Opporsi alla frammentazione per valorizzare l’unità: la nuova rivolta palestinese

Yara Hawari 

29 giugno 2021 – Al Shabaka

La rivolta palestinese in corso nella Palestina colonizzata contro il regime colonialista israeliano non è cominciata a Sheikh Jarrah, il quartiere palestinese di Gerusalemme dove gli abitanti rischiano un’imminente pulizia etnica. Senz’altro la minaccia di sfratto delle otto famiglie ha catalizzato questa mobilitazione popolare di massa, ma, in ultima analisi, questa rivolta è un capitolo della lotta condivisa dai palestinesi contro il colonialismo sionista durata oltre 70 anni.

Questi decenni sono stati caratterizzati da continui sfratti, furti di terre, incarcerazioni, oppressione economica e la brutalizzazione dei corpi dei palestinesi. I palestinesi sono anche stati sottoposti a un processo intenzionale di frammentazione non solo geografico, in ghetti, bantustan e campi profughi, ma anche sociale e politico. Infatti l’unità che abbiamo visto negli ultimi due mesi, durante i quali i palestinesi in tutta la Palestina colonizzata, ma non solo, si sono mobilitati in una lotta a sostegno di Sheikh Jarrah, ha sfidato questa frammentazione, sorprendendo allo stesso modo il regime israeliano e la leadership politica palestinese. Una mobilitazione popolare di queste dimensioni non si era vista in decenni, neppure durante l’amministrazione Trump, sotto la cui egida ci sono stati il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, gli accordi di normalizzazione fra Israele e vari Stati arabi e un’ulteriore accelerazione delle pratiche colonialiste del sionismo.

Oltre alla mobilitazione nelle piazze, i palestinesi hanno usato forme creative di resistenza contro il loro assoggettamento. Queste includono la rivitalizzazione delle campagne della società civile per salvare dalla distruzione e dalla pulizia etnica i quartieri palestinesi di Gerusalemme, danni inferti all’economia del regime israeliano e il continuo coinvolgimento di un mondo globalizzato con chiari messaggi che invocano libertà e giustizia per i palestinesi. 

Gerusalemme: un catalizzatore dell’unità

Per decenni gli abitanti di Sheikh Jarrah, come quelli di moltissime comunità, hanno rischiato l’espulsione e la pulizia etnica. Infatti a Sheikh Jarrah i palestinesi sono impegnati da tempo in battaglie legali contro il regime di Israele nel tentativo di bloccare gli sfratti che servono all’obiettivo finale di Israele di ‘giudaizzare’ completamente Gerusalemme

Verso al fine di aprile 2021, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto i ricorsi di abitanti di Sheikh Jarrah contro quello che i giudici definiscono lo “sfratto” di otto famiglie, ordinando loro di sgombrare le case entro il 2 maggio 2021. Per opporsi a questo ordine e per salvare il quartiere dalla pulizia etnica, le famiglie si sono affidate alla campagna del movimento di base “Salvate Sheikh Jarrah”. La campagna, che ha di recente guadagnato in popolarità grazie ai social, ha attratto una massiccia partecipazione locale e anche l’attenzione internazionale, non ultimo perché riassume in sé l’esperienza palestinese della spoliazione. Ha quindi dato slancio ad altre campagne per “salvare” dalla pulizia etnica e dalla colonizzazione altre zone in Palestina, come Silwan [altro quartiere di Gerusalemme est, ndtr.], Beita [nei pressi di Nablus, ndtr.] e Lifta [periferia est di Gerusalemme, ndtr.].

Durante gli ultimi due mesi i palestinesi della Palestina colonizzata, inclusi gli abitanti di Haifa, Giaffa e Lydda [Lod in ebraico, ndtr.] con cittadinanza israeliana, hanno protestato per sostenere la lotta condivisa di Sheikh Jarrah. Queste rivolte e dimostrazioni hanno attirato una repressione violenta da parte del regime israeliano, una reazione che non è né senza precedenti né inaspettata. Infatti durante le proteste della Seconda Intifada le forze del regime israeliano avevano ucciso 13 cittadini palestinesi nel corso della repressione più micidiale dalla Giornata della Terra del 1976. In tutta questa continua rivolta, la violenza delle forze del regime è stata accompagnata da quella dei coloni israeliani armati che hanno attaccato e linciato cittadini palestinesi, effettuato incursioni e distrutto case, veicoli e attività economiche dei palestinesi. 

Tuttavia sono stati i vari giorni di proteste presso il complesso della moschea di al-Aqsa a dominare i media internazionali, specialmente perché nel 2017 questo era stato il luogo di manifestazioni di massa vittoriose contro le barriere elettroniche collocate all’ingresso del complesso. Anche queste ultime proteste a metà maggio hanno dovuto affrontare una repressione violenta da parte delle forze di sicurezza israeliane che hanno fatto irruzione nel complesso, ferendo centinaia di fedeli palestinesi con proiettili di ferro ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti.

Dopo l’assalto e i costanti tentativi di pulizia etnica del regime israeliano nella Gerusalemme palestinese, il governo di Hamas a Gaza ha contrattaccato lanciando razzi. Israele ha risposto con più di dieci giorni di pesanti bombardamenti contro Gaza, con un totale di 248 vittime, inclusi 66 minori. Nonostante le affermazioni del regime israeliano che sostiene di aver preso di mira solo le infrastrutture militari di Hamas, sono stati distrutti vitali infrastrutture civili, interi edifici residenziali e persino la torre che ospitava i media. Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato che questi bombardamenti su Gaza potrebbero essere classificati come crimini di guerra. 

Danneggiare l’economia del regime israeliano

Mentre Gaza era sotto attacco nel resto della Palestina colonizzata continuava la mobilitazione dei movimenti di base. Il 18 maggio i palestinesi hanno indetto uno sciopero generale, probabilmente una delle più grandi manifestazioni di unità da anni. Hanno subito aderito l’High Follow-up Committee for Arab Citizens of Israel [Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, organismo extraparlamentare che rappresenta i cittadini arabi di Israele a livello nazionale, ndtr.] e successivamente l’Autorità Palestinese (ANP) in Cisgiordania. Ma sono stati i movimenti di base ad assumere il controllo della comunicazione, attraverso varie dichiarazioni in arabo e inglese, invitando a un’ampia partecipazione e sollecitando il sostegno internazionale: “Chiediamo il vostro appoggio per continuare questo momento di resistenza popolare senza precedenti, partito da Gerusalemme ed esteso in tutto il mondo,” si leggeva in una dichiarazione. 

Lo sciopero è stato organizzato in risposta agli attacchi contro Gaza e alla rivolta per le strade di Gerusalemme. Ha raccolto una vasta partecipazione ed è stato particolarmente importante per i palestinesi con cittadinanza israeliana che ancora una volta hanno ribadito il loro legame e la condivisione della lotta con i palestinesi di Gaza e Gerusalemme. Comunque è stata anche una tattica per danneggiare in modo efficace l’economia israeliana. I palestinesi con cittadinanza israeliana, il 20% della popolazione di Israele, costituiscono una larga fetta della forza lavoro; per esempio, il 24% degli infermieri e il 50% dei farmacisti sono palestinesi. 

Anche il settore dell’edilizia israeliana è composto per la maggior parte da palestinesi, prevalentemente provenienti dalla Cisgiordania, ma anche da cittadini palestinesi di Israele. Il giorno dello sciopero hanno partecipato quasi tutti i lavoratori manuali, causando una completa sospensione delle industrie per l’intera giornata. Anche i sindacati si sono uniti in previsione dello sciopero esortando i sindacati internazionali a mostrare solidarietà con loro e a intervenire contro l’oppressione israeliana. Questo tipo di sostegno si è visto, alcuni giorni prima dello sciopero, fra i portuali di Livorno che hanno rifiutato di caricare sulle navi armi ed esplosivi israeliani, dichiarando: “Il porto di Livorno non sarà complice nel massacro del popolo palestinese.” 

Le proteste sono continuate nei giorni successivi allo sciopero, anche se su scala minore e con meno attenzione da parte dei media. Ciononostante lo sciopero ha acceso una scintilla e l’attenzione sull’oppressione economica è diventata un tema della mobilitazione. Varie settimane dopo, e sulla base del successo dello sciopero, è stata annunciata una campagna per promuovere il potere d’acquisto dei palestinesi. Denominato “Settimana dell’economia palestinese”, l’evento sottolineava che, nonostante la morsa economica con cui il regime israeliano soffoca i palestinesi, essi hanno un potere di acquisto collettivo. Tutto ciò ricorda molto la Prima Intifada, quando misure popolari, come il movimento cooperativo e la richiesta di boicottare i prodotti israeliani, sfidarono l’assoggettamento economico e la dipendenza dal regime israeliano. 

Il progetto colonialista sionista ha intenzionalmente soggiogato l’economia palestinese distrutta dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e dalla successiva occupazione di terra palestinese. Mentre il regime sionista conquistava la maggior parte dei settori produttivi e agricoli, escludeva i palestinesi da quasi tutte le aree della nuova economia. Dopo la guerra del 1967, che ha portato questi territori sotto occupazione militare israeliana, questa situazione si è estesa alla Cisgiordania e a Gaza.

 Agli inizi degli anni ’90 una serie di accordi di “pace” durante gli Accordi di Oslo hanno portato ai palestinesi un ulteriore assoggettamento economico, passando di fatto il controllo diretto ed indiretto della loro economia al regime israeliano. Gli accordi hanno anche accentuato la loro frammentazione sociale in Cisgiordania e a Gaza. Mentre alcuni sostenevano che i protocolli economici avrebbero portato prosperità a tutti, in realtà, hanno alimentato il clientelismo capitalista palestinese, espandendo il divario economico e le divisioni fra classi sociali. 

La Settimana dell’Economia Palestinese ha incoraggiato varie attività nella Palestina colonizzata, da Haifa a Ramallah e altrove, promuovendo la produzione e i prodotti palestinesi locali al posto di quelli israeliani che hanno monopolizzato il mercato con la loro abbondanza e la competitività dei prezzi. La Settimana ha così proposto, in alternativa alla dominazione coloniale capitalista, una concetto più olistico, dato che la liberazione economica è un aspetto chiave nel quadro di una più ampia lotta di liberazione nazionale.

