Il massacro della Grande Marcia del Ritorno di Gaza: un punto di svolta?

Nada Elia

29 maggio 2018, Middle East Eye

I palestinesi si devono mobilitare e avere una strategia per fare in modo che il più recente attacco di Israele sia l’ultimo.

L’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme il 14 maggio ha sparso sale su ferite aperte.

Mentre la “consigliera del presidente” Ivanka Trump se ne stava allegramente vicino a un trionfante Benjamin Netanyahu nel cuore della città illegalmente annessa, Israele era impegnato nell’ennesimo massacro a meno di 100 km a sud-est. Decine di persone sono state uccise e migliaia ferite a Gaza nelle sei settimane della “Grande Marcia del Ritorno”, tra il “Giorno della Terra” e quello della “Nakba”, e molti dei feriti languiscono ancora negli ospedali mal equipaggiati di Gaza.

L’assedio di Gaza, la cui popolazione comprende in buona parte profughi, continua a strangolare la regione in quello che è stato descritto come un “genocidio progressivo” [definizione dello storico israeliano Ilan Pappe, ndt.].

Nakba continua

Questo è ciò che intendono i palestinesi quando dicono che la Nakba sta continuando. Le ingiustizie contro di noi non sono state perpetrate solo una volta, nel 1948, continuano fino ai giorni nostri, con sempre più espulsioni, furti di terra e uccisioni di massa.

Come è successo ormai da qualche anno dopo ogni massacro, sono scoppiate proteste in tutto il mondo, mentre un crescente numero di persone di coscienza ha denunciato pubblicamente le azioni di Israele e annunciato il proprio sostegno alla campagna di solidarietà per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Le proteste sono eventi necessari per esprimere solidarietà con i palestinesi e per mostrare ai politici che l’opinione pubblica non approva quest’ultima aggressione. Le denunce pubbliche della criminalità di Israele da parte di artisti sono benvenute e attese da tempo per dichiarare che Israele è uno Stato da emarginare piuttosto che un’attraente destinazione per la cultura e il turismo.

Come la co-fondatrice di Electronic Intifada Laurie King ed io abbiamo chiesto in un editoriale del 2011: perché dovrebbero essere da criticare artisti come Beyoncé, Usher e Mariah Carey – tutti e tre hanno fatto esibizioni private per la famiglia Gheddafi – mentre non si dice niente di gente come Madonna e Lady Gaga che si accompagnano con Netanyahu e a volte si avvolgono letteralmente nella bandiera israeliana, mentre molti altri difendono Israele quando pratica apertamente l’apartheid e la pulizia etnica?

Ma oggi, con le spudorate dichiarazioni di politici israeliani che non ci sono manifestanti innocenti a Gaza e che ogni dimostrante è un bersaglio legittimo e con i cittadini israeliani che dichiarano ripetutamente il proprio appoggio all’uccisione di palestinesi, stiamo finalmente vedendo crepe nella maschera di Israele, nella facciata democratica con cui ha preso in giro buona parte dell’Occidente.

Vecchio ordine imperiale

Tuttavia non possiamo rilassarci proprio adesso. Al contrario dobbiamo continuare a mettere sotto i riflettori Israele, in modo che non si riprenda dalle critiche del momento, come ha fatto in continuazione dopo precedenti massacri e dopo le proteste che li hanno seguiti.

Il massacro del “Giorno della Nakba” e l’inaugurazione della nuova ambasciata USA non costituiscono un’aberrazione. Gli analisti che sostengono che lo spostamento dell’ambasciata USA è la continuazione della sua politica di lunga data in Medio Oriente, a cominciare dal 1967, piuttosto che un allontanamento da essa, hanno ragione.

Aggiungerei che non è solo una continuazione della politica USA, ma di un più antico ordine imperialista – anzi, il vecchio ordine imperialista che ha dato vita agli USA. Il secolo scorso della storia palestinese è stato un doloroso ciclo di estrema ingiustizia imposta a una popolazione indigena, seguita da insurrezioni, a loro volta violentemente represse, finché la gente non si è di nuovo ribellata chiedendo giustizia.

Le rivolte, compresa l’insurrezione del 1936-39 contro il Mandato britannico e le Intifada iniziate nel 1987 e nel 2000, hanno assunto molte forme, dalla ribellione armata alle proteste pacifiche. Sono state invariabilmente affrontate con una violenza sproporzionata da parte dell’oppressore coloniale, a cominciare dall’Inghilterra, che per prima impose la legge marziale e forgiò molte delle misure che Israele utilizza ancora oggi per discriminare i palestinesi, fino ai veri e propri massacri che Israele adesso commette sistematicamente.

Oggi questi massacri sono resi possibili dagli USA, che forniscono ad Israele il necessario appoggio economico e diplomatico per agire con impunità. Nelle conclusioni al suo rivoluzionario libro del 1978 “Orientalismo” Edward Said [intellettuale palestinese e docente universitario alla Columbia University, ndt.] scrisse che la tendenza degli USA a dominare il mondo li ha messi nella posizione che aveva una volta la Gran Bretagna, quando sosteneva in modo arrogante che “il sole non tramontava mai” [frase in realtà attribuita a Carlo V d’Asburgo nel XVI° secolo, ndt.] sull’impero britannico. L’ambasciata USA a Gerusalemme illustra il giudizio di Said, anni dopo la sua prematura morte.

Una prospettiva oltre le proteste

Negli ultimi anni si è evidenziata un’altra caratteristica ricorrente dei massacri, cioè la dichiarazione che “questo è un punto di svolta”. Più di recente, la “Grande Marcia del Ritorno” è stata paragonata all’attraversamento del ponte “Edmund Pettus” [marcia pacifica per i diritti civili dei neri tra Selma e Montgomery violentemente repressa, ndt.] nel Sud degli USA, mentre il massacro del “Giorno della Nakba” è stato descritto come la Sharpeville [manifestazione pacifica contro l’apartheid in Sudafrica contro cui la polizia sparò a bruciapelo, ndt.] palestinese.

Tuttavia la “Grande Marcia del Ritorno” sarà un punto di svolta solo se noi la renderemo tale. Se vogliamo che lo schema cambi dobbiamo organizzarci con una prospettiva oltre le proteste. Per ora la maggior parte delle proteste sono state rivolte spontanee contro l’ingiustizia, con una scarsa progettualità per quello che sarebbe venuto dopo che ci siamo riuniti agli angoli delle strade e nei parchi pubblici per gridare la nostra sofferenza, la nostra indignazione e la nostra solidarietà.

Mentre ci lasciamo alle spalle il centenario della dichiarazione Balfour e il 70^ anniversario della Nakba, tra la rinnovata arroganza degli attuali leader imperialisti, è urgente che ci concentriamo nella progettazione del futuro piuttosto che limitarci a protestare.

In ultima analisi non sono le dimensioni del massacro che determinano se si tratta di un punto di svolta. Semmai è come riusciamo a reggere la nostra mobilitazione e la nostra organizzazione, in modo che non sia solo un ennesimo episodio di una lunga serie di ingiustizie.

Sta a noi onorare la resistenza palestinese non solo leggendo i nomi dei morti, ma mobilitandoci, organizzandoci e ideando una strategia concreta per fare in modo che questo massacro non sia il più recente, ma l’ultimo.

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese, che attualmente lavora al suo secondo libro: “Who You Callin’ ‘Demographic Threat?’ Notes from the Global Intifada” [“Chi definisci ‘minaccia demografica?’ Note dall’intifada globale.”]. Docente (in pensione) di studi sul genere e globali, è membro del gruppo di orientamento della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)