kushner, genero e consigliere dell’ex-presidente USA Donald Trump, ha visitato Amman (Giordania), dove, secondo la rivista statunitense Foreign Policy, ha cercato di convincere re Abdullah di Giordania a ritirare lo status di rifugiati a 2 milioni di palestinesi che vivono attualmente nel Paese.

Questo e altri tentativi sono falliti. Nel settembre 2018 Washington, sotto l’amministrazione di Trump, ha deciso di cessare di appoggiare finanziariamente l’UNRWA. In quanto principale finanziatore dell’organizzazione, la decisione statunitense è stata devastante, dato che circa il 30% dei soldi dell’UNRWA proviene dagli Stati Uniti. Tuttavia l’UNRWA ha continuato a tirare avanti a fatica aumentando la propria dipendenza dal settore privato e dalle donazioni individuali.

Benché i dirigenti palestinesi abbiano festeggiato la decisione dell’amministrazione Biden di riprendere i finanziamenti all’UNRWA il 7 aprile 2021, si è mantenuta segreta una piccola clausola della misura di Washington, che ha acconsentito di finanziare l’UNRWA solo dopo che questa avesse accettato di firmare un piano di due anni, noto come “Accordo-quadro di Collaborazione”. In sintesi, il piano ha di fatto trasformato l’UNRWA in una piattaforma per le politiche di Israele e degli Stati Uniti in Palestina, in base al quale l’organismo dell’ONU ha accettato le richieste degli Stati Uniti, e quindi di Israele, di garantire che nessun aiuto arrivi a rifugiati palestinesi che abbiano ricevuto un addestramento militare “come membri del cosiddetto Esercito di Liberazione della Palestina”, di altre organizzazioni o che “abbiano partecipato a qualunque azione terrorista.” Oltretutto L’accordo-quadro prevede che l’UNRWA controlli “il contenuto dei piani di studio [nelle scuole] palestinesi.”

Firmando l’accordo con il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti “l’UNRWA si è trasformata da agenzia umanitaria che fornisce assistenza e aiuto ai rifugiati palestinesi in un’agenzia della sicurezza che promuove il programma politico e della sicurezza degli Stati Uniti e, in ultima istanza, di Israele,” ha sottolineato il Centro di Risorse di BADIL per i Diritti dei Rifugiati Palestinesi.

Tuttavia le proteste dei palestinesi non hanno cambiato la nuova situazione, che ha di fatto modificato tutto il mandato affidato all’UNRWA dalla comunità internazionale quasi 73 anni fa. Ancora peggio, i Paesi europei hanno seguito il suo esempio quando lo scorso mese di settembre il parlamento europeo ha presentato un emendamento che condiziona l’appoggio dell’UE all’UNRWA alla pubblicazione e riscrittura dei libri di testo scolastici palestinesi che [ora] “inciterebbero alla violenza” contro Israele.

Invece di concentrarsi unicamente sulla chiusura immediata dell’UNRWA gli Stati Uniti, Israele e i loro sostenitori stanno lavorando per cambiare la natura della missione dell’organizzazione e riscrivere totalmente il suo mandato originario. L’agenzia, che è stata creata per proteggere i diritti dei rifugiati, ora si prevede che protegga gli interessi israeliani, statunitensi e occidentali in Palestina.

Benché l’UNRWA non sia mai stata un’organizzazione ideale, è però riuscita nel corso degli anni ad aiutare milioni di palestinesi preservando nel contempo la natura politica della loro situazione.

Benché l’Autorità Nazionale Palestinese, varie fazioni politiche, governi arabi e altri abbiano protestato contro i disegni israelo-statunitensi contro l’UNRWA, è poco probabile che queste proteste cambino molto le cose, dato che la stessa UNRWA si sta arrendendo alle pressioni esterne. Mentre i palestinesi, gli arabi e i loro alleati devono continuare a lottare per la missione originaria dell’UNRWA, devono sviluppare urgentemente piani e piattaforme alternative che proteggano i rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno perché non diventino qualcosa di marginale ed eventualmente dimenticato.

Se si eliminano i rifugiati palestinesi dalla lista delle priorità politiche relative al futuro di una pace giusta in Palestina non sarà possibile raggiungere né la giustizia né la pace.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri sulla lotta dei palestinesi, tra cui “L’ultima terra: Una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato in Studi Palestinesi presso l’università di Exeter ed è docente non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali dell’Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la copertura mediatica americana travisa la violenza di Stato perpetrata da Israele contro i palestinesi

Laura Albast e Cat Knarr

28 aprile 2022 – Washington Post

Laura Albast, giornalista e traduttrice palestinese americana, è direttrice responsabile della strategia digitale e comunicazioni presso l’Institute for Palestine Studies-USA.

Cat Knarr, scrittrice di origini palestinesi e colombiane, direttrice della comunicazione presso l’U.S. Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi].

All’alba del 15 aprile la polizia israeliana ha attaccato i fedeli palestinesi nella sacra moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Hanno usato granate stordenti, lacrimogeni e proiettili di acciaio ricoperti di gomma e ferito oltre 150 persone. Da allora le forze israeliane hanno lanciato nuove incursioni, imprigionando oltre 300 palestinesi presso il complesso di Al-Aqsa e impedendo ai cristiani palestinesi di entrare nella chiesa del Sacro Sepolcro. Questa violenza attentamente calcolata giunge mentre i musulmani palestinesi vivono gli ultimi giorni del Ramadan.

Se si guardano le immagini di ciò che è successo, le dinamiche sono ovvie: militari con equipaggiamenti e armi contro fedeli inginocchiati in preghiera. Tuttavia i media occidentali abitualmente etichettano tali situazioni come “complicate,” ritraendo questa violenza di Stato come “scontri” e “tensioni” fra le due parti. Titoli in testate come Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], New York Times, Guardian, Wall Street Journal, NBC News e altri usano un linguaggio che non descrive lo squilibrio di potere fra l’apparato militare israeliano e il nativo popolo palestinese.

Questo è uno schema che si ripete regolarmente nella copertura mediatica sulla Palestina. Noi palestinesi non veniamo ammazzati: semplicemente moriamo. Quando le forze israeliane irrompono nei nostri quartieri nel cuore della notte, tirano bombe contro i nostri bambini, demoliscono le nostre case, colonizzano le nostre terre e uccidono la nostra gente noi siamo, per certi versi e allo stesso modo, degli istigatori. Le descrizioni dei media regolarmente implicano che ci sia una falsa simmetria fra occupante e occupato, sostenendo narrazioni anti-palestinesi e islamofobiche che incolpano il popolo palestinese delle aggressioni israeliane.

Questo contrasta con la copertura della guerra in Ucraina, dove i media occidentali dicono chiaramente che la Russia è l’aggressore e che il popolo ucraino sta resistendo come farebbe chiunque se la propria patria fosse invasa. Dall’invocare sanzioni contro Mosca ad approvare l’uso di molotov contro i soldati russi a Kiev, le principali testate occidentali sostengono i tentativi di autodifesa degli ucraini.

Eppure quando si arriva all’occupazione israeliana della Palestina questi stessi organi di stampa spesso non nominano affatto l’aggressore. I civili ucraini che tirano bottiglie molotov contro i carri armati russi sono “coraggiosi,” ma il quattordicenne Qusai Hamamrah è stato rappresentato come uno che rappresentava una minaccia immediata dopo che i soldati israeliani hanno detto che aveva tirato una molotov contro di loro. Questa è una notevole differenza razzista nella copertura che ha ignorato i resoconti di testimoni oculari secondo cui il ragazzo stava correndo per nascondersi dalle pallottole israeliane dirette contro un altro palestinese.

Le redazioni non possono decidere quale violenza approvata dallo Stato sia legittima. Devono sforzarsi di raccontare le azioni dell’esercito israeliano e dei coloni israeliani nello stesso modo in cui quelle stesse violenze sono riportate dall’Ucraina e da altri Paesi. Il governo israeliano è infatti estremamente consapevole del potenziale dei media di denunciare tali violenze. Lo scorso maggio le forze israeliane hanno bombardato gli uffici dei servizi informativi nella Striscia di Gaza e ad Al-Aqsa hanno attaccato giornalisti come Nasreen Salem.

La scorsa estate oltre 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta denunciando le pratiche dannose e scorrette nella copertura mediatica americana sulla Palestina. La protesta non è stata ascoltata e le pratiche scorrette continuano a essere la norma.

Questo mese l’Arab and Middle Eastern Journalists Association ha ricordato ai giornalisti di stare attenti a linguaggio e contesto e ha nuovamente diffuso le linee guida sulla copertura mediatica rilasciate durante l’attacco mortale israeliano contro Gaza dell’anno scorso durante il quale furono uccisi 259 palestinesi, di cui 66 minori. Le raccomandazioni chiedono ai reporter di riconoscere che i palestinesi sono sottoposti a un sistema ingiusto e iniquo che è stato documentato come apartheid da parte di organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International e dall’israeliana B’Tselem [ong per i diritti umani, ndt.]. Ha anche chiesto che i giornalisti trattino con accuratezza il contesto religioso e “dicano ai lettori chi è stato ucciso o ferito, dove e da chi, usando espressioni linguistiche attive e non passive.”. In pratica ciò significa chiarire chi è l’aggressore, quali azioni ha compiuto e contro chi.

I giornalisti hanno la responsabilità di riportare i fatti senza parzialità. Il giornalismo tratta di persone: delle loro vicende, della loro storia, della loro realtà. Ciò include anche il popolo palestinese. Il racconto dei fatti deve comprendere la ricerca delle voci dei palestinesi, ponendo in discussione le dichiarazioni delle fonti ufficiali prima di riferirle come verità.

Trascurando di contestualizzare la violenza di Stato perpetrata da Israele, i media hanno dato il via libera al governo israeliano, permettendogli di continuare impunemente la pulizia etnica del popolo palestinese. È ora che le testate affrontino i danni fatti. Dovrebbero tentare di assumere giornalisti palestinesi concentrandosi sulle voci palestinesi invece di cancellarle sistematicamente dal loro racconto. Gli infiniti filmati di violenze documentate contro i palestinesi non dovrebbero restare confinate ai feed dei social media (che devono affrontare una forma diversa di censura).

Invece di trasmettere narrazioni incomplete che lasciano il campo libero all’aggressione israeliana, i media devono cominciare a raccontare il quadro completo della situazione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rifugiati dell’apartheid: perché Israele deve parlare del ritorno dei palestinesi

Yaara Benger Alaluf

17 marzo 2022 – +972 magazine

Il rapporto bomba di Amnesty e la crisi dei rifugiati ucraini sono un’opportunità perché gli israeliani ripensino il rifiuto al ritorno dei palestinesi nella loro patria.

In Israele il dibattito, se c’è stato, sul recente “rapporto sull’apartheid” è consistito nei soliti tre giudizi riguardo a ciò che esso significherebbe: qualcuno lo ha liquidato come un’accusa del sangue antisemita [secondo cui gli ebrei berrebbero sangue umano durante i loro riti, ndtr.]; alcuni lo hanno bollato come un’affermazione di ciò che è ovvio; altri ancora hanno riflettuto sull’eventualità che si tratti di una novità con concrete conseguenze giuridiche. Ciò che nel frattempo è mancato e continua a mancare è una discussione onesta sulle nostre responsabilità come ebrei israeliani, non solo riguardo al passato ma anche al futuro del nostro Paese.

