La trappola di Oslo: come l’OLP firmò la propria condanna a morte

Raef Zreik

11 settembre 2023 – +972 Magazine

Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.

Gli Accordi di Oslo furono stipulati quando ero un giovane avvocato allinizio della carriera, dopo aver vissuto per anni come studente a Gerusalemme nel corso della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, profondamente logorato a causa della stessa Gerusalemme, della tensione costante e dellintensa attività politica contro loccupazione. Non c’è quindi da meravigliarsi che, nonostante la mia contrarietà nei confronti di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto volessi che laccordo funzionasse nel profondo della mia mente sapevo che non sarebbe stato così.

Allepoca lopinione pubblica palestinese comprendeva tutte le categorie di oppositori ad Oslo. Alcuni palestinesi non credettero fin dall’inizio alla soluzione dei due Stati e la consideravano una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero uno di loro: piuttosto, la mia opposizione ad Oslo nasceva da una convinzione interiore che gli Accordi stessi non potessero effettivamente portare a una soluzione del genere. Non ero influenzato da ciò che veniva detto in televisione o nei dibattiti pubblici; preferii mettermi a sedere e leggere gli accordi attraverso gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico deve contenere una propria logica contrattuale: stabilire una tempistica precisa, con delle regole in caso di violazione del contratto e così via. Ebbi l’impressione che i negoziatori palestinesi avrebbero potuto avvalersi di un minimo di consulenza legale.

Come si può ricavare dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dellOrganizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat che precedette la firma degli accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, nella formulazione degli accordi di Oslo sussistono tre problemi centrali.

Il primo è uno squilibrio nel riconoscimento, da parte delle due parti, della reciproca legittimità. LOLP riconosceva Israele e il suo diritto ad esistere, e riconosceva la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e il riconoscimento della rivendicazione di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). Ma, in cambio, Israele non riconosceva il diritto del popolo palestinese ad uno Stato o il suo diritto allautodeterminazione. Semplicemente riconosceva lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese.

Questa mancanza di equivalenza rese lOLP poco più che un vaso vuoto; dopo tutto, c’è una differenza tra riconoscere lesistenza dellOLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, allepoca Israele aveva un interesse strategico nel riconoscere lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo fece è perché il riconoscimento da parte dellOLP del diritto di Israele ad esistere avrebbe rappresentato la voce dellintera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dellOLP non avrebbe avuto senso se non fosse arrivato da un autentico rappresentante.

In quest’ottica, la natura strumentale dellOLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell’interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni a nome del popolo che rappresenta. Quando lOLP presentò delle chiare rivendicazioni e richieste Israele le respinse, ma quando riconobbe Israele e fece concessioni a nome dei palestinesi Israele non ebbe problemi nel trattare lOLP come portavoce dei palestinesi.

Di fatto lOLP ha sfruttato il capitale simbolico costituito dall’essere il rappresentante del popolo palestinese per emergere sulla scena mondiale e dichiarare lassenza del popolo cancellandone la narrazione. In effetti, questo fu lultimo atto significativo dellOLP nellarena politica. Israele voleva che il riconoscimento dellOLP fungesse da dichiarazione de facto del suo suicidio. Da allora lOLP ha cessato di essere un attore politico importante, e tutto ciò che ne rimane sul piano funzionale è lAutorità Nazionale Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.

Due anni dopo la firma degli Accordi lOLP si impegnò ad annullare le sezioni della Carta Nazionale Palestinese che non riconoscevano Israele. All’epoca mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz dal titolo Non c’è compromesso senza riconoscimento”. Lannullamento delle dichiarazioni della Carta avvenne senza alcuna azione in cambio da parte di Israele, che continuò a rifiutare di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto allautodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.

Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un dato di fattoinamovibile e lambito di territorio sul tavolo delle trattative è stato ristretto dall’intera regione costituita da Israele e Palestina alla sola Cisgiordania, ora lunico territorio rimasto a malapena materia di discussione. Se la disputa riguardasse la Palestina nel suo insieme allora la divisione dellintero territorio dal fiume al mare in due entità sarebbe la soluzione ottimale. Ma se lintero problema si riduce ai territori occupati nel 1967 allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.

Questo restringimento del territorio oggetto del dibattito altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insisteranno nel volere il controllo della totalità dei territori occupati saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sè stessi. Il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto su più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative non viene mai preso in considerazione. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi e fino ad oggi non sono riusciti a liberarsene. Sfortunatamente non è lunica trappola di questo tipo.

Autoproclamati terroristi”

Recentemente un crescente coro di voci critiche ha chiesto che lOLP ritiri il riconoscimento di Israele, dal momento che Israele non ha rispettato le condizioni degli Accordi di Oslo. Ma questa è unaffermazione pericolosa. Il riconoscimento, per sua stessa natura, è una tantum e non può essere revocato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene tangibile e materiale: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.

Se i palestinesi volessero ritirare il loro riconoscimento non potrebbero mai più barattarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto suo controllo poiché gli israeliani non crederanno mai che quel riconoscimento non verrebbe nuovamente revocato.

Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin conteneva anche una clausola in cui l’OLP si impegnava non solo a condannare il terrorismo ma anche a rinunciarvi. Per cui la stessa OLP accettò di chiamare la sua lotta fino a quel momento terrorismo”. Ciò ha posto diversi problemi, ma voglio soffermarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di avviare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Piuttosto il problema è riferito al futuro: cosa accadrà se Israele non accetterà il ritiro dai territori occupati o una soluzione a due Stati? Quali mezzi saranno a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro loccupazione?

La difficoltà di poter dare una risposta a queste domande divenne dolorosamente evidente alla fine degli anni 90. Israele bloccò il processo di Oslo e continuò ad espandere il progetto di colonizzazione. Non era affatto chiaro dove avrebbe portato il processo di Oslo e quale sarebbe stata in definitiva la soluzione permanente. Israele controllava la terra, laria, i confini, lacqua e tutte le risorse, e si limitò a cedere allAutorità Nazionale Palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele ha mantenuto il controllo effettivo, ma ha scaricato tutta la responsabilità sulle spalle dellAutorità Nazionale Palestinese. Inoltre, laccordo non conteneva una clausola esplicita che vietasse la continuazione della costruzione di insediamenti coloniali nei territori occupati.

In questa situazione i palestinesi non potevano né progredire verso [la costituzione di] uno Stato indipendente né ritornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno più il potere e lorganizzazione per farlo, ma sono anche formalmente intrappolati dagli Accordi di Oslo. Il mondo, soprattutto Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ha riconosciuto lOLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dellaccettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, un ritorno alla lotta armata sarebbe inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo; solo che questa volta, sarebbero proprio i palestinesi ad aver dato un nome alla loro lotta avendola essi stessi chiamata terrorismo. Quindi anche il resto del mondo è abilitato a chiamarla terrorismo.

Il significato pubblico diterrorismosi è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada ebbe inizio nel corso di una generazione dallinizio delloccupazione quindi il mondo vide in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, che giunse come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon allHaram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, avvenne sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro loccupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo è stato visto come [atto di] terrorismo”.

Il contesto era cambiato, e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non sono riusciti a raggiungere alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.

Non ho intenzione di proporre un programma per il futuro, ma penso che qualsiasi proposito di tornare indietro, ricostituire lOLP e tornare ai principi su cui lorganizzazione è stata fondata 60 anni fa sarebbe ormai destinato ad un fallimento. Da qui possiamo solo andare avanti.

LOLP ha fatto il suo lavoro; ha impresso la parola Palestinanella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste qualcosa come il popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo programma con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che ogni giorno espelle questi ultimi dalla loro terra. Questo è il nostro punto di partenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rachel Corrie venne uccisa a Gaza dall’esercito israeliano. 20 anni dopo i suoi genitori stanno ancora lottando per ottenere giustizia

Andrew Buncombe

17 marzo 2023, The Independent

Esclusivo: nei due decenni trascorsi dalla morte della loro figlia attivista per la pace Cindy e Craig Corrie non sono riusciti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Ma non hanno rinunciato alle loro speranze di pace, dichiarano ad Andrew Buncombe

Non poteva esserci un modo adatto per ricevere una simile notizia.

La madre di Rachel Corrie, Cindy, ricorda la chiamata telefonica da parte dell’altra sua altra figlia, Sarah, e del marito. Era ovvio che qualcosa non andava.

Le fu detto che c’era una “notizia molto triste” e riguardava Rachel. La giovane attivista si era recata a Gaza due mesi prima per cercare di proteggere le vite e le case dei palestinesi.

È morta? Chiese subito sua madre. Pose la domanda in modo così lapidario, racconta, nella speranza di poter escludere subito il peggio. Ma non c’era modo di sfuggire alla verità. Sì, credevano che fosse morta. L’avevano visto al telegiornale.

Cindy prese il cordless e lo portò al padre di Rachel, Craig, che stava facendo il bucato in un’altra stanza, impegnato con le faccende quotidiane.

Fecero quindi una raffica di telefonate, principalmente ad altri membri della famiglia di Rachel, volendo rivelare personalmente i dettagli prima che vedessero anche loro le notizie in TV. Parlarono anche con il Dipartimento di Stato. Craig chiamò il suo principale. “Non ho idea di cosa sia successo nella mia vita”, gli disse. “Ma è completamente cambiata.”

Sono passati quasi 20 anni da quel terribile giorno, il 16 marzo 2003, quando seppero che la loro figlia era stata uccisa nel sud di Gaza, schiacciata da un bulldozer D9 da 60 tonnellate costruito da Caterpillar Inc e utilizzato dalle forze di difesa israeliane (IDF). Rachel aveva fatto parte di un gruppo di attivisti palestinesi e internazionali che cercavano di fermare la distruzione di proprietà palestinesi. Quel giorno avevano agito come scudi umani per fermare l’abbattimento di una casa nel campo profughi di Rafah occupata dalle famiglie di due fratelli, Khaled e Samir Nasrallah.

Il fatto che nei due decenni successivi siano morte tantissime migliaia di palestinesi – la maggior parte, sostengono i palestinesi, uccisi illegalmente dalle forze israeliane – ripugna ai genitori di Rachel. Sono consapevoli delle critiche secondo cui la visibilità concessa alla morte della figlia sia stata di gran lunga maggiore rispetto al caso in cui venga ucciso un palestinese. I due fatti aiutano a motivarli a continuare il loro lavoro presso la fondazione che hanno creato a nome della figlia.

In pochi giorni si resero conto che la morte della figlia li aveva portati su una strada diversa. Non si poteva tornare indietro. Non esisteva un trucco per viaggiare nel tempo e riportare indietro la loro “meravigliosa e premurosa” figlia, che aveva sognato di diventare una poetessa o una ballerina.

Era stata uccisa, ma dovevano trovare un modo per continuare a vivere, per il bene degli altri loro figli – Rachel aveva anche un fratello, Chris – per se stessi e per la causa per la quale Rachel aveva dato la vita.

Hanno aderito ad una associazione di cui nessuno vorrebbe far parte: di genitori o parenti di una persona cara persa troppo presto, a causa della violenza della polizia, di una sparatoria a scuola o di una malattia rara di cui il mondo sa poco. Fin da allora diffidavano del discorso super abusato riguardo “l’elaborazione del lutto“. Magari, sembrava loro più appropriato l’accertamento delle responsabilità penali, ma sono ancora lontani dall’ottenerlo.

Proprio come quegli individui che cercano un significato nella campagna per una maggiore regolamentazione delle armi o per la riforma della polizia, i Corrie hanno guadagnato l’attenzione cercando di continuare il lavoro della figlia e raccontando la sua storia. In tal modo, agiscono come la figlia ha loro espressamente richiesto.

