Demonizzare Durban, Oscurare il Razzismo

Richard Falk

EDITORIALE

16 agosto 2021 TRANSCEND Media Service

[Nota introduttiva: il post seguente descrive la campagna portata avanti negli ultimi 20 anni dalla propaganda filo-israeliana, sia del governo che delle ONG, per diffamare gli sforzi antirazzisti delle Nazioni Unite come una nuova specie di antisemitismo. È uno sforzo perverso che protegge le politiche e le pratiche razziste di Israele nei confronti del popolo palestinese dietro una perversa tesi secondo cui le critiche a queste politiche dovrebbero essere viste come antisemitismo. Il pezzo è stato originariamente pubblicato su Transcend Media Service e appare qui nella sua forma originale. Per il link all’originale

Contesto

16 agosto 2021 – È stata avviata un’insidiosa campagna per demonizzare la sponsorizzazione delle Nazioni Unite di un’iniziativa antirazzista per tenere una conferenza di un giorno alle Nazioni Unite il 22 settembre 2021, continuazione di quello che è diventato noto come il “Processo di Durban”. Esso identifica lo sforzo in corso negli ultimi vent’anni di attuare la Dichiarazione di Durban e il relativo Programma d’Azione adottato alla Conferenza Mondiale sul Razzismo, Discriminazione Razziale, Xenofobia and Intolleranza correlata tenutasi a Durban, in Sudafrica 20 anni fa.

La Conferenza di Durban fu controversa ancor prima che i delegati si riunissero, anticipata come un forum in cui Israele, il colonialismo, l’eredità della schiavitù e la vittimizzazione di etnie vulnerabili sarebbero stati illustrati e condannati. Era formalmente sotto gli auspici del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui Alto Commissario, Mary Robinson, fu sottoposta a pressione dall’Occidente per annullare l’evento. Essa rifiutò, e invece di essere elogiata per la sua indipendenza, questa ex presidentessa di alti princìpi dell’Irlanda fu privata del sostegno di Washington per la riconferma a un secondo mandato come Alto Commissario. Israele e gli Stati Uniti si ritirarono dalla conferenza e boicottarono gli eventi di follow-up minori nel 2009 e nel 2011, il che spiega perché il prossimo raduno è indicato come Durban IV.

Alla conferenza del 2001, messa in ombra dagli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti, avvenuti pochi giorni dopo la chiusura di Durban, molti discorsi furono pronunciati da rappresentanti di vari governi, inclusi molti che criticarono Israele per le politiche e le pratiche razziste perpetrate contro il popolo palestinese, inclusa l’accusa che il sionismo fosse una forma di razzismo, che era stata precedentemente affermata nella Delibera della Assemblea Generale (vedi GA Res. 3379 approvata con 72-35 voti e 32 astenuti, A/RES/3379, 10 novembre 1975; revocata nel 1991 senza spiegazione nella GA Res. 46/96). Oltre alla Conferenza intergovernativa di Durban si teneva un Forum parallelo delle ONG dedicato alla stessa agenda in cui furono pronunciati accesi discorsi e dichiarazioni. Eppure il tema di maggiore stimolo fu fornito dalla vittoriosa lotta contro l’apartheid in Sud Africa che veniva a legittimare sia l’evento sia l’attuale necessità di affrontare la lunga incompiuta agenda antirazzista.

Il risultato a Durban

I principali risultati formali della Conferenza di Durban furono due significativi e comprensivi testi conosciuti come la Dichiarazione di Durban e il Programma d’Azione di Durban. Il processo di Durban successivo al 2001 ha riguardato più o meno esclusivamente l’attuazione di questi due documenti formali delle Nazioni Unite, che sono la rappresentazione ad ampio spettro di tutta una serie di rimostranze derivanti dal maltrattamento di varie categorie di persone vulnerabili dovuto alla guerra all’applicazione della legge sui diritti umani e attraverso una varietà di mezzi, tra cui l’istruzione e l’attivismo della società civile, delle ONG e persino del settore privato. Non c’è assolutamente alcuna base per lamentarsi del fatto che Israele sia stato criticato o che le disposizioni dei documenti della conferenza possano essere correttamente interpretate come antisemite o addirittura anti-israeliane, eppure, come sarà mostrato di seguito, una tale campagna è stata incessantemente condotta per screditare tutto ciò che Durban significa, quasi esclusivamente a causa del suo presunto pregiudizio estremo nei confronti di Israele.