Pubblicato all’inizio di febbraio, il rapporto di Amnesty International è sistematico e approfondito, ma non offre nuove informazioni significative e le sue raccomandazioni sono limitate. Le prove delle violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele elencate nel rapporto risulteranno ben poco sorprendenti a qualunque israeliano abbia mai prestato attenzione alle notizie, per non parlare degli attivisti di sinistra. La sua importanza e rilevanza pratica risiede piuttosto nei suoi due meta-argomenti. Il primo è che la variante israeliana dell’apartheid non è limitata ai territori occupati o a una qualunque specifica componente della popolazione palestinese, ma è parte integrante della stessa frammentazione del territorio e della popolazione in unità con differenti status giuridici.

Il secondo meta-argomento è che la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e case da cui furono espulsi nel 1948 è il meccanismo che sta al cuore di questo principio politico.

La decisione di fare riferimento ai rifugiati palestinesi in un rapporto sulle attuali responsabilità di Israele e sui passi necessari per un futuro di giustizia, uguaglianza e riconciliazione è senza precedenti, e irrompe negli angusti confini del dibattito politico tra gli ebrei israeliani. All’interno di questo discorso il diritto al ritorno è in genere affrontato in termini che hanno la loro origine nella macchina propagandistica israeliana: da “c’era una guerra e loro l’hanno persa” all’affermazione secondo cui il ritorno dei rifugiati palestinesi è sinonimo di fine dell’esistenza degli ebrei in Israele. Leggere il “rapporto sull’apartheid” offre l’opportunità di capire che è vero il contrario: è impedire il ritorno dei rifugiati che costituisce una continua minaccia esistenziale.

1948: mossa iniziale

Il rapporto afferma che la politica di apartheid di Israele è stata messa in atto esplicitamente e coerentemente fin dal primo giorno. Una delle sue principali argomentazioni è che prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 erano state predisposte tutte le condizioni per una supremazia demografica ebraica e per massimizzare il controllo ebraico su terre e risorse naturali. I numeri precedenti alla guerra del 1948 chiariscono bene questo punto: fino a quell’anno i palestinesi rappresentavano il 70% degli abitanti del Paese, e possedevano circa il 90% della sua terra, mentre gli ebrei erano meno del 30% della popolazione e detenevano meno del 7% della terra. Due iniziative prese dal nuovo Stato gli consentirono di ribaltare completamente questa situazione: la decisione del 1948 di impedire ai rifugiati di tornare e la legge del 1950 sulle Proprietà degli Assenti [1].

Nel maggio 1948, mentre la guerra stava infuriando, venne creata una commissione speciale per esaminare il modo in cui trasformare la fuga dei palestinesi “in un fatto compiuto” [2]. La commissione raccomandò alla dirigenza israeliana di distruggere le località palestinesi, impedire la coltivazione della terra, insediare ebrei nei villaggi spopolati, approvare leggi per congelare la situazione di quel momento e investire nella propaganda [3]. Le raccomandazioni vennero religiosamente messe in pratica: già in un incontro del governo il 16 giugno venne annunciato che Israele non avrebbe consentito il ritorno di alcun rifugiato; unità militari furono inviate a far saltare in aria villaggi o incendiarli (601 villaggi vennero distrutti, in maggioranza nella prima metà del 1949); nuovi immigrati ebrei furono ospitati nelle case disabitate dei palestinesi (350 dei 370 nuovi insediamenti ebraici fondati nel 1948-53 vennero costruiti su terre dei rifugiati); i palestinesi che cercarono di tornare per recuperare alcuni dei loro beni, procurarsi del cibo o riunirsi con la famiglia rimasta indietro furono sommariamente fucilati [4].

Gli impedimenti al ritorno non terminarono con l’armistizio nel 1949. Continuano fino ad ora, in violazione delle leggi internazionali, senza nessuna giustificazione relativa alla sicurezza e spesso persino senza una giustificazione demografica [5]. Inoltre la legge sulle Proprietà degli Assenti autorizzò lo Stato a impossessarsi dei beni di chiunque fosse assente durante il primo censimento del Paese nel novembre 1948, che fosse o meno all’interno dei confini dello Stato. Ciò consentì a Israele di impossessarsi della maggior parte della terra coltivabile del Paese, di decine di migliaia di abitazioni ed edifici commerciali, di veicoli e macchinari agricoli e industriali, di conti bancari, di mobili e tappeti, di circa un milione di animali da allevamento, e via di seguito.

Benché la legge fosse pensata per essere provvisoria, e anche se al Custode delle Proprietà degli Assenti venne vietato di rivendere i beni espropriati, nel corso degli anni furono approvate leggi e norme aggiuntive per consentire a Israele di espropriare terreni palestinesi di proprietà di privati su entrambi i lati della Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] e destinarli a uso militare, ai coloni ebrei o come parchi e strutture riservate, in quasi tutti i casi, a ai cittadini ebrei di Israele e a favorirne il benessere.

Rafforzare il controllo, annientare la resistenza

Da allora la supremazia spaziale e demografica della popolazione ebraica è stata rafforzata e mantenuta dividendo i palestinesi in status giuridici differenti: rifugiati in Paesi non arabi, in Paesi arabi, quelli rimasti all’interno dello Stato di Israele, compresi gli sfollati interni, gli abitanti di Gerusalemme est, gli abitanti dei villaggi beduini “non riconosciuti” nel Naqab/Negev e gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata. Come rileva Amnesty [6]:

L’esistenza stessa di questi regimi giuridici separati […] è uno dei principali strumenti attraverso i quali Israele frammenta i palestinesi e impone il suo sistema di oppressione e dominazione, e, come notato dalla Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia Occidentale (ESCWA), ‘[…] per eliminare qualunque forma di dissenso contro il sistema che ha creato [7]’.”

Il rapporto enumera le forme di oppressione esercitate sotto ogni regime giuridico, come arresti di massa, torture, furto di terre, massacri, limitazioni negli spostamenti, negazione dell’accesso alle risorse, distruzione della vita familiare e via di seguito. Ciò è già stato fatto in precedenza. Ma la questione più importante è l’avvertimento del rapporto che l’opposizione alle caratteristiche specifiche dell’oppressione senza riferimento al fatto stesso della frammentazione in sé è funzionale al sistema di oppressione. Per esempio, concentrarsi unicamente sui crimini israeliani nei territori occupati nasconde le ulteriori violazioni delle leggi internazionali relative ai rifugiati, occultando nel contempo la discriminazione dei palestinesi che rimangono al di là della Linea Verde e a Gerusalemme est, o quanto meno li rappresenta erroneamente come parte del discorso sui diritti delle minoranze in una società liberale [8].

Gli autori del rapporto affermano che il contesto concettuale dell’apartheid consente una comprensione coerente della metalogica delle varie forme di oppressione: il tentativo di conservare un sistema di controllo, instaurando e conservando nel contempo l’egemonia ebraica. Questo è specificamente il senso di quanto i palestinesi hanno voluto definire “Nakba che continua”. Oltretutto apartheid è un termine radicato anche nelle leggi internazionali, e comporta quindi usualmente delle sanzioni. Il riferimento all’obiettivo del controllo, piuttosto che solo ai metodi, chiarisce anche che il problema non è, e non è mai stato, riducibile a un “gruppo di estremisti”. La responsabilità del problema risiede in tutte le istituzioni statali e parastatali, come l’Organizzazione Sionista Mondiale, in ogni governo dello Stato indipendentemente dall’affiliazione di partito, nel sistema giudiziario, nel Custode delle Proprietà degli Assenti, nel Fondo Nazionale Ebraico.

La chiave del problema

Impedire il ritorno dei rifugiati, dal 1948 al 1967 fino ai nostri giorni, è presentato nel rapporto come un meccanismo importantissimo della versione israeliana dell’apartheid. Il diritto al ritorno è citato più di 50 volte nel rapporto, e ne guida l’analisi giuridica, storica e spaziale. In termini giuridici una conseguenza della negazione del ritorno è che il controllo israeliano non è limitato ai confini israeliani, ma riguarda anche i palestinesi che sono stati sradicati nel corso degli anni, dato che la loro assenza è essenziale per conservare la maggioranza ebraica [9]. Non meno importante è l’implicazione che l’apartheid prevarrà necessariamente finché ai rifugiati verrà impedito di tornare [10].

Storicamente l’espulsione e l’impedimento al ritorno rappresentano la logica esplicita delle iniziative di Israele, persino dopo il 1948. Nell’immediato dopoguerra Israele impose un governo militare sull’85% dei palestinesi che restarono sul suo territorio, nonostante il loro status formale di cittadini. Per non meno di 18 anni Israele negò loro i diritti fondamentali, come quello di proprietà, di libertà di parola e di movimento, confiscando le loro terre e altre proprietà e stabilendo un intricato sistema di monitoraggio e supervisione che limitò la loro possibilità di organizzarsi politicamente e di plasmare il loro futuro. Il rapporto afferma, in base a documenti ufficiali, che il governo militare venne abolito nel 1966 solo dopo che ci fu la sicurezza sufficiente che i rifugiati non erano più in grado di tornare, soprattutto dopo che quasi tutti i villaggi palestinesi vennero distrutti e coperti da alberi [11].

Anche l’occupazione della Cisgiordania iniziò proprio l’anno dopo, la re-imposizione del governo militare sull’altro lato della Linea Verde non può essere compresa separatamente dalla politica israeliana di spopolamento. Nel corso della guerra del 1967 più di 350.000 palestinesi, metà dei quali rifugiati della guerra del 1948, furono cacciati [12]. Alcuni vennero obbligati ad andarsene in convogli diretti verso la Giordania, compresi migliaia provenienti dai villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba [13]. Altri furono obbligati a fuggire in vario modo, con massicci bombardamenti e demolizioni, come nel campo profughi di Iqbat Jaber, a sud di Gerico, il più grande del Medio Oriente finché il 90% dei suoi abitanti fu deportato in Giordania [14]. Anche ai rifugiati del 1967 vennero negati i diritti garantiti dalle leggi internazionali.

Un’opportunità per la società ebraica

Sono tutti argomenti sostenuti dalla società palestinese per oltre settant’anni, ed è positivo che la comunità internazionale abbia iniziato a dare loro credito, sia in linea di principio che attraverso ricerche e diffusione di informazioni.

Ma cosa dire della società ebraica in Israele? Il rapporto di Amnesty International rappresenta un ulteriore opportunità perché questa società, o almeno quella parte che crede nei principi umanitari e nell’uguaglianza, riconosca la centralità della questione dei rifugiati palestinesi nella storia dell’esistenza sionista di Israele. Tuttavia farlo significherebbe dover abbandonare vari miti persistenti:

Fu una conseguenza non voluta.” Di fatto, fin dagli inizi, la colonizzazione sionista in Israele cercò di acquisire quanto più territorio possibile a unico vantaggio degli ebrei. Anche se non tutti i pensatori e dirigenti politici sionisti erano d’accordo con questa interpretazione del sionismo, questa era l’ideologia che venne effettivamente messa in atto. Ci sono prove che fino a 57 villaggi palestinesi vennero sradicati prima del 1948, così come spiegazioni che minano l’affermazione secondo cui la terra da cui vennero cacciati era stata comprata con mezzi legali.