Comprendere l’unità nell’Intifada dell’Unità

Il 21 maggio, dopo il “cessate il fuoco” fra Israele e Hamas, è venuta meno l’attenzione dei media internazionale per la rivolta e da allora le inevitabili discussioni sulla ricostruzione di Gaza dominano i notiziari. Nonostante le enormi distruzioni e le vittime a Gaza, molti palestinesi considerano il risultato una vittoria di Hamas. 

È comunque importante sottolineare che la rivolta, cominciata prima del bombardamento di Gaza, va oltre Hamas e la sua narrazione della vittoria. Come mi ha fatto notare un collega palestinese di Gaza: “Questa volta, a Gaza, è sembrato diverso. Questa volta ci è sembrato di non essere soli”. Infatti, data la mobilitazione di massa in tutta la Palestina colonizzata e la ripresa dei legami con i movimenti di base, seppure in presenza di una frammentazione forzata, questa nuova rivolta è stata soprannominata: “Intifada dell’Unità.”

Nel periodo dello sciopero è stato pubblicato online un documento, intitolato “Manifesto della dignità e speranza dell’Intifada dell’Unità”, che respinge questa frammentazione forzata:

Noi siamo un unico popolo e un’unica società in tutta la Palestina. Le bande sioniste hanno cacciato con la forza la maggior parte del nostro popolo, rubato le nostre case e demolito i nostri villaggi. Il sionismo era determinato a creare una divisione tra chi restava in Palestina, a isolarci in frammenti geografici e trasformarci in società differenziate e disperse, affinché ogni gruppo vivesse in una grande prigione separata. Ecco come il sionismo ci controlla, disperde la nostra volontà politica e ci impedisce una lotta unitaria contro il sistema razzista colonialista in Palestina.”

Il manifesto dettaglia i vari frammenti geografici del popolo palestinese: la “prigione Oslo” (Cisgiordania), la “prigione della cittadinanza” (terre occupate nel 19481), il brutale assedio di Gaza, il sistema di ‘giudaizzazione’ a Gerusalemme e quelli che vivono un esilio permanente. L’imposizione sulla Palestina di questa geografia colonizzata, caratterizzata da muri di cemento, checkpoint, comunità chiuse di coloni e recinzioni di filo spinato ha costretto i palestinesi a vivere in frammenti separati e isolati l’uno dall’altro. 

 Come fa notare il manifesto, ciò non è successo inevitabilmente o per caso. Al contrario, questa politica intenzionale di ‘divide et impera’ è stata implementata dal regime sionista per minare la lotta anticolonialista di una Palestina unita. Ma i palestinesi non sono rimasti passivi. Nel corso degli anni molti movimenti di base hanno cercato di interrompere la frammentazione, inclusi i vari movimenti giovanili di protesta, come la richiesta del 2011 di unità politica fra la Cisgiordania e Gaza, le dimostrazioni contro Prawer [progetto per deportare i beduini del sud di Israele in campi chiusi, ndtr.] nel 2013 contro la politica israeliana di pulizia etnica dei beduini nel Naqab e la campagna per togliere le sanzioni contro Gaza imposte dall’ANP. 

Più recentemente gruppi di donne palestinesi hanno fondato Tal’at, un movimento femminista radicale che mira, fra altre cose, a trascendere questa divisione geografica affermando che la liberazione della Palestina è una lotta femminista. Quest’ultima componente dell’unità palestinese è una conseguenza di questi continui sforzi per rivitalizzare una lotta palestinese condivisa.

Eppure, internazionalmente, molti non sono riusciti a capirlo. Anzi, la violenza che si stava consumando nei territori del 1948 è stata spesso erroneamente definita come violenza comunitaria, quasi una guerra civile fra ebrei e arabi, una definizione che separa nettamente i cittadini palestinesi in Israele dai palestinesi a Gaza e Gerusalemme. Questa valutazione non descrive la realità dell’apartheid, in cui gli ebrei israeliani e i cittadini palestinesi in Israele vivono vite totalmente separate e ineguali. 

Infatti, questa è l’eredità di una tendenza vecchia di decenni di fare riferimento ai palestinesi con cittadinanza israeliana come “arabi israeliani” tentando di separarli dalla loro identità palestinese. Nei casi migliori la loro situazione è descritta nell’informazione mainstream come il caso non eccezionale di un gruppo minoritario che subisce la discriminazione della maggioranza ebrea, invece di sopravvissuti autoctoni della pulizia etnica del 1948 che continuano a resistere all’annientamento da parte dei coloni. L’incapacità di riconoscere le recenti proteste nei territori del 1948 come una parte specifica di una rivolta di palestinesi uniti è particolarmente notevole se si prende in considerazione l’aspetto estetico: la maggior parte delle dimostrazioni era caratterizzata da una marea di bandiere palestinesi e gli slogan di protesta chiaramente palestinesi.

Anche Gaza è stata lentamente separata dalla lotta palestinese nelle descrizioni mainstream, discussa come un problema completamente separato da quello del resto della Palestina colonizzata. I continui bombardamenti del regime israeliano sono quasi sempre spiegati come una guerra fra Israele e Hamas, un’interpretazione distorta che deliberatamente ignora il fatto che anzi Gaza è il fulcro della lotta palestinese, come sostiene Tareq Baconi [politologo e membro della direzione di Al Shabaka, ndtr.].

Unità contro tutte le aspettative

Se le dimensioni della mobilitazione e la portata della partecipazione popolare a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane sono state imponenti, il costo di questa rivolta è stato e continua ad essere alto. Oltre alla brutalità a Gaza, i palestinesi altrove nella Palestina colonizzata sono stati vittime di violenza efferata e arresti. Nelle ultime settimane, in seguito a operazioni di “legge e ordine” condotte dal regime israeliano i cittadini palestinesi di Israele, quasi tutti giovani operai, sono stati arrestati. Il regime israeliano usa questi arresti di massa come forma di punizione collettiva per intimidire e terrorizzare le comunità.  

In Cisgiordania l’ANP collabora ancora con il regime israeliano nel coordinamento per la sicurezza e ha arrestato vari attivisti coinvolti nelle proteste. Tali arresti, specialmente di coloro che criticano l’’ANP, non sono cosa nuova e seguono uno schema di repressione politica sia in Cisgiordania che a Gaza. Infatti il 24 giugno 2021 le forze di sicurezza dell’’ANP hanno arrestato e picchiato a morte Nizar Banat, un attivista molto conosciuto e critico del regime. Da allora in Cisgiordania sono scoppiate dimostrazioni per chiedere la fine del governo di Mahmoud Abbas, presidente dell’’ANP. Le proteste sono state accolte con violenza bruta e repressione, ma questo comportamento non sorprende. L’’ANP è tristemente nota per i suoi abusi di potere tramite questo tipo di violente intimidazioni.

Durante la rivolta in Cisgiordania, dominata da Fatah, l’’ANP è stata totalmente messa da parte in particolare di fronte alla narrazione della vittoria di Hamas. Ma oltre alla crescente irrilevanza dell’’ANP e la lotta per legittimità e potere fra i due partiti palestinesi dominanti, questa rivolta rivela qualcosa d’altro. Mostra che i movimenti di base e una leadership decentralizzata possono svilupparsi organicamente e al di fuori di istituzioni politiche corrotte. Ha anche fatto vedere che i palestinesi desiderano fortemente una mobilitazione unificata.

Lo slancio della rivolta continua e la sensazione di unità cresce nonostante la diminuzione dell’attenzione dei media e a livello internazionale. Qualcosa è infatti cambiato: i palestinesi invocano una narrazione condivisa e lottano dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. Riconoscono così di trovarsi a fronteggiare un unico regime di oppressione anche se si manifesta in modi differenti nelle comunità palestinesi frammentate. Sostanzialmente, questa rivolta, come quelle che l’hanno preceduta, ha ribadito che nel popolo risiede il potere tramite il quale la liberazione palestinese deve essere ottenuta e lo sarà.

  1. Questo è spesso descritto dai politici internazionali come “Israele vero e proprio” e ritenuto differente dalla colonizzazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.

Yara Hawari è analista senior di Al-Shabaka, la Rete Politica Palestinese. Ha conseguito un dottorato in Politiche del Medio Oriente presso l’università di Exeter, dove ha insegnato ed è tuttora ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico focalizzato su studi indigeni e storia orale, è anche un’assidua commentatrice politica per varie testate, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera in inglese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




‘Questo non è un conflitto: questo è apartheid’: più di 16.000 artisti firmano una lettera di solidarietà con la Palestina

Michael Arria

14 giugno 2021 – Mondoweiss

Più di 16.000 artisti, centinaia dei quali palestinesi, sei vincitori dell’Academy Award e otto scrittori vincitori del Premio Pulitzer, hanno firmato una lettera in cui si denuncia il sistema di apartheid israeliano e si sollecitano i Paesi a “interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali.”

Più di 16.000 artisti hanno firmato una lettera che condanna il recente attacco israeliano contro Gaza e denuncia il sistema di apartheid del Paese. La lettera inoltre invita altri Paesi a “interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali” con Israele.

Con il titolo “Una lettera contro l’apartheid”, il testo è stato scritto da sei artisti palestinesi che hanno chiesto di restare anonimi. Inizialmente è stata firmata da centinaia di artisti palestinesi, compresi i registi Annemarie Jacir, Elia Suleiman, e Farah Nabulsi; gli artisti figurativi Emily Jacir e Larissa Sansour; l’attrice Hiam Abbas; le musiciste Kamilya Jubran e Sama’ Abdulhadi; gli scrittori Elias Sanbar, Mohammed El-Kurd, Naomi Shihab Nye, Raja Shehadeh, Randa Jarrar, Suad Amiry e Susan Abulhawa.