Una lettura corretta di entrambi i documenti porterebbe a concludere che a Israele sono state effettivamente risparmiate critiche giustificabili, molto probabilmente a causa delle pressioni esercitate sia sull’ONU che sui media prima e durante la conferenza. Se osserviamo i testi, abbiamo l’impressione che le sensibilità israeliane siano state comprese e rispettate. L’apartheid e il genocidio sono stati condannati in termini generali, ma senza alcun riferimento negativo a Israele, e di fatto un’inclusione che ha individuato Israele in un modo che avrebbe essere accolto favorevolmente. Nel par. 58 della Dichiarazione troviamo la seguente affermazione: “..ricordiamo che l’Olocausto non deve mai essere dimenticato”. E par. 61 prende atto con “profonda preoccupazione dell’aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia in varie parti del mondo, nonché l’emergere di movimenti razziali e violenti basati sul razzismo e su idee discriminatorie nei confronti delle comunità ebraiche, musulmane e arabe”. Sembra assolutamente perverso screditare la Dichiarazione di Durban come un’invettiva contro gli ebrei.

Nel corso dei 122 paragrafi della Dichiarazione la situazione Israele/Palestina è menzionata solo nel paragrafo 63, e poi in maniera neutrale che sembra trascurare la deliberata vittimizzazione del popolo palestinese. Si legge come segue: “Siamo preoccupati per la difficile situazione del popolo palestinese sotto occupazione straniera. Riconosciamo il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato indipendente e riconosciamo il diritto alla sicurezza per tutti gli Stati della regione, compreso Israele, e invitiamo tutti gli Stati a sostenere il processo di pace e a portarlo a una rapida conclusione.” Cosa può essere offensivo anche per il più ardente sostenitore israeliano di una tale disposizione, che è sepolta in profondità in una dichiarazione di trenta pagine in un linguaggio che non punta il dito contro Israele.

La campagna anti-Durban di Israele

Eppure la realtà di Durban, la violenza della lingua usata per denunciare questi documenti e il Processo di Durban sembra estremo, e provenire da fonti note per seguire da vicino la linea ufficiale diffusa da Tel Aviv. Il colonnello britannico Richard Kemp, che scrive sul sito web notoriamente di destra del Gladstone Institute, è raramente da meno nel suo sostegno all’uso della forza da parte di Israele contro l’indifesa Gaza. Kemp definisce il Processo di Durban “come la famigerata vendetta ventennale delle Nazioni Unite contro Israele” e pronuncia il suo giudizio che “Durban IV darà nuova energia a questo vergognoso processo”. [“Fighting the Blight of Durban”, 29 luglio 2021] Kemp è a suo agio nell’invocare il linguaggio iperbolico di UN Watch che etichetta assurdamente Durban come “..la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra”.

UN Watch aveva espresso separatamente il suo velenoso punto di vista del processo di Durban un mese prima in un comunicato stampa dal titolo grossolanamente fuorviante, “Durban IV: fatti chiave”, 24 maggio 2021, riassunto dalla frase una “perversione dei principi dell’antirazzismo”. Questa caratterizzazione di Durban è resa più concreta affermando che fa “… affermazioni infondate contro il popolo ebraico”, è usato “per promuovere il razzismo, l’intolleranza, l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto… e per erodere il diritto di Israele a esistere”. Questo linguaggio diffamatorio di UN Watch dovrebbe essere confrontato con i testi della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione, la cui attuazione è l’obiettivo principale del Processo di Durban, per avere una visione delle oscure motivazioni di questi critici di orientamento israeliano.