Hanno cominciato loro”. Il 1948 non fu l’inizio ma il culmine di un processo di spopolamento sistematico. Anche la narrazione secondo cui la dirigenza sionista accettò il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, migliaia di ebrei danzarono per le strade di Tel Aviv e gli arabi iniziarono la guerra è propaganda menzognera. Fonti storiche mostrano che la dirigenza sionista non aveva assolutamente alcuna intenzione di accontentarsi del territorio assegnato allo Stato ebraico in base a vari piani di partizione. Sia il primo ministro israeliano David Ben Gurion che altri dirigenti sionisti affermarono in termini inequivocabili che accettare il piano era una mossa diplomatica intesa ad accelerare il ritiro britannico e facilitare l’occupazione di quanto più territorio possibile [15].

Persino i rapporti di forza sul terreno non riflettevano una situazione in cui gli ebrei erano sulla difensiva contro un’offensiva araba, come cercò di dimostrare la narrazione dei “pochi contro molti” o “Davide contro Golia”. Alla fine del 1947 la comunità ebraica in Palestina aveva una forza militare organizzata di circa 40.000 miliziani per affrontare solo 10.000 combattenti palestinesi non addestrati e poco organizzati e volontari da Paesi arabi, la maggior parte dei quali senza esperienza militare. Persino nel maggio 1948, quando la guerra si estese includendo eserciti arabi, Israele aveva il doppio vantaggio di maggiori risorse e miglior armamento [16].

Cosa ci puoi fare? La guerra è una cosa terribile.” Anche solo per le sue dimensioni, la deportazione e la spoliazione dei palestinesi non può essere liquidata come una parte necessaria della lotta. In questa guerra circa 750.000 donne e uomini divennero rifugiati e i loro beni vennero espropriati. Circa metà di essi fu obbligata a fuggire o espulsa prima che gli eserciti arabi si unissero alla guerra [17]. Dal punto di vista giuridico anche la distinzione tra “fuga” e “deportazione” è falsa: i civili tendono a sfuggire alle guerre e ad altri disastri cercando un rifugio temporaneo con l’intenzione di tornare a casa dopo che le ostilità si sono placate, e il diritto internazionale riconosce loro questo diritto. In effetti ciò avvenne durante la guerra del 1948, insieme ad esempi documentati di sradicamento forzato [18]. In entrambi i casi impedire il ritorno è ingiustificabile e assolutamente non correlato alla questione della responsabilità per lo scoppio della guerra.

Le cose vanno così.” La condizione di rifugiati dei palestinesi è spesso associata ad altri casi storici di pulizia etnica che servono a giustificarla. Nessuna deportazione è mai giustificata e i crimini di altri non giustificheranno mai i propri. Anche gli ebrei vennero sradicati e deportati con grande crudeltà e questa è una delle ragioni per cui il mondo riconobbe il loro diritto a uno Stato sovrano. In molti casi (compresi gli attuali discendenti della Spagna medievale e della Germania nazista) gli eredi dei criminali hanno chiesto scusa dopo il fatto, pagato compensazioni, eretto monumenti, sviluppato programmi di studio e consentito a vittime di seconda e terza generazione di ottenere la cittadinanza e rivendicare proprietà. Nel contesto palestinese non è stato avviato nessuno di questi passi e oltretutto l’oppressione continua senza sosta.

Mettiamoci una pietra sopra.” La convinzione che le conseguenze della guerra del 1948 debbano essere separate da tutto quello che era avvenuto prima e avvenne dopo e che Israele può semplicemente “andare avanti” è basata sulla supremazia ebraico-sionista che non ha giustificazioni politiche, giuridiche né morali. Mentre dal 1948 la superiorità demografica ebraica è stata garantita, la politica israeliana di pulizia etnica non si è limitata al periodo bellico [19]. Secondo, un simile approccio cancella completamente i palestinesi: la catastrofe è tutt’altro che finita per i palestinesi, cui viene negato persino il diritto di visitare le rovine dei loro villaggi, alle famiglie separate non è possibile gioire e piangere insieme, a un abitante di Giaffa [in Israele, ndtr.] la cui sorella è assediata a Gaza o a un abitante di Hebron [in Cisigordania, ndtr.] è impedito di sposare la persona amata di Haifa [in Israele, ndtr.].

È giunto il momento di parlare del ritorno

Ciò che afferma il rapporto di Amnesty International, come hanno sempre fatto i palestinesi, è che ogni soluzione che conservi il sistema di diritti separati e non protegga le libertà di tutto il popolo palestinese – nella diaspora, in Israele, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza – non fornirà una soluzione sostenibile alla continua ingiustizia. “Smantellare questo sistema crudele di apartheid è fondamentale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei territori occupati, così come il ritorno dei rifugiati palestinesi […] in modo che possano godere dei loro diritti umani liberi da discriminazioni” [20]. Lo smantellamento del regime di supremazia ebraica è essenziale anche per milioni di ebrei dentro e fuori Israele – non perché lo dica Amnesty, ma perché fare così porterà a un futuro migliore per tutti noi.

La storia dimostra che le società fondate su una ideologia suprematista ed esclusivista sono necessariamente razziste e militariste. In effetti questa è la direzione verso la quale sta andando la società israeliana. Riconoscere i diritti dei rifugiati, fondati sulle leggi internazionali, è un prerequisito per porre fine al regime di supremazia ebraica e quindi per la riconciliazione, la democrazia e l’uguaglianza. Tale riconoscimento consentirà di stabilire una politica migratoria equa che beneficerà la società, la cultura e l’economia e promuoverà anche la giustizia all’interno della società ebraica in Israele.

È vero, mettere in pratica il diritto al ritorno richiederà che gli ebrei rinuncino ai propri privilegi. Ma qual è il prezzo di conservare uno “Stato ebraico”? Finora, nonostante abbia giustificato la propria legittimazione attraverso le promesse di pluralismo e appelli ai diritti universali con il diritto all’autodeterminazione, questo Stato ha interpretato in modo ottuso e rigido la legge ebraica, creando diseguaglianze ed esclusioni (esemplificate in modo chiarissimo dalla legge sui matrimoni e dalla politica sull’immigrazione) che contraddicono qualunque nozione di liberalismo o universalismo. La definizione dello Stato di Israele come ebraico danneggia in primo luogo i non ebrei, ma estorce un costo considerevole anche a molti ebrei, soprattutto neri, LGBTQ e donne che non possono ottenere il divorzio (agunot). Danneggia la stessa vita degli ebrei, imbrigliandola sia nel progetto sionista che nella legge ortodossa ashkenazita, impedendo quindi uno sviluppo indipendente e spontaneo della tradizione come è avvenuto e ancora avviene nella diaspora. In contrasto con la vita sottoposta a istituzioni su base comunitaria, gli ebrei in Israele sono obbligati a finanziare e ad essere soggetti al monopolio del rabbinato sui servizi religiosi.

Inoltre il costante timore della “minaccia demografica” continua a giustificare la destinazione di risorse alle esigenze militari e alle colonie illegali nei territori occupati invece che alla sanità pubblica, all’edilizia e all’educazione. La necessità di giustificare la costante ansietà e la posizione di difesa impone a sua volta un sistema educativo profondamente razzista e militarista. Il futuro promesso da questo percorso non è quello che voglio io. Non c’è niente di coraggioso nel cercare la sicurezza totale fuori dal costante timore di una presunta minaccia esistenziale. Possiamo e dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la liberazione degli ebrei deve avvenire a spese di altri. Dobbiamo iniziare a prenderci la responsabilità del nostro futuro.

Chiunque si impegni per la giustizia e l’uguaglianza, chiunque si opponga al razzismo, chiunque semplicemente non voglia partecipare a un crimine contro l’umanità e chiunque voglia anche solo che le cose vadano meglio qui deve osare riflettere e parlare seriamente del ritorno. Un primo passo positivo sarebbe dare ascolto agli stessi rifugiati e alle organizzazioni della società civile palestinese, e scoprire che il ritorno non significherebbe la deportazione degli ebrei fuori dal Paese [21]. Al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, che è la più grande associazione globale non partitica che promuove la messa in pratica del diritto al ritorno, ha chiaramente evidenziato che “i rifugiati palestinesi nel loro complesso accettano che esercitare il loro diritto al ritorno non sarebbe fondato sulla cacciata dei cittadini ebrei ma sui principi di eguaglianza e sui diritti umani.” Allo stesso modo BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e il Diritto al Ritorno, spiega:

Ciò che avvenne nel 1948 è storia. Non si torna indietro. Il diritto al ritorno, tuttavia, non significa tornare indietro nel tempo. Il ritorno riguarda molto di più il futuro. Riguarda iniziare realmente a vivere, rispondere al profondo senso di appartenenza alla terra da cui i rifugiati furono strappati decenni fa e riguarda la costruzione di rapporti tra palestinesi ed ebrei basati sulla giustizia e sull’uguaglianza.”

Questa posizione cambierà una volta che sia cambiato il rapporto di potere? Forse. Qualcuno definisce l’omofobia come “la paura che uomini gay ti trattino come tu tratti le donne.” La fobia del ritorno sarebbe la paura che i rifugiati palestinesi ti tratteranno come il sionismo ha trattato loro. Io scelgo di non vivere con la paura, ma ho invece fiducia nelle persone che credono nei diritti umani e nell’uguaglianza. Scelgo di fidarmi dei rifugiati come Isma’il Abu Hashash, cacciato da Iraq al-Manshiyah e che oggi vive in Cisgiordania e dice:

Non dobbiamo ripetere gli errori degli israeliani e condizionare la nostra presenza sulla nostra terra alla non-presenza del popolo che ora vi vive. Gli israeliani, o gli ebrei, pensavano che avrebbero potuto vivere in Palestina solo se non lo avessero potuto fare gli altri. Non è quello che crediamo noi. Vediamo il diritto al ritorno come la richiesta di un diritto individuale e collettivo sulla terra da cui siamo stati espulsi. Non vogliamo dire a loro di andarsene, né vogliamo dividere il loro Paese.”

Si può anche stare a sentire dagli ebrei che appoggiano il ritorno perché essi credono che ciò sarebbe positivo anche per gli ebrei di questo Paese. Si scoprirà che, per quanto la questione del ritorno sia estremamente controversa ed emotiva nella società israeliana, negli anni scorsi si è scritto molto sull’argomento [22]. In seguito possiamo continuare con una discussione più pragmatica. Salman Abu Sitta è un geografo palestinese che ha dedicato la propria vita ad analizzare gli aspetti concreti del ritorno. I suoi studi indicano che, tra le altre cose, la grande maggioranza della terra a cui i rifugiati intendono tornare attualmente è disabitata. Il Documento di Città del Capo, un progetto per il ritorno formulato insieme da Zochrot, un’associazione israeliana che promuove il diritto al ritorno, e Badil, un’organizzazione palestinese per i diritti dei rifugiati, offre un quadro giuridico per la realizzazione del ritorno. Ci sono anche molte informazioni sui rifugiati che nel resto del mondo tornano ai loro Paesi d’origine e sulle sfide e opportunità poste dal ritorno volontario, per esempio nel numero dell’ottobre 2019 di Forced Migration Review [Rivista delle Migrazioni Forzate].

