Cosa sta succedendo adesso in Cisgiordania: un’analisi dettagliata

Mariam Barghouti e Yumna Patel

17 ottobre 2022 – Mondoweiss

La ripresa degli scontri armati palestinesi contro le autorità coloniali israeliane si preparava da anni e Israele ha lanciato una campagna militare che dura da mesi per annientarla.

La Cisgiordania e Gerusalemme sono “in fiamme.” 

È un termine che abbiamo visto usare sempre di più sui social, nei notiziari e dagli opinionisti parlando degli eventi in corso nel territorio palestinese occupato. Non è neanche un’espressione nuova utilizzata per descrivere ondate di repressione e resistenza in Palestina, la più recente è stata l’Intifada dell’Unità nel 2021 che ha investito la Palestina storica. 

Allora cosa sta accadendo esattamente nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme proprio ora, e perché? Cosa la rende diversa da quello che abbiamo visto nella storia recente e cosa significa per il futuro della resistenza palestinese all’occupazione e al colonialismo israeliani?

Nelle ultime settimane in Cisgiordania abbiamo assistito a un’evidente intensificarsi del giro di vite degli israeliani contro i palestinesi che ha preso di mira sia civili nelle proprie case e villaggi che combattenti e gruppi armati della resistenza. 

Simultaneamente i coloni armati hanno terrorizzato comunità palestinesi in Cisgiordania, spesso in presenza e con la protezione dell’esercito israeliano. 

La repressione in corso, e la resistenza ad essa, sono parte di una più ampia campagna durata mesi per sedare una crescente resistenza palestinese, particolarmente quella armata, che ha visto una rinascita in alcune aree della Cisgiordania.

L’ascesa della resistenza palestinese dinanzi a una repressione brutale

Dall’inizio di ottobre le forze israeliane hanno ucciso 15 palestinesi, tra cui quattro adolescenti e bambini, principalmente durante raid notturni e operazioni di arresto. 

Solo nell’ultima settimana sono stati uccisi quattro palestinesi: Mujahed Daoud, 31 anni, di Salfit morto domenica in seguito alle ferite riportate durante scontri con le forze israeliane la settimana prima. Mateen Dabaya, 20 anni, e Abdullah Abu al-Teen, 43 anni, medico e padre di tre figli, entrambi uccisi venerdì mattina presto in un raid contro il campo profughi di Jenin. Venerdì notte le forze israeliane hanno ucciso Qais Imad Shujaiya, 23 anni, coinvolto in una sparatoria vicino alla colonia illegale di Beit El durante la quale era stato ferito un colono israeliano. 

Mercoledì 12 ottobre è stato ucciso il diciassettenne Osama Mahmoud Adawi quando le forze israeliane gli hanno sparato all’addome all’esterno del campo profughi di Arroub, a sud di Betlemme, in Cisgiordania. 

Mentre esercito, polizia e intelligence israeliani, su richiesta del primo ministro Yair Lapid, intensificano la loro ultima campagna, è cresciuta la resistenza palestinese alle tattiche dell’occupazione insieme al terrore dinanzi alla violenza israeliana. 

Nelle ultime due settimane sono stati uccisi in attacchi con armi da fuoco separati due soldati israeliani: uno a un checkpoint dell’esercito fuori dal campo profughi di Shuafat a Gerusalemme e un altro presso una postazione dell’esercito nella zona di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale. 

Da notare che entrambi i tiratori ne sono usciti vivi [in realtà uno dei due è stato ucciso il 19 ottobre, ndt.], un evento poco comune alla luce della politica dell’esercito israeliano nei territori occupati di sparare per uccidere, che le autorità israeliane si rifiutano attivamente di cambiare nonostante la pressione internazionale. Agli inizi di settembre Yair Lapid, primo ministro israeliano, aveva fatto notare che nessun soldato sarà perseguito “solo per ricevere gli applausi dall’estero”.

Nella caccia all’uomo per trovare gli attentatori le forze israeliane hanno messo in atto una quantità di misure di punizione collettiva, incluse vaste chiusure di strade che hanno colpito l’intero distretto di Nablus, e il blocco di interi quartieri come Shuafat e il vicino Anata. Il blocco di Shuafat e dei quartieri circostanti ha scatenato un’ampia campagna di disobbedienza civile in tutti i quartieri di Gerusalemme. 

Proteste a sostegno della campagna di disobbedienza civile a Gerusalemme sono aumentate nella Striscia di Gaza assediata, dove i palestinesi si sono uniti alla chiamata a continuare gli scontri contro gli apparati militari israeliani. 

Allo stesso tempo, nel mezzo della stagione delle festività ebraiche, i coloni israeliani, con la supervisione e protezione delle forze israeliane, hanno intensificato i loro attacchi contro i palestinesi e le loro proprietà in Cisgiordania. 

I raid quasi ogni notte, la repressione letale di proteste, la politica di punizioni collettive e l’aumento della violenza dei coloni non hanno certo spento la resistenza palestinese. Continuano i resoconti di proteste e scontri quotidiani contro le forze israeliane a Gerusalemme e in Cisgiordania, mentre tra l’opinione pubblica cresce il favore per il gruppo della resistenza palestinese Areen Al-Usud (Tana del Leone) con base a Nablus, che sta rivendicando la responsabilità del crescente numero di operazioni armate contro le posizioni militari israeliane in Cisgiordania. 

In memoria di due palestinesi uccisi dall’esercito israeliano a Nablus . Foto: SHADI JARAR’AH/APA IMAGES

Cosa significa per i palestinesi l’operazione ‘Break the Wave’ (Spezza l’ondata)?

La campagna su larga scala coordinata dall’esercito e dall’intelligence israeliani si concentra contro i palestinesi di Nablus e Jenin in Cisgiordania e nella città di Gerusalemme. I palestinesi non sono sorpresi da questa recente intensificazione degli assalti da parte di Israele, che si fonda sulle azioni di anni precedenti.

La [Città vecchia] è come è sempre stata” dice Basil Kittaneh, ricercatore e abitante della Città Vecchia di Nablus, dove fioriscono gruppi armati di resistenza, guidati principalmente da giovani senza affiliazioni con alcun partito politico. 

Ogni giorno gli abitanti si preparano a sperare in qualcosa. Ogni notte i droni ronzano e non fanno dormire la gente che è terrorizzata,” afferma.

Dopo il picco dell’Intifada dell’Unità della scorsa estate un cambiamento imprevisto è scaturito dall’unificazione dei palestinesi da una parte e dall’altra dei confini, i cui effetti continuano tuttora a vedersi.

Quando l’anno scorso i palestinesi si si sono ribellati collettivamente, sono stati anche puniti collettivamente, anche quelli con cittadinanza israeliana. Nel maggio 2021 la polizia israeliana ha lanciato l’operazione “Legge e ordine” che ha preso di mira i palestinesi con cittadinanza israeliana che avevano partecipato alle attività dell’Intifada dell’Unità, particolarmente quelli che avevano sparato sulle folle israeliane inferocite che avevano invaso i quartieri palestinesi attaccandone gli abitanti. Da un giorno all’altro migliaia di palestinesi con cittadinanza israeliana sono stati arrestati come punizione collettiva e in nome di quella che gli apparati di sicurezza israeliani definiscono “deterrenza.” 

Guidata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi, insieme al premier israeliano, la campagna Break the Wave durata mesi è il punto cruciale di quello a cui stiamo assistendo oggi nella Palestina occupata. Kochavi ha impiegato soldati israeliani non solo in Cisgiordania, ma ha anche esteso la giurisdizione militare della polizia israeliana in città oltre la Linea Verde [cioè in Israele. n.d.t.]. I palestinesi con cittadinanza israeliana furono sottoposti a un regime militare de facto fino agli anni ‘70.

Le implicazioni dell’attuale escalation di Israele fanno parte del più ampio progetto coloniale israeliano guidato da un’ideologia sionista di destra. Secondo il capo militare israeliano le forze israeliane hanno arrestato più di 1.500 palestinesi in raid quotidiani contro città e paesi.

A settembre Kochavi ha detto: “A questo scopo raggiungeremo ogni città, quartiere, vicolo, casa o cantina.” Tuttavia i numeri sono molto più alti di quelli riportati da Kochavi, il che ha portato a un attacco sistematico al senso di stabilità e sicurezza dei palestinesi, poiché implica che le forze israeliane non siano confinate a un singolo spazio geografico, ma che invece prendono di mira tutti, non solo coloro che resistono, ma anche quelli che mostrano segni potenziali di resistenza.

La gente [della Città Vecchia] è in stato di allerta tutta la notte,” ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “Complessivamente sono favorevoli alla resistenza, ma la punizione collettiva è imposta su tutta Nablus.” 

Resistenza senza coordinamento

Proprio come l’esercito israeliano non è limitato dalla geografia, non lo è neppure la conflittualità palestinese. Ad agosto abbiamo assistito a una nuova dinamica fra Gaza e la Cisgiordania in cui, a differenza del decennio passato, Gaza è diventata una forza mediatrice per il ridimensionamento della resistenza in Cisgiordania.

Ogni persona degna e libera del mondo starà dalla nostra parte,” ha detto a settembre a Mondoweiss S., combattente per la resistenza, mentre si sentiva in lontananza il rumore delle sparatorie da parte delle forze dell’ANP impegnate a soffocare simultaneamente i crescenti gruppi di resistenza a Nablus. 

Foto: SHADI JARAR’AH/APA IMAGES

Sebbene alcuni paesi e città palestinesi siano diventati obiettivi primari nell’ultima campagna israeliana, l’attacco dell’esercito e dell’intelligence israeliani è generalizzato. Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi da gennaio sono stati arrestati più di 5.292 palestinesi. Su 100 arresti, 14 sono bambini e minori, 766 di loro sono stati imprigionati da gennaio.

Si va dalla resistenza armata a quella popolare disarmata, che si è allargata con il coinvolgimento dei palestinesi della diaspora e in esilio. In questo modo la frammentazione dell’identità dei palestinesi da parte di Israele continua a essere sfidata e interrotta.

Poiché dal 2005 questo è stato uno degli anni più letali per i palestinesi in termini di violenza dei coloni, essi si trovano ora davanti a una repressione molto variegata.

Contemporaneamente all’intensificazione di arresti, l’esercito israeliano sta intenzionalmente inasprendo gli omicidi mirati extragiudiziali di palestinesi, principalmente di combattenti della resistenza. Questo è risultato nell’uccisione di oltre 160 palestinesi solo in Cisgiordania (altri 49 sono stati uccisi a Gaza durante il violento attacco di agosto). 

Il ruolo dell’Autorità Palestinese nel reprimere la resistenza

Mentre Israele continua la sua campagna contro i gruppi della resistenza palestinese, il governo israeliano e le forze armate hanno trovato un partner affidabile nella loro repressione: l’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 19 settembre le forze di sicurezza dell’ANP, che continua nella controversa politica di coordinamento per la sicurezza con gli israeliani, hanno attaccato la città di Nablus e arrestato due palestinesi combattenti della resistenza, Musaab Shtayyeh, 30 anni, e Ameed Tbeileh, 21 anni, il primo diventato il successore ufficioso di Ibrahim al-Nabulsi, il “Leone di Nablus”, dopo il suo assassinio all’inizio di questa estate. 

Durante i raid che hanno scatenato pesanti scontri a Nablus e proteste contro l’ANP in Cisgiordania le forze di sicurezza dell’ANP hanno ucciso Firas Yaish, 55 anni. Per gran parte dell’opinione pubblica palestinese l’attacco dell’ANP contro i combattenti a Nablus è stato un’aggressione contro la resistenza palestinese, solo un altro esempio del fatto che l’ANP fa il lavoro sporco per Israele. 

Gli attacchi mirati contro la resistenza a Nablus sono arrivati quasi una settimana dopo che Lapid e Kochavi avevano parlato dell’intensificazione delle comunicazioni tra l’esercito israeliano e le forze di sicurezza dell’ANP contro la resistenza palestinese. La morsa israeliana sulla Cisgiordania dipende in larga misura dal sostegno dell’ANP per sorvegliare, prendere di mira, arrestare gli attivisti e allontanare il coinvolgimento politico palestinese dal discorso relativo alla liberazione.