2021 – Israele e Apartheid

È vero che nel 2021 non ci sarebbe modo di evitare di supporre che “la difficile situazione del popolo palestinese” sia un risultato diretto dell’apartheid israeliano, che non solo è condannato dal processo di Durban, ma è fermamente stabilito come crimine contro l’umanità in entrambi la Convenzione internazionale del 1974 sulla repressione e la repressione del crimine di apartheid e l’articolo 7 dello Statuto di Roma che disciplina le operazioni della Corte penale internazionale. Non è più ragionevole respingere le accuse di apartheid israeliana come estremiste, tanto meno come manifestazioni di antisemitismo. Tuttavia, poiché Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, controlla ancora il discorso principale in Occidente, i media fissano tali risultati in un silenzio di pietra nonostante la prolungata sofferenza del popolo palestinese, un promemoria convincente che dove la geopolitica e la moralità/legalità si scontrano, la geopolitica prevale.

Riscattare il processo di Durban

Ci sono due serie di osservazioni che rendono vergognosi e spudorati questi attacchi al lodevole sforzo delle Nazioni Unite attraverso Durban di evidenziare le molte sfaccettature del razzismo e della discriminazione razziale. Il Processo di Durban è diventato il fulcro di una campagna mondiale sui diritti umani per aumentare la consapevolezza pubblica e sollevare preoccupazioni all’interno delle Nazioni Unite per quanto riguarda le molte varietà di criminalità razzista, nonché per sottolineare la responsabilità dei governi e i potenziali contributi dell’attivismo della società civile.

E’ degno di nota che Israele e il suo comportamento nella Dichiarazione di Durban e nel Programma d’Azione non ricevono neanche lontanamente l’attenzione di altre questioni come l’abuso delle popolazioni indigene, dei Rom, dei migranti e dei rifugiati. In effetti, alla luce degli sviluppi più recenti che hanno confermato le precedenti preoccupazioni sulla vittimizzazione palestinese, il Processo di Durban, semmai, può essere accusato di aver messo in secondo piano il razzismo di Israele e di essere caduto nella trappola dell’hasbara di imporre una responsabilità simmetrica all’oppressore e alla vittima, incolpando entrambe le parti, proprio per sventare la crescente tendenza del sostegno organizzato di Israele a giocare la carta antisemita come una tattica crescente per distogliere l’attenzione pubblica dal crescente consenso sul fatto che Israele operi come uno Stato di apartheid.

Forse, nell’atmosfera del 2001, era politicamente provocatorio accusare Israele di razzismo e apartheid, sebbene, come ho cercato di dimostrare, queste accuse rivolte a Israele nel dibattito aperto a Durban non hanno mai avuto seguito nell’esito formale della Conferenza di Durban. E come è stato chiarito dai suoi sostenitori, il Processo di Durban si occupa principalmente dell’attuazione della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione (https://www.un.org/en/durbanreview2009/ddpa.shtml ). Nel 2021, ciò che era provocatorio vent’anni fa è stato ripetutamente confermato da valutazioni dettagliate affidabili e attendibili e indirettamente approvato dalla Legge fondamentale israeliana emanata dalla Knesset nel 2018. I punti salienti di questa dinamica si sono verificati nel corso degli ultimi cinque anni:

la pubblicazione nel marzo 2017 di uno studio accademico indipendente sponsorizzato dalla Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA) che ha concluso che le politiche e le pratiche israeliane costituivano una schiacciante conferma delle accuse di apartheid [“Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”]

-il rapporto dell’ONG israeliana per i diritti umani, B’Tselem, “Un regime di supremazia ebraica da che Dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è Apartheid”, 12 gennaio 2021,

-il rapporto di Human Rights Watch, “Una soglia oltrepassata: le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, 27 aprile 2021.

Non è più plausibile sostenere che associare il trattamento israeliano del popolo palestinese all’apartheid sia antisemita. In quanto ebreo, considero le giustificazioni israeliane per il suo comportamento nei confronti della Palestina come l’incarnazione del comportamento antisemita, che porta discredito al popolo ebraico.