Se c’è qualcosa che gli ebrei israeliani possono imparare dal rapporto di Amnesty è che il tentativo di slegare gli eventi del 1948 dall’esistenza dei palestinesi nel 2022 è artificioso e cinico, e che la richiesta di riconoscerlo non pretende empatia ma riparazione, in quanto la Nakba è un tentativo deliberato e continuo di cancellare il popolo palestinese dalla sua terra, a nome nostro e con la nostra partecipazione. È importante opporsi alla demolizione delle case e accompagnare i pastori palestinesi della Valle del Giordano. È importante chiedere acqua ed elettricità per chi è sottoposto all’occupazione, monitorare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e parlare di pace. Tuttavia mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati è l’unica iniziativa che riconosca onestamente l’ingiustizia fondamentale che ha creato la relazione di oppressione tra ebrei e palestinesi che continua fino ad oggi. È l’unica iniziativa che risponda alla reale volontà delle vittime che comporti giustizia e riparazione. Spaventa, ma è anche esaltante. È complicato e ci vorrà tempo. È proprio per questo che dobbiamo iniziare a prenderlo sul serio.

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[1] Ogni riferimento al rapporto di Amnesty è ricavato dalla versione completa in inglese.

[2] Il divieto al ritorno è discusso, tra le altre, nelle pagine 14-15, 61, 64, 72, 75, 81 e 93-94; sull’appropriazione dei beni dei palestinesi attraverso la legge sulle proprietà degli assenti e sulla acquisizione delle terre del 1953 vedi tra le altre pp. 22-23, 114-116, 119-121, 124.

[3] Memorandum di Y. Weitz, E. Sasson e E. Danin a Ben-Gurion, “Retroactive Transfer: A Scheme for Resolving the Arab Question in the State of Israel,” June 5, 1948 [Trasferimento Retroattivo: uno schema per risolvere la questione araba nello Stato di Israele, 5 giugno 1948], citato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press) [Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004], pp. 314-316.

[4] Noga Kadman, “Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948” [Cancellati dallo spazio e dalla coscienza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati nel 1948] (Bloomington: Indiana University Press, 2015), Introduzione; Oren Yiftachel e Alexandre (Sandy) Kedar, “On Power and Land: The Israeli Land Regime,” [Su potere e terra: il regime territoriale israeliano] Theory and Criticism 16 (2000): p. 77 (in ebraico).

[5] Le considerazioni demografiche non spiegano i passi compiuti per impedire il ritorno di sfollati interni come gli abitanti di Saffuriyya or Kafr Bir’im, la maggioranza dei quali vive ancora sul territorio israeliano.

[6] Pp. 74-81.

[7] P. 17.

[8] Ad es. pp. 62, 75.

[9]  Pp. 62, 81.

[10] Pp. 33, 47, 93-94, 220, 259-260, 276.

[11] Pp. 105-106.

[12] Pp. 41, 76-77, 81.

[13] “Chiesero di tornare al villaggio e dissero che avremmo fatto meglio ad ucciderli […] Non abbiamo consentito loro di andare al villaggio a prendere i loro averi perché l’ordine era che non vedessero come era stato demolito il loro villaggio.” Testimonianza del defunto scrittore israeliano Amos Keinan, che combatté durante la guerra, in “Report on Village Demolition and Refugee Deportation, June 10, 1967,” [Rapporto sulla distruzione di villaggi e la deportazione di rifugiati, 10 giugno 1967] citato in Sedeq 2 (2007): 96-97 (in ebraico).

[14] Nur Masalha, The Politics of Denial: Israel and the Palestinian Refugee Problem [La politica della negazione: Israele e il problema dei rifugiati palestinesi] (London: Pluto Press, 2003), pp. 203-205.

[15] Fin dal marzo 1937 il dirigente sionista e futuro presidente di Israele Chaim Weizmann disse all’alto commissario britannico per la Palestina: “Anche se ogni tanto subiamo delle battute d’arresto, in ultima istanza siamo obbligati a impossessarci di tutto il paese, salvo che il paese sia diviso in due e venga tracciato un limite alla nostra espansione […] Anche se venisse approvato il piano di partizione, siamo obbligati in definitiva a espanderci su tutto il paese […]. Questo non è altro che un accordo per i prossimi 25-30 anni.” Moshe Sharett, Yoman Medini, Vol. 2, p. 67 (in ebraico), citato in Alexander B. Downes, “Targeting Civilians in War” [Prendere di mira i civili in guerra] (Ithaca: Cornell University Press, 2011), p. 187.

[16] Benny Morris, “1948: A History of the First Arab-Israeli War” (New Haven: Yale University Press, 2008) [1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, Bur, 2014], pp.  81-93, pp. 197-207.

[17]  Documenti interni dell’intelligence confermano che “l’espulsione di circa il 70% degli arabi durante questo periodo dovrebbe essere attribuito a operazioni militari da parte delle forze ebraiche, mentre gli ordini da parte dei dirigenti arabi hanno influito sullo spostamento solo per il 5%.”

[18] Quelli che seguono sono solo alcuni dei molti esempi. Il soldato ebreo Amnon Neumann testimoniò: “Circondammo il villaggio da varie direzioni, iniziammo a sparare in aria, tutti si misero a urlare e li cacciammo.” Gli ordini operativi del piano D (marzo 1948) esigevano di “ripulire” e “distruggere” villaggi. Agli abitanti di Ramle e Lydda vennero distribuiti volantini che ordinavano loro di andarsene a piedi, e le truppe israeliane spararono sopra le loro teste finché i convogli di rifugiati arrivarono in territorio giordano. A Majdal il trasferimento venne effettuato utilizzando camion militari.

[19] Nel 1950 2.500 palestinesi che erano rimasti nella città di Majdal (oggi Ashkelon) vennero deportati; nel 1956 più di 20.000 beduini palestinesi che erano rimasti nel Negev [Naqab in arabo, ndtr.] furono cacciati, e nel solo 1956 circa 5.000 palestinesi furono espulsi da zone smilitarizzate nel nord di Israele. Come detto, anche la guerra del 1967 ebbe la sua parte di espulsioni, e il fenomeno continua fino ad oggi sia in Israele che in Cisgiordania. Continuano anche ad essere utilizzati vari metodi di emigrazione forzata.

[20] P. 33.

[21] È difficile fare una scelta tra le varie pubblicazioni di palestinesi sul ritorno. Ecco una selezione molto ridotta. Potete leggere alcune brevi citazioni di rifugiati che parlano del ritorno; leggete l’articolo di Abir Kopty “Without Return, Palestine Will Not Be Free” [Senza ritorno la Palestina non sarà libera], del 15.5.2013; vedete il corto di Firas Khouri “Three Returning Bouquets” [Tre mazzi di fiori di ritorno] e ascoltate come alcuni adolescenti descrivono il loro desiderio di tornare; vedete “Internally displaced Palestinians plan their return” [Palestinesi sfollati interni progettano il proprio ritorno]; immaginate, insieme a Umar al-Ghubari e altri, possibili futuri del ritorno e la vita in comune raccontata nel libro “Adwa”, passeggiate nei luoghi immaginati dalla coalizione per il ritorno Al-Awda e da BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati.

[22] In inglese: Peter Beinart, A Jewish case for Palestinian refugee return [Una causa ebraica per il ritorno dei rifugiati palestinesi], The Guardian, 18.5.2021; Alma Biblash, Who’s afraid of the right of return? [Chi ha paura del diritto al ritorno?], +972 Magazine, 15.5.2014; Tom Pessah, Yes, the right of return is feasible. Here’s how [Sì, il diritto al ritorno è praticabile. Ecco come], +972 Magazine, 7.11.2017; Moran Barir, I have a dream — to see the Palestinian refugees return, [Ho un sogno: vedere il ritorno dei rifugiati palestinesi], 2012; Henriette Chacar, The Jewish Israelis helping make Palestinian return a reality [Gli ebrei israeliani che contribuiscono a rendere possibile il ritorno dei palestinesi], +972 Magazine, 29.5.2020.

In ebraico: Alma Biblash, It’s Time to Talk about Return as a Practical Option [E’ tempo di parlare del ritorno come un’opzione praticabile], Local Call, 5 maggio 2014; Rachel Beit Arie, We Have Grown Used to Viewing the Return as a Threat Rather than a Hope [Siamo cresciuti abituati a vedere il ritorno dei profughi come una minaccia piuttosto che una speranza], Local Call, 2 dicembre, 2018; Tom Pessah, Time for a Serious Discussion on the Right of Return [E’ tempo di una discussione seria sul diritto al ritorno], Haokets, 5 novembre 2017; Tom Pessah, The Right of Return: Not What You Thought [Il diritto al ritorno: non è quello che pensi], Sicha Mekomit, 18 aprile 2018; Joint Meeting on the Ruins of the Village Mighar [Incontro insieme sulle rovine del villaggio Mighar], Israel Social TV, 7 novembre 2017; una serie di servizi della Israel Social TV sul diritto al ritorno, con interviste, tra gli altri, ad Avi-Ram Tzoreff, Jessica Nevo, Yossef(a) Mekyton e Moran Barir.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché Israele non è più l’eccezione alle regole internazionali

Ramzy Baroud

1° marzo 2022- Middle East Monitor

Israele può subire pressioni? Oppure è l’unica eccezione alle regole internazionali e all’ordine politico globale in cui ogni Paese, grande o piccolo che sia, è soggetto a pressioni e conseguenti cambiamenti di atteggiamento e di comportamento?

Gli eventi degli ultimi giorni mettono in primo piano la questione della responsabilità legale e morale di Israele. Il 21 febbraio l’Autorità israeliana per la natura e i parchi ha deciso di ritirare un piano che mirava a espropriare, illegalmente, le terre di proprietà della Chiesa sul Monte degli Ulivi nella Gerusalemme est palestinese occupata. Il piano ha suscitato rabbia e resistenza allo stesso modo tra palestinesi cristiani e musulmani. I leader cristiani locali hanno denunciato il proposto furto della terra come un “attacco premeditato ai Cristiani in Terra Santa”.

Dopo che il 2 marzo il Times of Israel ha riferito che il progetto avrebbe dovuto ricevere l’approvazione dal comune di Gerusalemme controllato da Israele, la comunità palestinese e i leader religiosi hanno iniziato a raccogliere sostegno non solo tra i palestinesi ma anche a livello internazionale contro l’ultimo progetto di 

occupazione coloniale.

La decisione di ritirare il piano dimostra ancora una volta che la resistenza palestinese funziona. Ricordiamo la grande mobilitazione palestinese del 2017 dentro e intorno al Nobile Santuario di Al-Aqsa, quando il potere popolare a Gerusalemme costrinse Israele a rimuovere i metal detector e altre “misure di sicurezza” dal sito sacro all’Islam.

Il giorno dopo la decisione israeliana di rinunciare al progetto del Monte degli Ulivi, la Corte di Gerusalemme ha deciso di congelare temporaneamente l’ordine di sfratto contro la famiglia Salem nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah. La famiglia palestinese, che ha vissuto per tre generazioni nella casa presa di mira, si è mobilitata, insieme a molte altre famiglie e attivisti, palestinesi e internazionali, per protestare contro il sequestro illegale da parte di Israele delle case palestinesi nella città occupata.

Sebbene la decisione del tribunale israeliano sia solo temporanea e non smentisca la massiccia e sistematica pulizia etnica in corso a Sheikh Jarrah, Silwan e nel resto di Gerusalemme est, può essere vista in una luce positiva: incoraggia la resistenza popolare nella Gerusalemme occupata e, in effetti, in tutta la patria palestinese

Inoltre, il 25 febbraio, due detenuti palestinesi, Hisham Abu Hawash e Miqdad Al-Qawasmi, sono tornati alle loro famiglie dopo aver trascorso molti mesi in detenzione illegale; erano in sciopero della fame rispettivamente da 141 e 113 giorni. L’immensa sofferenza di questi due uomini, insieme a numerose immagini dei loro corpi emaciati, è stata utilizzata per mesi dai palestinesi per illustrare la brutalità di Israele e l’ormai leggendario sumoud, la fermezza, dei normali palestinesi.