Negli ultimi mesi del 2021 e nei primi mesi di quest’anno l’Autorità Nazionale Palestinese ha intrapreso una campagna su larga scala contro l’opposizione politica, inclusi gli studenti universitari e i giovani che criticano o contestano la legittimità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Appena l’anno scorso, il 24 giugno 2021, le forze di sicurezza dell’ANP hanno attaccato la casa di Nizar Banat, candidato del Consiglio Legislativo Palestinese, ammazzandolo di botte davanti alla moglie, Jihan e ai loro quattro figli. Nessuno si è assunto la responsabilità di questo crimine di omicidio extragiudiziale che la moglie ha descritto a Mondoweiss come “più vicino alla tortura.”

Mentre Kochavi prometteva l’escalation, il premier Yair Lapid parlava alle Nazioni Unite suggerendo la ripresa della soluzione a due Stati, rivolgendo il proprio discorso al popolo palestinese dicendo: “Noi possiamo costruire il vostro futuro insieme, sia a Gaza che in Cisgiordania,” ma solo se i palestinesi sono disarmati e “dimostrano che Hamas e il Jihad islamico non prenderanno il controllo dello Stato palestinese che (l’ANP) vuole creare.”

A luglio di quest’anno, prima che il presidente USA Joe Biden visitasse la regione, alti diplomatici del Dipartimento di Stato hanno frequentemente visitato la regione. Tuttavia la maggior parte degli incontri con i rappresentanti palestinesi era incentrata su Majed Faraj e Hussein Al-Sheikh. Entrambi sono comandanti della sicurezza preventiva palestinese e degli affari dell’amministrazione civile e, sebbene estremamente impopolari fra il pubblico palestinese, sono stati identificati come i potenziali successori dell’anziano presidente, Mahmoud Abbas.

A vent’anni S. ha conosciuto solo la brutalità della seconda rivolta o il fallimento dell’ANP nell’offrire ai palestinesi servizi e protezione. “Qui viviamo sotto due occupazioni,” ha detto risentito. 

Indicazioni su quello che sta per succedere

L’attuale discussione fra israeliani segnala la possibilità non solo di un’escalation della violenza contro i palestinesi in modi simili all’Operazione Scudo Difensivo agli inizi degli anni 2000, ma anche il paternalismo della percezione israeliana verso i palestinesi. 

Lapid ha specificato che Israele aiuterà i palestinesi a costruire il loro futuro. La dichiarazione è improntata al paternalistico mancato riconoscimento coloniale del diritto palestinese all’autodeterminazione e alla sovranità, mentre enfatizza la necessità di disarmare i palestinesi.

In effetti la Cisgiordania è stata disarmata sotto l’ANP fin dalla fine della Seconda Intifada, eppure ora sembra che fosse solo una situazione temporanea. Mentre gruppi come Areen al-Usud continuano a guadagnare popolarità e influenza fra la gente, l’ANP preferirebbe rafforzare il coordinamento per la sicurezza con Israele per essere certa che le armi usate contro l’occupazione israeliana non vengano un domani rivolte contro l’ANP. 

Resta da vedere se l’opinione pubblica palestinese nel suo complesso sceglierà di unirsi a questi gruppi emergenti di resistenza armata per trasformare il presente movimento in una vera e propria rivolta. Ma gli effetti che questi gruppi stanno avendo si faranno sicuramente sentire, sui social e nelle strade.

Senza cambiamenti in vista riguardo all’espansione dei coloni e al furto di vite, terre e risorse palestinesi, la presente situazione della Palestina ha per forza di cose fatto sorgere nuovi modi di pensare ed agire. 

Fintanto che i palestinesi resteranno sotto lo stivale del colonialismo israeliano continueranno a resistere e a ritagliarsi nuovi spazi che permettano loro di gridare insieme “basta.”

Mariam Barghouti

Mariam Barghouti è la principale corrispondente di Mondoweiss per la Palestina.

Yumna Patel

Yumna Patel è la caporedattrice di Mondoweiss per la Palestina.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Combattenti palestinesi uccidono un soldato israeliano nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

11 ottobre 2022 – Al Jazeera

L’uccisione di un soldato israeliano vicino ad una colonia illegale avviene pochi giorni dopo che un altro [soldato] è stato colpito a morte ad un posto di blocco nella Gerusalemme est occupata

Un soldato israeliano è stato colpito a morte vicino ad una colonia illegale nella Cisgiordania occupata in un attacco rivendicato da un gruppo palestinese, il secondo assalto alle forze armate in pochi giorni.

L’esercito israeliano ha detto che il soldato è stato ucciso martedì quando “due aggressori sono arrivati con un veicolo vicino alla comunità di Shavei Shomron e hanno sparato proiettili veri.”

Gli spari nella colonia israeliana sono stati rivendicati dalla ‘Fossa dei Leoni’, una coalizione eterogenea di combattenti palestinesi che si è formata negli ultimi mesi.

Annunciamo che stiamo conducendo una seconda operazione di fuoco contro i soldati dell’occupazione (israeliana) nella zona di Deir Sharaf, ad ovest di Nablus”, ha affermato il gruppo.

La zona si trova tra Nablus e Jenin, città palestinesi che hanno assistito a sei mesi di intensificate incursioni dell’esercito scatenate da Israele in seguito ad un’ondata di attacchi nelle strade di città israeliane.

Nel suo comunicato l’esercito ha aggiunto che forze israeliane stanno cercando le persone che hanno compiuto l’attacco. Secondo l’agenzia AFP [Agenzia France Press], le forze israeliane sono state schierate nell’area e perquisiscono i veicoli.

In un post su Twitter il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha promesso che “prenderemo il terrorista e quelli che lo hanno aiutato”.

Il soldato ucciso è stato identificato come il 21enne Ido Baroukh.

L’uccisione è avvenuta tre giorni dopo che una soldatessa israeliana 18enne è stata colpita a morte ad un posto di blocco presso il campo profughi palestinese di Shuafat, nella Gerusalemme est occupata.

Le forze israeliane proseguono la ricerca del presunto sparatore, identificato dalla polizia come un 22enne palestinese residente nella città.

Hanno chiuso gli ingressi al campo profughi e l’ONU ha detto che lunedì le scuole (del campo) sono state chiuse.

Punizione collettiva’

Il parlamentare palestinese della Knesset Ahmad Tibi martedì ha visitato il campo e ha descritto la “sofferenza” degli abitanti.

Le persone malate non possono uscire dal campo per essere curate, le panetterie sono vuote, alcuni medici e infermieri non hanno potuto entrare”, ha detto all’agenzia AFP.

Per uscire dal campo devi aspettare in macchina tre o quattro ore. Questa è sofferenza, questa è punizione collettiva”, ha aggiunto Tibi.

Intanto, secondo il Ministero della Salute palestinese, da venerdì quattro adolescenti palestinesi sono stati colpiti a morte dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata.

Un quinto palestinese, un ragazzino di 12 anni, è morto lunedì in seguito alle ferite riportate il mese scorso durante un’incursione militare israeliana nella città cisgiordana di Jenin.

L’esercito ed altre forze di sicurezza israeliane nei mesi scorsi hanno compiuto incursioni quasi quotidiane in Cisgiordania, soprattutto a Jenin e Nablus, dove la resistenza armata palestinese sta divenendo più organizzata e si sono formati nuovi gruppi di miliziani.

Da gennaio sono stati uccisi più di 80 palestinesi, sia combattenti che civili, in quello che la Commissione Europea ha definito l’anno più letale nella Cisgiordania occupata dal 2008.

La giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è stata uccisa a maggio mentre documentava un raid israeliano a Jenin.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, quest’anno in Cisgiordania sono stati uccisi almeno 20 minori palestinesi.

Israele ha occupato la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est durante la guerra mediorientale del 1967. I leader palestinesi rivendicano questi territori per la creazione di un futuro Stato.

Le colonie israeliane sono considerate illegali dal diritto internazionale. I governi israeliani che si sono succeduti hanno costruito e ampliato le colonie nei territori palestinesi occupati – un’azione che i palestinesi sostengono abbia l’obbiettivo di un cambiamento demografico.

Ci sono almeno 600.000 coloni israeliani che vivono in circa 250 colonie nella Cisgiordania e Gerusalemme est occupate, spesso sotto massiccia protezione militare israeliana.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La chiesa presbiteriana statunitense dichiara Israele ‘Stato di apartheid’ e crea il giorno del ricordo della Nakba.

Redazione di The New Arab

Giovedì 30 giugno 2022 –The New Arab

Durante la 225-esima assemblea generale la chiesa presbiteriana statunitense ha dichiarato Israele ‘Stato di apartheid’ e ha votato per inserire nel proprio calendario il giorno del ricordo della Nakba.

Martedì 28 giugno durante la 225-esima assemblea generale la chiesa presbiteriana statunitense ha votato per dichiarare Israele ‘Stato di apartheid’ e per inserire nel proprio calendario il giorno del ricordo della Nakba.

La chiesa dichiara di avere oltre 1,7 milioni di membri.

Secondo una dichiarazione presente sul sito web della chiesa presbiteriana la sua commissione per l’impegno internazionale ha approvato una risoluzione che riconosce che “le leggi, le politiche e le pratiche israeliane riguardo al popolo palestinese rispondono alla definizione del diritto internazionale di apartheid”.

La commissione ha anche invocato la fine dell’assedio di Gaza da parte dello Stato di Israele e ha affermato il “diritto di tutti i popoli a vivere e praticare la propria devozione in pace” a Gerusalemme.

Dei 31 membri votanti, 28 hanno approvato la risoluzione che afferma che lo Stato di Israele sta mettendo in pratica l’apartheid “istituendo due insiemi giuridici, uno per gli israeliani ed un altro per i palestinesi ,che concedono un trattamento preferenziale agli ebrei israeliani e un trattamento oppressivo ai palestinesi”.

È stata anche approvata una risoluzione che istituisce il 15 maggio come il giorno del ricordo della Nakba palestinese – che commemora la tragedia del 1948 in cui 750.000 palestinesi furono espulsi per la creazione dello Stato di Israele.

Questa risoluzione ha ricevuto nella commissione 31 voti a favore e nessuno contrario.

È stata approvata “con lo scopo di pregare per la pace” e “in solidarietà con quanti soffrono sotto occupazione”.

La risoluzione inoltre afferma che il ricordo deve essere incluso nel calendario annuale presbiteriano.

La risoluzione sollecita in modo specifico il governo statunitense ad “esortare immediatamente il governo di Israele a cessare tutte le azioni ostili che sono definite come “punizioni collettive” secondo il diritto internazionale … [e] a terminare l’assedio a Gaza”.

Le risoluzioni della chiesa presbiteriana riprendono le dichiarazioni di alcune organizzazioni per i diritti umani relative al trattamento dei palestinesi da parte di Israele.

La continua occupazione del territorio palestinese da parte di Israele e la sua persecuzione e violenza contro i palestinesi sono state definite come apartheid da Amnesty International e Human Rights Watch.

Anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi ha pubblicato un rapporto che afferma che lo Stato di Israele ha imposto ai palestinesi una ‘situazione di apartheid’.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




15 anni di troppo

Al Mezan Center for Human Rights

14/06/2022 – Al Mezan Center for Human Rights

Una scheda informativa sugli effetti devastanti del blocco israeliano della striscia di Gaza

Centro per i Diritti Umani Al Mezan

Scheda informativa

14 giugno 2007 14 giugno 2022

Al Mezan Center for Human Rights è un’organizzazione per i diritti umani indipendente, apartitica e non governativa fondata nel 1999. Al Mezan si impegna a proteggere e promuovere il rispetto dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti economici, sociali e culturali, sostenere le vittime di violazioni del diritto internazionale attraverso iniziative legali e rafforzare la democrazia, la partecipazione della comunità e dei cittadini e il rispetto dello stato di diritto a Gaza come parte della Palestina occupata.

INTRODUZIONE E CONTESTO

  • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.
  • La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici dellIl 6 giugno 1967 le autorità israeliane dichiararono la Striscia di Gaza un’area militare chiusa in base a un ordine militare rimasto in vigore anche dopo la firma degli accordi di Oslo [serie di accordi politici ratificati il 13 settembre del 1993 come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo israeliano, ndt.]È significativo che le restrizioni israeliane verso la Striscia di Gaza siano iniziate già negli anni ’90, per mezzo di una serie di misure adottate dalle autorità israeliane, tra cui la riduzione della zona di pesca nelle acque territoriali palestinesi, il divieto per i lavoratori palestinesi di Gaza di lavorare in Israele e l’imposizione di restrizioni al movimento dei palestinesi attraverso il valico di Erez [valico di frontiera con Israele nel nord della Striscia di Gaza, ndt.].