In seguito artisti di tutto il mondo hanno firmato in sostegno al documento. Tra i sostenitori vi sono sei registi e attori vincitori dell’ Oscar: Alejandro Iñárritu, Asif Kapadia, Holly Hunter, Mike Leigh, Jeremy Irons, Julie Christie, Thandiwe Newton, Viggo Mortensen, Brian Cox, Michael Moore, Alia Shawkat, e Susan Sarandon; otto scrittori, poeti e drammaturghi vincitori del Premio Pulitzer: Benjamin Moser, Hisham Matar, Richard Ford, Viet Thanh Nguyen, Tyehimba Jess, Annie Baker, Lynn Nottage e Tony Kushner; molti altri, compresi Brian Eno, Angela Davis, Roger Waters, Cypress Hill, Ta-Nehisi Coates e Robert Wyatt.

Gli autori [della lettera] hanno anche detto a Mondoweiss che la decisione di restare anonimi era nata dal desiderio di parlare con una voce collettiva e che la lettera non venisse associata a specifiche persone o organizzazioni.

Uno degli organizzatori, in un comunicato stampa in cui si annunciava la dichiarazione, ha detto: “Una dimostrazione senza precedenti di unità, ispirata dai protagonisti più significativi di ciò che abbiamo visto svilupparsi in Palestina. I palestinesi di Gaza, Gerusalemme, Ramallah e di tutto il mondo hanno dimostrato che 70 anni di politiche israeliane non hanno spezzato la loro percezione di se stessi come palestinesi. Questa lettera riflette tutto questo.”

Nella lettera si legge: “Dipingere questo come una guerra tra due parti eguali è falso e mistificante. Israele è la potenza coloniale. La Palestina è colonizzata. Questo non è un conflitto: questo è apartheid.”

Dopo la più recente escalation di violenza da parte degli israeliani c’era la seguente domanda”, ha detto a Mondoweiss uno degli autori. “Tutti abbiamo avuto questa discussione riguardo a cosa potremmo fare e come potremmo usare le nostre reti. Come possiamo usare il nostro ruolo per organizzarci attorno a questo?”

Un altro obbiettivo era portare ad un pubblico più vasto questa terminologia che i palestinesi hanno elaborato per decenni”, hanno spiegato. “Abbiamo scritto questa lettera con un sincero senso di urgenza ed essa ha acquistato vita propria. Cerchiamo di equilibrare questa urgenza con una risposta a lungo termine che non sia legata solo agli eventi specifici che sono accaduti nelle ultime settimane. La lettera è stata innescata da essi, ma questi fatti sono solo una continuazione di tutto ciò che è accaduto per decenni, la lettera è un appello a lungo termine.”

Gli autori hanno detto che la quantità di persone che hanno voluto firmarla segnala il fatto che l’opinione pubblica sulla Palestina sta cambiando.

Ovviamente la gente ha ancora paura e c’è ancora la censura”, ha detto uno degli autori, “ma la confusione tra antisemitismo e sostegno alla liberazione della Palestina è qualcosa che volevamo contestare e smascherare direttamente nella lettera. E vedrete che c’è un folto numero di firmatari ebrei e anche di firmatari israeliani antisionisti. Penso che ci sia stato un cambiamento negli ultimi cinque anni nel grado di timore nell’esprimersi.”

Si può leggere la lettera integrale qui di seguito:

I palestinesi vengono attaccati ed uccisi impunemente dai soldati e da civili armati israeliani che sono dilagati per le strade di Gerusalemme, Lod, Haifa, Giaffa ed altre città al grido di “Morte agli arabi”. Nelle due ultime settimane si sono verificati anche diversi linciaggi di palestinesi disarmati e indifesi. Le famiglie del quartiere di Sheikh Jarrah continuano a subire la pulizia etnica e l’espulsione dalle loro case. Questi atti di assassinio, intimidazione e violento spossessamento sono protetti, se non attivamente incoraggiati, dal governo e dalla polizia israeliani.

In maggio il governo israeliano ha commesso un altro massacro a Gaza, bombardando indiscriminatamente e incessantemente i palestinesi nelle loro case, uffici, ospedali e nelle strade. Il bombardamento di Gaza fa parte di un intenzionale e ricorrente schema in cui intere famiglie vengono uccise e le infrastrutture locali distrutte. Questo contribuisce ad esacerbare condizioni che già sono invivibili in uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, che, nonostante il temporaneo cessate il fuoco, rimane sotto assedio militare. Gaza non è un Paese separato: noi siamo un unico popolo, separato con la forza dalla struttura dello Stato israeliano.

Dipingere ciò come una guerra tra due parti uguali è falso e fuorviante. Israele è la potenza coloniale. La Palestina è colonizzata. Questo non è un conflitto: questo è apartheid.

Di fronte al crescente pericolo mortale delle due ultime settimane, i palestinesi si stanno unendo nuovamente. In Palestina e in tutto il mondo molte persone stanno scendendo in piazza, si organizzano sui social media, difendono le proprie case, si proteggono a vicenda e chiedono la fine della pulizia etnica, dell’apartheid, della discriminazione e dello spossessamento. Alle nostre comunità è stato sistematicamente negato il diritto al ritorno e sono state frammentate con la forza e cancellate fin dalla Nakba, la nascita del governo coloniale israeliano nel 1948, e questa recente riunificazione ci ha dato un po’ di indispensabile fiducia in mezzo alla rabbia e ai lutti delle ultime due settimane. Nonostante tutto ciò che sta accadendo, nonostante anni di disumanizzazione, stiamo incominciando ad avere qualche speranza.

Finalmente il mondo ha incominciato a chiamare il sistema israeliano col suo nome. All’inizio di quest’anno l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha seguito l’esempio offerto da decenni di lavoro di intellettuali palestinesi e di difesa legale per dimostrare che non c’è discontinuità tra lo Stato israeliano e la sua occupazione militare: entrambi costituiscono un unico sistema di apartheid. A sua volta, Human Rights Watch ha pubblicato un minuzioso rapporto che accusa Israele di “crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione.”

Noi sottoscritti artisti e scrittori palestinesi ed i nostri compagni d’arte qui elencati vi chiediamo di unirvi a noi. Per favore non lasciate passare questo momento. Se le voci palestinesi saranno nuovamente messe a tacere, ci potrebbero volere generazioni per avere un’altra opportunità di libertà e giustizia. Vi chiediamo di unirvi a noi adesso, in questa critica congiuntura, e dimostrare il vostro sostegno alla liberazione palestinese.

Chiediamo la cessazione immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi. Chiediamo la fine del sostegno fornito dalle potenze globali ad Israele e al suo esercito, in particolare dagli Stati Uniti, che attualmente forniscono a Israele ogni anno 3,8 miliardi di dollari in modo incondizionato. Chiediamo a tutte le persone di coscienza di mettere in campo le proprie risorse per aiutare ad eliminare il regime di apartheid dei nostri tempi. Chiediamo ai governi che permettono questo crimine contro l’umanità di applicare sanzioni, di far leva sul senso di responsabilità internazionale e di interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali. Invitiamo gli attivisti, specialmente i nostri colleghi artisti, a esercitare quanto meglio possono la loro influenza all’interno delle loro istituzioni e ambienti per sostenere la lotta palestinese per la decolonizzazione. L’apartheid israeliano è sostenuto dalla complicità internazionale, è nostra responsabilità collettiva rimediare a questo danno.

Abbiamo visto che i governi in Europa e altrove hanno recentemente adottato politiche di palese censura e promosso una cultura di autocensura nei confronti della solidarietà con i palestinesi. Confondere la critica legittima allo Stato di Israele e alle sue politiche verso i palestinesi con l’antisemitismo è una cosa cinica. Il razzismo, compreso l’antisemitismo ed ogni altra forma di odio sono esecrabili e non sono ben accetti nella lotta palestinese. È ora di affrontare queste tattiche per farci tacere e superarle. Milioni di persone in tutto il mondo vedono nei palestinesi un microcosmo della loro stessa oppressione e delle loro stesse speranze, ed alleati come ‘Black Lives Matter’ e ‘Jewish Voice for Peace’, insieme tra gli altri agli attivisti per i diritti degli indigeni, alle femministe e queer, stanno sempre più alzando la voce in loro sostegno.

Vi chiediamo di avere coraggio. Vi chiediamo di farvi avanti, di alzare la voce e prendere una chiara posizione pubblica contro questa incessante ingiustizia in Palestina.

L’apartheid deve essere abolito. Nessuno è libero finché non saremo tutti liberi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’ e ‘Truthout. È autore di Medium Blue: The politics of MSNBC [Media blu: la politica di MSNBC, canale di notizie via cavo USA legato al partito Democratico, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Silwan, Gerusalemme, i coloni israeliani conducono un’altra battaglia per appropriarsi delle case dei palestinesi

Yumma Patel

9 giugno 2021 – Mondoweiss

Per decenni il quartiere di Batn al-Hawa a Silwan è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza i residenti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, una procedura che secondo la legge israeliana è del tutto legale.

Probabilmente avete ormai sentito parlare di Sheikh Jarrah e della lotta dei residenti palestinesi del quartiere per salvare le loro case dall’occupazione da parte dei coloni israeliani.

Nelle ultime settimane la lotta per salvare Sheikh Jarrah ha attirato l’attenzione internazionale e ha provocato proteste diffuse in tutta la Palestina e nel mondo intero. Ma a pochi chilometri di distanza un altro gruppo di famiglie palestinesi sta affrontando una battaglia quasi identica.

A cinque chilometri da Sheikh Jarrah, appena fuori dalla Città Vecchia, nella Gerusalemme Est occupata, si trova il villaggio di Silwan.

Silwan si trova nel cuore di Gerusalemme Est e ospita dai 60.000 ai 65.000 palestinesi. È anche una delle aree di Gerusalemme più pesantemente colpita dagli interventi di colonizzazione israeliana e dai tentativi da parte di Israele di ciò che le organizzazioni per i diritti umani definiscono “ebraicizzare” la città.

Appena a sud del complesso della moschea di Al-Aqsa si trova il quartiere Batn al-Hawa di Silwan. Per decenni Batn al-Hawa è stato l’obiettivo di una campagna incessante da parte delle organizzazioni di coloni per espellere con la forza gli abitanti palestinesi del quartiere e sostituirli con coloni ebrei, un processo che per le leggi israeliane è del tutto legale.

Probabilmente vi starete chiedendo come ciò sia possibile.