Nell’ultima e-mail ai suoi genitori, inviata quattro giorni prima della sua morte, scrisse: Ciao papà, grazie per la tua e-mail. A volte mi sembra di passare tutto il mio tempo a parlare con mamma supponendo che ti riferisca le cose, quindi vieni trascurato. Non preoccuparti troppo per me, in questo momento sono molto preoccupata della nostra scarsa efficacia. Non mi sento ancora particolarmente a rischio. Ultimamente Rafah mi è sembrata più tranquilla”.

Aggiungeva: Grazie anche per aver intensificato il tuo impegno contro la guerra. So che non è facile da sostenere, e probabilmente molto più difficile dove sei tu rispetto a qui, dove mi trovo.

Dopo la sua morte alcuni degli scritti di Corrie furono raccolti dalla famiglia e pubblicati con il titolo Let Me Stand Alone: The Journals of Rachel Corrie [Lasciatemi stare da sola: i diari di Rachel Corrie, ndt.]. (Questi scritti avrebbero anche costituito la base di un’opera teatrale, My Name is Rachel Corrie, scritta dalla giornalista del Guardian Katherine Viner e dall’attore Alan Rickman. Rickman ha diretto l’opera teatrale quando è stata rappresentata a Londra.) Un’e-mail contenuta nella raccolta custodisce una lunga lettera che aveva scritto a sua madre il 27 febbraio 2003: Voglio proprio scrivere a mia madre e dirle che sto assistendo a questo genocidio cronico e strisciante e sono davvero spaventata, e sto mettendo in discussione la mia fede di fondo sulla bontà della natura umana. Questo deve finire. Penso che sia una buona idea per tutti noi lasciare ogni cosa e dedicare le nostre vite a fermare tutto questo. Non penso più che nel fare ciò ci sia qualcosa di estremista”.

I Corrie dicono di aver incontrato molti genitori che affrontano altre tragedie, a volte simili.

“Penso che la cosa più urgente per le famiglie, per i sopravvissuti, sia non sperimentare quel dolore provato da un’altra famiglia”, dice il padre di Corrie.

Il peso della scelta è stato superato dal fatto che la loro figlia ha chiesto loro in modo così inequivocabile di dedicarsi alla sua causa, e dal fatto che essi sono finanziariamente in grado di farlo. Come strumento per questo lavoro hanno istituito la Rachel Corrie Foundation.

In tale lavoro c’è una qualche forma di salvezza”, aggiunge. Devi lavorare su qualcosa. È meglio che non avere alcun senso dopo una perdita così grande.

Rachel Corrie nacque nell’aprile del 1979 ad Olympia, la capitale dello Stato occidentale di Washington. Era la più giovane di tre figli e avrebbe goduto di quelli che i suoi genitori dicevano fossero i vantaggi di uno stile di vita della classe media.

Studiò alla scuola statale e per l’istruzione superiore frequentò l’Evergreen State College, un’istituzione progressista dove gli studenti possono progettare i propri corsi di laurea. Fu lì che divenne politicamente consapevole e si unì agli Olympians for Peace and Solidarity, un gruppo affiliato all’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione guidata dai palestinesi che utilizza azioni non violente per affrontare le tattiche dell’esercito israeliano.

Nel suo ultimo anno Rachel voleva vedere Gaza in prima persona. Anche se non ricevette crediti per i suoi scritti da lì e mentre viaggiava nel tempo libero, i suoi genitori consideravano ciò un’ampliamento della sua educazione.

Prima di partire scriveva: Siamo tutti nati e un giorno moriremo tutti. Molto probabilmente in una certa misura da soli”.

Aggiungeva: E se la nostra solitudine non fosse una tragedia? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di dire la verità senza avere paura? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di avventurarci – di sperimentare il mondo come una presenza dinamica – come qualcosa di mutevole e interattivo?”

Corrie e gli altri volontari accettarono di agire come scudi umani, ponendosi sulla traiettoria dei bulldozer corazzati utilizzati dalle IDF per sgomberare i palestinesi. Ciò accadde sullo sfondo di quella che divenne nota come la Seconda Intifada, una rivolta protrattasi per diversi anni contro ciò che i palestinesi consideravano gravi abusi. Comportò attentati suicidi e attacchi con razzi da parte di palestinesi, uccisioni mirate e bombardamenti aerei da parte delle IDF. Gran parte del mondo distolse lo sguardo. Alla fine di marzo 2003, pochi giorni dopo la morte di Corrie, gli Stati Uniti e il Regno Unito invasero l’Iraq col pretesto della ricerca di armi di distruzione di massa.

Quando Corrie fu uccisa, il 16 marzo 2003, tante altre persone assistettero alla sua morte, tra cui molti altri attivisti per la pace, che in seguito avrebbero testimoniato ciò che avevano visto. Un attivista, l’americano Greg Schnabel, avrebbe detto ai media che Rachel indossava una giacca arancione fluorescente ed era “chiaramente” visibile all’autista del bulldozer e ai soldati nel carro armato.

Rachel cadde sulle sue ginocchia in seguito al movimento del terreno. Il bulldozer andò avanti. Rachel cominciò ad essere ricoperta dalla terra. Eppure [il bulldozer] non si fermò”, ha riferito.

Aggiunge che non appena il bulldozer si allontanò, lui e altri attivisti si precipitarono verso di lei nel tentativo di prestare soccorso.

Era ovviamente in condizioni terribili. Il suo labbro superiore era spaccato e sanguinava”, dice, aggiungendo che chiamarono un’ambulanza. Stava respirando ma stava perdendo conoscenza rapidamente. Entro un minuto non era più in grado di darci il suo nome o parlare. Abbiamo continuato a parlarle, incoraggiandola, respirando con lei e dicendole che l’amavamo”.

Circa venti minuti dopo Rachel Corrie era morta.

L’autopsia è stata condotta dal primario patologo Yehuda Hiss. Il referto non venne reso pubblico ma una copia passata ai genitori di Corrie concludeva che era morta a causa di “una pressione sul torace (asfissia meccanica) con fratture delle costole, delle vertebre dorsali e delle scapole e lacerazioni nel polmone destro con emorragia nelle cavità pleuriche”.

I genitori di Corrie e altri attivisti incolparono subito le IDF. Ma Israele respinse quelle accuse di colpevolezza, dicendo che quanto accaduto era stato un incidente e mettendo persino in discussione i resoconti dei testimoni.

Nell’aprile 2003 un rapporto dell’IDF affermava: Contrariamente alle accuse, la signorina Corrie non è stata investita da un bulldozer, ma ha riportato ferite causate dalla terra e dai detriti caduti su di lei durante l’operazione del bulldozer. Al momento dell’incidente la signorina Corrie si trovava dietro un cumulo di terra e quindi nascosta alla vista dell’equipaggio del bulldozer. Accusava persino Corrie e altri membri dell’International Solidarity Movement di comportamento “illegale, irresponsabile e pericoloso”.

Una parte essenziale e tenace della lotta dei Corrie è stata quella di cercare di garantire i responsabili alla giustizia. Non possono riportare indietro la loro figlia. Ma credono che qualcuno o qualcosa – forse diverse persone, Paesi o organizzazioni – dovrebbero assumersi la responsabilità della morte della figlia. Hanno intentato azioni legali per cercare di incolpare sia i produttori del bulldozer che l’esercito israeliano. Quegli sforzi sono falliti.

Nel 2005 i genitori di Corrie, insieme a quattro famiglie palestinesi i cui parenti erano rimasti uccisi o feriti, intentarono un’azione civile contro la Caterpillar Inc. con sede in Texas. I bulldozer Caterpillar erano stati pagati dai contribuenti statunitensi e forniti a Israele come parte dei 3,3 miliardi di dollari che Israele riceve ogni anno da Washington. Accusarono Caterpillar di una serie di reati, inclusi crimini di guerra e uccisioni extragiudiziali.

Sostenevano che poiché Caterpillar sapeva che l’attrezzatura sarebbe stata utilizzata illegalmente era complice dei crimini per cui era stata utilizzata. Il caso venne archiviato da una corte d’appello nel 2007 senza che se ne esaminasse il merito, poiché la corte affermò di non poterlo prendere in esame senza un’indagine sulla liceità dell’invio da parte del governo di tali apparecchiature in Israele.

“Un tribunale non può dare ragione ai querelanti senza mettere implicitamente in discussione, e persino condannare, la politica estera degli Stati Uniti nei confronti di Israele”, sostenne la corte. “A questo proposito, siamo consapevoli di quale potenziale fonte di imbarazzo internazionale potrebbe costituire un tribunale federale nel caso compromettesse le decisioni di politica estera nel delicato contesto del conflitto israelo-palestinese”.

Caterpillar non ha risposto alle domande di The Independent. Anche le IDF e il ministero degli Esteri israeliano non hanno risposto. Un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington DC ha detto che le domande di The Independent sarebbero state trasmesse ai funzionari in Israele.

I Corrie hanno fatto cinque viaggi a Gaza per vedere dove è stata uccisa la loro figlia e rimangono in contatto non solo con altri attivisti che conoscevano Rachel, ma anche con la famiglia la cui casa stavano cercando di salvare. Hanno visto dei veicoli Caterpillar utilizzati dalle IDF.

La madre di Corrie dice che ora si sente “un po’ risentita” ogni volta che vede macchinari Caterpillar su una strada americana, non importa quale.

“A causa dell’impiego a cui ho assistito dei veicoli di quell’azienda – pagati dal nostro governo – “, precisa. Ricordo sempre: lo strumento usato per fare questo era un veicolo Caterpillar. E… nel corso degli anni, noi e molti altri abbiamo affrontato la Caterpillar Incorporated… perché hanno continuato a effettuare quelle vendite e probabilmente lo fanno ancora”.

In Israele i genitori ebbero un po’ più di fortuna. Nel 2010 citarono in giudizio le IDF e il ministero della difesa israeliano chiedendo una sentenza e un risarcimento.

L’autista del bulldozer, che il giudice ordinò non fosse identificato pubblicamente e che testimoniò da dietro uno schermo, affermò di non essere stato in grado di vedere la figlia.

Nel 2012 il giudice Oded Gershon si pronunciò contro i genitori, assolvendo l’esercito israeliano e l’autista da qualsiasi illecito. Affermò che la responsabile fu la stessa Corrie poiché si era messa per scelta in un posto così pericoloso. “Non si è allontanata come avrebbe fatto qualsiasi persona ragionevole”, disse il giudice. “Ma ha scelto di mettersi in pericolo… e così ha trovato la sua morte.”

Tale sentenza venne successivamente confermata dalla Corte Suprema della Nazione.

“Siamo delusi e non sorpresi dal verdetto”, disse all’epoca il padre di Corrie alla CNN. In questo verdetto, come in quello dei tribunali di primo grado, è stato del tutto ignorato il diritto umanitario internazionale”.

Ripensando ora alla sentenza i Corrie affermano di non essere riusciti a trovare qualcuno che potesse essere ritenuto responsabile della morte della loro figlia, o di quella che sostengono sia la “violenta occupazione” dei palestinesi da parte di Israele. Dicono di non essere stati nemmeno in grado di influenzare la politica americana nei confronti di Israele, che, con poche eccezioni, gode del sostegno indiscusso dei massimi rappresentanti governativi di entrambe i partiti.

La gente dirà che stavamo cercando di ottenere giustizia. Non so nemmeno più cosa significhi quella parola”, dice il padre di Corrie. “Penso che dovremmo cercare in Sud Africa alcune strade attraverso cui potremmo riuscire a ottenere giustizia”.