    Con lo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa o Seconda Intifada il 28 settembre 2000, e in particolare a partire dal 9 ottobre 2000, le forze israeliane dichiararono e imposero la chiusura della Striscia di Gaza e assediarono le aree residenziali vicino alle colonie israeliane allora presenti, come le aree di al-Mawasi e al-Syafa, chiusero la grande maggioranza dei valichi compromettendo il funzionamento di alcuni altri. Dopo il “disimpegno” israeliano da Gaza del 2005 [in base al piano dell’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, applicato nell’agosto 2005 per rimuovere tutti gli abitanti israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale, ndt.], le autorità israeliane chiusero la sezione merci del valico di Erez e del tutto i valichi di Sufa, Karni e Nahal Oz, che vennero sostituiti dal valico Karem Abu Salem, l’unico attraversamento commerciale di Gaza. Inoltre, prima dell’ottobre 2000, veniva utilizzato il valico di Rafah, controllato dalle autorità israeliane fino al 2005, che operava 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e chiudeva solo due giorni all’anno. Tuttavia, da allora, il valico ha funzionato per un numero limitato di ore e per alcuni giorni alla settimana. Ci sono stati anche periodi in cui Rafah è stato chiuso per mesi.

    Quando nel 2007 Hamas divenne l’autorità di governo della Striscia di Gaza le autorità israeliane inasprirono le misure di chiusura preesistenti, raddoppiarono le restrizioni alla libertà di circolazione e alle merci e il 21 giugno 2007 sospesero il codice doganale di Gaza. Inoltre il 18 settembre 2007 il Gabinetto di sicurezza israeliano dichiarò la Striscia di Gaza un'”entità ostile/nemica”, ponendo così ostacoli insormontabili all’accesso da parte dei palestinesi di Gaza alle cause civili nei tribunali israeliani.

    La chiusura e il blocco da parte di Israele della Striscia di Gaza, che costituisce una punizione collettiva, vietata dal diritto umanitario internazionale, è attuata nel contesto dell’occupazione coloniale da parte di Israele dei territori palestinesi occupati (TPO) e del suo sistema di discriminazione razziale, dominio e oppressione contro il popolo palestinese, aspetti che soddisfano la definizione di apartheid secondo il diritto internazionale.

    Durante 15 anni di chiusura e blocco della Striscia di Gaza da parte di Israele la libertà di movimento dei palestinesi è stata gravemente limitata, anche attraverso la creazione di aree militari interdette o zone cuscinetto sulla terra e sulle acque palestinesi note come “aree ad accesso limitato”. Inoltre dal 2007 Israele ha condotto contro la Striscia di Gaza quattro offensive militari su vasta scala, uccidendo in un periodo di 13 anni (2008-21) circa 4.041 palestinesi, di cui 1.005 minori e 461 donne, e distruggendo decine di migliaia di abitazioni, strutture industriali e commerciali e infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione civile, comprese reti elettriche, idriche, sanitarie e strade, deteriorando ulteriormente le condizioni umanitarie e facendo crescere i tassi di povertà e disoccupazione. Parallelamente, la popolazione di Gaza, che alla fine del 2006 ammontava a 1,5 milioni di palestinesi, ha raggiunto alla fine del 2021 i 2,1 milioni, rendendo la Striscia una delle aree più densamente popolate al mondo.

    Questa scheda informativa, supportata da cifre, presenta risultati e indicatori che mostrano l’entità delle violazioni israeliane nei 15 anni di chiusura e blocco che hanno reso la Striscia di Gaza invivibile per i suoi oltre due milioni di abitanti.

    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 gli attacchi militari israeliani hanno ucciso 5.418 palestinesi, il 23% dei quali minori e il 9% donne, e ferito migliaia di altri; distrutto 3.118 strutture commerciali, 557 fabbriche, 2.237 veicoli e 2.755 strutture pubbliche; distrutto 12.631 unità abitative e danneggiato parzialmente altre 41.780. Inoltre le autorità israeliane hanno inasprito le restrizioni all’ingresso all’interno della Striscia di Gaza di materiali da costruzione, impedendo così ai palestinesi di ricostruire le loro case distrutte.
    • Le forze israeliane hanno anche impiegato una forza eccessiva e letale contro i minori palestinesi che tentavano di attraversare la recinzione perimetrale e hanno ucciso 15 minorenni, ne hanno ferito sette e arrestato 204.
    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno effettuato circa 872 incursioni circoscritte nelle aree adiacenti la recinzione del confine orientale e settentrionale del territorio palestinese, spianando i terreni agricoli e distruggendo i raccolti. Nello stesso periodo, le forze israeliane hanno preso ripetutamente di mira i lavoratori agricoli palestinesi, uccidendone 136. Le forze israeliane hanno spianato e cosparso di pesticidi chimici 33.100 donum [3.310 ettari, ndt.] di terreni agricoli palestinesi.
    • La marina israeliana prende regolarmente di mira i pescatori palestinesi in mare aprendo il fuoco contro di loro, arrestandoli, sequestrando le loro attrezzature, perseguitandoli e ostacolando il loro lavoro. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 Al Mezan ha documentato 2.514 violazioni contro pescatori, che hanno provocato sette morti, 179 feriti e 750 arresti. Inoltre la marina israeliana ha sequestrato 237 pescherecci danneggiandone altri 131 oltre ad un grande quantità di attrezzature per la pesca e beni di prima necessità.
    • La marina israeliana ha ripetutamente ed estesamente impedito ai pescatori palestinesi di navigare nelle acque territoriali palestinesi e ha anche ripetutamente vietato le attività ittiche nella zona di pesca autorizzata.
    • Le autorità israeliane arrestano arbitrariamente i palestinesi che cercano di entrare in Israele attraverso Erez per raggiungere la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, o per viaggiare all’estero, utilizzando il valico come trappola. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 hanno arbitrariamente arrestato 204 palestinesi, tra cui 48 studenti di scuole superiori, dipendenti iscritti a corsi e scuole di formazione esterne e 85 commercianti.
    • Tra le restrizioni imposte dalle autorità israeliane c’è un sistema di permessi volubile e discriminatorio a cui devono sottostare tutti i palestinesi che desiderano lasciare Gaza via Erez. Una delle categorie più vulnerabili colpite dal regime vessatorio e macchinoso di permessi di Israele sono i pazienti clinici. Tra il 2010 e il febbraio 2022 le autorità israeliane hanno respinto o ritardato il 30% delle richieste di permesso dei pazienti. Inoltre le autorità israeliane hanno arrestato a Erez 43 pazienti palestinesi in possesso di referti medici e 28 dei loro accompagnatori dopo aver concesso loro i permessi di uscita. I dati di Al Mezan mostrano che negli ultimi 15 anni 72 pazienti, tra cui dieci minorenni e 25 donne, sono morti dopo che Israele ha negato o rinviato i loro permessi.
    • A seguito delle restrizioni israeliane imposte alla Striscia di Gaza il volume delle importazioni è drasticamente diminuito. Nel 2005 sono entrati a Gaza 111.480 camion di merci importate, per ridursi rapidamente a 26.838 nel 2008. Nel 2020 sono entrati nella Striscia di Gaza 96.651camion di merci importate, il che può essere spiegato considerando la crescita della popolazione e l’aumento della domanda di servizi.
    • Dopo l’imposizione della chiusura è diminuito anche il volume delle merci esportate. Mentre nel 2005 la Striscia di Gaza ha esportato 9.319 camion di merci, nel 2008 il volume delle esportazioni si è ridotto drasticamente a 33 camion. Nel 2020 la Striscia di Gaza ha esportato 3.118 camion di merci, che corrisponde a circa un terzo della quantità esportata prima della chiusura.
    • Dal momento dell’imposizione delle misure di chiusura le autorità israeliane hanno regolarmente vietato l’ingresso di carburante nell’unica centrale elettrica di Gaza, esacerbando ulteriormente la crisi elettrica esistente e spingendo le persone a ricorrere all’uso di candele, stufe a cherosene e generatori di corrente. Ciò ha causato molti incendi e incidenti dovuti ai generatori che solo nel 2012 hanno causato la morte di 35 persone, tra cui una donna e 28 minorenni, e il ferimento di altre 36, di cui 20 minori e sei donne.
    • Mentre a Gaza il fabbisogno di elettricità è stimato tra 600-660 MW, la fornitura disponibile non supera i 205 MW, il che ha portato negli ultimi 15 anni all’interruzione dell’elettricità ad orari determinati per più di 16 ore al giorno. La crisi della carenza di energia e il divieto da parte di Israele di introduzione di carburante hanno spinto molti comuni della Striscia di Gaza a rilasciare in mare liquami non trattati, causando un inquinamento delle acque. Nel 2021 un test effettuato dall’Autorità per la qualità dell’acqua e dell’ambiente ha mostrato che il 75% dell’acqua di mare lungo la costa di Gaza, che si estende per circa 40 km, è inquinata.
    • Anche gli abitanti di Gaza stanno attraversando una grave crisi per quanto riguarda la mancanza di acqua potabile sicura. Le autorità competenti affermano che il 96,2% dell’acqua estratta dalle falde acquifere di Gaza non soddisfa gli standard di qualità dell’acqua dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, soprattutto in termini di concentrazione di nitrati. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno attaccato e distrutto o danneggiato 292 pozzi idrici utilizzati sia per uso domestico che per terreni agricoli.
    • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.

      Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.

      La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici della biblioteca e l’organizzazione di mostre librarie che coinvolgano editori esterni.

    CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI

Sebbene il governo israeliano pretenda di giustificare la chiusura e le relative restrizioni con il pretesto di “sicurezza”, queste politiche dimostrano l’intenzione di Israele di separare e dividere i palestinesi e riprogrammare la demografia dell’intera popolazione palestinese per affermare il proprio dominio su di loro. In particolare, questa scheda informativa ha tenuto conto delle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle autorità israeliane nel contesto di una continua chiusura e blocco, compreso l’uso eccessivo della forza e ricorrenti attacchi militari a civili e loro abitazioni, con uccisione di migliaia di persone; arresto e detenzione arbitraria di minori, pazienti, pescatori e altre categorie vulnerabili; e l’imposizione deliberata ai palestinesi di Gaza di condizioni di vita inadeguate. Come evidenziato da Al Mezan nel suo rapporto The Gaza Bantustan – Israeli Apartheid in the Gaza Strip[Il Bantustan Gaza – Apartheid israeliano nella Striscia di Gaza, ndt.], questi atti disumani soddisfano la definizione del crimine contro l’umanità dell’apartheid sia ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla Repressione e punizione del crimine di apartheid che dello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale.

Di conseguenza, in questo triste quindicesimo anniversario, Al Mezan ribadisce il suo appello alla comunità internazionale perché faccia valere i suoi obblighi morali e giuridici nei confronti del popolo palestinese chiedendo con forza ad Israele di revocare immediatamente, completamente e incondizionatamente la sua chiusura e blocco, porre fine a tutte le relative restrizioni illegali imposte sulla circolazione di persone e merci da e verso la Striscia di Gaza e garantire responsabilità e giustizia per violazioni diffuse, gravi e sistematiche, compreso il crimine di apartheid, contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Due donne e un minore tra 6 palestinesi uccisi

Tamara Nassar

11 aprile 2022 – The Electronic Intifada

Un minore palestinese e due donne sono tra i sei palestinesi uccisi negli attacchi delle forze israeliane da venerdì.

Domenica sera i soldati hanno sparato all’addome al sedicenne Muhammad Hussein durante un raid nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania.

“I medici hanno trovato numerosi frammenti di proiettili nel bacino e nelle natiche di Muhammad”, ha dichiarato lunedì la Defense for Children International-Palestine. Muhammad è stato dichiarato morto poco dopo le 7 di questa mattina.

È il sesto minore palestinese ucciso dalle forze israeliane quest’anno.

Israele ha affermato che il ragazzo ha aperto il fuoco sulle forze israeliane che stavano facendo irruzione a Jenin in quel momento.

Dopo l’annuncio della sua morte il gruppo di resistenza della Jihad islamica lo ha rivendicato come un suo membro.

Tuttavia il racconto israeliano è contraddetto da un testimone oculare che ha dichiarato a Defense for Children International-Palestine che un veicolo militare israeliano è entrato a Jenin intorno alle 17:00 di domenica e ha iniziato a inseguire un’auto civile.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Muhammad “ha iniziato a correre dietro il veicolo militare israeliano e sembra stesse cercando per terra pietre da lanciargli contro”.