Come previsto, i prigionieri liberati sono stati ricevuti dalle loro famiglie, amici e migliaia di palestinesi festanti. Durante le celebrazioni, la parola “vittoria” è stata ripetuta più e più volte nelle strade, nei notiziari palestinesi e nei social media.

Questi sono solo alcuni esempi di quotidiane vittorie palestinesi che raramente vengono sottolineate, o addirittura riconosciute come tali. Questi risultati, per quanto sembrino poca cosa, sono cruciali per comprendere la natura quotidiana della resistenza palestinese; sono anche altrettanto importanti per rendersi conto che anche Israele, che ama considerarsi uno Stato eccezionale sotto ogni aspetto, può essere soggetto a pressioni.

Quando i palestinesi e molti altri in tutto il mondo hanno chiesto a Israele di porre fine agli sgomberi forzati degli abitanti di Gerusalemme a Sheikh Jarrah lo scorso maggio l’allora primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato che il suo paese “rifiuta fermamente” le pressioni e ha portato avanti senza ostacoli le sue misure coercitive. Ma quando i palestinesi si sono sollevati in massa per solidarietà con Gerusalemme e Gaza, personaggi come il presidente degli Stati Uniti Joe Biden hanno invitato tutte le parti a “ridimensionarsi“.

Eppure Netanyahu ha continuato a comportarsi come se il suo Paese fosse al di sopra della legge, delle procedure politiche e persino del buon senso. “Sono determinato a continuare con questa operazione fino al raggiungimento dell’obiettivo”, ha insistito. Ha anche affermato che la guerra contro Gaza – in effetti, contro tutti i palestinesi – è “un diritto naturale di Israele”. Quando i palestinesi hanno continuato la loro resistenza, assieme, questa volta, a un crescente movimento di solidarietà globale, Israele è stato costretto ad accettare un cessate il fuoco, raggiungendo pochi, se non nessuno, dei suoi presunti obiettivi.

In questo momento Israele sta cercando l’aiuto di vari mediatori per la restituzione di diversi soldati israeliani – o delle loro spoglie – attualmente trattenuti a Gaza. I palestinesi sono aperti a un accordo di scambio di prigionieri e chiedono la libertà di centinaia di prigionieri politici, comprese importanti personalità palestinesi, detenuti in Israele da molti anni.

Inoltre vogliono ottenere serie garanzie per evitare il ripetersi di uno scambio di prigionieri come quello dell’ottobre 2011, quando oltre 1.000 palestinesi sono stati rilasciati solo per essere poi nuovamente arrestati da Israele poco dopo. Anche in merito a questo Israele ha assicurato che non cederà di fronte alle condizioni palestinesi, ma molto probabilmente lo farà.

Israele non è l’unico paese ad affermare di essere al di sopra delle pressioni e di non dover rendere conto delle proprie azioni. Molti regimi coloniali in passato si sono rifiutati di riconoscere la resistenza popolare nelle rispettive colonie, eppure, in qualche modo, il colonialismo tradizionale si è debitamente concluso con la sconfitta ingloriosa dei colonizzatori.

Questo non vuol dire che l’eccezionalismo israeliano non sia reale; lo è, e lo si può vedere chiaramente nel Congresso degli Stati Uniti e nel comportamento di molti governi occidentali filo-israeliani. Tale eccezionalismo rivela spesso ipocrisia e doppi standard, nonché l’illusione che uno Stato in particolare sia al di sopra dell’ordine naturale e delle regole internazionali che hanno governato per secoli le relazioni statali, la politica e i riallineamenti geopolitici.

Mentre Israele continua ad illudersi di essere al di sopra delle pressioni, i palestinesi devono rendersi conto che la loro resistenza, in tutte le sue manifestazioni, è in grado di arrivare al risultato voluto, la libertà. La crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) a guida palestinese e la sua capacità di sfidare Israele su numerose piattaforme di informazione in tutto il pianeta sono un perfetto esempio di come il popolo della Palestina occupata sia riuscito a portare la sua lotta per la libertà in tutto il mondo. Se Israele non è suscettibile alle pressioni, allora perché dovrebbe combattere il movimento BDS con tanta sfrenata ferocia e, a volte, disperazione?

Israele non è eccezionale in nessun senso. Come altri regimi coloniali e di apartheid del passato alla fine crollerà aprendo la strada a un futuro in cui arabi palestinesi ed ebrei israeliani potranno coesistere alla pari.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il Naqab è un tassello chiave del puzzle dell’apartheid in Israele

Ahmed Abu Artema 

 23 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Il primo febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui dichiara Israele un regime di apartheid.

Che i palestinesi vivano nella Striscia di Gaza assediata, a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania occupata o in Israele, Israele li tratta come un gruppo razziale inferiore e li priva dei loro diritti.

Il rapporto definisce la regione del Naqab meridionale (Negev) un “ottimo esempio” delle pluriennali politiche israeliane per appropriarsi di terre e risorse palestinesi a vantaggio degli ebrei israeliani.

Durante le settimane precedenti la pubblicazione del rapporto di Amnesty i beduini palestinesi nel Naqab hanno respinto rinnovati tentativi israeliani di espropriare vasti appezzamenti di terra con la scusa del “rimboschimento.”

Il mese scorso l’esercito israeliano è intervenuto pesantemente contro i manifestanti sparando pallottole di acciaio rivestite di gomma e lanciando lacrimogeni dai droni. I palestinesi feriti sono stati decine e pare che le autorità israeliane abbiano fermato oltre 80 persone.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha anche lanciato pallottole di acciaio con punta in spugna contro i manifestanti, ferendone cinque alla testa.

Un ragazzino palestinese che assisteva alle proteste ha perso un occhio dopo essere stato colpito dalla polizia israeliana.

Secondo Al Jazeera il Jewish National Fund  [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] e l’Israel Land Authority [Autorità Israeliana per la terra, ndtr.] stanno cercando di espropriare più di 11.000 ettari di terreni palestinesi per piantare alberi.

Ma i beduini palestinesi sanno che Israele usa da molto tempo il “rimboschimento” per impadronirsi di terre nel Naqab e altrove e per nascondere monumenti e rovine di villaggi palestinesi dopo averli distrutti e attuato la pulizia etnica.

È un metodo tipico di Israele per cancellare tutte le tracce dei suoi crimini.

Ebraizzare il Naqab

Fin dal 1948 Israele ha adottato varie politiche per “ebraizzare” il Naqab, soprattutto destinando vaste aree intorno ai villaggi beduini a riserve naturali, zone industriali e per esercitazioni militari, come notato da Amnesty.

Israele ha radunato gli abitanti beduini e li ha trasferiti con la forza in quelle che chiama “città pianificate” con conseguenze devastanti per coloro che vivono nella zona.

Nel Naqab Israele si rifiuta ancora di riconoscere 35 villaggi beduini, che di conseguenza sono privi di luce e acqua e destinati alla demolizione, sostiene Amnesty.

A dicembre le autorità israeliane di occupazione hanno demolito il villaggio beduino di al-Araqib nel nord del deserto di Naqab quasi per la duecentesima volta dal 2000.

I palestinesi l’hanno ripetutamente ricostruito solo per subirne di nuovo la demolizione con il pretesto che non è riconosciuto.

Rifiutando di concedere ai villaggi uno status ufficiale Israele limita la partecipazione politica degli abitanti beduini e li esclude dall’assistenza sanitaria e dal sistema scolastico. Ciò intende costringerli a lasciare le proprie case e villaggi, il che equivale al trasferimento coatto.

Secondo Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] fra il 2013 e il 2019 Israele ha demolito nel Naqab più di 10.000 case.

Nel 2013 la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato il cosiddetto Prawer Plan, studiato per trasferire con la forza gli abitanti di decine di villaggi palestinesi del Naqab e concentrarli in una zona segregata.

Secondo questa legge Israele trasferirà in modo coatto 70.000 beduini e i 35 villaggi non riconosciuti saranno demoliti.

Per ora le proteste popolari e la condanna di molte organizzazioni internazionali hanno costretto il governo di Israele a sospendere l’implementazione del piano.

Questi progetti sono progettati per cacciare i palestinesi dalla regione e rimpiazzarli con ebrei israeliani.

Naqab come continuazione della Nakba

Sin dalla sua fondazione nel 1948 sulle rovine di città e villaggi palestinesi, l’obiettivo strategico coloniale di Israele è il furto di terre palestinesi e il trasferimento forzato della sua popolazione nativa.

Dall’estremo nord della Galilea al sud del Naqab e ovunque nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, Israele continua a perseguire questo obiettivo.

Mentre il mese scorso, in una notte fredda e piovosa, l’esercito israeliano attaccava i manifestanti nel Naqab, i bulldozer demolivano la casa della famiglia Salhiya nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata, lasciando la famiglia senza un tetto.

Gli abitanti del Naqab riconoscono il significato nazionale della loro causa. Le loro sofferenze sono le stesse subite dall’intero popolo palestinese.

Qualcuno ha chiamato la violenta repressione israeliana e il trasferimento coatto dei palestinesi del Naqab una versione in scala ridotta della Nakba, la pulizia etnica di circa 800.000 palestinesi per far posto a Israele nel 1948.

Il mese scorso Aden Hajjouj, attivista palestinese nel Naqab, ha detto ai media con ardore rivoluzionario: “Ci trattano come rifugiati nella nostra terra”.

Questa non è la loro terra, è la nostra. Siamo qui da prima del 1948, prima che Israele diventasse Israele.”

Identità nazionale collettiva

La definizione di apartheid di Amnesty segue quelle dell’anno scorso di B’Tselem, associazione israeliana per i diritti umani, e di Human Rights Watch.

Questi rapporti allarmano Israele perché minano la falsa immagine che cerca di presentare al mondo.

La designazione di Israele quale Stato di apartheid sposta l’attenzione da una visione limitata del conflitto nella Cisgiordania occupata e Gaza a considerare il problema come vera essenza di Israele.

Come scrive Amnesty nel suo rapporto: “Dalla sua istituzione nel 1948 Israele ha perseguito una chiara politica per stabilire e mantenere un’egemonia demografica ebraica e massimizzare il suo controllo sulla terra per avvantaggiare gli ebrei israeliani e così minimizzare il numero dei palestinesi, limitare i loro diritti e ostacolare la loro capacità di sfidare questa spoliazione.”

I palestinesi respingono uno Stato razzista

Fin dalla sua fondazione Israele ha cercato di separare il popolo palestinese e frammentarne l’identità nazionale. I cittadini palestinesi di Israele sono quelli sopravvissuti alla Nakba del 1948 e i loro discendenti che riuscirono a restare in quello che è poi diventato Israele.

A seconda di dove si trovavano geograficamente Israele ha classificato i palestinesi con una gerarchia di identificazioni con implicazioni politiche, di sicurezza e giuridiche.

Questa separazione fu imposta dopo la firma degli accordi di Oslo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a metà degli anni ’90.

Sebbene gli strumenti repressivi di Israele differiscano a seconda della classificazione giuridica e geografica dei palestinesi, l’essenza della repressione è la stessa: espulsioni, trasferimenti e discriminazione razziale contro i palestinesi.