Ma dice che avverte come l’incapacità di trovare le responsabilità abbia lasciato il segno: “Tutto questo deve essere riconosciuto, e tra tutta questa violenza ora quello a cui penso stiamo assistendo è l’uccisione della speranza, e la speranza è in assoluto la prima cosa di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.

L’anniversario della morte di Corrie giunge mentre le relazioni tra Israele e le autorità palestinesi sono quanto mai tese.

Donald Trump ha dato la priorità al rafforzamento del potere di Israele rispetto alle richieste dei palestinesi. Questa mossa ha portato agli Accordi di Abramo, una serie di intese per normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Questi accordi storici sono stati ampiamente accolti. Ma i palestinesi si sentono trascurati e Mahmoud Abbas, presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è stato ampiamente messo da parte.

La violenza è continuata senza sosta ed è salita a livelli che non si vedevano da anni. L’anno scorso, mentre Israele lanciava l’operazione Breakwater, un’imponente azione repressiva, ha avuto luogo una serie di attacchi da parte dei palestinesi.

A gennaio un giorno ha visto la più letale operazione dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata dal 2005. Le truppe hanno ucciso nove palestinesi, tra cui uomini armati e una donna di 61 anni, durante un raid contro dei sospettati nel campo profughi di Jenin. Altre decine di persone sono rimaste ferite.

La continua violenza ha provocato il più alto numero di vittime in Cisgiordania dal 2004. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem l’anno scorso quasi 150 palestinesi sono stati uccisi dalle truppe israeliane. Questa cifra include la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, anche lei uccisa nel campo profughi di Jenin.

Gli osservatori affermano che la situazione è peggiorata dopo la rielezione lo scorso novembre di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano a capo di un governo di coalizione di destra.

Tra i politici ora al governo che una volta erano considerati persino al di là della frangia estrema della politica israeliana c’è Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir ha chiesto l’espulsione dei palestinesi “sleali” nei confronti di Israele ed è un ex membro del partito fuorilegge Kach, considerato nella Nazione un’organizzazione “terrorista”. Netanyahu lo ha nominato ministro della sicurezza nazionale. La sua visita personale al sito religioso più sensibile di Gerusalemme, il complesso della moschea di Al-Aqsa, ha suscitato proteste e ha preceduto le recenti repressioni nel Paese.

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I Corrie non hanno mai rivelato dove hanno collocato i resti della figlia. Ma c’è un suo memoriale all’interno dell’Evergreen State College, incentrato su un’opera creata da Matteson, artista internazionale e laureato all’Evergreen Ross. Si intitola Reflecting on Peace and Justice” ed è una rappresentazione in bronzo e acciaio lucido di una colomba sulla punta di una piramide.

All’inaugurazione del memoriale la madre di Corrie ha detto ai presenti che aveva rimandato il momento della visita fino al momento dell’apertura al pubblico.

Ho voluto condividere il mio primo incontro con il memoriale in questo luogo molto speciale con tutti voi, che siete venuti per inaugurare questo ricordo di Rachel e della sua dedizione al vincolo della pace con la giustizia e la compassione”, ha detto. E anche per esaltare l’appello alla consapevolezza e all’azione che il memoriale e la storia di Rachel ci inviano”.

I Corrie organizzano sempre qualche evento per celebrare l’anniversario della morte della figlia e cercano di includervi vari elementi: sia costruire una comunità che educare le persone. Sanno che il 20° anniversario sarà sentito con maggiore intensità.

Penso che per ciascuno dei membri della nostra famiglia sia diverso. Quella che facciamo è una riflessione molto personale”, dice la madre di Corrie. Gli eventi organizzati dalla fondazione forniscono un focus, aggiunge.

Il padre di Corrie dice che nel corso degli anni hanno conosciuto “purtroppo troppe famiglie” colpite dal conflitto israelo-palestinese. Hanno amici tra i palestinesi che hanno perso i propri cari e amici tra gli israeliani che hanno subito un lutto simile.

Afferma che ogni famiglia che conosce vuole impedire ulteriori morti: Ovviamente, se guardiamo all’ultimo mese, abbiamo tutti miseramente fallito in questo sforzo, è vero. Ma si deve provare. Si deve fare tutto il possibile e abbiamo sicuramente incontrato sulla nostra strada brave persone che cercano di farlo. E penso che questo sia ciò che ci unisce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il direttore della CIA paragona la crescente violenza in Palestina alla seconda Intifada

Redazione di MEMO

7 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Il direttore della CIA William Burns che è stato un diplomatico di lungo corso durante la seconda intifada, ha affermato che le condizioni nella Cisgiordania occupata hanno una ‘infelice somiglianza’ con la sollevazione palestinese degli anni 2000-2005. Le sue osservazioni arrivano alcuni giorni dopo il suo viaggio nella regione, dove ha incontrato alti dirigenti israeliani e palestinesi.

La crescente violenza in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate è stata paragonata alla seconda Intifada dal direttore della CIA William Burns in seguito alla sua recente visita nella regione.

Venti anni fa sono stato un importante diplomatico statunitense durante la seconda Intifada e sono preoccupato – come lo sono i miei colleghi della comunità dell’intelligence – che molto di quanto stiamo vedendo oggi abbia una spiacevole somiglianza con alcune delle realtà che abbiamo visto anche allora,” ha detto Burns la settimana scorsa in una intervista alla Georgetown School of Foreign Service a Washington.

La seconda Intifada iniziò il 28 settembre 2000, quando l’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon entrò nella moschea di Al-Aqsa con un contingente pesantemente armato delle forze di sicurezza israeliane. L’incursione provocò una forte risposta palestinese. La successiva insurrezione durò cinque anni e lasciò sul terreno più di 3000 vittime palestinesi e 1000 israeliane.

Le conversazioni che ho avuto con i dirigenti israeliani e palestinesi mi hanno lasciato abbastanza preoccupato riguardo alle prospettive anche a causa di una maggior fragilità e una maggior violenza tra israeliani e palestinesi” ha aggiunto Burns. “Parte della responsabilità della mia agenzia è di lavorare il più strettamente possibile con entrambi i servizi di sicurezza palestinesi e israeliani per prevenire il tipo di esplosioni di violenza che abbiamo visto nelle scorse settimane. Questa sta diventando una grande sfida e sono anche preoccupato riguardo a questo aspetto del quadro mediorientale.”

I commenti del direttore della CIA sono stati fatti a fronte della crescente tensione in tutti i territori palestinesi occupati in seguito ad una operazione militare israeliana la scorsa settimana nella città di Jenin in Cisgiordania, durante la quale dieci palestinesi sono stati uccisi, inclusa una donna di 67 anni. Sette israeliani sono stati uccisi successivamente in una sparatoria a Gerusalemme Est occupata.

Inoltre le forze israeliane hanno ucciso cinque uomini palestinesi e ne hanno feriti sei domenica notte durante una incursione a Gerico, nella parte orientale della Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Fare giornalismo in un tempo leggendario. La testimonianza personale di una giornalista

Shireen Abu Aqleh

Ottobre 2021 – This Week in Palestine

Nota Redazionale

Un articolo di Shereen Abu Aqleh dell’ottobre scorso che descrive la sua professione nella terra occupata da Israele e in particolare la capacità  della popolazione palestinese di Jenin di non abbassare mai la testa dinanzi all’invasore anche nei momenti più critici. Scriviamo queste poche righe con lo stato d’animo sconvolto dalle immagini che ci sono giunte da Gerusalemme Est per l’inaudito e violento attacco della polizia al corteo funebre.

Probabilmente è stata una coincidenza a riportarmi indietro di vent’anni. Quando sono arrivata a Jenin a settembre non mi aspettavo di rivivere questa travolgente sensazione. Jenin è ancora la stessa fiamma inestinguibile che abbraccia giovani senza paura che non si fanno intimidire da nessuna possibile invasione israeliana.

Il motivo per cui ho passato parecchi giorni e notti nella città è stato il successo dell’evasione dal carcere di Jalboa. È stato come tornare al 2002 quando Jenin visse qualcosa di unico, diverso da qualunque altra città in Cisgiordania. Verso la fine dell’Intifada di Al-Aqsa cittadini armati si sparpagliarono per tutta la città e sfidarono apertamente le forze di occupazione che intendevano invadere il campo.

Nel 2002 Jenin diventò una leggenda nella mente di molti. La battaglia nel campo contro le forze di occupazione in quell’aprile è ancora molto presente nella mente dei suoi abitanti, anche di quelli che non erano ancora nati quando accadde.

Tornando a Jenin adesso, 20 anni dopo, ho rivisto molti volti familiari. In un ristorante ho incontrato Mahmoud, che mi ha salutata chiedendomi: “Ti ricordi di me?” “Sì”, ho risposto, “Mi ricordo di te”. È difficile dimenticare quel viso e quegli occhi. Lui ha continuato: “Sono uscito di prigione pochi mesi fa”. Mahmoud era ricercato dagli israeliani quando lo incontrai negli anni dell’Intifada.

Ho rivissuto quelle sensazioni di ansia e di orrore che provavamo ogni volta che incontravamo una persona armata nel campo. Mahmoud è uno dei fortunati: è stato incarcerato e rilasciato, ma per gli abitanti di Jenin e per i palestinesi in generale i volti di molti altri sono diventati simboli o semplici ricordi.

Durante questa visita non abbiamo avuto difficoltà a trovare un posto dove stare, diversamente da dieci anni fa quando abbiamo dovuto sistemarci in casa di gente che non conoscevamo. A quel tempo le persone ci aprivano le loro case poiché non c’erano alberghi.

A prima vista la vita a Jenin può sembrare normale, con ristoranti, alberghi e negozi che aprono ogni mattina. Ma a Jenin si ha l’impressione di essere in un piccolo villaggio che controlla ogni straniero che arriva. In ogni strada la gente chiede alla troupe: “Siete della stampa israeliana?”. “No, siamo di Al-Jazeera”. La targa gialla del veicolo israeliano incute sospetto e paura. L’auto è stata fotografata e la foto è stata fatta circolare diverse volte prima che i nostri movimenti in città diventassero familiari per gli abitanti.

A Jenin abbiamo incontrato persone che non hanno mai perso la speranza: non hanno permesso alla paura di entrare nei loro cuori e non sono state spezzate dalle forze di occupazione israeliane. Probabilmente non è una coincidenza che i sei prigionieri che sono riusciti ad evadere fossero tutti dei dintorni di Jenin e del campo [profughi].

Per me Jenin non è un’effimera storia nella mia carriera o nella mia vita personale. È la città che mi può sollevare il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che a volte trema e cade ma, oltre ogni aspettativa, si rialza per inseguire i suoi voli e i suoi sogni.

E questa è stata la mia esperienza come giornalista: nel momento in cui sono fisicamente stremata e mentalmente esausta, mi trovo di fronte ad una nuova, sorprendente leggenda. Può nascere da un piccolo spiraglio, o da un tunnel scavato sottoterra [riferimento all’evasione dei prigionieri di Jenin fuggiti dal carcere israeliano di Gilboa, ndtr.].