“Improvvisamente, senza alcun preavviso, un soldato israeliano ha sparato tre proiettili dal lunotto del veicolo militare, colpendo Muhammad all’addome da una distanza di circa quattro metri “.

Le ultime violenze israeliane arrivano dopo che i palestinesi hanno effettuato diversi attacchi in Israele e Cisgiordania in apparente risposta all’occupazione militare in corso e al sistema di apartheid israeliano.

Ansioso di mostrare all’opinione pubblica israeliana la sua durezza, il governo israeliano si è impegnato in una serie di uccisioni e arresti in tutta la Cisgiordania occupata.

Sullo sfondo delle recenti tensioni c’è il primo anniversario della rivolta dell’anno scorso nella Palestina storica, quando l’esercito israeliano ha effettuato un assalto di 11 giorni nella Striscia di Gaza assediata e in tutta la Cisgiordania occupata.

Madre di sei figli uccisa a colpi di arma da fuoco

Domenica, l’esercito di occupazione israeliano ha effettuato l’esecuzione extragiudiziaria una donna nella città palestinese di Husan, a ovest di Betlemme, sempre in Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno detto che Ghada Sbatin si stava comportando in modo “sospetto” mentre si avvicinava, quindi le hanno sparato.

Secondo i media israeliani la donna era disarmata.

I soldati israeliani hanno affermato di aver avviato una “procedura di arresto” sparando in aria. Sbatin non si è fermata e allora hanno aperto il fuoco direttamente contro di lei.

Le forze israeliane spesso affermano di aver tentato una procedura di arresto quando uccidono palestinesi.

I media hanno diffuso filmati dell’incidente.

Il video mostra tre soldati, due in piedi dietro barriere di cemento e un terzo accanto a loro. La donna si avvicina ai soldati che le sparano a bruciapelo.

Poi si vede Sbatin sdraiata a terra, ricoperta di cartone.

All’arrivo in un vicino ospedale aveva perso molto sangue, secondo il ministero della salute dell’Autorità Palestinese, ed è stata dichiarata morta. Sbatin era una madre vedova di sei figli.

Più tardi lo stesso giorno le forze israeliane hanno sparato e ucciso una donna palestinese vicino alla moschea Ibrahimi nella città di Hebron, in Cisgiordania. Sostengono che aveva accoltellato e ferito lievemente un ufficiale della polizia paramilitare di frontiera israeliana.

È stata identificata dal ministero della salute come la 24enne Maha Kathem al-Zaatari.

Sempre domenica, le forze di occupazione israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco il diciannovenne Muhammad Ali al-Ghunaim nella città palestinese di al-Khader, un villaggio vicino a Husan.

Sparare nel mucchio

Lo stesso giorno, un comandante militare israeliano ha sparato e ucciso un uomo nella città di Ashkelon, nel sud di Israele, che avrebbe cercato di rubare l’arma di un soldato.

L’esercito israeliano ha detto di averlo “neutralizzato”.

L’uomo si è rivelato essere un cittadino ebreo israeliano che era scappato da un reparto psichiatrico, non un palestinese.

“Inizialmente si riteneva trattasse di un terrorista ucciso sul posto a colpi di arma da fuoco”, ha spiegato il sindaco di Ashkelon Tomer Glam.

“Poco fa è risultato chiaro che si trattava di un cittadino ebreo ad aver commesso l’atto, ed è stato sollevato il sospetto che potesse essere malato di mente “, ha aggiunto, suggerendo che l’esercito avrebbe potuto rispondere diversamente se avesse saputo che l’autore era un ebreo israeliano piuttosto che un palestinese.

Questo incidente illustra il livello di tensione in cui praticamente chiunque può essere sommariamente ucciso per “sospetto” di “terrorismo”.

Ma dimostra anche la natura razzista del sistema di apartheid israeliano, in cui ogni palestinese che resiste a quel sistema viene automaticamente bollato come “terrorista”, senza indagare su motivazioni o condizioni, mentre agli ebrei israeliani sono concesse le malattie mentali.

Guerra a Jenin

Sabato le forze di occupazione israeliane hanno invaso il campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata settentrionale per fare irruzione nella casa del palestinese armato accusato di aver sparato e ucciso due israeliani giovedì.

Raed Hazem, 28 anni, è stato accusato di aver ucciso due israeliani e feriti altri 10 nella vivace Dizengoff Street di Tel Aviv, nel quarto attacco mortale in Israele delle ultime settimane.

È stato ucciso in uno scontro a fuoco con le forze israeliane mentre si nascondeva vicino a una moschea nella città portuale di Jaffa venerdì mattina, ha riferito il quotidiano di Tel Aviv Haaretz.

Hazem proveniva dal campo profughi di Jenin.

Sabato durante l’irruzione nella casa della sua famiglia, palestinesi armati hanno difeso il campo dall’invasione israeliana e un combattente della resistenza palestinese è stato ucciso.

Si chiamava Ahmad Naser al-Saadi, 23 anni, comandante sul campo della brigata Jenin del gruppo di resistenza della Jihad islamica.

Almeno altri 13 sono stati feriti con proiettili veri, ha affermato il ministero della salute dell’Autorità palestinese.

La brigata Jenin è stata costituita nel settembre 2021, quando sei palestinesi sono fuggiti da una delle prigioni più fortificate di Israele ma sono stati successivamente catturati.

Jenin rimane un centro della resistenza armata palestinese all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, nonostante tutti gli sforzi di Israele e dell’Autorità Palestinese per reprimere tale resistenza.

La città è diventata punto focale dei recenti scontri tra palestinesi armati e forze israeliane.

Le autorità israeliane stanno pianificando la demolizione delle case dei familiari di Raed Hazem e Dia Hamarsheh, entrambi residenti nell’area di Jenin, accusati di attacchi mortali in Israele.

Questa è una forma di punizione collettiva che Israele usa esclusivamente contro le famiglie dei palestinesi accusati di violenza, ma mai contro le famiglie degli ebrei.

Domenica le truppe israeliane hanno aperto il fuoco su un veicolo che trasportava i due fratelli di Hazem, compreso un bambino, e la loro madre, ha detto il fratello maggiore ai media.

I soldati israeliani hanno prima cercato di scontrarsi frontalmente contro l’auto, ma, quando il fratello di Hazem è riuscito a evitare lo scontro, i soldati hanno lasciato il loro veicolo militare e si sono avvicinati all’auto “direttamente” con “l’intenzione di uccidere, non di arrestare”, ha detto il fratello.

Durante questo attacco le forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco il sedicenne Muhammad Qassim.

Punizione collettiva

Sabato le autorità israeliane hanno annunciato una serie di punizioni collettive dirette non solo alle famiglie dei sospetti aggressori, ma contro l’intera popolazione di Jenin.

Includono la revoca dei permessi di lavoro, il divieto per i cittadini israeliani di visitare Jenin e il divieto ai residenti di Jenin di visitare le famiglie in Israele.

“Ci si aspetta che tali restrizioni infliggano un duro colpo all’economia locale”, ha affermato il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, osservando che la stragrande maggioranza del potere d’acquisto della città proviene dai cittadini palestinesi di Israele.

Quando punisci tutta Jenin, impedisci il commercio e di recarsi al lavoro metti le persone con le spalle al muro. Aspettati che facciano qualsiasi cosa”, ha detto al Times of Israel il sindaco di Jenin, Akram al-Rajoub.

Due decenni fa, in questo mese, l’esercito israeliano massacrò almeno 52 palestinesi e ne ferì dozzine nel campo profughi di Jenin, secondo un rapporto compilato all’epoca dal segretario generale delle Nazioni Unite.

Le forze israeliane hanno bombardarono anche 150 edifici lasciando 450 famiglie senza casa. Secondo il rapporto 23 soldati israeliani morirono durante l’operazione.

L’escalation di Israele non mostrò in alcun modo di produrre la pacificazione dei palestinesi e la tranquilla occupazione a cui aspira Israele.

L’esercito israeliano ha dichiarato che due israeliani, entrati lunedì nella città occupata di Nablus, in Cisgiordania, sono stati leggermente feriti in una sparatoria da parte di palestinesi.

Gli israeliani stavano andando alla tomba di Giuseppe, un sito archeologico considerato sacro da musulmani, cristiani ed ebrei, situato nel cuore della città.

I coloni israeliani effettuano regolarmente visite al sito scortati pesantemente dall’esercito israeliano.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




I pescatori di Gaza presi tra l’incudine e il martello 

Motasem A Dalloul

9 agosto 2021 middleeastmonitor

“La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più.”

Samya e Omayya Abu Watfa hanno perso il padre undici anni fa. Si stanno preparando per il nuovo semestre all’università, dove Samya studia chimica e Omayya studia sicurezza alimentare. Ognuno ha bisogno di circa 1.100 – 1.200 dollari per le tasse scolastiche, ma dipendono dal fratello Mohammad, 33 anni, che è un pescatore. Ciò significa che il denaro scarseggia.

“Lavora giorno e notte per provvedere a noi, a nostra madre e ai tre fratelli”, mi ha detto Samya. Mohammad è per noi fratello, padre, tutto.” Ha anche la sua famiglia a cui pensare, una moglie e quattro figli.

A 22 anni Mohammad Abu Watfa ha ereditato la barca da suo padre. Ha lasciato l’università per lavorare e provvedere alla famiglia. “Lavoravo con mio padre quando era vivo, anche durante gli studi. Voleva che diventassi ingegnere, ma non potevo lavorare e continuare a studiare”.

Come tutti gli altri pescatori di Gaza, Abu Watfa sarebbe contento del suo lavoro, anche se è molto duro, se non fosse per le restrizioni imposte da Israele e per le quotidiane violenze esercitate dalla marina israeliana.

Il capo del Sindacato dei Pescatori di Gaza ha ribadito come l’occupazione israeliana abbia imposto un rigoroso blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza dal 2006. “Questo rende insopportabile la vita di oltre 2 milioni di persone a Gaza”, ha affermato Nizar Ayyash. “La pesca è uno dei settori più colpiti dal blocco. Più di 4.500 pescatori, che hanno complessivamente a carico circa 50.000 persone, vivono e lavorano sotto un’estrema pressione e stress a causa delle misure israeliane connesse al blocco”.

Secondo gli Accordi di Pace di Oslo firmati nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i palestinesi dovrebbero avere accesso alla pesca senza restrizioni fino a 20 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, non sono mai stati autorizzati ad avventurarsi oltre le 16 miglia. Normalmente, sono bloccati entro le 12 miglia; spesso molto meno.

La scorsa settimana, ad esempio, la marina di occupazione israeliana ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche in risposta a ciò che Israele ha affermato essere il lancio di palloni incendiari da Gaza verso Israele. È stato poi esteso di nuovo a 12 miglia nautiche. Questo è il gioco israeliano con i pescatori palestinesi dal 2005. Ci sono momenti in cui lo Stato di occupazione vieta del tutto la pesca per giorni o settimane con il più debole dei pretesti.

“Dal 2007”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ( OCHA) in un recente rapporto, “Israele ha mantenuto incerta la zona di pesca come parte della sua politica di ‘zone cuscinetto’ marittime, ovvero limposizione unilaterale da parte di Israele di inaccessibili zone militari nelle acque palestinesi, spesso vietando completamente la pesca ai palestinesi”.

La pesca è sempre stata un lavoro pericoloso per uomini come Abu Watfa, che mette in gioco la propria vita per portare il cibo in tavola. “A volte ci sono branchi di pesci a circa 15 miglia al largo. Se vogliamo catturarli, dobbiamo andare più in là e spingerli a riva. Quando lo facciamo, la marina israeliana ci insegue, ci spara e poi ci vieta di pescare”.

L’ OCHA ha sottolineato che “Nel corso degli anni, gli attacchi illegali e ingiustificati di Israele – comprese forme di forza letale e altri eccessi, arresti arbitrari, confisca e distruzione di barche e altri materiali da pesca – e restrizioni punitive contro i pescatori palestinesi hanno reso la pesca al largo della costa di Gaza un rischio per la vita e la sicurezza e ridotto la comunità dei pescatori in povertà estrema”.

Queste pratiche, ha aggiunto l’ONU, fanno parte della attuale politica di Israele di interdizioni nella Striscia di Gaza. “Equivalgono a una punizione collettiva illegale degli oltre due milioni di residenti palestinesi, e sono tra le pratiche, leggi e politiche che costituiscono il regime di apartheid di Israele contro il popolo palestinese”.