Israele sperava che tali divisioni avrebbero portato a una frattura nella coscienza nazionale palestinese contro il colonialismo.

Il governo israeliano non ha mai cercato di integrare i propri cittadini palestinesi, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese. Sebbene questi palestinesi siano ufficialmente considerati cittadini israeliani, Israele li sottopone a una persecuzione etnica e religiosa.

Successivi governi israeliani hanno approvato decine di leggi su terre, abitazioni, costruzioni, istruzione e lavoro. Queste leggi discriminano i cittadini palestinesi di Israele, li privano dei loro diritti civili, ne confiscano le terre e restringono il loro spazio pubblico.

La sistematica discriminazione razziale israeliana contro i palestinesi nel vasto territorio occupato nel 1948 ha contribuito alla crescita del patriottismo palestinese.

In parte soppresso per decenni nell’Israele odierno, esso è riapparso nel maggio 2021 quando i palestinesi hanno protestato diffusamente contro l’assalto militare israeliano contro Gaza e gli abusi di Israele a Sheikh Jarrah [quartiere palestinese di Gerusalemme est dove Israele sta cercando di cacciare gli abitanti, ndtr.].

Come dichiara Amnesty International nella sintesi del rapporto sull’apartheid: “In una dimostrazione di unità mai vista in decenni, ([i palestinesi) hanno sfidato la frammentazione e segregazione territoriale che affrontano nella loro vita quotidiana e hanno partecipato a uno sciopero generale per protestare contro la loro comune repressione da parte di Israele.”

Questa unità, dal Naqab nel sud della Galilea al nord, da Gaza alla Cisgiordania, è essenziale per allontanarsi dal modello fallito dei due Stati che non garantisce tutti i diritti dei palestinesi, e li sprona verso un’azione per uno Stato che difenda principi chiave come parità di diritti e il diritto al ritorno [dei profughi].

Ahmed Abu Artema, scrittore palestinese e attivista, è un rifugiato di Ramle [città palestinese in cui nel 1948 ci furono massicce espulsioni e che ora si trova in Israele, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sconfiggere la caccia alle streghe dell’IHRA: un’intervista all’attivista e docente palestinese Shahd Abusalama

Ramona Wadi

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

Shahd Abusalama riflette sulla sua ingiusta sospensione dall’università Hallam di Sheffield dovuta a false accuse di antisemitismo e sulla mobilitazione popolare che ha contribuito alla sua riammissione.

L’università Hallam di Sheffield aveva sospeso Shahd Abusalama dal suo incarico di lettrice associata dopo che il mese scorso erano state lanciate contro di lei accuse anonime. L’iniziativa ha provocato un’ondata di appoggi all’accademica palestinese e ha acceso una discussione sul modo in cui governi ed istituzioni sono complici di Israele nell’adottare la definizione di antisemitismo [che negli esempi assimila antisionismo e critiche a Israele all’antisemitismo, ndtr.] dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto [ente intergovernativo cui aderiscono 34 Stati, ndtr.] (IHRA) allo scopo di reprimere le critiche a Israele e silenziare la narrazione palestinese.

Abusalama è stata sospesa in seguito ad una serie di tweet in cui esprimeva la propria opinione sull’uso da parte di uno studente del primo anno delle parole “Stop all’olocausto palestinese” in un manifesto del dicembre 2021. ‘Jewish News – UK’ [Il quotidiano gratuito filoisraeliano che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] ha riferito che l’università stava indagando sui tweet. Il 21 gennaio, mentre si preparava a tenere una lezione, ad Abusalama è stata notificata la sospensione e la sua lezione è stata annullata. La natura dell’accusa e l’identità di chi stava dietro la denuncia non sono trapelati.

Non è la prima volta che Abusalama, dottoranda ed attivista di Gaza trasferitasi nel Regno Unito nel 2014, è stata presa di mira dai propagandisti sionisti per le sue attività. Parlando a Mondoweiss, Abusalama sottolinea che il suo caso è stato paragonato a quelli di Jeremy Corbyn e David Miller, entrambi bersagli dei sionisti. “Ma occorre fare una distinzione. Sì, si è vittime della stessa caccia alle streghe, ma le conseguenze sono diverse perché viviamo in una società ineguale in cui alcune persone hanno maggiori privilegi di altre. Loro due sono bianchi, anziani ed hanno cittadinanza europea. Io non ho nessuna di queste caratteristiche, sapete. Io sono vulnerabile in così tanti modi che il fatto che la definizione dell’IHRA sia stata usata dall’università per la prima volta contro una palestinese dimostra come noi siamo i più vulnerabili a questa nefasta e subdola definizione.”

Abusalama descrive la campagna contro di lei come malvagia. “Ma mostra anche un modo di agire storicamente ricorrente di come i palestinesi vengono trattati come eccezione alla regola.” I palestinesi, dice, sono trattati come un’eccezione quando si tratta di diritti umani e autodeterminazione, e le azioni dell’università nei suoi confronti hanno ribadito la radicata politica israeliana di razzismo e colonialismo, che fondamentalmente assoggetta i palestinesi, le loro storie e le loro esperienze per mantenere i privilegi concessi ai colonizzatori.

Abusalama ha detto che durante un precedente incontro con il responsabile delle risorse umane dell’università le è stato espresso rammarico per la cattiva gestione della situazione e l’insensibilità verso il benessere degli studenti, le cui lezioni sono state bruscamente annullate. “Infatti non dimentichiamo che la mia sospensione ha implicato che le lezioni sarebbero state annullate fino a nuova comunicazione e quindi anche i miei studenti sono stati colpiti dal comportamento scorretto e dalla risposta da parte dell’università. Il fatto che riconoscano tutti gli errori commessi è un passo nella giusta direzione, ma l’indagine è ancora in corso, perciò tutto questo non è ancora finito. Essa si basa sulla definizione dell’IHRA e l’università ha parlato alla stampa sionista senza prima consultarmi. Si sono letteralmente arresi alla campagna di diffamazione condotta dai media sionisti, comunicando con loro riguardo al mio lavoro senza parlarmene prima e dicendo loro che la mia università stava indagando su di me, senza che io lo sapessi.”

L’immagine che Israele ha costruito nei decenni contando sull’appoggio colonialista si sta lentamente incrinando, grazie alla maggioranza, come Abusalama definisce i palestinesi e gli oppressi. “La pressione popolare funziona e se noi contrattacchiamo possiamo vincere”, sostiene Abusalama, “grazie a tutta questa ondata di sostegno arrivata da ogni parte del mondo – sostenitori di tutte le nazioni, di tutte le fedi, di tutte le razze in tutto il mondo – e questo sostegno è una carta fondamentale nella lotta per la Palestina. Dobbiamo ricordare che siamo la maggioranza e che abbiamo dalla nostra parte la giustizia, le risoluzioni dell’ONU, il diritto internazionale e tutte le convenzioni internazionali – anche la Corte Internazionale di Giustizia è dalla nostra parte. E lo sono persino le organizzazioni israeliane per i diritti umani.”

Certo, l’ondata di sostegno ad Abusalama sulle piattaforme social contrasta con l’attività della lobby sionista, che conta sulle campagne per intimidire e mettere a tacere. Usare come arma la definizione dell’IHRA, che è abbastanza ambigua da rispondere alla strategia politica suprematista israeliana, è una tattica che dovrebbe essere accuratamente analizzata.

Ci sono stati molti timori che la definizione dell’IHRA potesse essere usata per soffocare le critiche a Israele, in particolare prendendo di mira sia persone di nazionalità che sono direttamente coinvolte con le politiche israeliane, come ad esempio la popolazione palestinese o libanese, sia accademici i cui percorsi di ricerca includono analisi delle politiche israeliane. Altri, al di fuori dell’ambito universitario, si sono preoccupati che l’eliminazione delle critiche ad Israele possa condurre alla “censura e cancellazione dell’opposizione palestinese alla violenza che continua a espropriarli.” A questo punto risulta chiaro che, quando le università adottano la definizione dell’IHRA, ciò comporta una partecipazione diretta all’ostilità sionista nei confronti dei palestinesi e delle voci filopalestinesi. Inoltre essa disprezza la memoria collettiva dei palestinesi e l’esperienza vissuta della perdurante Nakba di Israele.

Se chiedete a qualcuno come me se Israele ha un comportamento razzista, è superfluo dire che lo è. Io sono una vittima della loro pulizia etnica. La mia famiglia è una vittima della loro pulizia etnica – 531 villaggi e città palestinesi completamente spopolati dalle loro popolazioni native e distrutti, cosa che è un atto di memoricidio che è denunciato da molte persone, persino da storici israeliani”, dice Abusalama. “Israele cerca disperatamente di arrogarsi il ruolo di vittima, ma solo per distogliere l’attenzione dalla reale vittima del suo crimine e questo è stato denunciato prima della creazione dello Stato.”

Abusalama sottolinea che all’interno del consiglio per le colonie del governo britannico vi erano degli ebrei che si sono schierati contro la costruzione del giudaismo come identità nazionale. “È stata una grande ingiustizia anche solo pensare di costruire uno Stato sionista in cui i palestinesi sarebbero stati del tutto trascurati e questo avvenne contemporaneamente alle promesse britanniche agli arabi sull’autodeterminazione della Palestina. Cosa che era l’orientamento della potenza mandataria in quell’epoca seguente alla prima guerra mondiale: sosteneva di voler condurre quella popolazione occupata all’indipendenza e all’autonomia. Ma, mentre la maggioranza delle comunità colonizzate nel mondo andava verso la decolonizzazione, i palestinesi rimasero bloccati sotto il colonialismo ed il potere coloniale passò dai britannici ad Israele. La Gran Bretagna lasciò la Palestina il 14 maggio 1948, dopo 30 anni di distruzione e colonialismo di insediamento. Trascorsero poche ore tra il ritiro britannico dalla Palestina e la dichiarazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948. Ciò avvenne sullo sfondo della pulizia etnica che schiacciò e distrusse la terra di Palestina ed il suo popolo. E questo processo continua tuttora a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, nella maggior parte dei quartieri di Gerusalemme, a Beita, Hebron e dovunque, anche nel nord della Palestina. Questo è chiarissimo nei rapporti di B’Tselem che condannano l’apartheid israeliano. Un regime di apartheid che si estende dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.”

In un contesto di prove storiche della pulizia etnica di Israele e delle perduranti ripercussioni dell’ espansione delle sue colonie di insediamento, ora si criminalizza l’attivismo invece di richiamare Israele alle sue responsabilità in base al diritto internazionale.

Dice Abusalama: “Quando noi diciamo ‘Palestina libera dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]’ vogliamo dire che queste prassi oppressive dal fiume al mare e anche oltre, come evidenzia il mio caso, devono finire. Devono finire. Ma persino questo bello slogan di liberazione viene tacciato di antisemitismo. Persino ‘la solidarietà è un verbo’ [altro slogan del movimento filo-palestinese, ndtr.] in questa atmosfera è antisemitismo. È preoccupante e deve preoccupare le persone a cui importa qualcosa dell’umanità e dei diritti umani. Nessuno è al sicuro. Nessuno è al sicuro finché continua l’ingiustizia in tutto il mondo. Basta vedere come Israele usa il suo modello di oppressione contro i palestinesi e lo vende ad altri Stati oppressivi perché lo usino contro i diversi che non vogliono avere sul loro territorio.”