  Shireen Abu Aqleh

Per 24 anni ho coperto il conflitto israelo-palestinese per Al Jazeera. Oltre alla questione politica, il mio interesse è stato e sarà sempre la vicenda umana e la sofferenza quotidiana del mio popolo sotto occupazione. Prima di lavorare per il mio attuale canale sono stata co-fondatrice di radio Sawt Falasteen. Nel corso della mia carriera ho seguito quattro guerre contro la Striscia di Gaza e la guerra israeliana contro il Libano nel 2009, oltre alle incursioni in Cisgiordania. Inoltre ho coperto eventi negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Turchia e in Egitto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Soldati israeliani fanno irruzione in un centro per l’infanzia nel campo profughi di Jenin e distruggono libri, giocattoli e l’impianto idraulico

Tony Greenstein

5 luglio 2021- Mondoweiss

Il Brighton Trust, l’ente caritatevole di cui io sono un amministratore, insieme agli attivisti dell’inglese National Education Union, (sindacato personale scolastico) raccoglie fondi da tre anni per il centro per l’infanzia Al-Tafawk nel campo profughi di Jenin, nella Palestina occupata.

Il centro, gestito da volontari del posto e l’unico nel suo genere nel campo, ospita 14.000 profughi palestinesi che hanno perso la casa dopo la fondazione di Israele nel 1948. Offre giochi, istruzione, cibo e un’affettuosa accoglienza a circa 120 minori, fra i 3 e i 16 anni.

È l’unica occasione di divertimento nella cupa atmosfera del campo, che durante la Seconda Intifada nel 2002 ha perso decine di abitanti nel massacro dell’esercito israeliano e oltre 400 abitazioni in seguito a una brutale campagna di demolizioni, uno dei molti atti di punizione collettiva condotti dagli israeliani contro civili palestinesi. Da allora il campo ha subito regolari incursioni militari.

Il centro Al-Tafawk, sorto nel 2010, era riuscito a sfuggire all’attenzione dei militari, almeno fino a poco tempo fa. I primi segnali che l’esercito l’aveva preso di mira sono arrivati a gennaio, quando il manager è stato incarcerato per 24 ore e gravemente traumatizzato.

Sulla scia delle proteste nella Gerusalemme occupata dopo gli attacchi israeliani contro i fedeli della moschea Al-Aqsa e i sanguinari bombardamenti di Gaza, le forze israeliane hanno intensificato il loro regime di terrore su tutta la Palestina storica, estendendolo anche alla Cisgiordania occupata, dove alla fine di maggio sono stati uccisi oltre 25 palestinesi. A Jenin, come in altre città palestinesi, ci sono state dimostrazioni contro la violenza israeliana.

La sera del 15 maggio l’esercito israeliano ha compiuto un raid contro il centro per l’infanzia Al-Tafawk di Jenin distruggendolo completamente. La loro scusa era che stavano cercando delle armi, ma naturalmente non le hanno trovate.

Un testimone ha dichiarato:

Hanno fatto irruzione nel centro ieri sera. Hanno cominciato a sparare dall’esterno. Poi hanno abbattuto la porta d’ingresso e sono entrati. Hanno messo tutto a soqquadro e danneggiato ogni cosa di valore.”

Oltre ad arredi e attrezzature, i soldati hanno intenzionalmente distrutto le infrastrutture, rendendo l’edificio insicuro e inutilizzabile. Hanno demolito le tubature dell’acqua e i rubinetti, sfasciato il quadro elettrico, tagliando la luce e interrompendo l’erogazione dell’acqua, hanno danneggiato scale e porte, divelto maniglie. Il danno ammonta in totale a migliaia di dollari.

Non hanno neppure risparmiato i libri dei bambini. Secondo un altro testimone, un soldato intento a far proprio questo, ha urlato che i bambini palestinesi non hanno bisogno di leggere libri, dato che sarebbero cresciuti per diventare assassini ed essere uccisi.

Da ebreo, questo atteggiamento di totale disprezzo razzista per i bambini palestinesi, la convinzione che non abbiano bisogno di istruzione dato che comunque moriranno presto, mi ricorda l’atteggiamento dei nazisti verso i bambini ebrei.

Al regime di occupazione israeliano è chiaro che il centro Al-Tafawk, o qualsiasi altra organizzazione della società civile palestinese di questo genere, rappresenta una minaccia. Questo è il motivo per cui il centro, e iniziative simili, cerca di offrire ai palestinesi la possibilità di un minimo di normalità nelle loro vite.

Ma a una popolazione sfollata e traumatizzata, condannata a una totale pulizia etnica, non può essere permesso di mettere radici e vivere la normalità. Deve essere sempre tenuta in una condizione di precarietà, ripetutamente spossessata e oppressa affinché cessi di reclamare la propria terra.

Ecco perché Israele demolisce periodicamente case palestinesi, con bulldozer o bombe, distruggendo infrastrutture, che siano gli impianti di trattamento delle acque a Gaza o pannelli solari nella Cisgiordania occupata, e tormenta e attacca i fedeli palestinesi mussulmani e cristiani a Gerusalemme.

La distruzione del centro Al-Tafawk, come quella di molti altri edifici civili, smentisce l’affermazione che gli israeliani agiscano per legittima difesa. È una bugia che sempre meno persone in Occidente sono disposte a credere, dato che l’intento genocida di Israele è così chiaro.

Abbiamo cominciato a raccogliere fondi per riparare il centro e riaprirlo ai bambini, ma ho deciso di scrivere a Tzipi Hotovely, personalità di estrema destra e ambasciatrice di Israele nel Regno Unito, per chiedere che Israele paghi i danni e risarcisca i bambini che sono stati traumatizzati da ciò che è successo. Non ho ricevuto risposta.

Se voi lettori voleste contribuire lo potete fare qui. Potete anche aiutarci diffondendo la notizia e facendo pressione sui politici del vostro Paese affinché agiscano e smettano di ignorare i crimini israeliani contro i palestinesi. È ora che Israele sia considerato responsabile per la miriade di violazioni del diritto internazionale, inclusi l’uccisione, l’imprigionamento e la persecuzione di minori palestinesi e gli attacchi contro case e infrastrutture civili.

Tony Greenstein

Tony Greenstein, inglese di Brighton, veterano attivista anti-sionista e anti-fascista ebreo. Nel 1982 ha co-fondato in Gran Bretagna la Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina]. Nel 2016 è stato sospeso dal partito Laburista e nel 2018, in seguito a una caccia alle streghe sull’antisemitismo [all’interno del partito, ndtr.], è stato il primo ebreo a esserne espulso. È l’autore di The Fight Against Fascism in Brighton and the South Coast. [Lotta contro il fascismo a Brighton e nella Costa Meridionale]. Ha scritto molto sulla Palestina e il sionismo per varie pubblicazioni, fra cui il Guardian nella rubrica Comment is Free, Journal of Holy Land and Palestine Studies, Tribune e Weekly Worker. È figlio di un rabbino ortodosso e da giovane è stato membro del movimento religioso sionista Bnei Akiva, ora parte del movimento per il Greater Israel (Grande Israele).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché il mito di “Pallywood” persiste

Natasha Roth-Rowland

15 ottobre 2020 – +972

Un’eredità durevole della Seconda Intifada è la perfida idea che i palestinesi non siano affidabili quando raccontano le loro esperienze dell’oppressione israeliana.

Il 30 settembre 2000, all’inizio della Seconda Intifada, un cineoperatore palestinese che lavorava per una rete televisiva francese filmò quello che sarebbe diventato un famoso scontro a fuoco a Gaza. Durante una prolungata sparatoria al valico di Netzarim, il dodicenne Muhammad al-Durrah e suo padre Jamal si trovarono in mezzo dal tiro incrociato tra israeliani e palestinesi.

Il cineoperatore, Talal Abu Rahma, filmò la coppia mentre cercava un rifugio e, dopo qualche raffica di arma da fuoco durante le quali le riprese vennero interrotte, le immagini mostrarono Muhammad crollare in braccio al padre. Colpito da uno sparo letale all’addome, morì poco dopo in seguito alle ferite.

L’incidente, spesso citato come “la questione Al-Durrah”, divenne il punto d’inizio del termine dell’hasbara [propaganda israeliana] “Pallywood”. Parola composta di “palestinese” e “Hollywood”, suggerisce che, per scopi propagandistici contro Israele, i palestinesi recitano scene che mostrano gli spari dell’esercito israeliano contro civili. Il termine venne coniato da Richard Landes, un medievalista americano, che nel 2005 fece un breve documentario definendo la sua teoria di quella che chiamò “una fiorente industria di cinema all’aperto.”

L’accusa di “Pallywood” ora è una fiorente industria in sé, essendo stata ampiamente applicata ad episodi che vanno dagli attacchi aerei israeliani fino all’uccisione con armi da fuoco nel 2014 di due adolescenti palestinesi durante le proteste del giorno della Nakba. È diventata un luogo comune, il cui scopo è mettere in dubbio a priori ogni accusa di crudeltà o uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane, soprattutto quando vengono riprese in video. Infatti, in base alla logica dell’accusa di “Pallywood”, il solo fatto che la violenza sia stata documentata in immagini è una ragione in più, non in meno, per dubitare della sua esistenza.

Seguendo le orme di Landes, è spuntata una legione di esperti di psicologia forense e comportamentale in poltrona che decostruiscono video della violenza israeliana contro i palestinesi. Lo scopo è screditare quello che è stato filmato, e quindi minare tutta la narrazione palestinese sull’occupazione, un proiettile alla volta.

Questa guerra contro le immagini, e la solidarietà, non è iniziata con il cliché di “Pallywood”, e non è affatto unica. Come in ogni zona di conflitto, la propaganda gioca un importante ruolo nelle società sia israeliana che palestinese, una pratica che spesso interferisce con i tentativi di decodificare narrazioni in contrasto tra loro e riferire informazioni accurate sul terreno. Tuttavia questa propaganda non può essere disgiunta dal differenziale di potere tra le due parti, una che tenta di resistere all’occupazione e all’oppressione, l’altra che cerca di conservarle, giustificarle o persino negarle.

Questa asimmetria è una ragione fondamentale per la quale Israele è stato particolarmente sensibile al conflitto di narrazioni fin da molto prima che emergesse il cliché di “Pallywood”. La Prima Intifada, iniziata nel 1987, rese famosa l’iconica dinamica dei manifestanti palestinesi, soprattutto giovani e donne, che affrontavano i carrarmati israeliani con nient’altro che pietre.

La consapevolezza israeliana della pubblicità negativa determinata dal suo uso eccessivo della forza è a lungo sopravvissuta a quel momento. Nel 2013, per esempio, l’esercito israeliano annunciò che avrebbe smesso di utilizzare fosforo bianco come arma chimica contro i palestinesi a Gaza perché “non è fotogenico” (questa dichiarazione giunse dopo che l’esercito aveva negato di aver utilizzato fosforo bianco durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-09, poi negò di averlo utilizzato in aree urbane, e infine ammise di averlo fatto con l’avvertenza che il suo uso era giustificato).

Una riedizione di “Pallywood”

Le indagini iniziali di Israele sulla sparatoria di al-Durrah riconobbero che il ragazzino poteva essere stato colpito da una pallottola israeliana. Ma il capo dell’esercito nei territori occupati dell’epoca, il generale di divisione Yom-Tov Samia, dichiarò che c’erano “forti dubbi” riguardo a questa possibilità e disse che era molto probabile che al-Durrah fosse stato ucciso da un proiettile palestinese.

A cinque anni di distanza, poco dopo che uscisse il film di Landes, questa velata supposizione venne ritirata: un altro ufficiale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] affermò invece che l’esercito non era assolutamente responsabile della morte di al-Durrah. Nel 2013 il governo andò anche oltre: su richiesta personale del primo ministro Benjamin Netanyah il governo avviò un’ulteriore inchiesta, che concluse non solo che le IDF non avevano sparato ad al-Durrah, ma che egli non era stato affatto colpito. Una riedizione di “Pallywood”.