Bilal Bashir, 42 anni, lavora insieme ad altri dieci pescatori sulla stessa barca. Si è lamentato delle ripetute aggressioni israeliane contro di loro. “A volte, Israele decide di ridurre la zona di pesca proprio mentre siamo in mare. Apprendiamo della restrizione solo quando la marina apre il fuoco contro di noi o i marinai ci urlano contro con gli altoparlanti”.

La sua barca è stata colpita più volte dal fuoco israeliano. Nel marzo 2015, ricorda con amarezza, il suo collega Tawfiq Abu Riala, 32 anni, è stato ucciso. “Quando Tawfiq è stato colpito siamo rimasti scioccati e abbiamo chiesto aiuto. Invece di aiutarci, la marina ha arrestato altri due uomini”.

L’ultimo incidente del genere è accaduto nel febbraio 2018. Le forze di occupazione hanno spiegato cosa è successo: “Una nave sospetta [sic] ha lasciato la zona di pesca al largo della Striscia di Gaza settentrionale, con a bordo tre sospetti [per cui i marinai israeliani hanno iniziato] il protocollo di arresto, che include richiami [di stop], spari di avvertimento in aria e spari alla barca stessa… A seguito degli spari, uno dei sospetti è stato gravemente ferito e in seguito è morto per le ferite riportate”.

La pesca è un affare costoso. Un giorno in mare di una barca con dieci pescatori a bordo può costare fino a 1.500 dollari. “Quando navighiamo entro le 15 miglia nautiche, difficilmente il pescato può coprire le spese”, ha osservato Kinan Baker, 27 anni. “Quando la zona di pesca viene ridotta a sei miglia nautiche è una perdita enorme perché il pescato non copre le spese .”

Ayyash ha descritto l’industria della pesca come il settore più vulnerabile sotto l’assedio imposto a Gaza dall’occupazione israeliana. “Israele sfrutta tutto per mettere sotto pressione la resistenza palestinese. Questa [punizione collettiva] è una chiara violazione del diritto internazionale”. Il capo del sindacato ha chiesto al mondo di esercitare pressioni su Israele affinché smetta di mettere in pericolo la vita e il sostentamento dei pescatori per motivi politici o di sicurezza.

Le punizioni collettive equivalgono a crimini di guerra, e se parte di una politica diffusa o sistematica sono crimini contro l’umanità e sono i fattori principali del deterioramento della situazione umanitaria a Gaza”, ha aggiunto il Center Al Mezan for Human Rights [organizzazione non governativa con sede nel campo profughi palestinese di Jabalia nella Striscia di Gaza, ndtr.]

Nel giugno dello scorso anno la Banca Mondiale ha affermato che “la pesca è una fonte vitale di occupazione, con più di 100.000 persone che beneficiano del settore”. Oltre ai pescatori e alle loro famiglie, ha indicato come beneficiari del settore i commercianti al dettaglio, i proprietari di ristoranti, gli operatori di vivai e i trasportatori del pesce. “Tuttavia, il mare non è più generoso come una volta. La gente di Gaza non può far conto sul proprio pesce, e a volte nemmeno permetterselo. La maggior parte delle famiglie di pescatori sono povere e il loro reddito sta diventando sempre più precario man mano che gli ecosistemi marini continuano a degradare.”

La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più. I pescatori di Gaza sono presi tra l’incudine dell’occupazione e il martello delle difficoltà economiche.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La polizia israeliana sottopone a retate centinaia di palestinesi per “regolare i conti” attraverso un’ondata di arresti di massa

Yumna Patel

24 maggio 2021 – Mondoweiss

Dopo due settimane di rivolte palestinesi contro le aggressioni israeliane a Gerusalemme, Sheikh Jarrah e Gaza le forze israeliane stanno portando avanti retate di massa di palestinesi all’interno di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, nel quadro di quella che la polizia israeliana chiama “Operazione Legalità e Ordine”.

Dopo due settimane di rivolte palestinesi contro le aggressioni israeliane a Gerusalemme, Sheikh Jarrah e Gaza le forze israeliane stanno portando avanti retate di massa di palestinesi all’interno di Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, nel quadro di quella che la polizia israeliana chiama “Operazione Legalità e Ordine”.

Poco dopo la mezzanotte di lunedì la polizia israeliana ha annunciato l’intenzione di “lanciare un’ampia operazione di arresti in tutto il Paese”, prendendo di mira nelle successive 48 ore i cittadini palestinesi di Israele al fine di “regolare i conti” e “chiudere i conti”.

I siti dei media israeliani in lingua ebraica hanno riferito che l’operazione è stata approvata dal ministro della sicurezza interna israeliano Amir Ohana e dal commissario di polizia generale Kobi Shabtai, il secondo dei quali ha incaricato migliaia di poliziotti attivi e riservisti di raggiungere l’obiettivo di 500 palestinesi sotto arresto.

Ynet news [sito di notizie del quotidiano Yedioth Ahronot, ndtr.] ha riferito che “pochi giorni dopo essersi ripresa, soprattutto dal trauma di Lod (Lydd)”, la polizia israeliana si sarebbe resa conto che la sua politica di “deterrenza” era stata “gravemente compromessa”.

Nelle prime ore di lunedì mattina hanno iniziato ad affiorare sui social media dei video in cui la polizia israeliana ammanettava, bendava e arrestava i palestinesi nelle strade di Lydd (Lod), una città storicamente palestinese nel centro di Israele che due settimane fa è stata teatro di massicce proteste palestinesi, dopo che un colono israeliano aveva sparato a Moussa Hassouna, un abitante di Lydd, uccidendolo.

Ynet riporta che la polizia ha già preparato denunce circostanziate nei confronti dei palestinesi arrestati, “con prove che consentiranno di presentare rapidamente imputazioni“, aggiungendo che l’ufficio del procuratore di Stato israeliano ha già presentato nei vari distretti più di 140 accuse contro circa 230 imputati, arabi ed ebrei, alcuni dei quali minorenni, per vari reati nel quadro delle sommosse”.

Mentre la polizia israeliana ha affermato che l’operazione era diretta contro i palestinesi “identificati come facenti parte di organizzazioni criminali”, attivisti e organizzazioni palestinesi a favore dei diritti umani hanno protestato nei confronti delle autorità israeliane per quella che definiscono una “chiara punizione collettiva” e un evidente tentativo di punire e reprimere coloro che hanno partecipato alle proteste come parte della “rivolta collettiva”.

“La massiccia campagna di arresti annunciata dalla polizia israeliana la scorsa notte è un’aggressione militarizzata contro i cittadini palestinesi di Israele”, ha dichiarato il dott. Hassan Jabareen, direttore generale di Adalah – Il centro giuridico per i diritti della minoranza araba in Israele.

Questa è una guerra contro manifestanti, attivisti politici e minori palestinesi, che impiega massicce forze di polizia israeliane per fare irruzione nelle case dei cittadini palestinesi. Questi raid hanno lo scopo di intimidire e vendicarsi dei cittadini palestinesi di Israele – “per regolare i conti” con i palestinesi, secondo le stesse parole della polizia israeliana – per le loro posizioni e attività politiche,” ha detto Jabareen.

Un sistema per i palestinesi, un altro per gli ebrei

Tuttavia, la campagna di arresti di lunedì non si è limitata ai cittadini palestinesi di Israele, in quanto delle informazioni da parte di organizzazioni per i diritti dei palestinesi come Grassroots Jerusalem riportano che lunedì mattina sono stati arrestati almeno 15 palestinesi di Gerusalemme.

I media locali palestinesi hanno anche riferito dello svolgersi nel corso delle ultime settimane di estesi raid notturni nella Cisgiordania occupata, con soldati israeliani che hanno preso di mira attivisti, giornalisti e giovani palestinesi che hanno partecipato alle recenti proteste nel territorio.

In un rapporto pubblicato lunedì l’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha sottolineato che da aprile in Cisgiordania, Gerusalemme e nella Palestina storica almeno 1.800 palestinesi sono stati arrestati e/o detenuti.

Per quanto riguarda coloro che sono stati arrestati e vittime delle retate nelle settimane precedenti la campagna di lunedì, molti palestinesi in luoghi come Gerusalemme stanno affrontando divieti arbitrari di entrare nei loro luoghi santi e sono costretti a pagare migliaia di dollari su cauzione.

Addameer sottolinea che, mentre l’arresto arbitrario di palestinesi che partecipano alle proteste e alla vita politica palestinese è una pratica comune per Israele, la più recente escalation della violenza di Stato israeliana “si è notevolmente intensificata nel suo intento di repressione generale e punizione collettiva verso tutti coloro che partecipano alla protesta, coloro che agiscono per legittima difesa, e tanti altri.”

L’organizzazione ha sottolineato il fatto che, mentre molti palestinesi, in particolare quelli che vivono in Israele, vengono braccati e incriminati con l’accusa di “istigazione” e violenza di matrice razzista contro gli ebrei, alla violenza dei coloni israeliani è “offerta immunità e protezione”, nonostante la diffusa documentazione di folle israeliane che in luoghi come Gerusalemme, Haifa, Jaffa e Akka cantano “morte agli arabi” e prendono di mira i palestinesi e le loro proprietà, spesso in presenza della polizia.

I media israeliani hanno diffusamente parlato del caso di tre ebrei israeliani incriminati con l’accusa di “terrorismo” per la loro partecipazione al linciaggio di un uomo palestinese, il 33enne Said Moussa, nella città di Beit Yam, nella zona centrale di Israele.

Il linciaggio di Moussa è stato trasmesso in diretta dalla televisione israeliana, mentre la folla ebrea israeliana lo tirava fuori dalla sua auto e lo picchiava a morte, pare in presenza delle forze dell’ordine israeliane.

Haaretz ha riportato che prima del linciaggio di Moussa, dozzine di attivisti di destra hanno marciato in città e hanno attaccato un certo numero di attività commerciali di proprietà araba. I rivoltosi hanno rotto finestre, lanciato oggetti e cantato slogan razzisti.”

Nel suo articolo Haaretz cita un alto funzionario di polizia che ha affermato che “si pensava che avrebbero partecipato alcune decine di persone, ma in realtà ne sono accorse 300″.

Nonostante la documentazione sui media e sulle reti sociali e l’ammissione da parte della polizia che centinaia di ebrei israeliani hanno preso parte a questi assalti, non esistono tuttavia prove che suggeriscano che le centinaia di ebrei israeliani siano state ugualmente sottoposte a retate con massicce campagne di arresti come quelle che attualmente prendono di mira i palestinesi.

Addameer afferma che l’esistenza di due diversi sistemi giuridici per gruppi che vivono nella stessa area, evidenziata dall’escalation degli eventi recenti, sancisce chiaramente il regime di apartheid israeliano, sia a Gerusalemme e nei territori occupati del 1948 [cioè in Israele, ndtr.], sia in Cisgiordania sotto il regime militare”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Spaccata a metà”: la lunga attesa della madre di Gaza per riunirsi ai suoi figli in Cisgiordania

Maha Hussaini da Gaza

29 marzo 2021 – Middle East Eye

Le organizzazioni per i diritti affermano che la “politica di separazione” israeliana sta mantenendo separate decine di famiglie.

Niveen Gharqoud ha visto solo uno dei suoi cinque figli. È rimasta separata dagli altri da quando li ha mandati a vivere con il padre a Qalqilya, una città nella Cisgiordania occupata a circa 100 chilometri di distanza.

Gharqoud, 39 anni, che vive con i propri genitori e con il figlio più giovane nel villaggio di Juhr al-Deek, nel centro della Striscia di Gaza, ha presentato dal 2018 alle autorità israeliane cinque distinte richieste di permesso di uscita nella speranza di riunirsi a suo marito e ai figli in Cisgiordania.

Non glien’è stata concessa nessuna.

Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho visto i miei figli. Prima dormivo con loro in cinque su un letto, e ora non riesco a vederli se non attraverso lo schermo di un cellulare”, ha dichiarato Gharqoud a Middle East Eye.

“È doloroso accettare l’idea che i miei quattro figli si prendano cura di se stessi senza una madre, mentre il padre lavora per la maggior parte del tempo”.

Politica di separazione

Gli abitanti della Striscia di Gaza assediata hanno bisogno di permessi di uscita da parte delle autorità israeliane per entrare nella Cisgiordania occupata attraverso il confine controllato da Israele a Erez, l’unico valico per le persone che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto dei territori palestinesi occupati.

Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni legislative, Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Israele ha subito imposto all’enclave costiera un blocco soffocante, limitando il movimento di persone e merci dentro e fuori Gaza, in base a quella che il governo israeliano chiama “la politica di separazione”.

Secondo il governo israeliano la politica mira a limitare i viaggi tra Gaza e la Cisgiordania per evitare il passaggio di “una rete di terroristi” fuori dalla Striscia.

“Anche se il governo israeliano vuole ridurre quello che chiama il passaggio di terroristi nei territori palestinesi occupati, la sua politica di separazione imposta a oltre due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza è semplicemente una punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale umanitario”, ha detto a MEE Mohammed Emad, Il direttore del dipartimento legale dell’organizzazione per la difesa [dei diritti umani] Skyline International for Human Rights, con sede a Stoccolma.

“Tali restrizioni sono imposte ai civili in modo casuale e arbitrario e portano alla separazione di dozzine di famiglie”. Famiglie come i Gharqoud.

Una famiglia divisa

Niveen ha sposato Sami Gharqoud a Gaza 18 anni fa. Nel corso del loro matrimonio lui ha svolto vari lavori di manovalanza in Israele.

“Si spostava tra Gaza e la Cisgiordania”, dice Niveen. “Lavorava lì e veniva a trovarmi ogni tanto.

Non ha assistito a nessuna delle nascite dei nostri cinque figli, e non mi ha mai visto incinta se non nelle foto e attraverso le videochiamate”, racconta Niveen a MEE.

Andavo in ospedale con mia madre, trascorrevo da sola tutto il dolore [del travaglio], partorivo e tornavo a casa. Sarebbe venuto a trovarci solo dopo il parto di ogni bambino, sarebbe rimasto un paio di settimane e poi sarebbe partito di nuovo per la Cisgiordania”.

Ma dall’inizio dell’attuale blocco, Sami ha fatto visita alla sua famiglia a Gaza solo una volta.

“Prima dell’ultima guerra a Gaza [nel 2014] sono andata a trovarlo in Cisgiordania, sono rimasta per circa sei mesi e sono rimasta incinta del mio ultimo figlio, Ameer”, dice Niveen. Questa è risultata essere l’unica volta in cui ha potuto far visita a Sami.

Poi sono dovuta tornare a Gaza, perché le [autorità israeliane] mi hanno permesso di portare con me in Cisgiordania solo due dei miei quattro figli. Non mi hanno consentito deliberatamente di portare tutti e quattro i bambini. Volevano costringermi a tornare a Gaza. Quindi sono stata obbligata a rientrare “.

Sami non ha mai incontrato il suo figlio più piccolo, Ameer, che ora ha sei anni.

Niveen ha cercato di ricongiungersi al marito dalla nascita del loro ultimo figlio, nel 2014, ma le autorità israeliane non le hanno permesso di recarsi in Cisgiordania.

Nel 2016 ha deciso di mandare i suoi figli dal padre in anticipo, dopo che i suoi parenti e amici le avevano detto che questo l’avrebbe aiutata a ottenere in seguito un permesso per riunirsi a loro.

Mio padre ha preso i miei quattro figli e ha viaggiato attraverso il confine di Rafah [con l’Egitto] fino alla Giordania. Ma li ha lasciati al ponte Allenby [che collega la Giordania alla Cisgiordania] perché non poteva attraversarlo – la sua carta d’identità dichiara che vive a Gaza, a differenza dei miei figli e del loro padre, i cui documenti indicano che vivono in Cisgiordania.

Ora non posso mandare Ameer a ricongiungersi con i suoi quattro fratelli. La mia figlia più grande, che ora ha 17 anni, si assume già la responsabilità dei suoi tre fratelli e si prende cura di loro. È ancora una bambina, ma è sommersa da tutte quelle responsabilità “.

I quattro figli di Niveen a Qalqilya vedono il padre appena una o due volte a settimana a causa del suo lavoro e trascorrono il resto della settimana da soli. Ogni volta che hanno bisogno di qualcosa, i bambini chiamano la madre a Gaza.

“Circa due anni fa mia figlia mi ha chiamato urlando”, ricorda Niveen Gharqoud. “Ha detto che dell’acqua bollente era caduta sul viso del fratello minore mentre lei stava cuocendo alcune uova per dargliele da mangiare. Non sapevo cosa fare – ho chiamato la loro vicina e l’ho pregata di andare ad aiutarli”.

“Questa non è stata l’ultima volta in cui è successa una cosa del genere”, continua Niveen. “Qualche giorno fa, Malak [la sorella maggiore] mi ha chiamato spaventata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di aprire la porta del loro appartamento. Non potevo fare altro che dirle di chiudere bene la porta e di accendere la televisione per fare rumore”.

“Ho i numeri dei vicini per i casi di emergenza perché qui sono impotente, mentre il padre è assente per la maggior parte del tempo”.

Gharqoud spera ancora di riuscire a raggiungere i suoi figli e il marito a Qalqilya, ma dice che le autorità israeliane “non rispondono nemmeno alle mie domande per il permesso di uscita, le lasciano in sospeso”.

Quando un permesso di uscita viene negato o resta sospeso, i palestinesi della Striscia di Gaza devono aspettare tre mesi prima di poter presentare un’altra richiesta.

Una lunga storia di separazioni

Nel luglio 2003 il parlamento israeliano ha approvato una legge che impedisce il ricongiungimento familiare dei cittadini israeliani sposati con palestinesi dei territori palestinesi occupati.

Secondo Amnesty International la legge costituisce un “ulteriore passo nella politica israeliana di lunga data volta a limitare il numero di palestinesi a cui sia consentito di vivere in Israele e a Gerusalemme est”.

Israele è stato a lungo criticato per aver separato i bambini palestinesi dalle loro famiglie, compresi quelli della Striscia di Gaza che vengono inviati per cure mediche nei territori palestinesi occupati.

I dati raccolti dalla ONG Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani, ONG no profit che utilizza medicina e scienza per documentare e difendere contro le atrocità di massa e le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] hanno rivelato che più della metà delle domande presentate nel 2018 da genitori che cercavano di accompagnare i propri figli per cure mediche nei territori palestinesi occupati sono state respinte.

Nel 2019 circa un quinto dei bambini inviati per cure mediche dalla Striscia di Gaza ha viaggiato senza i genitori.

Un rapporto pubblicato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha nel 2020 affermava che nell’isolare la Striscia di Gaza e nell’imporre ai palestinesi restrizioni di movimento tra città e villaggi, Israele ha “perseguito una strategia del divide et impera” per ostacolare le possibilità da parte dei palestinesi di mantenere unite la vita sociale e familiare.

Le autorità israeliane al momento attuale non hanno risposto ad una richiesta di commento.

Separazione traumatica

Il figlio più giovane dei Garqouds, Ameer, ha accompagnato suo nonno e i fratelli al valico di confine di Rafah quando aveva tre anni. Una volta arrivati al confine, si è reso conto che il suo fratello più vicino d’età, Muhammed, e altri tre fratelli se ne stavano andando senza di lui. A differenza di loro, Ameer era troppo giovane per viaggiare senza un genitore.

“Quando è tornato a casa, era così scioccato che è svenuto”, ha detto Niveen. “Da allora ha tanta paura di essere lasciato solo da non recarsi neppure a scuola.

“Qualche mese fa sono andata al matrimonio di un parente. Quando sono uscita [da casa] Ameer ha iniziato a urlare ed è svenuto, pensando che tutti gli mentissero e che io fossi andata in Cisgiordania abbandonandolo”.

Per evitare di lasciarlo solo a scuola e temendo che la sua ansia possa peggiorare Gharqoud ora gli impartisce le lezioni a casa.

“Da quando ha visto i suoi fratelli andarsene, è diventato così bisognoso di attenzioni che mi segue ovunque, per assicurarsi che non lo abbandoni”.

“Manca la cucina della mamma”

“Tua sorella mi ha detto che l’altro giorno non sei andato a scuola, perché?” Niveen ha chiesto a Muhammed, il figlio di 10 anni, nel corso di una videochiamata.

“Mi sono svegliato, ho cercato i miei pantaloni e non sono riuscito a trovarli, quindi non ho potuto andare”, ha risposto.

“Se avesse una madre al suo fianco questo non sarebbe mai accaduto”, dice a MEE Niveen, seduta nel suo soggiorno.

Con Sami ancora in quarantena dopo essere risultato positivo al coronavirus, Niveen si assicura anche che i suoi figli abbiano mangiato il loro pranzo.

Di solito mangiamo panini o ordiniamo il cibo a domicilio perché non abbiamo nessuno che cucini per noi. Ma Malak a volte chiama mamma e chiede alcune ricette per sfamarci”, racconta a MEE Muhammed, 10 anni, il quarto figlio dei Gharqoud.

Niveen dice che evita di inviare foto di riunioni di famiglia ai suoi figli in modo che non si sentano abbandonati o desiderino “cibo che non possono avere”.

“Malak cucina bene”, afferma Muhammed, “ma mi mancano i piatti di mamma, che solo lei sa preparare bene”.

Malak, che ha festeggiato il suo 17° compleanno a febbraio, ha assunto il ruolo di sua madre: tenere sotto controllo gli studi dei fratelli e assisterli nelle loro necessità quotidiane.

“Qualche settimana fa, il suo vicino di casa di 23 anni ha chiesto la sua mano in matrimonio”, riferisce Niveen. “In una situazione normale, non accetterei mai l’idea di permettere a mia figlia di sposarsi a quell’età. Ma dal momento che non ha nessuno che si prenda cura di lei voglio che si senta emotivamente stabile con qualcuno su cui può fare affidamento.

“Inizialmente eravamo d’accordo sul suo fidanzamento, ma Malak si rifiuta ancora di procedere finché non potrò unirmi a loro e incontrare il [suo] ragazzo.”

Niveen dice che i suoi figli potrebbero facilmente tornare a Gaza, ma lei si rifiuta di riportarli a vivere lontano dal padre. Non è sicura, nel caso tornassero, che potrebbero ottenere un permesso per ripartire, e il viaggio attraverso la Giordania e l’Egitto è troppo costoso.

I miei figli stanno crescendo e hanno bisogno del padre nella loro vita. Sono spaccata a metà; li voglio qui con me, ma voglio anche che vivano in un ambiente sano con me e il loro padre insieme”, ha confidato a MEE.

“Cosa c’è di così difficile nel permettere a me e a mio figlio di sei anni di riunirci con la nostra famiglia?”

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Portare finalmente di fronte alla giustizia i criminali di guerra israeliani?

Dana Farraj, Asem Khalil

4 settembre 2020Chronique de Palestine

Le informazioni secondo cui Israele avrebbe stilato degli elenchi di responsabili che potrebbero essere arrestati se viaggiassero all’estero, nel caso in cui la Corte Penale Internazionale decidesse di indagare sui crimini di guerra in Palestina, mettono in evidenza il potere e le potenzialità della Corte. Gli analisti politici di Al-Shabaka Dana Farraj e Asem Khalil dissertano su tre indicatori chiave che confermano la seria possibilità di un intervento della CPI contro i presunti criminali di guerra.

In queste ultime settimane i media hanno parlato di elenchi segreti che Israele starebbe compilando, relativi a militari e agenti dei servizi di intelligence che potrebbero essere arrestati nel momento in cui si recassero all’estero, nel caso che la CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.] decidesse di indagare sui crimini di guerra nei territori palestinesi occupati (TPO) .

Infatti, nei cinque anni trascorsi da quando la procuratrice della CPI ha avviato l’esame preliminare sugli eventuali crimini di guerra nei TPO, l’esercito israeliano ha ucciso più di 700 palestinesi e ne ha feriti decine di migliaia.

Questi morti e questi feriti non sono incidenti isolati, ma fanno parte di una più ampia politica che mira a sopprimere la resistenza palestinese alla colonizzazione della terra. In conseguenza del furto delle terre da parte di Israele e delle sue colonie illegali e del trasferimento dei suoi cittadini nei TPO, le famiglie palestinesi sono state separate, sottoposte a detenzione arbitraria, poste in stato d’assedio e si sono viste negare, tra molti altri abusi, la libertà di movimento.

Si può quindi affermare che Israele è responsabile di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra, cosa che forse spiega perché essa [la CPI] non ha voluto indagare ulteriormente sulle denunce e le pratiche in suo possesso.