Abusalama è stata categorica nel non accettare alcuna inchiesta basata sulla definizione dell’IHRA. “Non accetterò di essere valutata sulla base di falsi presupposti e credo che questa indagine dovrebbe essere lasciata cadere. Si tratta di una motivazione intrinsecamente razzista e fuorviante, che viene imposta alle università da politici al governo qui nel regno Unito, tagliando loro i fondi se non adottano la definizione dell’IHRA. Gavin Williamson, Ministro dell’Istruzione del Regno Unito, ha imposto alle università la definizione dell’IHRA ed ha addirittura fissato una scadenza entro la quale la mancata adozione della definizione dell’IHRA comporterà la cancellazione dei finanziamenti. Questo è un vulnus all’autonomia universitaria che non può essere accettato, che tu sia palestinese o no. L’ingerenza del governo nelle attività universitarie dimostra quanto sia politico questo strumento della definizione dell’IHRA e quanto sia utile praticamente solo agli interessi britannici, israeliani ed imperialisti.”

Dopo la nostra conversazione Abusalama è stata reintegrata. Il 2 febbraio il sindacato dell’università e del college Hallam di Sheffield ha approvato una mozione che chiede all’università di chiedere pubblicamente scusa, di interrompere ogni indagine contro di lei che sia basata sulla definizione dell’IHRA e di stabilire una sospensione dell’utilizzo della definizione nelle azioni disciplinari dell’università.

Il giorno seguente Abusalama è stata informata dall’università che non verrà condotta alcuna ulteriore indagine. Ora è completamente scagionata dalle false accuse di antisemitismo sollevate contro di lei in base alla definizione dell’IHRA e le è stato offerto un contratto più stabile con l’università.

Ramona Wadi

Ramona Wadi è ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger. I suoi lavori si occupano di una serie di tematiche relative a Palestina, Cile e America Latina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’hasbara di Israele a Sheikh Jarrah: il sasso ‘terrorista’ e la logica distorta di Gilad Erdan

Ramzy Baroud

24 gennaio 2022 – Middle East Monitor

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, sta conducendo la propaganda (hasbara, ndtr.) antipalestinese del suo Paese, impegnandosi questa volta in una propaganda preventiva che anticipa una risposta palestinese alle continue espulsioni nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme est.

Lo riterreste un attacco terroristico se un sasso come questo fosse scagliato contro la vostra macchina mentre state guidando con i vostri figli?”, ha chiesto Erdan al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tenendo in mano la pietra. “Come minimo, condannereste questi brutali attacchi condotti da palestinesi contro civili israeliani?”

Questa logica israeliana è del tutto tipica, laddove i palestinesi oppressi sono descritti come aggressori e l’oppressore Israele – uno Stato razzista di apartheid sotto ogni aspetto – si presenta come vittima che non fa che difendere i propri cittadini.

Ma la logica selettiva di Erdan questa volta è dovuta ad altro. La sua messinscena all’ONU mira esclusivamente a stornare l’attenzione dai continui terribili fatti che avvengono a Sheikh Jarrah e in tutta la Gerusalemme est occupata. Mercoledì 19 gennaio la casa della famiglia palestinese Salhiya è stata demolita da Israele, lasciando senza un tetto 15 persone, in maggioranza bambini.

Pochi giorni prima è avvenuto un fatto straziante sul tetto di quella casa, quando membri della famiglia Salhiya hanno minacciato di darsi fuoco perché angosciati dall’imminente perdita della casa della loro famiglia.

Non abbiamo più niente a Gerusalemme. Questa è pulizia etnica. Oggi tocca a me, domani ai miei vicini. Meglio per noi morire sulla nostra terra con dignità che arrenderci a loro”, ha detto Mahmoud Salhiya, il proprietario della casa, prima di essere dissuaso dai vicini dal darsi fuoco.

A questi tragici eventi si assiste attentamente, anzitutto da parte dei palestinesi, ma anche della gente di tutto il mondo. Se la prassi delle distruzioni israeliane continuerà ci sono probabilità che assisteremo ad un’altra sollevazione popolare. Lo spettacolo di Erdan all’ONU è un disperato gesto di propaganda per dissuadere i membri della comunità internazionale dal criticare Israele.

Ma Israele non riesce a far valere la propria causa, come non è riuscito a difendere la propria terribile violenza contro i palestinesi in tutta la Palestina occupata nel maggio 2021. Persino i tradizionali alleati di Israele esprimono contrarietà verso l’ultima ondata di pulizia etnica a Sheikh Jarrah.

La rappresentante degli USA alle Nazioni Unite ha espresso ‘preoccupazione’ riguardo all’espulsione forzata nel quartiere palestinese. “Per compiere un passo avanti, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese devono evitare mosse unilaterali che esasperano le tensioni e soffocano gli sforzi per far progredire una soluzione negoziata di due Stati”, ha detto Linda Thomas-Greenfield, utilizzando l’usuale linguaggio prudente. Tuttavia Thomas-Greenfield ha proseguito mettendo in guardia contro “le annessioni di territori, l’attività di colonizzazione, le demolizioni e le espulsioni – come quelle che abbiamo visto a Sheikh Jarrah.”

Il 19 gennaio anche il deputato repubblicano USA Mark Pocan ha duramente criticato la decisione di Israele di espellere con la forza la famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah.

La scorsa notte, con la complicità del buio e di un freddo pungente, le abitazioni della famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah, Gerusalemme, sono state distrutte dalle forze israeliane, lasciando senza casa 15 persone. Ciò non è accettabile e deve finire”, ha twittato Pocan, aggiungendo il popolare hashtag # Savesheikhjarrah.

Da parte sua l’inviato speciale dell’ONU per il Medio Oriente, Tor Wennsland, ha duramente condannato l’espulsione della famiglia palestinese da parte delle autorità occupanti israeliane.

Chiedo alle autorità israeliane di porre fine agli sfratti ed alle espulsioni dei palestinesi, in base ai loro obblighi previsti dal diritto internazionale, e di approvare nuovi programmi che consentirebbero alle comunità palestinesi di costruire legalmente e di provvedere alle proprie necessità di sviluppo”, ha detto Wennsland, secondo quanto riportato sul sito web dell’ONU.

Torniamo allo spettacolo di Erdan, quando ha presentato il ‘terrorismo’ palestinese mostrando la presunta prova schiacciante di un sasso.

Va detto che criticare o difendere la resistenza palestinese, anche simbolica, permette ad Israele di impostare un dibattito fuorviante e futile, che crea un’equivalenza morale tra l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato.

Che i palestinesi usino una pietra, un fucile o un pugno per resistere e difendersi, la loro resistenza è moralmente e legalmente giustificata. Israele invece, come tutti gli altri occupanti militari e colonialisti, non ha argomenti né morali né legali per giustificare la sua oppressione sui palestinesi, la distruzione delle loro case – come quella della famiglia Salhiya – e l’uccisione dei loro figli.

A giudicare dalla crescente solidarietà con i palestinesi dovunque, è chiaro che il patetico spettacolo di Erdan è solo un ulteriore esercizio di futilità politica.

Nulla di ciò che Israele può dire o fare potrà alterare la realtà lampante del fatto che una nuova generazione di palestinesi sta riunificando ancora una volta la narrazione palestinese, in particolare riguardo alla resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Sia che l’oppressione israeliana avvenga a Sheikh Jarrah, a Gaza o nel deserto del Negev, ora i palestinesi rispondono in modo collettivo, come un unico corpo politico. Grazie alla rivolta del maggio 2021 sono finiti i tempi in cui i palestinesi vengono scacciati dalle loro case nel cuore della notte come fosse una consuetudine senza conseguenze.

Inoltre sta cambiando il linguaggio politico usato per descrivere gli eventi in Palestina in ambito internazionale. Il ‘diritto di Israele di difendersi’ non è più la reazione automatica che spesso viene adottata per descrivere la violenza israeliana e la resistenza palestinese.

Infine sembra che Israele non sia più la parte che determina gli eventi in Palestina e controlla la narrazione ad essi relativa. I palestinesi ed un crescente movimento internazionale di loro sostenitori stanno attivamente dando forma alla percezione globale della realtà sul campo. Né Erdan né i suoi capi a Tel Aviv possono ribaltare questo slancio a guida palestinese. Il suo intervento all’ONU non fa che rispecchiare il grado di disperazione e fallimento intellettuale di Israele e dei suoi rappresentanti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La lobby filoisraeliana nel Regno Unito prende di mira una ricercatrice palestinese

Nora Barrows-Friedman

22 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Un’università britannica ha sospeso dall’insegnamento una dottoranda in seguito a una campagna di calunnie da parte dei sostenitori di Israele.

Shahd Abusalama, da molto tempo attivista e collaboratrice di The Electronic Intifada, è una studentessa di dottorato presso l’Hallam University di Sheffield.

Abusalama ha scritto della sua esperienza nella Striscia di Gaza, dove è nata e cresciuta sotto l’occupazione, l’assedio e gli attacchi militari israeliani.

Ha anche scritto del terrore quando si è trovata separata dalla sua famiglia a Gaza mentre questa si trovava sotto i bombardamenti israeliani nel 2014 [operazione Margine protettivo, ndtr.].

La campagna contro di lei ricorda la strategia utilizzata lo scorso anno per colpire David Miller, docente dell’università di Bristol. Miller è stato licenziato nonostante sia stato scagionato da ogni accusa di fanatismo antiebraico da due inchieste indipendenti commissionate dall’università di Bristol.

Recentemente Abuslama era stata assunta come lettrice associata presso la Hallam University di Sheffield, nel nord dell’Inghilterra.

Si stava preparando a tenere la sua prima lezione il 21 gennaio, quando la sera prima un funzionario l’ha informata che la sua lezione era stata annullata e che i suoi studenti sarebbero stati avvertiti.

L’impiegato ha affermato che una denuncia aveva provocato un’indagine e che, in base alle norme dell’università, non le sarebbe stato consentito di insegnare finché questa non si fosse conclusa.

In passato Abusalama ha subito ripetuti attacchi da associazioni e pubblicazioni antipalestinesi.

Lei e la sua famiglia sono rifugiati palestinesi che nel 1948 subirono la pulizia etnica e furono espulsi dalle loro case in quella che è ora Israele dalle milizie sioniste. Come a tutti gli altri profughi palestinesi, Israele vieta loro di tornare al luogo d’origine in quanto non ebrei.

Abusalama è un’importante attivista per i diritti dei palestinesi fin dal suo arrivo nel Regno Unito come studentessa. è stata una militante contro l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA, che confonde erroneamente le critiche a Israele con il fanatismo antiebraico, e nel 2019 per il boicottaggio dell’Eurovision [che quell’anno si tenne in Israele, ndtr.].

La controversa definizione dell’IHRA è regolarmente utilizzata dalle associazioni della lobby filo-israeliana per calunniare e censurare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Abusalama ha affermato che il suo attivismo in queste due campagne è stato al centro di attacchi da parte di organizzazioni e pubblicazioni della lobby filo-israeliana.

Ha detto a Electronic Intifada che le ultime calunnie sono iniziate a dicembre, quando Jewish News [settimanale gratuito che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] e l’associazione della lobby filo-israeliana Campaign Against Antisemitism [Campagna contro l’Antisemitismo] l’hanno accusata di promuovere l’ostilità nei confronti degli ebrei.