In breve, un’organizzazione di coloni di destra di nome Ateret Cohanim ha cercato di espellere con la forza circa 100 famiglie da Batn al-Hawa con il pretesto che in passato, più di 100 anni fa, quei terreni fossero di proprietà ebraica.

Dal 2002, attraverso una serie di marchingegni legali sanciti dai tribunali israeliani, Ateret Cohanim ha presentato degli ordini di sfratto contro le famiglie di Batn al-Hawa, con l’obiettivo di insediare al loro posto i coloni ebrei.

E mentre la legge israeliana consente il trasferimento di proprietà ad ebrei che ne rivendichino il possesso in epoca precedente alla costituzione di Israele, lo stesso diritto è negato ai palestinesi che sono stati espropriati dalle loro case durante la Nakba del 1948.

Ad oggi a Batn al-Hawa Ateret Cohanim ha già preso il controllo di sei edifici, comprendenti 27 unità abitative. Unità che un tempo appartenevano a famiglie palestinesi.

Nel solo quartiere di Batn al Hawa, Ateret Cohanim ha in corso procedimenti legali per espellere 81 famiglie palestinesi, per un totale di 436 persone. Dal 2015 14 famiglie del quartiere sono già state sgomberate con la forza.

E questo solo a Batn al-Hawa.

In molti altri quartieri di Silwan anche altre organizzazioni di coloni stanno cercando di espellere ancora più famiglie palestinesi, mentre il governo israeliano ha disposto decine di ordini di demolizione di case palestinesi per far posto a un parco turistico archeologico e una riserva naturale.

Allora, a cosa porta tutto ciò?

Ebbene, nel 2020 la magistratura di Gerusalemme ha ordinato lo sgombero a Batn al-Hawa di altre sette famiglie palestinesi. I casi di due di queste famiglie avrebbero dovuto essere esaminati in appello il 26 maggio, ma il tribunale israeliano ha rinviato la sua decisione.

Nonostante il rinvio le sette famiglie, che contano 108 persone, sono ancora sotto imminente minaccia di espulsione. E non sono le sole.

Secondo un sondaggio del 2020 dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, almeno 218 famiglie palestinesi di Gerusalemme est, per un totale di 970 persone e oltre 400 bambini, sono state colpite da ingiunzioni di sgombero.

La maggior parte di questi casi sono stati avviati da organizzazioni di coloni come Ateret Cohanim.

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno invitato Israele a cancellare i piani di sgombero a Silwan, affermando che tali espulsioni forzate sono violazioni flagranti del diritto umanitario internazionale che equivalgono a crimini di guerra.

Mentre la loro espulsione forzata incombe, i palestinesi di Sheikh Jarrah e Silwan chiedono al mondo di opporsi all’apartheid israeliano e invitano le persone a continuare a portare l’attenzione sul loro caso attraverso i social media usando gli hashtag #SaveSheikhJarrah e #SaveSilwan.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Che genere di resistenza fareste?

Basman Derawi

7 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Caro mondo,

che genere di resistenza volete che io faccia? Armata, disarmata, o niente del tutto, solo morire in silenzio in modo da non disturbarti?

Che genere di resistenza fareste voi se la vostra casa fosse stata rubata, se la vostra vita fosse solo un grumo nelle mani di qualcun altro? Di qualcuno che dice che il suo dio gli ha promesso la vostra terra?

Caro mondo,

immagino di camminare nelle strade di Sheikh Jarrah e trovare Yacoub (il colono) sulla porta della mia casa, che mi ordina di demolire la mia stessa casa, pezzo dopo pezzo, o di pagarlo perché lo faccia mentre io sto a guardare.

Immagino i giornalisti arrestati semplicemente perché fanno il loro lavoro, documentano i nostri tentativi di resistere, e i capi della protesta, arrestati nelle loro case, circondati da pericoli.

Non è così diverso da qui, quando cammino per le strade di Gaza, immerse nel buio (non c’è elettricità). Sento i droni che sibilano nelle mie orecchie. Vedo i calcinacci di un edificio, sento l’eco spettrale di bambini che piangono, la loro casa finita in un’esplosione di polvere.

Una guerra è finita, un’altra arriverà.

Caro mondo, non ho forse il diritto di resistere? L’occupazione è sempre giusta? Voi non fareste lo stesso se foste nei miei panni?

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’odio, la paura e il tradimento: l’eredità di Netanyahu

Richard Silverstein

Giovedì 3 giugno 2021 – Middle East Eye

Mentre il panorama politico è a pezzi, a Israele e ai suoi nuovi dirigenti si pone la seguente domanda: riusciranno a rimediare ai danni provocati da Netanyahu? O la sua influenza continuerà a incombere?

Mercoledì, dopo 12 anni di seguito come primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu è stato spodestato. In precedenza aveva già completato un mandato di tre anni. È il dirigente israeliano con la maggior longevità politica.

Non è ancora detta l’ultima parola, la Knesset non ha ancora confermato il nuovo governo e Netanyahu può ancora far cambiare idea ad alcuni membri di destra della coalizione di Yair Lapid [politico di centro incaricato di formare una maggioranza, ndtr.].

Negli ultimi anni si è avuta l’impressione che in Israele potesse succedere di tutto tranne la fine del regno di Netanyahu. Anche se è stato destituito, si sa già che si avrà ancora a che fare con lui. Ma a questo punto è interessante esaminare il suo regno, che non ha dato grandi risultati.

A livello nazionale ha diviso per governare meglio. Non soltanto ha demonizzato i soliti sospettati, come i partiti di sinistra e i militanti dei diritti dell’uomo – se l’è presa persino con le Ong che hanno testimoniato davanti ai tribunali dell’ONU riguardo ai possibili crimini di guerra israeliani ed ha adottato una legge che le obbliga a rivelare pubblicamente i loro finanziatori esteri -, ma ha demonizzato i suoi oppositori politici ed è andato ben oltre il semplice dissenso. Gli oppositori di Netanyahu sarebbero traditori della Nazione. Svenderebbero il Paese consentendo [la creazione di] uno Stato palestinese. Sarebbero troppo moderati verso Hamas e gli permetterebbero di lanciare di nuovo i razzi, ha affermato.

Persino nel suo stesso partito, il Likud, Netanyahu se l’è presa con suoi antichi protetti. I suoi capi di gabinetto sono noti per essere diventati i suoi più feroci avversari politici. Di fatto il futuro primo ministro, Naftali Bennett, è stato responsabile della sua campagna elettorale, come Avigdor Lieberman, che si è fatto le ossa in politica sotto Netanyahu. Persino i suoi mentori, come l’ex-presidente Reuven Rivlin, che ha contribuito a farlo arrivare al potere, erano considerati come delle minacce. Quando Rivlin si è presentato alla presidenza, il primo ministro ha condotto un’infruttuosa campagna per sabotare la sua candidatura.

Nessuna visione coerente

Netanyahu non ha un vero programma politico coerente nel quale i suoi sostenitori si possano riconoscere. Conta principalmente sull’ideologia ultranazionalista dei coloni, che si è infiltrata nella società israeliana e domina ormai le leve del potere statale. Ha costruito decine di migliaia di nuovi appartamenti nelle colonie. Durante il suo regno la pulizia etnica dei palestinesi sia in Cisgiordania che a Gerusalemme est è continuata.

Il suo obiettivo, come quello dei suoi padrini coloni, è stato distruggere ogni possibilità di uno Stato palestinese. In ciò ha avuto decisamente successo. Attualmente nessun partito politico, di quelli che si dicono di sinistra, ha fatto dei diritti nazionali dei palestinesi una priorità. Persino i politici di sinistra e di centro minimizzano queste opinioni. Pochi sostengono una soluzione a due Stati. Le uniche personalità che la propongono sono i democratici americani e i sionisti liberali ebrei americani.

Nel 2018 Netanyahu ha portato all’approvazione della Knesset la legge sullo Stato-Nazione. Essa esclude la minoranza palestinese [con cittadinanza israeliana, ndtr.] da ogni status giuridico nazionale ufficiale. L’arabo non è più una lingua ufficiale. Così Israele è diventato uno Stato degli ebrei solo per gli ebrei. I palestinesi che sono diventati cittadini di Israele nel 1948 si sono sentiti vilipesi. I loro diritti, nei limiti in cui ne hanno avuti, sono stati disprezzati. Di fatto si possono far risalire i disordini che il mese scorso si sono diffusi a macchia d’olio nelle città miste di Israele a questa legge detestata.

Nel quadro dei tentativi di lunga data per concentrare il potere nelle proprie mani, Netanyahu è riuscito a prendere il controllo della maggior parte dei media nazionali. Ha in particolare concepito accordi corrotti che ricompensavano finanziariamente i responsabili di mezzi di comunicazione in cambio di una copertura mediatica favorevole. Attualmente è imputato penalmente per tre casi distinti. Se non fosse stata formata la nuova coalizione di governo, una condanna lo avrebbe obbligato a dare le dimissioni.

Nemici esterni

Sul piano regionale la paura che Netanyahu ha generato tra gli israeliani nei confronti di nemici esterni ha creato un sentimento artificioso di coesione, cosa che gli ha consentito di unire il Paese di fronte a forze ostili. Aveva bisogno di nemici come l’Iran, Hamas ed Hezbollah per conservare la presa sull’elettorato israeliano. Ha lanciato una campagna terroristica di dieci anni contro l’Iran e quello che secondo lui sarebbe il suo tentativo di dominio sulla regione.

Ha ordinato al Mossad [servizio segreto israeliano per le operazioni all’estero, ndtr.] di sabotare il suo programma nucleare uccidendo scienziati e bombardando basi missilistiche e istallazioni nucleari. Netanyahu ha ordinato attacchi aerei contro le basi militari iraniane in Siria ed ha organizzato bombardamenti contro gli Hezbollah libanesi, uno dei principali alleati regionali di Teheran, che si battono anche a fianco delle forze governative siriane.

Nel 2014 Netanyahu ha annunciato l’operazione “Margine protettivo” ed ha invaso Gaza per porre fine al lancio di razzi contro Israele. Sono morti più di 2.300 palestinesi. Si trattava in grande maggioranza di civili. Questo attacco ha portato a un cessate il fuoco, ma non ha risolto nessuno dei principali problemi che dividono Hamas e Israele.