Traduzione di Angelo Stefanini




Decodificare l’“accordo del secolo” di Pipes/Trump/Kushner

Richard Falk

11 settembre 2018

Non occorreva essere dei fedeli alla linea “mai Trump” per nutrire dubbi riguardo alla proposta di portare la pace tra i palestinesi e gli ebrei creando le condizioni che avrebbero prodotto l’“accordo del secolo”. E, siamo onesti, se la gara tra le Nazioni viene giocata oggi secondo le regole di Madison Avenue [famosa strada dello shopping e pubblicità a Manhattan, ndtr.], la frase sarebbe vincente invece che perdente, se considerata da un punto di vista della risoluzione dei problemi. Persino nell’attuale clima politico degradato, scommettere su uno slogan pubblicitario come sostitutivo di idee risolutive può essere una formula efficace per garantirsi un ampio pubblico per un episodio di un reality televisivo, ma è una crudele scappatoia quando si tratta di affrontare il quotidiano calvario del popolo palestinese destinato ad essere vittima e a vivere sotto lo Stato israeliano di apartheid.

Ciò che forse è ancor peggio delle pompose spacconerie di Trump, è che qui sembra esserci una logica perversa che sorregge questo folle proposito nato dall’immaginazione ultra-sionista di Daniel Pipes [giornalista e storico statunitense ultraconservatore, ndtr.]. È stato Pipes, mesi fa, usando il Forum sul Medio Oriente pensato come suo tramite, a lanciare un appello per ciò che lui definiva “Victory Caucus” [“un comitato elettorale della vittoria”]. Pipes, uno studioso intelligente ed esperto, argomentava che il percorso diplomatico di Oslo era fallito miseramente come strumento per porre fine al conflitto attraverso negoziati. Accompagnava questa conclusione con la storica affermazione che conflitti di lunga durata tra avversari etnici raramente si concludono attraverso compromessi o accordi. Terminano con la vittoria di una delle parti e il riconoscimento della sconfitta da parte dell’altra.

Quindi il trucco, così credeva Pipes, sta nel convincere i palestinesi ad accettare il dato di fatto ed ammettere a sé stessi e al mondo di aver perso la battaglia per impedire la creazione di uno Stato ebraico in Palestina o per dare vita ad un proprio Stato sovrano. Pipes sostiene che uno sguardo obiettivo ai rapporti di forza diplomatici e militari in Palestina e Medio Oriente conferma questo giudizio sull’esito politico anche senza contare sul solido appoggio geopolitico degli Stati Uniti, che garantiscono un sostegno incondizionato alle priorità israeliane rispetto a quelle palestinesi.

Con questa consapevolezza, il puzzle politico da risolvere allora per Pipes diventa duplice: come convincere il governo USA a passare dal fallimentare tentativo di negoziare una soluzione a quello di aiutare l’Israele di Netanyahu ad imporne una con successo e, oltre a ciò, come esercitare un’ulteriore sufficiente pressione sulla situazione dei palestinesi, sul campo e a livello internazionale, in modo che i loro dirigenti affrontino la realtà e rinuncino una volta per tutte alle loro rivendicazioni politiche e si accontentino di ciò che quindi gli si offrirebbe – una promessa di miglioramento economico nella loro situazione.

A pensarci bene, non sembra così strano che dei sostenitori così estremisti di Israele come il trio Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.], Friedman [ambasciatore Usa in Israele e colono, ndtr,] e Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.] siano disponibili ad un simile approccio, e potrebbero essersi mossi in una analoga direzione anche senza l’apporto di Pipes, che fornisce un quadro logico coerente. Consideriamo le iniziative prese dal governo USA negli ultimi otto mesi e ne risulterà un disegno che sembra essere comprensibile solo come tentativo di mettere in pratica il suggerimento del “Victory Caucus”: spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, attaccare l’ONU – inclusa l’uscita dal Consiglio per i Diritti Umani, a causa dei suoi pregiudizi anti israeliani, congelare e poi eliminare l’indispensabile aiuto finanziario alle operazioni dell’UNRWA a Gaza e in Cisgiordania, chiudere l’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington, chiudere gli occhi sui crimini israeliani contro l’umanità commessi in risposta alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ alla barriera di Gaza, minacciare la Corte Penale Internazionale e dare tacito assenso all’accelerata espansione delle colonie illegali israeliane (che contano ormai più di 600.000 coloni). Non c’è altro modo di leggere questo elenco di manovre provocatorie se non come una serie di segnali al popolo palestinese, e soprattutto ai suoi leader, perché capiscano l’inutilità della loro sofferenza, che peggiorerà sempre più se loro non agiranno assennatamente e si piegheranno a qualunque cosa Israele proponga per portare a termine il progetto sionista di dominio dell’intera Palestina storica, la restituzione biblica della ‘terra promessa’ che spetta agli ebrei.