Questi amanti di “Pallywood” per sostenere le loro affermazioni riescono in genere a basarsi sulle smentite e sugli insabbiamenti del governo israeliano. Quando nel 2014 durante le proteste del Giorno della Nakba a Beitunia le forze di sicurezza israeliane colpirono tre adolescenti palestinesi con proiettili veri, uccidendone due, fonti ufficiali israeliane, sia militari che civili, si unirono per affermare che le immagini della CCTV [televisione cinese, ndtr.] di tutta la sparatoria erano state manipolate.

A loro si unirono importanti commentatori della diaspora, uno dei quali suggerì che le accuse contro l’esercito israeliano avrebbero potuto benissimo rappresentare “una nuova versione dell’accusa del sangue (sic) di al-Durrah”, evocando un mito antisemita cristiano medievale. La Corte Suprema israeliana in seguito condannò un agente della polizia di frontiera a 18 mesi di prigione per aver sparato uno dei proiettili.

Allo stesso modo quando nell’agosto 2015 nel villaggio di Nabi Saleh un soldato israeliano si mise a cavalcioni sul dodicenne Mohammed Tamimi e lo prese per il collo per arrestarlo nonostante Tamimi avesse il braccio destro ingessato, entrò di nuovo in azione il marchio “Pallywood”. Questa volta la diffamazione venne diretta contro l’allora tredicenne Ahed Tamimi, una parente di Mohammed che era tra coloro che avevano impedito il suo arresto. Benché le foto della vicenda fossero indiscutibili, Mail Online, con sede in GB, istigato da propagandisti filoisraeliani, modificò il proprio titolo sull’incidente per sostenere che Ahed si era “rivelata come una prolifica stella di ‘Pallywood’.”

Numerosi messaggi sulle reti sociali cercarono inoltre di sostenere che il braccio di Mohammed non fosse per niente rotto, mostrando foto di lui con il gesso su un altro braccio, omettendo il fatto che queste foto erano di anni prima. La difesa delle azioni dei soldati da parte dell’esercito fu che Mohammed aveva lanciato pietre e che non sapevano che fosse un minorenne.

Diffamare gli oppressi

L’accusa di “Pallywood” non svanisce nemmeno quando l’esercito conferma la versione degli avvenimenti che risulta dai filmati. Nell’ottobre 2015 agenti israeliani in borghese vennero ripresi e fotografati mentre si infiltravano in una manifestazione nei pressi di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, con kefiah attorno alla testa, prima di brandire le loro armi e arrestare dei manifestanti, a uno dei quali spararono a una gamba da distanza ravvicinata.

Un portavoce delle IDF confermò questa serie di avvenimenti, descrivendo lo sparo [contro il manifestante] come “un colpo preciso che ha reso innocuo il principale sospettato.” Tuttavia commentatori del video sulle reti sociali insistettero che si trattava di una ingannevole produzione di “Pallywood”. Come ha scritto acutamente all’epoca su +972 Lisa Goldman, “quando la gente non può credere ai propri occhi, in genere si tratta di ideologia.”

Questa ideologia alimenta una più generale e pericolosa idea secondo cui gli atti di violenza contro i palestinesi, sia da parte di soldati che di civili israeliani, non sono mai quello che sembrano. È per questo che, per esempio, quando nel 2014 i coloni israeliani rapirono il sedicenne Muhammad Abu Khdeir fuori da casa sua a Gerusalemme est e lo torturarono a morte, inizialmente la polizia insinuò, con un certo successo, che Abu Khdeir fosse stato ucciso dalla sua famiglia perché era gay (e non lo era), oppure che fosse stato vittima di una faida locale.

È per questo che, dopo che nell’estate 2015 due coloni israeliani uccisero membri della famiglia Dawabshe a Duma, investigatori dilettanti produssero “prove” infinite secondo cui gli ebrei non erano stati responsabili dell’attacco, compresa l’affermazione che le scritte sul muro trovate sul posto non fossero di un ebreo madre lingua. Ed è per questo che, nel tentativo di dimostrare che i palestinesi di Gaza non stiano soffrendo in seguito al blocco e agli attacchi militari [israeliani], interventi in rete a favore di Israele amano condividere foto (vere e false) di supermercati, caffè e altre zone di Gaza che non sono state ridotte in macerie dai bombardamenti aerei israeliani, come se ogni apparenza di “normalità” palestinese rendesse ogni distruzione israeliana un lavoro di fantasia, un miraggio inteso solo a ingannare.

Insieme al suo pernicioso razzismo, il problema dell’accusa di “Pallywood”, ancora fiorente due decenni dopo la vicenda di al-Durrah, consiste nelle sue disoneste pretese di preoccuparsi della correttezza giornalistica. In un’epoca di “deepfakes” [false notizie ottenute manipolando le immagini, ndtr.] e bots [programmi che infettano i computer, ndtr.], i tentativi di garantire la verità nell’informazione sono fondamentali. Ma le innumerevoli “inchieste” sui video della violenza israeliana contro i palestinesi non riguardano l’approfondimento di avvenimenti specifici, intendono inculcare il concetto secondo cui i palestinesi non possono essere creduti riguardo a niente di quello che dicono in merito a ciò che subiscono per mano dei soldati e dei coloni israeliani.

Come strategia essa precede di molto le accuse di “notizie false” che accompagnano informazioni tutt’altro che lusinghiere su politici e governi. Ma il tentativo è lo stesso: diffamare gli oppressi, delegittimare le loro lotte e distogliere lo sguardo del mondo dalla violenza dell’oppressore.

Natasha Roth-Rowland è studentessa di dottorato in storia all’università della Virginia, è ricercatrice e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come giornalista, editorialista e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast [sito di notizie statunitense, ndtr.], sul blog della London Review of Books [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], The Forward [storico giornale della comunità ebraica statunitense, ndtr.], e Protocols [rivista di sinistra della diaspora ebraica, ndtr.]. Scrive con il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il suo cognome in Rowland quando cercava di rifugiarsi in GB durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Intifada palestinese: come Israele orchestrò una sanguinosa conquista

Ali Adam

20 settembre 2020 – Al Jazeera

Nel ventesimo anniversario della Seconda Intifada i palestinesi ricordano come Israele cercò di consolidare la sua occupazione.

Gaza City – La Seconda Intifada, comunemente definita dai palestinesi l’Intifada di Al-Aqsa, iniziò dopo che il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon scatenò la rivolta quando fece irruzione con più di 1.000 poliziotti e soldati pesantemente armati nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata.

L’iniziativa scatenò sdegno unanime tra i palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro del 1982 a Sabra e Shatila [due campi profughi a Beirut in cui i falangisti libanesi, con l’appoggio dell’esercito israeliano occupante, commisero una terribile strage, ndtr.] per il quale Sharon [allora ministro della Difesa israeliano, ndtr.] era stato considerato responsabile per non aver bloccato lo spargimento di sangue, a seguito dell’invasione israeliana del Libano.

Ma già prima della controversa iniziativa di Sharon la frustrazione e la rabbia erano aumentati anno dopo anno tra i palestinesi sullo sfondo del rifiuto dei successivi governi israeliani di rispettare gli accordi di Oslo e porre fine all’occupazione.

Diana Buttu, analista residente a Ramallah ed ex- consigliera dei negoziatori palestinesi a Oslo, dice ad Al Jazeera: “Tutti, compresi gli americani, avevano avvertito gli israeliani che i palestinesi stavano raggiungendo un punto critico, e che fosse necessario acquietare la situazione. Invece alimentarono ancor di più il fuoco.

La visita di Sharon fu la scintilla che accese l’Intifada, ma le sue basi erano state poste negli anni precedenti.”

Secondo gli accordi di Oslo entro il 4 maggio 1999 avrebbe dovuto nascere una Palestina indipendente, nota Buttu, aggiungendo che dall’inizio dei negoziati nel 1993 fino all’inizio dell’Intifada “quello che vedemmo fu una rapida espansione delle colonie israeliane.”

“Di fatto vedemmo che solo nel breve periodo dal 1993 all’anno 2000 il numero dei coloni raddoppiò da 200.000 a 400.000. Si vedeva che quello che stava succedendo sul terreno era progettato per garantire che non ci sarebbe stato uno Stato palestinese indipendente,” afferma.

Soluzioni israeliane”

Le tensioni e la frustrazione crebbero anche dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David che si tennero nel luglio 2000, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non trovarono un accordo di pace a causa delle divergenze sullo status di Gerusalemme, la contiguità territoriale [del futuro Stato palestinese, ndtr.] e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat, il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies [Centro Palestinese per la Ricerca Politica e gli Studi Strategici, Ong palestinese indipendente, ndtr.] aggiunge: “La principale ragione che stava dietro l’Intifada fu che i dirigenti israeliani volevano punire Arafat e i palestinesi per obbligarli ad accettare le soluzioni israeliane, in sostanza lo status quo dell’occupazione. Intendevano obbligare la coscienza palestinese ad accettare quello che voleva Israele.

Attraverso l’Intifada i palestinesi volevano migliorare le condizioni del dopo Oslo, che avevano raggiunto un punto bassissimo nel summit di Camp David, quando ad Arafat venne chiesto di lasciar perdere Gerusalemme e la questione dei rifugiati.”

Wasel Abu Yusuf, un importante politico palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) afferma: “Dopo il summit di Camp David, in cui Israele cercò di privare i palestinesi della loro capitale Gerusalemme est, del diritto al ritorno per i palestinesi, così come della contiguità territoriale, il panorama politico si era chiuso in faccia ai palestinesi.

“Con la visita di Sharon Israele voleva provocare i palestinesi perché reagissero con la violenza. Gli israeliani pensarono che, assestando un duro colpo militare ai palestinesi, essi avrebbero ridotto le richieste politiche nei negoziati all’indomani del summit di Camp David.”

Come Israele esacerbò la violenza nella Seconda Intifada

I primi giorni della rivolta vennero caratterizzati da grandi manifestazioni non violente che includevano la disobbedienza civile e qualche lancio di pietre. Iniziò a Gerusalemme e rapidamente si diffuse alla Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Le autorità israeliane reagirono alle manifestazioni con un uso eccessivo della forza che incluse proiettili ricoperti di gomma e pallottole vere. Subito dopo seguirono incursioni militari con il coinvolgimento di elicotteri e carrarmati in zone palestinesi densamente popolate.

Come rivelò Amos Malka, allora direttore dell’intelligence militare israeliana, si stima che durante i primi 5 giorni della Seconda Intifada i soldati israeliani abbiano sparato circa 1.3 milioni colpi di arma da fuoco. Ciò avvenne nonostante il fatto che nelle prime settimane la violenza dei palestinesi fosse minima.

“La violenza israeliana dimostrò che gli israeliani non erano interessati a una rapida fine del conflitto,” dice Abu Yusuf. “Il fatto che Israele abbia sparato più di un milione di proiettili, provocato molte vittime tra i palestinesi e violato i luoghi santi musulmani, tutto ciò dimostra che Israele voleva militarizzare l’Intifada. L’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano intendeva trascinare i palestinesi in uno scontro militare.”

Buttu afferma che i leader israeliani volevano distogliere l’attenzione dalla costruzione delle colonie. “Fu una copertura per tutto quello che avevano voluto fare fino ad allora.”

Nei primi cinque giorni dell’Intifada vennero uccisi 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International scoprì che la maggioranza delle vittime palestinesi era composta da spettatori e che l’80% degli uccisi nel primo mese non rappresentava una minaccia letale per le forze israeliane. Durante quello stesso periodo vennero uccisi dai palestinesi cinque israeliani.