Il mese scorso, di fronte ai missili lanciati da Hamas come risposta alla brutalità della polizia israeliana nel complesso della moschea di al-Aqsa e in solidarietà con le famiglie palestinesi [minacciate di espulsione dalle proprie case, ndtr.] di Sheikh Jarrah [quartiere di Gerusalemme est, ndtr.], Netanyahu ha ancora una volta lanciato un’offensiva contro Gaza. Questa volta l’operazione militare è durata solo 11 giorni a causa dell’intervento del presidente americano Joe Biden. A Gaza sono morti più di 250 palestinesi, di cui 66 minorenni.

Contrariamente alle precedenti offensive, né gli israeliani né il resto del mondo sono stati convinti dalle affermazioni di Netanyahu secondo cui Israele non faceva altro che difendersi contro i razzi di Hamas. Al contrario hanno considerato gli spietati bombardamenti israeliani come atti di aggressione contro una popolazione civile. Questa guerra non aveva alcun obiettivo strategico se non aiutare a mantenere Netanyahu al potere, in quanto i suoi rivali non avrebbero osato complottare contro di lui mentre il Paese era in guerra.

Mentre il mondo si è ribellato contro Israele, gli stessi israeliani si sono stancati di questa aggressività e di questa bellicosità. Si sono ancor più stancati delle molteplici accuse di corruzione avanzate contro di lui dal procuratore generale.

L’odio in eredità

Come l’ex presidente americano Donald Trump, Netanyahu ha sempre avuto il sostegno di una irriducibile minoranza di israeliani che credono in lui qualunque cosa faccia. Ma non ha mai avuto una maggioranza. Al contrario, come Trump, la maggioranza degli israeliani non lo approvava e non si fidava di lui, ma mai in modo tale da creare un’opposizione unita in grado di scacciarlo dal potere.

Finché ha potuto è rimasto al comando, non perché fosse apprezzato, ma perché l’opposizione era frammentata e non emergeva una personalità che raccogliesse il sostegno sufficiente per cacciarlo. Ciò è dipeso in parte dal modo in cui Netanyahu ha denigrato con successo i suoi rivali e li ha presentati come una seconda scelta.

Netanyahu lascia in eredità l’odio, la paura e il tradimento. Il panorama politico è a pezzi. Israele è più diviso di quanto non sia mai stato tra ricchi e poveri, laici e religiosi, palestinesi ed ebrei, destra e sinistra. Sono il testamento di Netanyahu e la sua opera. Anche con questo nuovo governo che va al potere niente promette di riparare i danni, perché la stessa coalizione è un insieme di partiti politici con ideologie e programmi che si contraddicono.

La questione che si pone a Israele e ai suoi nuovi dirigenti è la seguente: potranno porre rimedio ai danni inflitti da Netanyahu? O la sua influenza continuerà a incombere?

Richard Silverstein è l’autore del blog “Tikum Olam” che svela gli eccessi della politica israeliana di sicurezza nazionale. Il suo lavoro è stato pubblicato su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi “A Time to speak out[Un tempo per denunciare] (Verso) dedicato alla guerra in Libano del 2006 ed è autore di un altro saggio nella raccolta Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Un punto di vista ebraico antisionista sull’antisemitismo crescente

Benay Blend

1 giugno 2021 The Palestine Chronicle

 

In data 25 maggio 2021 Politico [rivista USA che si rivolge soprattutto a chi fa parte dell’establishment politico, ndtr] registrava un aumento di aggressioni antisemite contro gli ebrei in America. Proprio nel pieno dell’ultima escalation di violenza messa in atto dal regime israeliano contro i palestinesi, i giornalisti di Politico Nicholas Wu, Andrew Desiderio e Melanie Zanona si premuravano di fare coincidere l’antisemitismo con la resistenza palestinese.

“Le recenti violenze di Gaza,” spiegano i tre, “sono stati il contesto per attacchi discriminatori contro ebrei verificatisi in diversi Stati USA, oltre che in città in altre parti del mondo.” Analizzare questa frase introduttiva può essere un buon punto di partenza per comprendere come la stampa utilizzi la discriminazione contro un gruppo per promuovere pregiudizi contro un altro.

Giovedì scorso la ADL [Lega Antidiffamazione, ong USA che combatte “l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio”, ndtr] ha diffuso i primi resoconti di 193 casi di antisemitismo in USA registrati durante una settimana di conflitti in Medio Oriente, mentre erano stati 131 durante la settimana precedente. “Mentre continuano ad aumentare le violenze fra Israele e Hamas, assistiamo ad un pericoloso e preoccupante aumento di odio anti-ebraico qui nel nostro Paese,” ha affermato il presidente di ADL Jonathan Greenblatt, per poi aggiungere: “la sezione sull’estremismo di ADL ha documentato decine di proteste anti-israeliane negli USA dall’inizio delle violenze in Israele, e altre sono in programma.”

Qui Greenblatt identifica erroneamente il sostegno per la Palestina con l’antisemitismo, ma è l’ADL stesso a non essere certo un modello di attivismo progressivo. Basti dire che l’ADL si rifiuta di collocare l’antisemitismo nel contesto di un aumento dei crimini di odio nel Paese. Anzi, non solo si concentra esclusivamente sull’antisemitismo, ma addirittura favorisce l’aggressione nei confronti di altri gruppi di persone, in quanto finanzia l’addestramento in Israele delle forze di polizia, le quali poi adottano quelle stesse tecniche qui in patria.

Inoltre il linguaggio usato dalla rivista ha lo scopo di far ricadere sulle vittime la colpa delle loro oppressione. Ecco così che l’articolo di Politico prosegue riferendo che

“mentre aumenta il numero di Democratici che sostengono apertamente la causa palestinese, i Repubblicani li accusano di abbandonare il più fedele alleato USA in Medio Oriente per fare il gioco del gruppo terroristico Hamas, che prima della tregua annunciata giovedì aveva lanciato migliaia di razzi contro Israele.”

La citazione precedente dimostra che i giornalisti si concentrano esclusivamente su Hamas come unico attore della violenze. E’ già abbastanza fuorviante etichettare come gruppo terroristico Hamas, quando in realtà esso ha reagito alla provocazione di Israele che aveva fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa. Inoltre l’articolo non fa alcun cenno ai bombardamenti israeliani di Gaza o all’intensificazione della pulizia etnica a Gerusalemme, che hanno provocato oltre duecento morti e numerosi feriti, né alle recenti retate di palestinesi in Cisgiordania in ritorsione all’umiliazione subita a Gaza.

Grazie a queste omissioni, che incolpano le vittime della propria morte, i giornalisti contribuiscono a far sembrare Israele la vittima innocente di violenza. Che ha a che fare questo con l’antisemitismo? Niente, ma etichettando i gruppi che si oppongono a tale linea come terroristi fa comprensibilmente aumentare la simpatia verso Israele ed i suoi sostenitori.

Tutto ciò contribuisce ad intorbidare le acque in cui si è venuto a trovare Israele, anzi l’intera comunità ebraica. Come spiega Jonathan Cook [giornalista free-lance britannico che dal 2001 vive a Nazareth, ndtr], gli apologeti di Israele

“non possono difendere acriticamente Israele quando commette crimini di guerra o chiedere modifiche normative per assistere Israele nel perpetrare tali crimini di guerra – si tratti dell’ultima aggressione di civili a Gaza, o dell’uccisione di palestinesi disarmati che protestano contro quindici anni di blocco israeliano dell’enclave costiera – e accusare chiunque lo critichi per questo di essere un antisemita.”

Mentre il regime sionista cerca di giustificare e/o cancellare i suoi ultimi interventi di pulizia etnica, si trova anche a fronteggiare un aumento del sostegno per la Palestina in tutto il mondo. Infatti a Washington DC, oltre mille persone si sono radunate [29 maggio 2021, ndtr] sui gradini del Lincoln Memorial per esprimere la propria solidarietà.

Così Israele si ritrova con un assortimento sempre più ristretto di alleati. C’è ad esempio la CUFI – Christians United for Israel [organizzazione cristiana USA con oltre 10 milioni di affiliati che sostiene Israele, ndtr], forse la più grande lobby pro-israeliana degli USA. Però, come riferisce il rabbino Lynn Gottlieb, la destra che sostiene Israele non è amica né degli ebrei né dei palestinesi, in quanto i leader di CUFI si riempiono la bocca, dice, di una “miscela tossica di antisemitismo, razzismo, omofobia, islamofobia e sessismo.”

“Mentre il loro sostegno per Israele dovrebbe dimostrare che il loro programma non è antisemita,” nota la Gottlieb, “l’interesse mostrato dai membri di CUFI per Israele non va al di là della dichiarazione che gli ebrei sono utili nella misura in cui servono ad innescare la fine dei giorni.” [secondo il fondatore John Hagee, Hitler e l’Olocausto sono stati parte del disegno di Dio per riportare gli ebrei in Terra d’Israele e preparare il mondo alla seconda venuta di Cristo, ndtr] In questo scenario la tragedia dei palestinesi non merita alcun interesse.

“Da molto tempo questo tipo di teologia pseudo-fondamentalista costituisce la base del suprematismo bianco e del colonialismo,” conclude la Gottlieb, il che fa sì che Israele e sostenitori si ritrovino alleati con le stesse persone che li odiano.

Per chi di noi crede che “la giustizia sia indivisibile”, come sostiene la professoressa Rabab Abdulhadi [professoressa associata di Studi Etnici/Razza e Resistenza alla San Francisco State University, ndtr], l’antisemitismo dovrebbe venire rifiutato fra le nostre file né più né meno di razzismo, sessismo, omofobia, e di ogni altra forma di discriminazione.

Ma non dovrebbe polarizzare l’attenzione a spese di altri crimini, specialmente quando i palestinesi soffrono nella propria terra, sempre più africani (neri) vengono uccisi da poliziotti americani razzisti e aumentano i crimini contro gli americani asiatici.

L’antisemitismo esiste. L’ho toccato con mano nella mia vita, così come i miei familiari, ma mi ha insegnato a lottare contro l’ingiustizia ovunque, non a mettere in primo piano le mie esperienze. Inoltre ci sono sempre stati casi di infiltrati nei movimenti per la giustizia sociale disposti a commettere atti che discreditano l’intero gruppo.

