Israele sceglie la violenza

Haggai Matar

10 maggio 2021- +972 magazine

Dalla repressione a Sheikh Jarrah al bombardamento di Gaza, il governo israeliano ha scelto di incrementare la sua brutalità nei confronti dei palestinesi.

L’acuirsi della violenza degli ultimi giorni in Israele-Palestina è principalmente il risultato di una serie di scelte fatte dal governo israeliano. Mentre tale violenza è tutt’altro che inedita nella nostra regione ed è intrinseca alle pluridecennali politiche oppressive di Israele, ci sono scelte che in ultima analisi sono utili agli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu, che sta lottando disperatamente per salvare la sua carriera politica ed evitare la possibilità di finire in carcere.

Le scelte pericolose sono di fatto cominciate con l’inizio del mese santo musulmano del Ramadan, quando le autorità israeliane hanno preso l’incomprensibile decisione di collocare nuovi posti di controllo provvisori all’ingresso della Porta di Damasco, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Poi hanno attaccato i palestinesi che si erano riuniti lì per festeggiare la rottura del digiuno quotidiano con amici e famiglie. Ci sono volute due settimane di violenza poliziesca e la risoluta risposta da parte dei manifestanti palestinesi perché la polizia si ritirasse.

Nel contempo la ripresa delle manifestazioni settimanali e delle veglie quotidiane nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est per protestare contro l’espulsione forzata di famiglie palestinesi ha visto la polizia fare uso di una forza brutale contro gli abitanti e i dimostranti. Come ha informato Oren Ziv di +972, la polizia è andata accentuando la violenza in un quartiere che è diventato un importante simbolo della spoliazione dei palestinesi.

A Sheikh Jarrah Israele sta cercando di restituire ad ebrei terreni che si sostiene siano stati in precedenza di proprietà di ebrei prima del 1948. Così facendo sta espellendo famiglie palestinesi che prima del 1948 [anno di nascita di Israele, ndtr.] erano proprietarie di terreni in quello che è diventato Israele, senza consentire loro di rivendicare la terra che hanno perso durante la Nakba [la Catastrofe, ossia la pulizia etnica subita dai palestinesi dal 1947 al 1948, ndtr.]. È difficile trovare una forma più palese di discriminazione razzista.

Negli ultimi anni lanci di pietre e scontri attorno alla moschea di Al-Aqsa nel periodo del Ramadan sono diventati frequenti. Spesso finiscono subito dopo essere iniziati, con la polizia che decide di lasciare che le proteste si esauriscano da sole. Questa volta la polizia ha optato per una violenza esagerata, ferendo negli ultimi giorni oltre 300 palestinesi sulla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio. Ciò include un certo numero di giornalisti, tra cui Faiz Abu Rmeleh, membro del collettivo Activestills [gruppo di fotogiornalisti impegnati nella controinformazione su Israele/Palestina, ndtr.] e collega di +972, a cui hanno sparato con proiettili di acciaio ricoperti di gomma e picchiato dalla polizia.

Ma la violenza poliziesca non si è fermata lì: alcuni reparti sono entrati nella moschea di Al-Aqsa ed hanno lanciato granate stordenti contro i palestinesi che vi si trovavano. Il valore simbolico di poliziotti armati che calpestano tappeti da preghiera e aggrediscono fedeli in uno dei luoghi più sacri per l’Islam e durante il suo mese più santo è risultato evidente a tutti e non avrebbe potuto avvenire senza che qualcuno prendesse deliberatamente la decisione di intraprendere un’iniziativa così estrema.

Quando i cittadini palestinesi di Israele hanno organizzato autobus per andare a pregare nella [moschea di] Al-Aqsa e per proteggerla, le autorità hanno risposto chiudendo le strade 1 e 443. Così facendo hanno impedito a migliaia di musulmani che stavano digiunando di andare a Gerusalemme per esercitare la libertà di culto, lanciando granate assordanti contro quelli che hanno iniziato a marciare nonostante gli ordini della polizia. Essa ha spiegato la sua decisione affermando di voler impedire che 20 potenziali “istigatori” raggiungessero la capitale. Persino importanti giornalisti israeliani, che spesso sono lieti di ripetere pedissequamente la narrazione ufficiale del governo, hanno messo in dubbio la validità di queste affermazioni.

Come se non bastasse, lo scorso mese estremisti di estrema destra dell’organizzazione razzista Lehava sono comparsi a Sheikh Jarrah, alla Porta di Damasco e nel centro di Gerusalemme. Sono stati appoggiati dal deputato kahanista [seguace del rabbino razzista Meir Kahane, ndtr.] Ben-Gvir e dal vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King, che la scorsa settimana ha pubblicamente augurato la morte a un importante attivista palestinese a Sheikh Jarrah.

Due settimane dopo gli eventi di Sheikh Jarrah e alla Porta di Damasco, il presidente [palestinese, ndtr.] Mahmoud Abbas ha annunciato la cancellazione delle elezioni palestinesi. La ragione ufficiale è stata la decisione israeliana di impedire ai palestinesi gerosolimitani di parteciparvi, in violazione degli Accordi di Oslo. Però la decisione era chiaramente destinata a favorire gli interessi di Abbas e, come hanno sostenuto molti attivisti politici palestinesi, era ancora possibile e forse persino necessario tenere le elezioni indipendentemente dall’esclusione di Gerusalemme.