Chiamare questo genere di diplomazia coercitiva su un popolo già oppresso col termine di “accordo” è una mistificazione linguistica. È più un arrogante trucco che non un accordo, che implica la parvenza di una convergenza di idee. È ciò che io ho definito in questo ed altri contesti un “crimine geopolitico” che merita sanzioni e condanne internazionali, non l’attenta considerazione riservata ad un serio tentativo di portare pace tra i due popoli. In futuro una simile iniziativa sarà conosciuta probabilmente come ‘il tentato omicidio più grave del secolo’.

Prescindendo dal disgusto per l’immoralità e l’illegalità di questo approccio di Pipes/Trump/Kushner, è importante porsi l’imbarazzante domanda: ‘funzionerà?’. Date le lotte e le sofferenze subite dal popolo palestinese per più di un secolo, sembra che il ‘Victory Caucus’ di Pipes, come l’‘accordo’ di Trump, incontrerà uno sprezzante rifiuto, probabilmente accompagnato da una drastica ripresa della resistenza palestinese, che affiancherà ulteriori espressioni militanti di attività di solidarietà a livello mondiale. Se teniamo conto della continuazione eroica della ‘Grande Marcia’ al confine di Gaza, nonostante le ripetute atrocità compiute dall’esercito israeliano, e del crescente sostegno mondiale alla campagna BDS, sembra ragionevole concludere che l’accordo del secolo è stato respinto ancor prima che fosse esplicitato con tutta la sua squallida messa in scena, compresa l’idea di ridisegnare i confini con i Paesi vicini, frammentando in modo permanente il popolo palestinese, al di là delle più fosche aspettative. Se, un grande se, il trio dei consiglieri di Trump di ‘prima Israele” agisce con molta astuzia, questo è un accordo la cui natura dettagliata non verrà mai rivelata al giudizio del pubblico, e il cui anticipato rigetto verrà nascosto dietro una valanga di denunce dell’atteggiamento di rifiuto palestinese come responsabile di aver affossato il piano di pace di Trump.

Sotto questo tentativo di costringere i palestinesi a bere una simile miscela tossica vi è un’errata lettura del corso della storia nei nostri tempi. Il sole è tramontato sul colonialismo e, al di là di quanto si possano mostrare i muscoli geopolitici, questa realtà non può essere trascurata. Questo tipo di crimine geopolitico senza dubbio aumenterà le sofferenze dei palestinesi, mentre contemporaneamente rafforzerà la loro determinazione. In questo genere di lotte contro la colonizzazione vi sono spostamenti negli equilibri del ‘potere persuasivo’, che il più delle volte producono cambiamento e non il rovesciamento dell’equilibrio geopolitico o della superiorità sul terreno di scontro. I popoli, non gli Stati e le loro forze armate, sono i protagonisti e gli attori della nostra epoca, con i governi lasciati in secondo piano a lamentarsi dei risultati. Le potenze coloniali europee lo hanno imparato nel modo più duro in una serie di guerre sanguinose, che hanno perso nonostante la loro superiorità militare. Gli Stati Uniti, nonostante le loro esperienze in Vietnam, Iraq e Afghanistan, devono ancora rendersi conto dei limiti della potenza militare nel mondo post-coloniale e quindi continuano a inventare armamenti, tattiche e dottrine senza imparare questa imprescindibile lezione sul mutamento di natura del potere.

È vero, la diplomazia di Oslo è stata un fallimento che ha giocato a favore di Israele ed è stata giustamente abbandonata. Ma la risposta di Trump a questo fallimento si configura come la criminalizzazione della diplomazia, che viola i più basilari precetti del diritto internazionale sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite. Arriva al punto di condurre una guerra aggressiva contro un popolo vulnerabile e disperato. Se l’ONU e i governi dominanti assistono a questo terribile spettacolo in assordante silenzio, si può solo sperare ardentemente che i popoli del mondo riconoscano la necessità di una riforma radicale per evitare una futura catastrofe, non solo per i palestinesi, ma per l’intera umanità.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)