Secondo il giornalista Max Blumenthal, [fondatore di The Grayzone, sito web di giornalismo investigativo indipendente che analizza la politiche dell’impero USA, ndtr] molti di questi casi sono stati inventati dalle lobby pro-israeliane per sminuire le crescenti critiche contro gli ultimi crimini di guerra israeliani. In un recente articolo Max documenta meticolosamente esempi di filmati elaborati e di accuse sospette che hanno lo scopo di distogliere l’attenzione da Gaza.

E’ inoltre importante acquisire consapevolezza del tipo di linguaggio utilizzato dai media per mettere in buona luce il governo israeliano e nel contempo macchiare la resistenza palestinese etichettandola come “terroristica”, una mossa razzista in sé, in quanto mira a ridurre un intero gruppo di persone ad uno stereotipo dispregiativo.

Queste sono le parole pronunciate dall’attivista palestinese Iyad Burnat subito dopo l’arresto dei due figli durante una recente retata della polizia israeliana: “Noi avremmo sostenuto gli ebrei contro i nazisti perché avevano tutti i diritti di resistere ai nazisti e di difendersi. Perché allora definite “terrorismo” la resistenza palestinese?

“E’ facile ripetere la narrazione comune,”, ricorda ai lettori Steven Salaita [studioso a cui l’Università dell’Illinois ha negato l’assunzione a seguito delle obiezioni a una serie di suoi tweet critici nei confronti di Israele e del sionismo accusati di antisemitismo, ndtr]. “La consapevolezza è super-importante. E’ un impegno costante.”

“Si deve comprendere [poi],” scrive Salaita,

” che i sionisti del Nord America stanno ponendo le basi per un nuovo ciclo di punizioni. Lo fanno ad ogni massacro compiuto da Israele (e fra l’uno e l’altro). Lo schema è chiaro. Non cambia da decenni. E tutte le volte che accade un sacco di gran bella gente -antirazzisti convinti e attivisti caritatevoli- subiscono significativi danni personali e professionali. Attenzione a non diventare il coglione di turno che nel malaccorto tentativo di sembrare garbato agevola i castighi dei sionisti ripetendone i subdoli argomenti.”

Nelle recenti settimane diverse celebrità hanno fatto marcia indietro sul loro sostegno per la Palestina, allo stesso modo di certi leader neri, in parte per il timore di venire intaccati dalla macchia dell’antisemitismo. Ancora con le parole di Steven Salaita, “se non sei disposto ad affrontare una punizione per mantenere fede ai tuoi principi, allora non hai nulla di positivo da offrire agli oppressi ed ai perseguitati. Meglio starne semplicemente fuori allora. L’accomodamento fa più male del silenzio.”

Benay Blend ha conseguito un dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’”[Nè Patria nè Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey. Ha scritto questo articolo per Palestine Chronicle.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Sheikh Jarrah microcosmo della Palestina

Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese

Jamal Kanj

21 maggio 2021 – Middle East Monitor

I racconti sulla diaspora palestinese coprono una vasta casistica. Sheikh Jarrah è la storia delle famiglie palestinesi in un quartiere di Gerusalemme Est sotto l’occupazione israeliana.

Invece la mia diaspora parte da una famiglia di pastori di pecore e agricoltori della Galilea cacciati nel 1948 in un campo profughi del nord del Libano a cui fu impedito di tornare alle loro case. Per un caso fortunato, sono finito a vivere negli Stati Uniti e sono diventato un ingegnere civile iscritto [all’ordine] nello Stato della California.

Con l’esperienza di essere cresciuto come un rifugiato apolide, posso ben comprendere la disgrazia che la minaccia di espulsione fa pesare sulle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah.

La lotta per il quartiere di Sheikh Jarrah è un microcosmo della questione palestinese. Mentre la guerra e la paura furono i principali strumenti israeliani per scacciare i miei genitori e più di 700.000 palestinesi dalle loro città e villaggi nel 1948, le attuali politiche israeliane usano trucchi legali per cambiare la composizione demografica delle comunità palestinesi, come nel caso di Sheikh Jarrah.

Sheikh Jarrah, situata a poco più di un chilometro a nord della Città Vecchia, prende il nome  dal medico del Saladino: Jarrah in arabo significa chirurgo. La comunità, originariamente costruita intorno alla tomba del chirurgo risalente al XIII° secolo, crebbe sino diventare tra le prime e più ricche comunità di cristiani e musulmani palestinesi al di fuori delle mura della Città Vecchia. Dopo la guerra del 1948, Sheikh Jarrah si espanse con l’arrivo di rifugiati palestinesi espulsi dal quartiere  Talbiya nella Gerusalemme occidentale occupata e da altre località.

Dal momento dell’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967, diversi governi israeliani e amministrazioni comunali hanno usato pressioni, tribunali e violenza per sradicare i nativi di Gerusalemme  dalle  loro  case.

Un esempio calzante: nel 2001 coloni ebrei israeliani occuparono con la forza una parte della casa della famiglia Al-Kurd, sostenendo che durante l’era dell’Impero Ottomano la terra era di proprietà di  ebrei.  Invece di rimuovere gli intrusi, i tribunali israeliani assegnarono la casa a coloni ebrei. Gli Al- Kurd  divennero inquilini – nella loro stessa casa – e fu loro ordinato di pagare l’affitto agli intrusi.  Quando il  proprietario della casa si rifiutò di pagare l’affitto ai coloni estremisti, i tribunali israeliani dichiararono che la famiglia era insolvente e la costrinsero a lasciare quella che per 52 anni era stata la sua casa.

Muhammad Al- Kurd, il capo della famiglia, morì meno di due settimane dopo essere stato espulso  dalla sua casa per la seconda volta. La prima era stata nel 1948 dalla città di Haifa e la seconda fu, appunto, nel 2008.  Sua moglie, Fawzieh Al- Kurd, sconvolta, all’epoca cinquantaseienne, si piazzò  in una tenda fuori della sua casa per protestare contro questa espulsione.

Gli Al- Kurd non furono i primi palestinesi a perdere la loro casa a Sheikh Jarrah e non saranno gli ultimi. Nel 2002, Israele ha espulso con la forza 43 palestinesi dalle loro case per lasciarle a coloni  israeliani. Nell’agosto 2009, anche le famiglie palestinesi Al- Hanoun e Al- Ghaw hanno perso le loro case cedute a coloni estremisti. Nel 2017, la famiglia Shamasneh ha incontrato un destino analogo.

Oggi 500 palestinesi di Sheikh Jarrah sono a rischio di espropriazione a causa dell’ingiunzione di sgombrare le loro case da parte di un tribunale israeliano di primo grado. Poiché i palestinesi  hanno  poche o nessuna possibilità nel sistema legale israeliano,  la protesta pubblica  è l’unica  risorsa  rimasta loro per pubblicizzare l’ingiustizia e impedire al governo israeliano di privarli di nuovo della loro casa.

Le decisioni del tribunale israeliano sulle proprietà immobiliari a Sheikh Jarrah rendono evidente lo sfacciato carattere discriminatorio delle leggi nei confronti dei non ebrei nello Stato di Israele.  Ad esempio, la contestata pretesa dei coloni alla proprietà dei terreni non è basata sul diritto  di  qualsiasi individuo a esigere la sua legittima eredità, ma piuttosto su una pretesa di carattere religioso basata su un atto di proprietà fasullo vecchio di centocinquant’anni.

Quegli stessi tribunali, però, non riconoscono gli stessi diritti alle famiglie Al- Kurd, Al- Hanoun, Al- Ghaw e Shamasneh o agli altri 500 palestinesi a Sheikh Jarrah che sono in possesso di atti di proprietà di terreni e case a Gerusalemme Ovest e Haifa. In Israele solo gli ebrei possono reclamare le proprietà. I palestinesi, musulmani e cristiani, che vivono a Gerusalemme est sono considerati  “proprietari assenteisti” giuridicamente impossibilitati a rivendicare le case da cui sono stati sfrattati con la forza 70 anni prima.

Quando gli è stata posta una domanda sulle leggi che permettono agli ebrei, ma non ai palestinesi, di reclamare le proprietà, l’attuale vice-sindaco di Gerusalemme, Fleur Hassan-Nahoum, ha risposto: “Questa è una Nazione ebraica”. Come riportato dal New York Times all’inizio di questo mese, ha  aggiunto, “È ovvio che vi siano leggi che qualcuno può ritenere a favore degli ebrei: siamo uno Stato ebraico, costituito appositamente per proteggere il popolo ebraico.”

Il vice sindaco di Gerusalemme ha involontariamente rivelato il razzismo istituzionale su cui si basa il sistema gerarchico di Israele che favorisce un gruppo a scapito di tutti gli altri.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)

 

 

 




Perché l’occidente appoggia ‘il diritto alla difesa’ del regime di apartheid in Israele

Joseph Massad

18 maggio 2021 – Middle East Eye

In occasione del 73esimo anniversario della Nakba, il popolo palestinese è determinato ovunque a resistere a quest’oppressione coloniale e razziale e a porvi fine una volta per tutte

18 maggio 2021 – Middle East Eye

La scorsa settimana la guerra di Israele contro tutti i palestinesi che vivono sotto il suo regime di apartheid suprematista ebraico si è intensificata in risposta alla rivolta del popolo palestinese nella Palestine storica colonizzata.

A circa 140 anni dall’arrivo dei coloni ebrei europei in Palestina con l’intenzione di spogliare i nativi palestinesi delle loro terre e del sostentamento e 73 anni dopo l’insediamento di coloni che hanno rubato il Paese ai palestinesi e ne hanno espulso la maggioranza, la resistenza palestinese non si è mai placata. 

Ostinatamente gli Stati Uniti, i Paesi colonialisti dell’Unione Europea e il Regno Unito non sono stanchi del loro impegno a difendere “Il diritto di Israele a difendersi”.  Quello che questi governi intendono con questo ritornello suprematista bianco è ”il diritto di Israele di difendere” il proprio regime di apartheid e la supremazia ebraica contro la resistenza anti-colonialista dei nativi.