Gli analisti hanno a lungo sostenuto che l’uso eccessivo della forza sia stata la ragione per cui la fase della resistenza popolare palestinese nella Seconda Intifada terminò rapidamente e venne rimpiazzata dalla rivolta armata.

“Il livello dell’aggressione israeliana e delle perdite da parte palestinese non consentiva di conservare il carattere non violento dell’Intifada palestinese,” sostiene al-Masri.

Vittime di massa

Parlando della Seconda Intifada, gli israeliani citerebbero gli attentati suicidi palestinesi, ma alcuni osservatori affermano che fu solo dopo più di un mese che i palestinesi subivano mortali attacchi militari che alcuni fecero ricorso alla violenza suicida.

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, nel corso della Seconda Intifada vennero uccisi almeno 4.973 palestinesi. Tra essi ci furono 1.262 minorenni, 274 donne e 32 operatori sanitari.

Secondo Defence for Children International, un’organizzazione indipendente con sede in Svizzera che si dedica alla promozione e alla protezione dei diritti dell’infanzia, più di 10.000 minori rimasero feriti nel corso dei cinque anni dell’Intifada.

Oltre ai morti e ai feriti, l’esercito israeliano demolì più di 5.000 case palestinesi e ne danneggiò in modo irreparabile altre 6.500, secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani.

In generale la Seconda Intifada adottò una resistenza non violenta, ignorata dai principali mezzi di comunicazione, mentre i palestinesi si organizzavano e protestavano in modo non violento contro la campagna militare, le colonie israeliane, le demolizioni di case palestinesi, così come contro la barriera di separazione.

“La stragrande maggioranza della Seconda Intifada fu non violenta. Ciò non venne metodicamente ignorato perché non rientrava nella narrazione tramessa ai media occidentali,” afferma Buttu.

“Ricordo di aver partecipato a molte di quelle manifestazioni a cui gli israeliani risposero con molta violenza. Venni colpita da un proiettile ricoperto di gomma alla gamba destra.”

Durante gli anni dell’Intifada i palestinesi fecero tentativi di porre fine alla violenza, ma gli israeliani rifiutarono questa disponibilità.

Nel febbraio 2003 fonti israeliane rivelarono una proposta presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese a Israele. Si impegnava a porre totalmente fine agli attacchi contro Israele in cambio di un graduale ritiro dell’occupazione israeliana alle posizioni precedenti all’Intifada.

Nel 2002, quando Arafat appoggiò l’iniziativa di pace araba lanciata dall’Arabia Saudita, i leader palestinesi rinnovarono i tentativi di porre fine allo scontro militare. Israele, da parte sua, ignorò la proposta e continuò le sue operazioni militari.

Come Israele continui a utilizzare la Seconda Intifada come pretesto

Buttu nota che in seguito Israele ha utilizzato la rivolta per accampare pretese basate sulla necessità di “sicurezza”.

“Iniziarono a fare pesanti richieste per prendersi tutta la valle del Giordano, tutta Gerusalemme, mantenendovi le colonie. In seguito si sono trasformate nella costruzione del muro, nei posti di controllo e nelle basi dell’esercito all’interno della terra palestinese.

“È per questo che il piano di Trump è così com’è oggi. Il piano di Trump si conforma a tutte le richieste che Israele ha posto in seguito alla Seconda Intifada, che Israele ha cercato e voluto.”

Abu Yusuf, politico palestinese, afferma che 20 anni dopo l’inizio della Seconda Intifada Israele rifiuta ancora diritti ai palestinesi in qualunque forma.

“Continua ad espandere le colonie, demolisce case palestinesi e mette in pratica la sua annessione di fatto dei territori palestinesi con l’appoggio dell’amministrazione Trump,” afferma Abu Yussuf.

“Esattamente come 20 anni fa il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora impegnato a resistere contro l’occupazione e per i propri diritti in base alle leggi internazionali, e lo rimarrà finché otterrà la libertà in uno Stato palestinese sovrano e indipendente con Gerusalemme est come capitale e la soluzione del dramma dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell’ONU.

Anni dopo gli attacchi israeliani contro i palestinesi durante la Seconda Intifada, Israele ancora “commette ogni sorta di crimini”, dice al-Masri. “Il silenzio da parte della comunità internazionale è ciò che ancora incoraggia Israele a commettere crimini e flagranti violazioni dei diritti umani.”

Abu Yusuf afferma che le recenti sfide, come il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, l’annessione israeliana e la normalizzazione tra Israele ed alcune Nazioni Arabe, mirano tutte “a obbligare i palestinesi ad accettare di vivere in cantoni e bantustan [territori destinati alla popolazione nera nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.].”

“Ma come hanno fatto negli anni dell’Intifada e in quelli prima di Oslo, i palestinesi rifiutano di accettare qualcosa meno della fine dell’occupazione e continueranno a farlo ora e in futuro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ricordare il “disimpegno” di Israele da Gaza

Rebecca Stead

15 agosto 2019 – Middle East Monitor

Cosa: Israele smantellò le sue colonie nella Striscia di Gaza, ritirando tutti i coloni e le truppe di terra dall’enclave.

Dove: Nella Striscia di Gaza, Palestina occupata.

Quando: Il 15 agosto 2005

Cos’è successo?

Il 15 agosto 2005 Israele iniziò il suo disimpegno dalla Striscia di Gaza, che aveva occupato dalla guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel corso di 38 anni Israele aveva creato circa 21 colonie nell’enclave costiera e trasferito nel territorio circa 9.000 coloni, in violazione delle leggi internazionali.

Di fronte a costi in vertiginosa ascesa per l’amministrazione del territorio, Israele decise di far uscire dalla Striscia le sue forze armate e i coloni illegali. Mentre le telecamere di tutto il mondo li riprendevano, i coloni che non volevano andarsene vennero portati via a forza dalle proprie case, un momento perfetto di propaganda che dimostrava la “volontà” di Israele di ritirarsi dai territori occupati nel tentativo di “riannodare” il processo di pace.

Quattordici anni dopo Israele non si è in realtà disimpegnato da Gaza: conserva il controllo dei suoi confini terrestri, dell’accesso al mare a allo spazio aereo. La popolazione di 1,9 milioni di Gaza rimane sottoposta a un’occupazione a “controllo remoto” e a un rigido assedio, che ha distrutto l’economia locale e soffocato l’esistenza dei palestinesi.

Il grande piano di Sharon

Benché il disimpegno sia iniziato nel 2005, la politica era già in atto da tempo. Nel mezzo della Seconda Intifada – una rivolta popolare nei territori palestinesi che ebbe luogo tra il settembre del 2000 e gli inizi del 2005 – l’allora primo ministro Ariel Sharon propose il disimpegno dalla Striscia di Gaza.

Prima delle elezioni israeliane del 2003, Sharon aveva manifestato il proprio appoggio alla continuazione della colonizzazione del suo Paese nella Striscia, affermando che “il destino di Tel Aviv è quello di Netzarim”, una colonia nel sud della Striscia di Gaza. Eppure dopo la sua elezione Sharon sembrò aver cambiato parere, spiegando nel dicembre di quell’anno che “l’obiettivo del piano di disimpegno è ridurre il più possibile il terrorismo e garantire ai cittadini israeliani il massimo livello di sicurezza.”

Proseguì: “Il processo di disimpegno porterà a un miglioramento della qualità di vita (degli israeliani), aiuterà a rafforzare l’economia israeliana, (…) incrementerà la sicurezza degli abitanti di Israele e ridurrà la pressione sulle IDF (Forze di Difesa Israeliane) e sulle forze di sicurezza.”

In una lettera dell’aprile 2004 all’allora presidente USA George Bush, Sharon sottolineò la sua visione del disimpegno, proponendo che Israele “trasferisse le installazioni militari e tutti i villaggi e cittadine israeliane dalla Striscia di Gaza.” Il piano includeva l’eliminazione di quattro colonie illegali dalla Cisgiordania settentrionale.

Nell’ottobre di quell’anno, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] approvò in via preliminare alla proposta di Sharon. Uno dei più accesi critici fu il ministro degli Affari Esteri Benjamin Netanyahu, che minacciò di dimettersi dal governo salvo che Sharon non avesse sottoposto il progetto a un referendum. Alla fine fece marcia indietro, citando la “nuova situazione” presentata dalla prevista dipartita del leader palestinese di lungo corso Yasser Arafat, che morì l’11 novembre 2004.

Nel febbraio 2005 il piano di disimpegno venne approvato ufficialmente dalla Knesset, mentre in marzo ai cittadini israeliani che non vivessero già nella Striscia di Gaza venne vietato di insediarsi nel territorio. La scena era pronta.

Luci, motore, azione

Il 15 agosto Israele iniziò a realizzare il disimpegno. Gush Katif – un blocco di colonie nel sud della Striscia – venne dichiarato zona militare chiusa e il valico di Kissufim, la principale arteria che collegava la colonia a Israele, venne chiuso.

Alle 8 ora locale (le 5 ora di Greenwich) forze israeliane entrarono a Gush Katif, andando di casa in casa con l’ordine che i coloni se ne dovevano andare. Alcuni accettarono di farlo in modo pacifico, essendogli stato offerto un pacchetto di misure di indennizzo fino a 500.000 dollari. Altri si rifiutarono di andarsene, obbligando l’esercito israeliano a portarli via con la forza dalle loro colonie.

Immagini di coloni portati via a calci dalle loro abitazioni e che gridavano vennero diffuse in tutto il mondo. Alcuni bambini dei coloni lasciarono le proprie case con le mani in alto, con stelle di David gialle simili a quelle che contraddistinguevano gli ebrei durante l’Olocausto. Questi “fiumi di lamenti” vennero descritti dalla stampa israeliana come “kitsch” e “squallidi”, mentre molti israeliani criticarono duramente l’invocazione dell’Olocausto da parte dei coloni.

Come notò Donald Macintyre – l’ex capo dell’ufficio dell’“Independent” [giornale britannico di centro sinistra, ndtr.] a Gerusalemme – nel suo libro “Gaza: preparandosi all’alba”: “C’era qualcosa di teatrale in questo congedo forzoso – e in tutto il ritiro israeliano da Gaza.”

Il 22 agosto l’evacuazione era stata in buona misura completata. Le forze israeliane distrussero con i bulldozer migliaia di case, edifici pubblici e luoghi di culto; persino i cadaveri nei cimiteri ebraici vennero esumati e sepolti di nuovo in Israele.

La maggior parte dell’apparato militare israeliano venne rimosso e il 21 settembre il governo dichiarò che la Striscia di Gaza era territorio extragiudiziale e designò i valichi nell’enclave come confini internazionali che richiedevano documenti di viaggio.

Nei giorni seguenti i palestinesi camminarono per le vie delle colonie ora abbandonate che erano state loro vietate per decenni. I bambini raccolsero palloni e giocattoli lasciati dai bambini israeliani per portarli a casa ai propri fratelli. Alcuni erano felici che l’occupazione se ne fosse andata, mentre altri corsero al mare che prima non potevano raggiungere. I festeggiamenti non sarebbero durati a lungo.

Come evidenziò Macintyre, benché il disimpegno “rappresentasse certamente un precedente storico, il paradosso era che segnava anche l’inizio di un decennale e opprimente blocco economico di Gaza e di tre attacchi militari da parte di Israele più devastanti di ogni altro nella turbolenta storia del territorio.”