La CPI si fonda sul principio di complementarietà, il che significa che è autorizzata ad esercitare la propria competenza solo quando i sistemi giuridici nazionali non sono conformi alle norme internazionali. È tuttavia importante notare che ciò comprende le situazioni in cui questi sistemi asseriscono di agire, ma non vogliono e/o non possono attivare reali processi.

La persistente reticenza di Israele ad avviare procedimenti nazionali contro persone che si presume abbiano compiuto crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina apre quindi la seria possibilità di un intervento della CPI.

In questo articolo gli analisti politici di Al-Shabaka Dana Ferraj e Asem Khalil pongono in evidenza parecchi indicatori che dovrebbero portare l’Ufficio della Procuratrice (d’ora in poi citato come Ufficio o UdP) a questa conclusione. In particolare lo scritto si concentra su tre indicatori coerenti che fanno riferimento al quadro giuridico e politico approvato dall’Ufficio nel suo documento di politica generale del 2013 che riguarda gli esami preliminari.

Questi indicatori devono essere perciò presi in considerazione dall’Ufficio quando esamina la reticenza di Israele a indagare sui crimini e ad avviare azioni penali (1).

Il primo indicatore è il numero di denunce e di pratiche che sono state archiviate senza indagini degne di tal nome, indipendenti e imparziali. Il secondo riguarda le inchieste fittizie contro soldati di basso rango che proteggono in realtà i decisori politici contro le incriminazioni. Il terzo è il persistente rifiuto di Israele di rispettare il diritto internazionale umanitario e le leggi internazionali sui diritti umani.

Inoltre il dossier si occupa del ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per quanto riguarda la CPI.

Mancanza di indipendenza, di imparzialità o di volontà

Durante l’offensiva militare contro Gaza del 2014, che Israele ha chiamato “Operazione Margine Protettivo”, molti osservatori indipendenti, tra cui una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ed organizzazioni locali e internazionali di difesa dei diritti umani, hanno documentato numerosi attacchi illegali, tra cui evidenti crimini di guerra.

Alcuni si sono spinti oltre ed hanno denunciato “l’incapacità e il rifiuto” di Israele di chiamarne a rispondere “coloro che sono sospettati di aver commesso crimini contro civili palestinesi”, indagando in modo imparziale sui presunti crimini di guerra. (2)

Durante l’offensiva israeliana sono stati uccisi oltre 1500 civili palestinesi, sono stati danneggiati ospedali e altre infrastrutture civili e sono state distrutte le case di più di 100.000 persone.

La vastità di queste distruzioni probabilmente non sarà mai conosciuta perché Israele ha impedito agli investigatori internazionali di entrare nella Striscia di Gaza (come anche in Cisgiordania e in Israele). Perciò dopo l’attacco del 2014 gli inquirenti militari israeliani hanno incriminato solo 3 soldati.

Ancor prima, nel 2011, un rapporto della Federazione internazionale dei diritti umani [che rappresenta 164 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 paesi, ndtr.] aveva denunciato il rifiuto di Israele di avviare indagini indipendenti, efficaci, rapide ed imparziali sui presunti crimini di guerra nei TPO e l’aveva descritto come una sistematica negazione di giustizia per le vittime. E qualche anno dopo Amnesty International ha constatato che, nei casi in cui dei palestinesi sarebbero stati uccisi illegalmente dalle forze di sicurezza israeliane (sia in Israele che nei TPO), Israele non aveva aperto inchieste o aveva archiviato quelle in corso.

Infatti indagini su moltissimi casi e violazioni che coprono un lungo periodo di tempo sono state archiviate. In un caso particolarmente importante, nell’agosto 2018 gli inquirenti militari hanno deciso di chiudere i fascicoli sulle morti del “venerdì nero”, durante il quale a Rafah, nei quattro giorni nel corso dell’attacco a Gaza del 2014, sono stati uccisi più di 200 civili palestinesi. Di fatto, tra il 2001 e il 2008 sono state trasmesse all’Ispettorato delle Denunce dell’Agenzia per la Sicurezza israeliana più di 600 denunce di comportamenti scorretti, ma nessuna di esse ha portato ad un’indagine penale. Inoltre, secondo le osservazioni conclusive della Commissione delle Nazioni Unite contro la tortura, “su 550 esami di denunce di tortura avviati dall’ispettore dei servizi di sicurezza generale tra il 2002 e il 2007, solo 4 hanno portato a misure disciplinari e nessuno ad azioni penali.”

Nel febbraio 2019 è stata creata una Commissione d’inchiesta dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite incaricata di indagare sulle circostanze relative alle manifestazioni del 2018 nella Striscia di Gaza di commemorazione della Nakba. (3) Dopo che la Commissione ha criticato la mancanza di volontà di Israele ad avviare dei processi, il governo israeliano ha denunciato l’esistenza stessa della Commissione ed ha affermato che ciò forniva una prova ulteriore del partito preso contro Israele da parte del Consiglio. Ha quindi vietato ai membri dell’equipe di tre persone di recarsi in Israele o nella Striscia di Gaza. Il documento di orientamento dell’Ufficio della Procuratrice del 2013 sulle indagini preliminari osserva che questo tipo di risposta è prevedibile, dal momento che gli stessi funzionari che hanno contribuito a redigere e firmare i regolamenti sono gli stessi che sono responsabili in ultima istanza di decidere se essi devono essere oggetto di un’indagine e di incriminazioni.

Le esperte di diritto internazionale Valentina Azarova e Sharon Weill parlano anche di “legami tra i presunti autori [dei crimini, ndtr.] e le autorità competenti incaricate dell’indagine, delle incriminazioni e/o di giudicare i crimini.” Sottolineano che in Israele l’avvocato generale dell’esercito “esercita i tre poteri – legislativo (definire le regole di condotta dell’esercito), esecutivo (fornire consulenze giuridiche “in tempo reale” durante le operazioni militari) e quasi giudiziario (decidere sulle indagini e le incriminazioni).” Ciò consente di evitare che i decisori debbano essere chiamati a risponderne e di evitare la minaccia di un’inchiesta o di incriminazioni da parte della CPI. I tribunali israeliani diventano di fatto “l’esempio per eccellenza di un sistema giuridico che ‘non vuole o non può’ indagare e perseguire i crimini di guerra commessi sotto la propria giurisdizione nazionale.”

Indagini fittizie e poco credibili e protezione dei responsabili

Quando si verificano violazioni di diritti nei TPO soltanto i soldati di basso livello sono tenuti a renderne conto, ricevendo solo una lieve reprimenda. Per esempio, il soldato israeliano il cui assassinio di un palestinese ferito a Hebron nel 2018 è stato ripreso da una videocamera è stato ritenuto colpevole di omicidio volontario e condannato ad una pena di 18 mesi di prigione. La condanna è stata confermata in appello, ma il capo di stato maggiore militare israeliano in seguito l’ha ridotta a 14 mesi. Senza tener conto della clemenza della pena, questa sentenza non riconosce il carattere strutturale o sistematico della violenza che Israele infligge ai palestinesi. Come fa notare Thomas Obei Hansen a proposito dell’approccio complessivo dell’Ufficio della Procuratrice:

In certe situazioni l’Ufficio della Procuratrice ha osservato che, quando le prove indicano crimini sistematici, non basta che un limitato numero di responsabili diretti siano perseguiti e, su questa premessa, ha chiesto alla Camera [per gli esami preliminari, ndtr.] di autorizzare un’inchiesta.”

Anche quando l’Avvocatura Generale dell’esercito ha condotto un’inchiesta sull’offensiva militare del 2014, si è concentrata in particolare su ciò che ha descritto in modo errato come “episodi fuori dalle regole” che avevano provocato un centinaio di denunce. (4) Benché in seguito siano state aperte 19 inchieste penali contro soldati sospettati di aver violato le leggi di guerra, la loro portata è stata limitata ed è parsa essere concentrata esclusivamente su responsabili di basso rango.

Nada Kiswanson, una rappresentante di Al-Haq [organizzazione palestinese per i diritti umani, ndtr.], ha sottolineato: “Nei rarissimi casi in cui un soldato israeliano di grado minore è stato oggetto di un’inchiesta e di incriminazioni, la pena infine comminata non è stata adeguata alla gravità del comportamento criminale.” Tuttavia il rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite è andato oltre, rilevando che la questione principale non sta nella portata limitata o nelle carenze di queste inchieste individuali: al contrario, “è la politica in sé che può violare le leggi di guerra”. (5)

L’accento posto sugli autori dei crimini ai livelli più bassi della gerarchia dimostra che Israele non è disposto a riconoscere, e ancor meno ad affrontare, questa impostazione. Al contrario, si intende implicitamente che queste prassi giudiziarie garantiscano che le persone che presumibilmente hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità non siano sottoposte a vere indagini interne e siano inoltre al riparo da ogni responsabilità. Questo aspetto è nuovamente chiarito dall’osservazione di Al-Haq secondo cui il fatto che le indagini si limitino agli “incidenti eccezionali” impedisce di indagare sulle decisioni prese a livello politico ed impedisce anche di intraprendere misure nei confronti degli alti comandi militari e civili le cui azioni ed omissioni provocano crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Per esempio, l’inchiesta politica condotta dalla Commissione Turkel [commissione israeliana incaricata di indagare sul massacro della nave turca Mavi Marmara nel 2010, ndtr.] nei suoi due rapporti del 2011 e 2013 ha constatato che i sistemi di indagine delle forze di sicurezza israeliane appaiono inadeguati, ma ciò non ha comportato cambiamenti significativi e nulla indica che le raccomandazioni dei rapporti verranno attuate. (6)

Rifiuto di rispettare le norme del diritto internazionale umanitario e delle leggi internazionali sui diritti umani

Israele ha costantemente negato l’applicabilità del diritto internazionale umanitario in Cisgiordania. Non definisce nemmeno la situazione come territorio occupato, perseguendo invece l’impresa di colonizzazione e le violazioni dei diritti umani dei palestinesi. Molti organismi delle Nazioni Unite e altre organizzazioni hanno pubblicato rapporti che dimostrano il mancato rispetto da parte di Israele del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani, che sono applicabili nella situazione di occupazione. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso nel 2004 [che ha condannato la costruzione del muro in Cisgiordania da parte di Israele, ndtr.] è particolarmente duro.

La Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 23 dicembre 2016, ha riaffermato lo status di occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ed ha esplicitamente condannato “la costruzione e l’espansione delle colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca delle terre, la demolizione di case e l’espulsione di civili palestinesi.” Ha rimarcato che tali azioni “violano il diritto internazionale umanitario e le relative risoluzioni.” In risposta, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approvato la costruzione di nuove unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme. La sua flagrante sfida al diritto internazionale ha portato alcuni analisti a suggerire che la Procuratrice potrebbe reagire trattando questa attività come crimine di guerra.

Israele nega che le sue attività di colonizzazione in Cisgiordania costituiscano un crimine di guerra, benché tali atti siano esplicitamente vietati dallo Statuto di Roma [costitutivo della CPI, ndtr.], in particolare il “trasferimento, diretto o indiretto, da parte della potenza occupante di una parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa” (art. 8 (2)(b)(viii)), come anche, su larga scala, “la distruzione e l’appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari ed eseguite in forma illecita ed arbitraria” (art.8 (2)(a)(iv)).

Netanyahu ha chiaramente fatto sapere che Israele continuerà ad agire come vuole, nonostante il fatto che i suoi atti violino la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 ( a cui Israele ha aderito), come anche lo Statuto di Roma, di cui Israele è firmatario. Quest’ultimo fatto impone un “obbligo minimo di non contrastare l’oggetto e il fine del trattato”.

Per fare qualche esempio recente del modo in cui Israele continua a violare il diritto umanitario internazionale e le leggi internazionali sui diritti umani, tra agosto 2016 e settembre 2017 le autorità israeliane hanno confiscato e/o demolito 734 strutture appartenenti a palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, trasferendo 1029 persone, ed hanno perseguito i loro progetti di ricollocamento delle comunità di beduini e di altri contadini. Come citato precedentemente, il trasferimento forzato, l’appropriazione illecita, la distruzione di proprietà private e le demolizioni di case costituiscono crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Questi crimini fanno parte di una politica di punizione collettiva sistematica contro i palestinesi.