A loro si sono uniti i media dominanti e i canali social che soffocano ed escludono opinioni filo-palestinesi come il loro specifico contributo a difesa del diritto di Israele di difendere il proprio regime di apartheid.

‘Neutralità’ liberal

Per decenni un intero vocabolario ideologico bianco e progressista è stato arruolato con il compito di difendere il regime sionista nel corso della sua ininterrotta guerra coloniale contro il popolo palestinese. I difensori progressisti (e conservatori) di Israele ripetono che quello che succede in Palestina non è una guerra coloniale di conquista e una lotta di liberazione anti-coloniale dei nativi, ma piuttosto un “conflitto”, un termine che ha cominciato ad essere usato fin dagli inizi degli anni ’20 del secolo scorso, prima dai sionisti e poi dagli inglesi, e compare nei primi documenti sionisti, presentato come una definizione neutra.

Altri termini liberal “neutrali” definiscono questa guerra coloniale e la resistenza contro di essa “scontri” e un “ciclo di violenza”.

Nel lessico occidentale bianco progressista raramente i palestinesi sono identificati come la popolazione indigena della Palestina che sta subendo una pulizia etnica e gli ebrei israeliani non sono mai denunciati come coloni ebrei che stanno attuando una pulizia etnica.   

La resistenza palestinese è etichettata in modo “neutrale ” come “violenza” e, cosa più importante, come “terrorismo”, mentre ci si riferisce al bombardamento coloniale israeliano come “rappresaglia”, giustificata dal “diritto di Israele a difendersi”. Il termine ideologico liberal “rappresaglia ” è un’altra parola chiave presentata come “neutrale” nello stesso momento in cui si insiste che i palestinesi sono quelli che commettono “violenza” per primi.

Con ciò si intende eliminare la guerra coloniale sionista contro i palestinesi dagli anni ‘80 dell’Ottocento come causa prima delle loro disgrazie e della Nakba [la Catastrofe, ossia la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.]. Questo termine “neutro” cerca di presentare la conquista coloniale della Palestina come un processo “pacifico” al quale i barbari palestinesi non bianchi hanno risposto con la violenza, contro cui l’Israele civilizzato ed europeo oggi compie delle “rappresaglie”.

La strategia dei media occidentali progressisti dominati dai bianchi spesso insiste nel rappresentare la lotta palestinese come lotta interna religiosa fra “ebrei” e “musulmani”, dipingendole come due comunità autoctone in conflitto l’una con l’altra da tempo immemore. 

Alcuni dei bianchi progressisti che ammettono che il loro impegno a sostegno del colonialismo in Palestina, dell’apartheid israeliano e della supremazia ebraica ha creato loro un conflitto di coscienza, si sono uniti in anni recenti alle armate dei difensori dei diritti umani liberal occidentali per negare i diritti nazionali indigeni dei palestinesi, in favore dei loro diritti “umani”, esigendo che Israele non violi questi ultimi. 

Questa retorica spoliticizza la lotta palestinese e ancora una volta cancella deliberatamente la natura coloniale dell’oppressione israeliana a cui i palestinesi sono sottoposti. 

Allo stesso modo, la pulizia etnica dei palestinesi è ribattezza dal lessico progressista come “sfratti” di palestinesi dalle proprie case, cosa che legittima la descrizione di Jared Kushner [genero, finanziatore dei coloni ed ex-consigliere per il Medio Oriente di Trump, ndtr.] e quella ufficiale israeliana della supremazia ebraica dei coloni nel Paese come una semplice “disputa immobiliare”.

L’età delle rivolte

I contadini palestinesi hanno per la prima volta resistito nel 1884 ai coloni ebrei europei che cominciavano a fondare un regime coloniale di apartheid e di supremazia ebraica in Palestina. I coloni ebrei russi, inizialmente finanziati dal barone Edmond de Rothschild, avviarono la pulizia etnica dei nativi palestinesi dalla terra che avevano coltivato per secoli per impiantare colonie ebraiche europee dopo il loro arrivo nel Paese dei palestinesi nel 1882-1883.

I palestinesi resistettero ai nuovi insediamenti coloniali costruiti sulle proprie terre – Petah Tikva, Gedera, Rehovot, Nes Ziyyona, e Hadera.  Nel suo libro intitolato The Arabs and Zionism before WWI [Gli arabi e il sionismo prima della prima guerra mondiale] lo storico Neville Mandel afferma che “prima o poi quasi tutte le colonie ebraiche entrarono in conflitto con” i contadini palestinesi del posto. Secondo Mandel, fra il 1904 e il 1909 scoppiarono altre rivolte di contadini palestinesi contro i coloni ebrei e parecchi palestinesi e coloni furono uccisi, il che portò all’incarcerazione di contadini da parte delle autorità ottomane.

Altre rivolte seguirono nel 1910 nel villaggio di al-Fula, dove i coloni uccisero un palestinese e gli ottomani ne arrestarono moltissimi altri. Le sollevazioni ripresero dopo la Prima guerra mondiale, quando gli inglesi conquistarono la Palestina.

Nel 1920, durante la festività di Nabi Musa che coincideva con la Pasqua ortodossa per cristiani palestinesi e con il Pesach per gli ebrei, milizie coloniali sioniste, a centinaia, marciarono nelle strade di Gerusalemme per intimidire i nativi palestinesi di cui bramavano il Paese. Questo portò a una sollevazione in città da parte dei palestinesi. Cinque ebrei e quattro palestinesi, tra cui una giovane ragazzina, furono uccisi.

Nel 1925, la rivolta dei contadini di ‘Affulah che protestavano contro l’occupazione coloniale ebraica e la pulizia etnica degli abitanti dimostrò che l’ininterrotto progetto sionista coloniale continuava a dover affrontare una dura resistenza. Nel 1929 la rivolta palestinese contro gli inglesi e gli ebrei colonizzatori esplose a Gerusalemme e presto si estese a gran parte della Palestina, uccidendo centinaia di persone di entrambe le parti.

Seguirono altre insurrezioni nel 1933, che culminarono con la formazione di bande di contadini guerriglieri guidate da Izz al-Din al-Qassam nel 1935 e nella Grande Rivolta palestinese che durò dal 1936 al 1939 e costò 5.000 vite palestinesi.

Nessuna di queste rivolte fu in grado di fermare la marcia costante della colonizzazione ebraica, dato che era sostenuta dalla potenza coloniale inglese e dalla Lega delle Nazioni, che preparava la battaglia finale per la pulizia etnica del 1947-48.

Le bande sioniste conquistarono la Palestina, insediarono una colonia ebraica e immediatamente intrapresero l’insediamento legale e istituzionale di un regime suprematista ebraico di apartheid, accompagnato da decine di massacri di palestinesi.

Massacrare i nativi

I coloni ebrei europei hanno preso in prestito molta della loro strategia coloniale e razziale da altri coloni bianchi europei. Questo include l’importante mantra che i coloni non avevano altra scelta che massacrare i nativi africani.

Difendendo i massacri coloniali dei suprematisti bianchi del popolo indigeno dei Nama in Namibia, nell’Africa meridionale, il rappresentante coloniale portoghese alla Lega delle Nazioni, Freire D’Andrade, il cui Paese aveva parecchie colonie vicino alla Namibia e al Sud Africa, nel 1923 disse che “nell’Africa meridionale esisteva un movimento anti-europeo che era di considerevole importanza; si diceva spesso era che l’Africa era per gli africani e gli europei dovevano essere gettati a mare.” 

Prendendo a prestito questa frase dei coloni bianchi, il capo dell’Organizzazione sionista, Chaim Weizmann, sostenne che nel 1930 che la Lega delle Nazioni non avrebbe dovuto concedere l’autodeterminazione democratica ai palestinesi indigeni, usando l’affermazione coloniale di D’Andrade su ciò che la richiesta di democrazia e indipendenza dei popoli indigeni comportava per i coloni europei. Ciò che i leader arabi “desiderano nel presente,” insisteva Weizmann, “è chiaramente buttarci nel Mediterraneo.”  Ci sarebbero riusciti, spiegava Weizmann, con il loro “desiderio” di stabilire “un Parlamento su base democratica, cioè un’istituzione in cui noi saremmo una piccola minoranza.” 

I coloni ebrei privarono i palestinesi non solo dei loro diritti democratici dal 1948; infatti furono loro, secondo Ilan Pappe in Ethnic Cleansing of Palestine [Pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008] che nel 1948 spinsero i palestinesi nel Mediterraneo e nel deserto mentre procedevano con la pulizia etnica della loro colonia d’insediamento.

La storia degli ultimi 73 anni della resistenza palestinese all’apartheid israeliano e alla supremazia, comunque, sarebbe stata cancellata non solo dai coloni sionisti e dal loro Stato di nuovo insediamento, ma anche da tutti i loro sponsor imperialisti in Europa e dalle colonie di insediamento nordamericane che, a loro volta, hanno fornito e continuano a rifornire Israele di denaro e armi per avanzare con la sua colonizzazione e la pulizia etnica e rimangono sostenitori entusiasti del “diritto di Israele a difendere se stesso” e il suo regime di apartheid e di suprematisti ebrei da ogni resistenza indigena. 

Unire i palestinesi

L’attacco in corso da parte di sionisti e israeliani contro il popolo palestinese ancora una volta distrugge tutti gli strenui tentativi del colonialismo ebraico di dividere i palestinesi e aiuta a cementare l’unità di questo popolo colonizzato contro il suo usurpatore coloniale.

Nel 1948 Israele divise i palestinesi: quelli espulsi dai suoi confini e quelli sottomessi alla supremazia ebraica all’interno di quei confini. I palestinesi in Israele furono ulteriormente divisi secondo criteri sionisti razzisti così cari agli ebrei sionisti europei, ma completamente estranei ai palestinesi.

Quindi i drusi arabi palestinesi che appartenevano a una denominazione religiosa vennero etnicizzati come “drusi”, mentre gli allevatori palestinesi furono etnicizzati come “beduini”. Entrambi i gruppi arabi palestinesi furono legalmente separati dai palestinesi musulmani e dai palestinesi cristiani di tutte le denominazioni, anche se Israele ora continua i suoi sforzi per separare gli ultimi due ed etnicizzarli. 