Forse i semi di quello che stava per avvenire erano stati seminati nel settembre 2005. Meno di una settimana dopo che Israele aveva dichiarato Gaza territorio extragiudiziale, aerei da guerra israeliani bombardarono la Striscia, uccidendo parecchi palestinesi, tra cui il comandante della Jihad islamica Mohammed Khalil. Gli attacchi israeliani colpirono anche una scuola e altri edifici che [Israele] sosteneva fossero stati usati per costruire razzi.

La narrazione di Israele riguardo al disimpegno sostiene che, in seguito alla sua decisione di lasciare la Striscia, ai palestinesi era stata offerta una grande opportunità di diventare economicamente prosperi. Questa narrazione spesso ricorda le serre lasciate dai coloni che, a quanto si dice, vennero immediatamente distrutte dai palestinesi con un caratteristico delirio di imprevidenza.

Tuttavia, anche se qualche serra venne depredata di alcune parti, esse rimasero in grande misura intatte. Il raccolto di novembre rese un valore di 20 milioni di dollari in frutta e verdure pronte da esportare in Europa e altrove, molte delle quali marcirono per il caldo autunnale in quanto rimasero in attesa dei controlli di sicurezza al valico di confine di Karni. Secondo stime dell’ONU, solo il 4% del raccolto stagionale venne esportato.

Occupazione a controllo remoto

Nel gennaio 2006 nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata si tennero le elezioni per il consiglio legislativo palestinese (CLP). Hamas, all’epoca un movimento popolare palestinese, vinse 74 dei 132 seggi, battendo tra i più votati Fatah – che aveva dominato la politica palestinese per decenni. Ismail Haniyeh, del movimento islamico, venne eletto primo ministro dell’ANP.

A febbraio Israele sospese il trasferimento dei dazi doganali all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imponendo limitazioni agli spostamenti dei membri di Hamas a Gaza. Dopo che Fatah rifiutò di collaborare con il governo guidato da Hamas – e una fazione all’interno di Fatah venne sostenuta da Israele e dagli USA per fare un colpo di stato contro Hamas – ne seguì una guerra civile di fatto, che portò a una definitiva divisione del governo nel giugno 2007 e al consolidamento del potere di Hamas nella Striscia, con Fatah che continuò a governare a Ramallah sotto Mahmoud Abbas. La fine del 2007 vide Israele chiudere totalmente i confini di Gaza, sottoponendola a un duro assedio che continua fino ad oggi.

Nel corso dell’assedio, arrivato ormai ai 12 anni, Israele ha continuato a strangolare Gaza a distanza. Dopo tre pesanti offensive militari israeliane – in cui sono stati uccisi circa 4.000 palestinesi – e innumerevoli attacchi aerei, le infrastrutture e il sistema sanitario della Striscia sono a pezzi. Circa il 54% della popolazione di Gaza ora è disoccupata, mentre il 53% vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà di 2 dollari al giorno.

Invivibile”, “prigione a cielo aperto” e occupazione “a controllo remoto” sono diventati luoghi comuni quando si descrive oggi l’enclave costiera. Gaza rimane un territorio occupato, senza controllo sui suoi confini, sulle acque del territorio o sullo spazio aereo. Nel contempo Israele rispetta ben poche delle sue responsabilità in quanto potere occupante, non provvedendo alle necessità fondamentali dei civili palestinesi che vivono nel territorio.

In Israele il disimpegno viene generalmente visto come un errore, non a causa delle misere condizioni umanitarie che colpiscono i palestinesi in conseguenza di ciò, ma perché non ha portato alcun “vantaggio per la sicurezza o diplomatico” a Israele.

Oggi importanti personalità del sistema politico israeliano, compresa la ministra della Cultura Miri Regev e il presidente della Knesset Yuli Edelstein, hanno manifestato pentimento per il disimpegno di Israele da Gaza. Politici di destra come la leader di “Yemina”, Ayelet Shaked, e il ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich hanno chiesto l’annullamento del disimpegno e la ricostruzione delle colonie israeliane illegali là.

Nella corsa alle elezioni politiche israeliane del settembre 2019, le seconde quest’anno, il reinsediamento nella Striscia di Gaza è stato propagandato da quei ministri di destra come modo per rimediare all’errore storico di Sharon. Con gli stessi politici che invocano attivamente l’annessione dell’Area C della Cisgiordania a Israele, il prossimo mandato della Knesset potrebbe vedere Israele ri-colonizzare la Striscia di Gaza e porre ancora una volta la popolazione palestinese sotto diretto potere militare [israeliano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un Stato democratico e laico

Ofra Yeshua-Lyth: “La sola soluzione in Medio Oriente è uno Stato democratico e laico”

La giornalista rilascia a MEE le sue riflessioni sul sionismo e sulla società israeliana, che secondo lei non troverà la propria salvezza che in uno Stato unico ed egualitario per tutti i suoi cittadini

 

Di Hassina Mechaï

Martedì 7 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Perché uno Stato ebraico non è una buona idea? La tesi sottesa al libro di Ofra Yeshua-Lyth, giornalista e scrittrice israeliana, è semplice: la situazione attuale in Israele – occupazione, militarizzazione della società, mescolanza di nazionalismo e religione – non è affatto una rottura con il sionismo o una deviazione dalla sua dinamica.

Nel suo libro, con prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé, l’autrice, che è stata corrispondente a Washington e in Germania di “Maariv”, uno dei principali quotidiani israeliani, ne deduce che la sola soluzione a quello che viene definito (in modo errato, secondo lei) il “conflitto israelo-palestinese” è uno Stato unico laico e democratico. Un incontro.

 

Deviazione dal sionismo o logica intrinseca

Durante gli anni di militanza in “Shalom Arshav” (Pace Ora [movimento pacifista israeliano contrario all’occupazione, ndtr.]), Ofra Yeshua-Lyth ha osservato una sinistra invischiata in illusioni pericolose. Questa sinistra, al potere dal 1948 al 1977, ha potuto credere e far credere che sionismo, ebraismo e democrazia potessero stare insieme in un vero Stato di diritto. E che il solo ostacolo fosse l’occupazione.

La soluzione sarebbe dunque stata la pace in cambio della restituzione di questi territori occupati. Un’equazione semplice, ovvero semplicistica per l’autrice, che pensa che l’occupazione sia la conseguenza e non la causa della situazione.

“La sinistra israeliana crede che il solo problema sia l’occupazione, che sia sufficiente mettervi fine e che tutto si sistemerà. Che Israele diventerà un “buon piccolo Israele”, un piccolo Stato per gli ebrei. Ma il problema è più profondo e riguarda l’idea stessa di sionismo.” Il fallimento di quello che è comunemente chiamato “il campo della pace” sarebbe dunque ineluttabile. “La sinistra illuminata vorrebbe togliere gli ebrei dalle zone abitate in maggioranza da non ebrei, mentre la destra nazionalista spera di cacciare i non ebrei dai territori che brama”, riassume l’autrice.

Per lei e per molti israeliani la vera rottura c’è stata con la seconda Intifada. “Confesso di aver creduto ad Oslo. Anche degli amici palestinesi. Ma altri, molto pochi, hanno visto che quegli accordi non erano che menzogne. Tuttavia la seconda Intifada ha scosso le due società. Israele è diventato antipalestinese in misura senza precedenti.

Gli israeliani rifiutavano di vedere e di capire la collera dei palestinesi. Per loro ciò significava che non avevano interlocutori. Per altri, ciò ha giustificato sempre più l’idea di uno Stato ebraico da una riva all’altra [dal Mediterraneo al Giordano, ndtr.]”, aggiunge.

Secondo Ofra Yeshua-Lyth la soluzione dei due Stati ha lasciato la società israeliana indifesa davanti alle proprie contraddizioni, alle sue linee di frattura. Gli strati di immigrazioni successive coesistono più di quanto non vivano insieme. Il sionismo non sarebbe dunque riuscito a unire la società?

“Ciò che minaccia il sionismo non è l’esplosione, ma l’implosione. Il sionismo non è riuscito a costruire una società unificata. La sola cosa che la rende coesa è la paura, l’idea che Israele sia sempre minacciato e che lo Stato e l’esercito debbano essere forti. L’odio e la paura sono delle emozioni molto forti che fanno da collante.”

Ofra Yeshua-Lyth, lei che è nata da quella che potrebbe essere definita una “coppia mista”, lo può testimoniare. Sua madre era un’ebrea russa e suo padre un ebreo yemenita. Se “gli ebrei askenaziti [dell’Europa centro- orientale, ndtr.] hanno imparato a dissimulare – ed alcuni sono realmente riusciti a superare – la ripugnanza per l’atmosfera araba e medio-orientale”, la realtà del razzismo subito dagli ebrei arabi emigrati in Israele rimane concreta.

“Questa cultura doppia mi ha resa sensibile alla questione dei diritti dei palestinesi. Negli anni ’80 il molto influente movimento “Shalom Archav” sosteneva che la democrazia israeliana non potesse essere perfetta perché gli ebrei mizrahim (orientali) lo impedivano. Si diceva di loro che non capissero la democrazia. Anche se tutti erano ebrei, le classi sociali continuavano a essere divise tra ashkenaziti e mizrahi,” spiega a MEE.

 

La società israeliana tra religione e nazionalismo

Il movimento sionista si iscrive nella dinamica nazionalista laica del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Theodore Herzl voleva lasciare i rabbini nelle sinagoghe e confinare i militari nelle caserme.

“Herzl non era credente. Ben Gurion, Sharon e Netanyahu non mangiano kosher [cibo ammesso dalla religione ebraica, ndtr.]. Si ignora che Ben Gurion ha potuto sostenere l’idea che i palestinesi attuali discendano dagli ebrei convertiti al cristianesimo o all’islam”, sottolinea Ofra Yeshua-Lyth, che non è cresciuta in una famiglia religiosa e ha sposato un non ebreo.

Eppure l’attuale situazione israeliana è l’esatto contrario: i militari e i religiosi fanno parte del potere e plasmano la vita degli israeliani fin nell’intimità. “La società cosiddetta laica nella quale sono cresciuta non si è mai separata davvero dal passato religioso tradizionale,” nota Ofra Yeshua-Lyth. Fin dalle origini del sionismo si sono dovute tenere insieme le diverse stratificazioni d’immigrazione. La soluzione è stata trovata in questa religione che è servita, secondo l’autrice, da “collante” nazionale.

Così in Israele i problemi familiari sono discussi davanti ai tribunali rabbinici. “La religione ha generato un groviglio ideologico, civico e teologico a spese del buon senso. Milioni di israeliani vi sono rimasti intrappolati e non osano liberarsene”, osserva la scrittrice. Secondo lei aver fatto della religione il criterio dell’identità nazionale fa naufragare “qualunque possibilità di creare una vera nuova Nazione.”

 

Un uomo, una voce, una cittadinanza

Ofra Yeshua-Lyth se la prende anche con il mito della ‘sola democrazia del Medio Oriente’. “Quando i principi della democrazia entrano in conflitto con quanto prescrive l’ebraismo, questa democrazia cede il passo alla religione”, deplora. “L’unità nazionale” e “gli imperativi securitari” sono le “scuse abituali”, scrive.

È esattamente in nome di questa mescolanza di religione e nazionalismo che “gli arabi devono essere descritti soprattutto come crudeli, dei nemici che non transigono sulla messa in discussione dello Stato ebraico”, analizza Ofra Yeshua Lyth. “Che gli arabi possano essere non violenti e privi di qualunque forma di odio ‘innato’ verso gli ebrei è così poco accettabile che qualunque fiero nazionalista israeliano lo nega quasi in preda al panico.”