In precedenza Joe Glasman, capo delle “inchieste politiche” di Campaign Against Antisemitism, nel 2019 si è attribuito a nome dell’associazione il merito della sconfitta elettorale del partito Laburista, allora guidato da Jeremy Corbyn. In seguito alla sconfitta Corbyn annunciò che avrebbe dato le dimissioni da leader del partito.

La bestia è stata uccisa,” si rallegrò Joe Glasman in un video che in seguito cercò di togliere da Internet. Il video diceva che Corbyn era stato “massacrato”.

Sostenitore dei diritti dei palestinesi, Corbyn, insieme ai suoi militanti di base, è stato bersaglio di una campagna di calunnie durata anni che lo accusava falsamente di antisemitismo.

Glasman ha sostenuto che lui e i suoi collaboratori hanno colpito Corbyn con una campagna coordinata utilizzando metodi che includevano “nostre spie e intelligence”.

Il direttore esecutivo della Campaign Against Antisemitism, Gideon Falter, è vicepresidente del Jewish National Fund UK [Fondo Nazionale Ebraico-UK], che raccoglie fondi per i progetti di colonizzazione israeliani su terre palestinesi. Resoconti sul JNF UK mostrano che fornisce sostegno finanziario per campagne di reclutamento nell’esercito israeliano e per Ein Prat, un’associazione che organizza corsi di addestramento per nordamericani che si arruolano in quell’esercito.

Affermazioni false

Queste accuse in malafede da parte di sostenitori del colonialismo di insediamento israeliano sono chiari tentativi di perseguitare e intimidire attivisti e accademici come Abusalama in modo da farli tacere.

Abusalama ha solo scoperto che l’università potrebbe aver indagato i suoi post sulle reti sociali leggendo le calunnie di Campaign Against Antisemitism e del Jewish News.

Lei afferma che l’università non si è messa in contatto con lei né le ha dato la possibilità di smentire le affermazioni diffamatorie.

Poi, il 19 gennaio, il Jewish Chronicle, nota pubblicazione antipalestinese con una lunghissima storia di calunnie, diffamazioni e denigrazioni, ha scritto una mail ad Abusalama, informandola che intendeva pubblicare un articolo sulla sua assunzione come lettrice.

Jewish Chronicle ha elencato una selezione dei suoi post sulle reti sociali che intendeva includere nell’articolo.

Abusalama ha risposto, spiegando il contesto di ogni post sulle reti sociali e aggiungendo di essere consapevole che le intenzioni della pubblicazione erano di diffamarla ulteriormente e intimidirla per proteggere Israele dalle critiche.

Sabato [22 gennaio] il Jewish Chronicle non aveva ancora pubblicato l’articolo.

Legittimare attacchi razzisti

Non è ancora chiaro chi o quale associazione abbia presentato la protesta che ha provocato la sua sospensione dall’insegnamento. Abusalama afferma che l’università non le ha ancora fornito alcuna informazione. Ma definisce vergognoso che l’università abbia legittimato gli attacchi considerando

la denuncia credibile e degna di un’indagine.

Abusalama afferma di essere sconvolta per il fatto che “l’università abbia dato retta e risposto a simili pubblicazioni razziste ed abbia confermato loro che avrebbe indagato sul mio conto senza prendere prima contatto con un membro della sua stessa comunità.”

I danni all’immagine provocati da pubblicazioni razziste come quelle sono una priorità più di quanto lo sia il dovere di salvaguardare i membri della propria comunità,” aggiunge.

Frattanto nelle caselle di posta elettronica dell’amministrazione stanno affluendo lettere di sostegno che chiedono che l’università protegga il lavoro di Abusalama e comprenda le ragioni politiche e razziste delle calunnie. Il sindacato dell’università e del college si sta mobilitando in sua difesa.

Non sono la prima e non sarò l’ultima ad essere presa di mira,” afferma. “È per questo che è fondamentale la resistenza contro di loro, per non consentirgli di continuare a diffondere stereotipi sui palestinesi come antisemiti solo perché osano sognare la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il loro popolo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Jewish National Fund sospende la messa a dimora di alberi nel Negev israeliano dopo giorni di scontri con i beduini

Michael Hauser Tov, Josh Breiner, Deiaa Haj Yahia, Jack Khoury, Anshel Pfeffer

12 gennaio 2022 – Haaretz

Il partito Islamico minaccia di boicottare per protesta le votazioni nella Knesset mentre il Jewish National Fund pianta alberi su terreni agricoli dei contadini beduini locali. Sulle fasi future del progetto di forestazione si negozierà

Mercoledì il governo israeliano ha detto che in futuro i lavori del Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.]  nel Negev verranno negoziati dagli alleati della coalizione per tentare di allentare le tensioni dopo giorni di violenti scontri a causa dei lavori di forestazione su terre coltivate dai beduini locali.

La messa a dimora di alberi del JNF iniziata lunedì è finita come previsto mercoledì.

Meir Cohen, ministro laburista che guida la politica governativa nei villaggi beduini non riconosciuti del Negev, ha detto che la prossima fase dei lavori del JNF inizierà giovedì. La data per la continuazione del progetto deve ancora essere fissata.

Il piano di forestazione del JNF è particolarmente significativo per la Lista Araba Unita, partito di cui i beduini costituiscono una parte consistente del bacino elettorale. Uno dei suoi parlamentari ha minacciato di boicottare il voto sul progetto nella Knesset.

Anche prima della formazione dell’attuale governo i beduini della zona avevano detto che i lavori riguardano zone da loro coltivate e avevano richiesto l’interruzione del piano.

Almeno 10 persone sono state arrestate mercoledì durante scontri con la polizia, che ha rafforzato la propria presenza nei pressi del villaggio non riconosciuto di Sawa, il giorno dopo che più di una decina di dimostranti vi erano stati arrestati e due agenti erano stati feriti. Sul posto la polizia di frontiera si è unita alla polizia, alle forze speciali di polizia e a altre unità che e sono state schierate anche in un villaggio vicino.

Hussein Irfaiya, leader della comunità, ha detto ad Haaretz che durante la piantumazione la polizia ha impedito l’accesso alla zona ad abitanti, attivisti e loro sostenitori. Le scaramucce sono continuate mentre le persone che si trovavano sul posto hanno lanciato pietre contro i le forze dell’ordine che hanno risposto con granate stordenti.

Il JNF progetta di piantare a foresta 5.000 dunam (500 ettari) di terreni lungo il corso dell’Anim che sfocia nel Be’er Sheva. La prima fase del progetto include la preparazione e la piantumazione di 300 dunam (30 ettari) che i contadini beduini avevano seminato a grano appena un mese fa.

Leader politici e attivisti hanno condanno il piano poiché minaccia la sopravvivenza delle famiglie dei beduini del posto.

Crisi nella coalizione

Mentre avvenivano i disordini nel Negev, Walid Taha, membro della Knesset appartenente al partito della Lista Araba Unita [coalizione arabo-israeliana di orientamento islamista, ndtr.], ha detto a radio Alshams che lasciare la coalizione, cosa che comporterebbe la caduta del governo, “è sempre un’opzione, ma il problema è in che modo avvantaggerebbe il nostro pubblico, viste le alternative.”

La Lista Araba Unita fa parte della coalizione governativa e sebbene Taha ammetta che quanti nella coalizione e nel gabinetto vorrebbero sostituire il partito islamico e vederlo all’opposizione al momento non hanno alternative.

Mazen Ghanayim, suo collega di partito, ha dichiarato in un post su Facebook che si opporrà al governo fino a quando non cesserà tutti i lavori agricoli nel Negev. “Non esiste che gli diamo un governo e che loro non ci lascino vivere con dignità sulle nostre terre,” ha scritto riferendosi al cruciale sostegno che la Lista Araba Unita dà alla coalizione. “Il Negev è la mia casa. Il Negev è la mia famiglia. Il Negev è la linea rossa,” ha aggiunto. 

Itamar Ben-Gvir, parlamentare del partito kahanista [cioè razzista, ndtr.] religioso sionista, mercoledì mattina ha twittato che si stava recando sul posto. Anche se è un anno shmita, o anno sabbatico, in cui è proibito lavorare la terra, Ben-Gvir ha scritto di aver ottenuto da un importante rabbino favorevole ai coloni il permesso di piantare alberi per “salvare il sud.”

“Insieme faremo fiorire il deserto,” ha aggiunto, citando la famosa frase di David Ben-Gurion sul Negev. 

Chi si trovava sul posto ha riferito che quando Ben-Gvir è arrivato è stato mandato via dal sito della forestazione dalle autorità. Ha piantato un solo albero lontano da Sawa e dalle proteste e ha lasciato la zona. 

Il ministro laburista Cohen è intervenuto per allentare le tensioni e ha fatto notare che “a parte il diritto fondamentale dello Stato di piantare sui suoi terreni, è importante farlo responsabilmente e dobbiamo rivalutare il caso della forestazione.”   

“Imploro tutti i politici di tutti i partiti di agire responsabilmente, di non attizzare il fuoco della discordia e di non ostacolare il processo di riconoscimento dei villaggi non riconosciuti,” ha detto.

Martedì il ministro degli esteri Yair Lapid ha chiesto l’interruzione dei lavori. “Come il governo di Netanyahu ha interrotto i lavori di forestazione nel 2020, anche noi possiamo fermarli e ripensarci,” ha twittato Lapid martedì. 

Rabbia contro lo Stato

Salameh al-Atrash, la cui famiglia abita nella zona, ha detto ad Haaretz: “Cosa vi aspettate da un giovane a cui distruggono la casa lasciandolo senza un tetto sulla testa: che stia lì a guardare? Siamo vissuti qui per oltre 100 anni, perché ci dovrebbero cacciare?” 

Ha aggiunto che la dimostrazione di forza da parte dello Stato sta alimentando l’odio contro le autorità da parte dei giovani della zona. Muhammad Abu Sabit, dello stesso villaggio, è d’accordo e aggiunge che secondo lui lo Stato non vuole piantare alberi nel Negev, lo definisce piuttosto un tentativo di “pulizia etnica”.

“Noi viviamo in pace con le famiglie ebree e abbiamo un sacco di amici qui, ma sono lo Stato e il governo con le loro politiche a dividerci,” dice Abu Sabit. “In tutto il Negev ci sono migliaia di dunam disabitati e loro si concentrano solo sulle nostre case, su poche centinaia di metri [di terra].”

Talib Al-Atawna, un altro abitante, ha riferito che la polizia si è comportata violentemente con loro e che pallottole di gomma sono entrate nelle loro case. Per come la vede lui non ci sono membri arabi nella Knesset: “Noi non voteremo per nessun partito arabo e soprattutto non per Mansour Abbas’ ([leader della] Lista Araba Unita).”

Durante le proteste di lunedì 18 ragazzi fra i 13 e i 15 anni sono stati arrestati con l’accusa di aver lanciato pietre contro le forze dell’ordine e due ufficiali sono stati feriti lievemente dalle pietre lanciate dai manifestanti.

Nel frattempo un gruppo di circa 20 manifestanti ha assalito Nati Yefet, un reporter di Haaretz che stava seguendo gli eventi. Uno degli aggressori gli ha rubato e incendiato la macchina mentre gli altri lo picchiavano. È riuscito a fuggire ed è stato salvato dalla polizia. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza [interno israeliano, ndtr.] sta indagando sul caso così come sulle pietre trovate sulle rotaie del treno nella zona.   

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)