Quando Israele conquistò il resto della Palestina nel 1967 il suo primo atto fu separare i palestinesi di Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e dopo il 1993 cominciò a separare i palestinesi in Cisgiordania e Gaza con i checkpoint permanenti dell’esercito israeliano.

Nel 2000 ha separato i palestinesi della Cisgiordania a occidente del muro dell’apartheid di nuova costruzione da quelli che vivono sul suo lato orientale. Nel 2005 ha separato i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania, tutto ciò mentre cerca di de-palestinizzare i palestinesi espulsi che vivono in esilio dal 1948, un tentativo che negli ultimi dieci anni cerca di ridefinire chi è un rifugiato palestinese riconosciuto dall’ONU, per ridurre il loro numero da sette milioni a poche migliaia.

Nonostante tutti questi sforzi di etnicizzazione, razzializzazione e denazionalizzazione, l’unità palestinese continua, anche perché tutti i palestinesi continuano a essere sottomessi e oppressi dal sionismo e dalla supremazia ebraica israeliana.

La rivolta dell’altra settimana ancora in corso contro l’apartheid israeliano e la supremazia ebraica nella colonia di insediamento, nei suoi confini del 1948 così come in quelli del 1967, prova questa unità e l’apartheid in cui tutti i palestinesi che vivono sotto il dominio israeliano sono sottoposti e che impedisce a tutti i palestinesi che Israele ha espulso fuori dai suoi confini di tornare a casa.

Questa settimana la marcia lungo il confine fra Palestina e Giordania dei palestinesi espulsi e dei loro alleati giordani dimostra ancora una volta che l’unità palestinese continua nonostante i coloni ebrei e il loro Stato. 

La resistenza continua

Durante la scorsa settimana, come è successo dal 1948, anche l’unità del governo israeliano e della popolazione ebrea israeliana si è manifestata nel fatto che tutti gli ebrei israeliani (con poche eccezioni degne di nota) prestano servizio nell’esercito coloniale israeliano e restano riservisti per decenni dopo aver finito il loro servizio militare obbligatorio che dura vari anni.

Mentre l’esercito israeliano e i civili ebrei estremisti attaccano e assassinano i palestinesi in Cisgiordania e Gaza, la polizia israeliana e i coloni ebrei attaccano i palestinesi a Gerusalemme Est e nelle città palestinesi colonizzate in Israele.

Ebrei intenzionati a portare avanti un pogrom e folle di linciatori aiutati dalla polizia hanno attaccato comunità palestinesi, bruciando bambini con bombe incendiari e distruggendo negozi a Giaffa, attaccando passanti ad Haifa, uccidendo giovani a Lydda, aggredendo palestinesi nelle loro auto a Ramleh e commettendo altre atrocità. 

La reazione più importante dei Paesi occidentali di suprematisti bianchi è stata di affermare chiaramente che sono al fianco di Israele e il suo “diritto” di difendere il suo regime di apartheid e la supremazia ebraica.

In risposta e in questo 73esimo anniversario della Nakba, il popolo palestinese perseguitato ovunque è determinato a resistere a questo persistente marchio europeo di oppressione coloniale e razziale e mettervi la parola fine una volta per tutte. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Joseph Massad è professore di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano: “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Unità, infine: il popolo palestinese si è sollevato

Ramzy Baroud

18 maggio 2021 – Middle East Monitor

 

Anzitutto qualche chiarimento sul linguaggio usato per descrivere le violenze in atto nella Palestina occupata ed anche in tutto Israele. Non è un ‘conflitto’. Non è neppure una ‘controversia’ o una ‘violenza settaria’, né una guerra in senso tradizionale.

Non è un conflitto perché Israele è una potenza occupante e il popolo palestinese è una nazione occupata. Non è una controversia perché libertà, giustizia e diritti umani non possono essere trattati come semplici divergenze politiche. I diritti inalienabili del popolo palestinese sono inscritti nel diritto internazionale e umanitario e l’illegalità delle violazioni israeliane dei diritti umani in Palestina sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.

Se è una guerra, allora è una guerra unilaterale israeliana, che incontra una modesta, ma reale e determinata resistenza palestinese.

In realtà, si tratta di una rivolta palestinese, un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta palestinese, sia per la sua natura che per la sua portata.

Per la prima volta da tanti anni vediamo il popolo palestinese unito, da Gerusalemme Al-Quds [nome arabo della città di Gerusalemme. Significa “la (città) santa”, ndtr.] a Gaza, alla Cisgiordania e, anche in modo più importante, alle comunità, città e villaggi nella Palestina storica – oggi Israele.

Questa unità conta più di qualunque cosa, è molto più carica di conseguenze di qualche accordo tra le fazioni palestinesi. Essa eclissa Fatah e Hamas e tutto il resto, perché senza un popolo unito non può esserci una resistenza significativa, una prospettiva di liberazione, una lotta vincente per la giustizia.

Il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu non poteva certo prevedere che un’azione di routine di pulizia etnica nel quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah avrebbe condotto ad una sollevazione palestinese, che unifica tutti i settori della società palestinese in una dimostrazione di unità senza precedenti.

Il popolo palestinese ha deciso di lasciarsi alle spalle tutte le divisioni politiche e le polemiche di fazione. Sta invece creando nuove terminologie, incentrate sulla resistenza, la liberazione e la solidarietà internazionale. Di conseguenza sta sfidando la faziosità, e contemporaneamente ogni tentativo di normalizzare l’apartheid israeliano. Di pari importanza, la voce palestinese sta ora bucando il silenzio internazionale, costringendo il mondo ad ascoltare un unico canto di libertà.

I capi di questo nuovo movimento sono giovani palestinesi, a cui è stato impedito di partecipare a qualunque forma di rappresentanza democratica, che vengono costantemente emarginati ed oppressi dalla loro stessa leadership e dalla incessante occupazione militare israeliana. Sono nati in un mondo di esilio, povertà ed apartheid, indotti a pensare di essere inferiori, di una razza inferiore. Il loro diritto all’autodeterminazione e tutti gli altri loro diritti sono stati rinviati indefinitamente. Sono cresciuti senza speranza, vedendo le loro case demolite, la loro terra rubata e i loro genitori umiliati.

Infine, si stanno sollevando.

Senza un previo coordinamento e senza un manifesto politico, questa nuova generazione palestinese sta facendo sentire la sua voce, sta mandando un inequivocabile forte messaggio ad Israele e alla sua società sciovinista di destra, cioè che il popolo palestinese non è fatto di vittime passive: che la pulizia etnica di Sheikh Jarrah e del resto della Gerusalemme est occupata, il protratto assedio di Gaza, l’interminabile occupazione militare, la costruzione di colonie ebraiche illegali, il razzismo e l’apartheid non resteranno più sotto silenzio; benché stanchi, poveri, spossessati, assediati ed abbandonati, i palestinesi continueranno a difendere i propri diritti, i propri luoghi sacri e l’assoluta inviolabilità del proprio popolo.

Certo, l’attuale violenza è stata fomentata dalle provocazioni israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est. Tuttavia non si è mai trattato solo della pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Questo quartiere assediato non è che un microcosmo della più ampia lotta palestinese.

Netanyahu può aver sperato di usare Sheikh Jarrah come un modo per mobilitare il suo elettorato di destra intorno a sé, per formare un governo di emergenza o aumentare le sue possibilità di vincere anche le quinte elezioni. Il suo spericolato comportamento, inizialmente dovuto a motivi del tutto personali, ha scatenato una ribellione popolare tra i palestinesi, mostrando Israele come lo Stato violento, razzista e di apartheid quale è ed è sempre stato.

L’unità palestinese e la resistenza popolare si sono dimostrate vincenti anche sotto altri aspetti. Mai prima d’ora avevamo visto questa ondata di sostegno alla libertà palestinese, non solo da parte di milioni di persone comuni in tutto il mondo, ma anche da parte di celebrità – star del cinema, calciatori, intellettuali di primo piano ed attivisti politici, addirittura modelle e influencer dei social media. Gli hashtag ‘SaveSheikhJarrah’ e ‘FreePalestine’, tra i tanti altri, sono ora interconnessi e hanno pervaso tutte le piattaforme social per settimane. I continui tentativi di Israele di presentarsi come una vittima perenne di qualche immaginaria orda di arabi e musulmani non pagano più. Il mondo finalmente può vedere, leggere e ascoltare la tragica realtà della Palestina e la necessità di porre termine immediatamente a questa tragedia.

Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se non per il fatto che tutti i palestinesi hanno legittime ragioni e stanno parlando all’unisono. Nella loro spontanea reazione e nella genuina, comune solidarietà tutti i palestinesi sono uniti, da Sheikh Jarrah all’intera Gerusalemme, a Gaza, Nablus, Ramallah, Al-Bireh e persino alle città palestinesi all’interno di Israele – Lod, Umm Al-Fahm, Kufr Qana ed altre.

Nella nuova rivoluzione popolare della Palestina le fazioni, la geografia e tutte le divisioni politiche sono irrilevanti. La religione non è fonte di divisione, ma di unità spirituale e nazionale.

Le attuali atrocità israeliane a Gaza continuano, con un crescente pedaggio di morte. Questa devastazione continuerà fino a quando il mondo tratterà il devastante assedio della impoverita e sottile Striscia (di Gaza) come irrilevante. La gente a Gaza moriva da molto prima che le bombe israeliane esplodessero sulle sue case e quartieri. Moriva per la mancanza di medicine, per l’acqua inquinata, per la carenza di elettricità e per le infrastrutture fatiscenti.

Dobbiamo salvare Sheikh Jarrah, ma dobbiamo anche salvare Gaza; dobbiamo chiedere la fine dell’occupazione militare israeliana della Palestina e, con essa, del sistema di discriminazione razziale e di apartheid. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono ora precise e determinate nel descrivere questo regime razzista, con Human Rights Watch e l’associazione israeliana per i diritti B’Tselem che si uniscono all’appello per l’eliminazione dell’apartheid nell’intera Palestina.

Parlatene. Parlatene apertamente. I palestinesi si sono svegliati. E’ ora di schierarsi al loro fianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)