L’occupazione è quindi sia quello che paralizza la società israeliana che ciò che la fa stare insieme, in una volontà di vivere che si costruisce “contro”. Perché, come dice giustamente la giornalista, “nel registro dei media israeliani, solo i ragazzini che lanciano pietre sono dei ribelli violenti. I criminali che li picchiano sono i nostri cari ragazzi.”

Partendo da questa cruda realtà Ofra Yeshua-Lyth osserva con distacco la dichiarazione di Emmanuel Macron che mette in relazione antisemitismo e antisionismo. “Trovo molto sorprendente che la critica alle politiche, alle azioni e alle leggi israeliane sia definita come ‘antisemitismo’”. Bisogna parlare della discriminazione a danno della popolazione autoctona non ebraica della Palestina in virtù delle leggi israeliane e dell’occupazione militare di vaste zone popolate.

I sionisti farebbero bene a prendere in considerazione la situazione del nostro regime invece di mascherarla con false grida, con la pretesa di essere vittime perseguitate. È vero che l’antisemitismo è vivo e vegeto. Deve essere condannato – così come tutte le altre forme di razzismo, compresa la retorica antiaraba e antimusulmana che è molto presente e aggressiva, nello spazio pubblico israeliano come altrove.”

Ofra Yeshua-Lyth propone uno Stato laico e democratico per tutti quelli che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, per il 20% di popolazione israeliana che è palestinese come per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

“Ciò che mi lega ai palestinesi laici è più importante dell’affinità che potrei avere con gli israeliani religiosi o di destra. Si parla della dimensione patriarcale dell’islam, ma l’ebraismo lo è altrettanto. Sono per uno Stato laico. Non sono ottimista, tuttavia è la sola soluzione, o meglio la sola soluzione logica: uno Stato democratico e laico. Sono per il principio di una persona un voto”, dichiara a MEE.

L’altra rivoluzione da compiere sarebbe accettare che la popolazione ebraica non sia maggioritaria nello Stato così creato. Allora si prospetta lo spettro della questione demografica che tormenta tanti dirigenti israeliani: “La politica deve essere definita dall’ideologia, dalla religione. Gli israeliani hanno paura di essere controllati dai palestinesi. I palestinesi sono persone moderne e laiche. Penso che siano alcuni israeliani che non vorrei veder arrivare al potere.”

Infine, questa ipotesi di uno Stato laico presuppone anche un diritto al ritorno per i palestinesi rifugiati in altri Paesi. “Bisogna ammettere la realtà della Nakba. Non tutti i palestinesi della diaspora vogliono necessariamente tornare. Ma bisogna riconoscere loro questo diritto al ritorno.”

La creazione di una cittadinanza sui generis nello Stato unico sarebbe dunque la panacea? “Non sono ottimista. Il fanatismo religioso è talmente grande, il nazionalismo è così forte che persino i palestinesi di cittadinanza israeliana sono minacciati. Ormai in Israele addirittura le parole ‘sinistra’ e ‘diritti dell’uomo’ sono diventate dei dispregiativi, delle parole estranee,” conclude Ofra Yeshua-Lyth.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le controverse vicende di un’ideologia e della sua storia

Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci editore, Roma, 2017, pp. 254, 24 €.

 Amedeo Rossi

Nell’introduzione l’autore sembra definire un punto di vista nettamente schierato dalla parte di Israele.

Arrivato il 30 aprile 1998 a Tel Aviv per i suoi studi di storico, ricorda: “Festeggiavo anche io la nascita di Israele, che aveva finalmente dato uno Stato al popolo ebraico, dopo secoli di discriminazioni e persecuzioni e dopo la tragedia della Shoa.” Ma subito dopo racconta del suo ritorno nel 2001, durante la Seconda Intifada, e di essersi trovato in una situazione completamente diversa, tanto da aver manifestato insieme a “Mustafa Barghouti e Hanan Ashrawi, due leader palestinesi che sino ad allora avevo visto solo in foto.”

Dalla dissonanza tra questi due ricordi si intuisce una delle ragioni della stesura di questo libro: la dolorosa consapevolezza di una realtà lontana dalla narrazione della lotta gloriosa di un popolo oppresso che rivendica i propri diritti ad avere uno Stato. La riflessione sul conflitto israelo-palestinese fa parte del campo di studi dell’autore, che ha pubblicato altri libri sull’argomento, ma in questo saggio Marzano sembra cercare nelle vicende dell’ideologia sionista la radice del contrasto tra quello che si presentava come un movimento di liberazione e i suoi drammatici esiti storici. Per fare questo l’autore ripercorre le tracce di un pensiero spesso contraddittorio al suo interno, tanto da giustificare il plurale del titolo: “sionismi”.

Marzano ricorda quanto, fino allo sterminio nazista, il movimento sionista fosse minoritario all’interno delle comunità ebraiche europee, osteggiato sia dagli ebrei socialisti e comunisti che dall’ortodossia religiosa, che lo riteneva un movimento blasfemo. Al contempo fin dalle sue origini uno dei nodi principali del sionismo è stato il rapporto con i palestinesi. I suoi ideologi erano ben consci del fatto che la Palestina fosse una terra abitata da una popolazione che rappresentava uno dei principali ostacoli per la realizzazione del loro progetto, benché alcuni, come Magnes e Buber, ritenessero che fosse possibile vivere in armonia con i nativi.

Il libro ripercorre la storia delle varie tendenze del sionismo non in modo sincronico, ma in base al loro ruolo preponderante nel corso del tempo. Nei primi capitoli, pur citando anche le posizioni critiche, Marzano presenta l’evoluzione del pensiero e dell’azione della corrente maggioritaria, il “sionismo politico”, che si identificava principalmente con le figure di Chaim Weizman e di David Ben Gurion, il principale stratega della costruzione del consenso internazionale per il progetto sionista e l’edificatore dello Stato. Il complesso rapporto tra socialismo sionista e colonialismo di insediamento viene analizzato con attenzione, sostenendo la tesi che il primo fosse stato scelto da Ben Gurion per ragioni eminentemente pragmatiche: “Il socialismo era sostanzialmente diventato uno strumento, non un «collante di obiettivi universali, bensì […] un mezzo per la realizzazione del sionismo»”, scrive Marzano, citando lo storico israeliano Zeev Sternhell.

Come puntualmente documentato nel libro, pur avversato da destra e da sinistra questo modello di sionismo ha dominato il movimento sionista e la vita politica del nuovo Stato fino all’evento cruciale rappresentato dalla guerra dei Sei Giorni. Il fatto di aver triplicato in un brevissimo lasso di tempo e di evidente eco biblica le dimensioni dello Stato rappresentò un evento che molti, non solo in Israele, considerarono “miracoloso”. Le sfide al sionismo “socialista” vennero principalmente da tre direzioni. La prima, sorta a partire soprattutto dai primi decenni del ‘900, ad opera del rabbino Abraham Isaac Kook e di suo figlio Zvi Yehuda. In opposizione con il tradizionale quietismo dei rabbini ortodossi, che ritenevano che sarebbe stato dio a riportare gli ebrei nella Terra promessa, questa corrente teologica sosteneva che la conquista della terra avrebbe accelerato l’avvento del messia e la fine del mondo. Questo pensiero millenarista è stato la base ideologica del movimento dei coloni nazional-religiosi, i primi a costruire insediamenti nei territori occupati. Pur rappresentando una sfida aperta allo Stato basato su principi laici, questo movimento ha avuto un rapporto molto stretto con il potere politico, anche laburista, che ne ha consentito l’espansione. Marzano sembra privilegiare l’idea secondo cui i nazional-religiosi si siano serviti e si servano tuttora del potere politico-militare dello Stato per perseguire i propri scopi. Altri autori, sempre israeliani, sostengono invece che sia stata la dirigenza laburista, compresi Rabin e Peres, ad utilizzarli per la progressiva colonizzazione della Cisgiordania. L’avvio della colonizzazione israeliana in Cisgiordania è stata funzionale alla progressiva erosione della terra palestinese, come ammette lo stesso Marzano.

L’occupazione e la colonizzazione risvegliarono anche quelle correnti di pensiero che, pur riconoscendosi almeno in parte nel progetto sionista, ne mettevano in dubbio i metodi e la legittimità riguardo al trattamento riservato ai palestinesi. Ma non furono i movimenti pacifisti a capitalizzare la crisi del gruppo di potere laburista, bensì gli eredi del sionismo revisionista e dei gruppi armati degli anni ’30, che avevano praticato il terrorismo sia contro gli inglesi che contro la popolazione civile palestinese. Il libro torna a questo punto alle origini del revisionismo, così chiamato perché intendeva “revisionare il sionismo per farlo tornare ai principi che si erano nel frattempo persi.” Marzano sintetizza l’opposizione tra le due principali correnti del sionismo con i concetti di “Medinat Israel”, caro ai laburisti e che privilegiava la costruzione dello Stato con caratteristiche liberal-democratiche (quanto meno per i cittadini ebrei) e quello di “Eretz Israel”, la Terra di Israele. Quest’ultimo principio, che, insieme al liberismo in economia ed al comunitarismo etnico-religioso, avrebbe segnato i governi del Likud, ha prevalso nella vita politica israeliana, salvo nel periodo di governo di Rabin e degli accordi di Oslo. Marzano sembra ritenere che Oslo potesse rappresentare una soluzione del conflitto, ponendo di fatto fine all’occupazione della Cisgiordania, e che sia stata l’uccisione di Rabin a farli fallire. Tuttavia egli stesso ricorda che lo stesso primo ministro laburista si dichiarò contrario alla nascita di uno Stato palestinese, e d’altra parte in più occasioni favorì la prosecuzione della colonizzazione.

La seconda parte del libro ripercorre la deriva reazionaria e razzista che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni della politica israeliana, i cui protagonisti sono stati prima Sharon e poi Netanyahu, e il progressivo espandersi della colonizzazione e del peso dei coloni ultranazionalisti e nazional-religiosi nei governi di quest’ultimo. Al contempo, individua la crisi dell’ideologia sionista, messa in discussione sia dai sionisti contrari all’occupazione che da post-sionisti (tra cui si colloca l’autore) ed anti-sionisti.

In conclusione Marzano si pone due domande: questa deriva era insita nell’ideologia sionista? Secondo l’autore sarebbe stata la prevalenza nel movimento del nazionalismo organico, sostenuto da Gordon ed accolto da Ben Gurion, rispetto al socialismo democratico propugnato da Borokov, a segnare la realizzazione pratica del sionismo e a determinare l’espulsione dei palestinesi. La colonizzazione della Cisgiordania ha portato all’alternativa tra uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini, che rappresenterebbe la fine del sionismo, e uno Stato di apartheid, quale già di fatto esiste. La seconda domanda conclude il libro: “Se si crede in uno Stato pienamente democratico, non è forse giunto il momento – come afferma il post-sionismo – di passare da uno «Stato ebraico e democratico» a uno «Stato per tutti i cittadini»?”

Per quanto complesso ed articolato, il libro non affronta la ragione per la quale il sionismo, al di là dei dibattiti ideologici, non poteva essere diverso e per la quale sionisti “socialisti” e revisionisti, nonostante le differenze tattiche, hanno da sempre condiviso l’obiettivo strategico. Era possibile costruire uno Stato in cui gli ebrei fossero la schiacciante maggioranza e che avrebbe dovuto ospitare, in base al progetto sionista, tutti gli ebrei del mondo senza espellere i palestinesi che, alla vigilia della nascita di Israele, rappresentavano i 2/3 della popolazione? E in generale, non avevano ragione gli ebrei antisionisti, da Rosa Luxemburg a Trotzki ai bundisti, a considerare il sionismo un movimento reazionario, in quanto nazionalista e colonialista?