Il ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali possono prendere delle posizioni o redigere dei rapporti che incoraggiano la CPI ad aprire un’inchiesta o almeno a non sospendere un’inchiesta già in corso. Tuttavia l’art.16 dello Statuto di Roma stabilisce che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può, a condizione che venga adottata una risoluzione in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con un voto favorevole di nove membri senza diritto di veto, rinviare un’inchiesta o delle incriminazioni per un periodo rinnovabile di 12 mesi. Questo fornisce al Consiglio di Sicurezza uno strumento per impedire le inchieste nei conflitti in cui sono coinvolti Stati potenti, tanto più che queste risoluzioni possono essere rinnovate ogni anno.

Anche se il Consiglio di Sicurezza non ha ancora utilizzato questo potere di rinvio, la sua sussistenza rappresenta una minaccia permanente all’obbligo di rendere conto, soprattutto alla luce della posizione degli Stati Uniti sulla questione palestinese. È tuttavia immaginabile che il Consiglio di Sicurezza possa giocare un ruolo positivo in altre circostanze, come ha fatto nei confronti dell’apartheid in Sudafrica: il 4 febbraio 1972 ha fatto ricorso al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite in appoggio ad un embargo obbligatorio sulle armi destinate al regime sudafricano. Pur se molti esperti hanno sostenuto l’applicabilità del crimine di apartheid al contesto palestinese, in particolare un rapporto delle Nazioni Unite sull’apartheid israeliano contro il popolo palestinese, questo punto non compare all’ordine del giorno della CPI riguardante la Palestina.

Il potere di rinvio del Consiglio di Sicurezza deve essere considerato nel contesto della continua pressione degli Stati Uniti sulla CPI. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, per esempio, ha dichiarato che qualunque membro della CPI coinvolto in un’inchiesta penale riguardante israeliani avrà il divieto di ingresso negli Stati Uniti e potrebbe subire sanzioni finanziarie. È esattamente ciò che è già accaduto l’anno scorso al personale ufficiale della CPI che si occupava dell’apertura di un’inchiesta sulla questione dell’Afghanistan. Inoltre John Bolton, che è stato consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti fino al settembre 2019, ha parimenti affermato che gli Stati Uniti avrebbero utilizzato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per imporsi sulla CPI, e che avrebbero negoziato accordi bilaterali con gli Stati per impedire che dei cittadini americani siano portati davanti alla CPI. Gli attuali sforzi degli Stati Uniti per far fallire e delegittimare la CPI si inscrivono infatti in un attacco diretto contro l’indipendenza della Procura e del potere giudiziario.

Le prossime tappe per la Palestina e la CPI

Come dimostra questo dossier, è molto improbabile che Israele apra delle inchieste penali a livello nazionale. Nonostante la sua prolungata occupazione e la continua annessione de jure di territori nei TPO e le annessioni de facto della sua impresa di colonizzazione, e malgrado le tre offensive militari contro Gaza e molti altri crimini e violazioni del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani, Israele resta poco disponibile ad avviare delle indagini. Tuttavia un’inchiesta della CPI può utilizzare questa reticenza, che finora ha fatto il gioco di Israele, come un’opportunità per proseguire il suo lavoro. L’assenza di anche un solo atto di accusa per crimini di guerra ed il numero di morti civili che non sono oggetto di inchiesta dovrebbero essere presi in considerazione dalla CPI nella valutazione della complementarietà.

Inoltre, come sottolineato da Hanson, “le attività di colonizzazione non sono oggetto di alcuna inchiesta penale” in Israele e la decisione di indagare su questa tipologia di reati, contrariamente ad altri crimini rilevati, presenterebbe assai minori difficoltà per la procuratrice della CPI. È un fatto che dovrebbe essere ampiamente evidenziato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla società civile palestinese, accompagnato da appelli all’azione.

Al momento attuale la CPI è l’unico organo giudiziario indipendente in grado di porre fine all’impunità dei crimini passati e di impedire che ne vengano commessi in futuro. Tenuto conto dell’impunità delle violazioni documentate e generalizzate del diritto umanitario internazionale da parte di Israele, oltre all’obbligo di informare la commissione su gravi crimini internazionali, la Procura della CPI deve proseguire la sua inchiesta mostrando le prove dei crimini e identificando le persone da perseguire, nel quadro di procedure credibili ed efficaci.

Inoltre l’OLP e l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche la società civile palestinese, dovrebbero fare tutto il possibile per porre sul tavolo la responsabilità israeliana per il crimine di apartheid, in modo da poterlo inserire all’ordine del giorno della CPI.

Note :

1) Si noti che l’ufficio della procuratrice dispone di altri indicatori per definire la questione della complementarietà, ma questo dossier si concentra sugli aspetti rilevanti per le argomentazioni degli autori.

2) Nel dicembre 2017 sono stati presentati alla procura della CPI da parte di Al-Haq e della PHRC, oltre che da due altre organizzazioni palestinesi per la difesa dei diritti dell’uomo, dei documenti che sollecitano la sua attenzione su 369 denunce penali relative all’offensiva del 2014 che erano state depositate all’ufficio dell’avvocatura generale militare israeliana. Queste organizzazioni hanno notato che la stragrande maggioranza di queste denunce non erano state prese in considerazione e che non era stato emesso alcun atto di accusa.

3) La Nakba (Catastrofe) è il modo in cui i palestinesi si riferiscono alla guerra del 1947-48, quando le forze sioniste obbligarono più di 700.000 palestinesi a lasciare le loro case, creando in questo modo lo Stato d’Israele.

4) La definizione « fuori dalle norme » implica che per quanto riguarda tutti il resto la campagna militare era « regolare » (cioè conforme alle norme e obbligazioni stabilite). Ciò punta chiaramente ad evitare le inchieste internazionali indipendenti.

5) Si veda il « Rapporto delle conclusioni dettagliate della Commissione d’inchiesta indipendente creata in applicazione della risoluzione S-21/1 del Consiglio dei Diritti dell’Uomo », p. 640-41.

6) Israele ha creato la commissione nel 2010 per indagare sull’incursione contro la flottilla di Gaza.

* Dana Farraj è ricercatrice di diritto e avvocatessa iscritta dal 2019 all’Ordine degli avvocati palestinesi. Ha ottenuto il master in diritto internazionale presso l’universita di Aix-Marsiglia e la laurea in diritto all’università di Birzeit. Le sue ricerche riguardano il diritto dei rifugiati, la legislazione sui diritti umani e il diritto penale internazionale.

* Asem Khalil, membro della redazione politica di Al-Shabaka, è docente di diritto pubblico e titolare della cattedra di diritto costituzionale e internazionale S.A. Shaikh Hamad Bin Khalifa Al-Thani all’università di Birzeit. Khalil ha conseguito un dottorato in diritto pubblico all’università di Friburgo, in Svizzera, un master in amministrazione pubblica alla Scuola Nazionale di Amministrazione, in Francia, e un dottorato in Utriusque Juris [sia in diritto civile che ecclesiastico, ndtr.] presso la Pontificia Università Lateranense, in Italia. E’ stato ricercatore invitato alla Scuola di Diritto dell’università di New York (2009-2010 e 2015-2016) e all’Istituto Max Planck in Germania (estate 2015).

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna




Sono in isolamento, ma non a causa del coronavirus

Laith Abu Zeyad

27 Maggio 2020 – Al Jazeera

Israele mi ha vietato di uscire dalla Cisgiordania e ha rifiutato di dirmi perché.

Nei mesi scorsi, a causa della pandemia da coronavirus, milioni di persone nel mondo hanno sperimentato per la prima volta le difficoltà e la frustrazione di essere sottoposti a norme e regole imposte dallo Stato che limitano la loro libertà di movimento.

Tuttavia per me il blocco totale non è stata una novità. Sono abituato a vivere sotto una serie di norme mutevoli che stabiliscono dove posso andare e che cosa posso fare. Perché? Perché sono un palestinese che vive sotto occupazione israeliana.

Sono cresciuto nella Cisgiordania occupata, perciò i checkpoint e i coprifuoco hanno sempre fatto parte della mia vita quotidiana. L’anno scorso Israele ha reso ancora più stretta la mia prigione impedendomi di uscire dalla Cisgiordania per qualunque motivo.

Le autorità israeliane si sono rifiutate di darmi una giustificazione per il divieto al di là di un [generico] “ragioni di sicurezza”, e ha negato che questa misura abbia qualcosa a che vedere con il mio lavoro come attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

Ho appreso del divieto nel modo peggiore possibile, quando lo scorso settembre mi è stato negato un permesso per accompagnare mia madre agli appuntamenti per la chemioterapia a Gerusalemme est occupata. Mentre inoltravo freneticamente altre richieste di permesso, mia madre peggiorava. Stavo a soli 15 minuti di macchina dall’ospedale, ma il mio disperato desiderio di essere vicino a mia madre collideva con la rigida applicazione israeliana del sistema dei permessi. Mia madre è morta alla vigilia di Natale senza che io abbia più potuto vederla.

Finora i “motivi di sicurezza” che mi hanno causato tanto strazio non mi sono stati rivelati. Tutto quel che so è che sono sottoposto a totale divieto di spostamenti, il che significa che non posso recarmi fuori dalla Cisgiordania, nemmeno per andare al mio ufficio, che si trova a Gerusalemme est. Perciò il blocco per il COVID-19, che è in vigore dal 22 marzo, non è altro che un’ ulteriore sbarra nella gabbia in cui vivo da tempo.

Non potrò mai riavere quella preziosa opportunità di essere accanto a mia madre nei suoi ultimi giorni, ma posso fare la cosa giusta per lei opponendomi a questa ingiustizia. Il 25 marzo 2020 Amnesty International ha inoltrato una petizione alla Corte Distrettuale di Gerusalemme cercando di farmi revocare il divieto di viaggio, e il 31 maggio vi sarà un’udienza. Ovviamente si terrà in mia assenza – e poiché non mi è permesso conoscere i contenuti delle accuse contro di me, il mio avvocato ed io non possiamo contrastarli efficacemente.

Eppure nel passato i divieti di viaggio nei confronti dei palestinesi sono si sono sgretolati quando sono stati oggetto di un controllo dal punto di vista giudiziario. Tra il 2015 e il 2019 l’organizzazione israeliana per i diritti HaMoked ha presentato 797 ricorsi contro divieti di viaggio ed è riuscita a farne revocare il 65%. Considerando questo risultato, è ragionevole ipotizzare che la maggior parte di quei divieti fossero in primo luogo del tutto ingiustificati.

Israele ha una comprovata esperienza nell’uso arbitrario dei divieti di viaggio contro difensori dei diritti umani, compreso Omar Barghouti, cofondatore del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), e Shawan Jabarin, direttore dell’organizzazione palestinese per i diritti al-Haq. Nel caso di Shawan Jabarin, come nel mio, non è stata fornita nessuna giustificazione al di là di “ragioni di sicurezza”.

Che cosa significa? Se io costituisco un così grave rischio per la sicurezza ci si aspetterebbe che le autorità israeliane mi facessero delle domande. Ma io non sono mai stato interrogato su nessuna questione di sicurezza, neppure ad un posto di confine, sono solo stato respinto. Non mi è mai stata data occasione di contestare la decisione o di difendermi. Come può essere giusto questo?

È difficile spiegare quanto stretti siano i controlli di Israele sui movimenti dei palestinesi.

Due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza sono sottoposti ad un feroce blocco militare da oltre 12 anni, facendo di essa la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Noi della Cisgiordania non possiamo andare all’estero attraverso i porti israeliani o l’aeroporto internazionale Ben Gurion – la nostra unica possibilità è andare in Giordania passando per il confine del ponte di Allenby/Re Hussein. Molte persone non sanno di avere il divieto di viaggio finché non arrivano alla frontiera. Lo scorso ottobre, per esempio, volevo partecipare al funerale di mia zia in Giordania; quando sono arrivato al confine con mio padre e la mia valigia, mi è stato negato il passaggio.

Ci sono moltissime vicende come questa. Il COVID-19 ha dato al mondo un’idea dell’esperienza palestinese – la crudeltà di essere separati dai propri cari, il tedio della reclusione, la paura e il senso di isolamento. Mentre le misure di blocco per il coronavirus sono state messe in atto per proteggere la popolazione da un virus letale, il blocco israeliano priva i palestinesi della libertà di movimento come forma di punizione collettiva.

Come tante persone in tutto il mondo, io spero di essere presto in grado di ritornare nel mio ufficio, vedere i miei amici e la mia famiglia in altre città, e di provare l’ebbrezza di viaggiare in posti nuovi. Dopo 72 anni di deportazioni ed ingiustizie, i palestinesi vogliono e meritano gli stessi diritti e libertà di chiunque altro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Laith Abu Zeyad è un attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)