Benché questa sia una questione tra palestinesi, Israele avrebbe potuto annunciare di star agendo in base agli obblighi previsti dal contesto di Oslo, rispettare i principi democratici e consentire ai palestinesi di Gerusalemme di votare. Ha scelto di non farlo e prima dell’annuncio di Abbas la polizia ha arrestato in città dei palestinesi che appoggiavano le elezioni e cercavano di organizzarle. Anche questa è stata un’escalation nel modo di agire di Israele.

Lunedì, durante la tristemente nota “Marcia della Bandiera” israeliana del Giorno di Gerusalemme, miliziani di Hamas hanno lanciato razzi verso Gerusalemme. Israele ha scelto di rispondere ai razzi attaccando Gaza, uccidendo a quanto si dice almeno 20 persone, tra cui 9 bambini. Il governo ha annunciato che l’operazione militare durerà “giorni, non ore”. Netanyahu ha aggiunto che farà “pagare un prezzo molto alto” a Gaza. Anche questa è stata una scelta.

Troppo poco, troppo tardi

Ovviamente quello a cui stiamo assistendo non è solo il risultato della condotta unilaterale di Israele. Il lancio di razzi contro civili da parte di Hamas, com’è successo oggi a Gerusalemme, nel Naqab/Negev occidentale e nelle città attorno a Gaza, è un crimine di guerra. Inoltre lo scorso mese video pubblicati su TikTok hanno mostrato palestinesi che maltrattano e aggrediscono ebrei ultraortodossi. Militanti palestinesi hanno anche messo in atto alcuni attacchi con armi da fuoco contro civili e soldati israeliani in Cisgiordania, uccidendo la scorsa settimana il diciannovenne Yehuda Guetta. Negli ultimi giorni palloni incendiari sono stati lanciati in Israele da Gaza, bruciando campi nel sud. Però è chiaro che niente di tutto ciò è comparabile con l’enorme forza e brutalità del più potente esercito della regione, come dimostra ancora una volta il bilancio dei morti.

Quasi allo stesso tempo in Cisgiordania, nei pressi dell’incrocio di Gush Etzion [prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.], i soldati hanno ucciso Fahima al-Hroub, a causa di una cultura criminale che consente ai soldati e alla polizia israeliani di uccidere impunemente palestinesi con problemi mentali [la vittima era una donna sessantenne con gravi problemi di depressione, ndtr.].

Inoltre nei giorni che hanno portato all’attacco contro Gaza, Israele (e in particolare lo Shin Bet [intelligence interna di Israele, ndtr.]) si è sempre più preoccupato di quanto stava avvenendo e ha iniziato a cercare di ridurre il danno. Netanyahu ha chiesto a Ben Gvir di smantellare un “ufficio” provvisorio che aveva costruito a Sheikh Jarrah e di andarsene dal quartiere. L’udienza della Corte Suprema sull’espulsione delle famiglie è stata rinviata su richiesta del procuratore generale. Nel Giorno di Gerusalemme il Monte del Tempio è stato chiuso agli ebrei e all’ultimo minuto il governo ha bloccato il suo piano di consentire alla famigerata Marcia della Bandiera di attraversare la Porta di Damasco e i quartieri arabi. Tutti questi passi sono stati presentati come un modo per allentare la tensione.

Ma è stato troppo poco e troppo tardi. La decisione di lunedì sera del governo di bombardare Gaza ha compromesso totalmente ogni tentativo che sosteneva di aver fatto per porre rapidamente fine alla violenza a Gerusalemme.

Ovviamente questi sono solo gli sviluppi delle ultime settimane. La situazione dell’assedio di Gaza che dura da 14 anni, di un regime militare costruito su sistemi giudiziari separati per ebrei e palestinesi, della spoliazione e dell’ingegneria demografica a Gerusalemme, delle sistematiche discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e di esilio forzato dei rifugiati palestinesi, spiega tutto quello che stiamo vedendo succedere adesso. Il tentativo durato anni da parte di Netanyahu di “gestire il conflitto” può aver cancellato queste ingiustizie dalla coscienza dell’opinione pubblica israeliana, ma esse rimangono la situazione quotidiana per milioni di palestinesi, e alimentano attivamente quello che avviene attualmente.

Una lotta per la vita

La reazione israeliana al lancio di razzi di Hamas è stata immediata. I principali mezzi di comunicazione e i politici israeliani, compresi quelli che sperano di sostituire Netanyahu, hanno ripetuto a pappagallo la ben nota linea di partito. “Israele deve agire in modo risoluto e forte e ristabilire la deterrenza,” ha dichiarato Yair Lapid, che recentemente è stato scelto per cercare di mettere insieme un governo e che è stato appoggiato dal partito Laburista [di centro, ndtr.], dal Meretz [sinistra sionista, ndtr.] e dalla maggioranza della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.]. L’ex dirigente del Likud Gideon Sa’ar [di destra, ndtr.] e Naftali Bennett di Yamina [La Destra, partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], che potrebbe benissimo essere il prossimo primo ministro, si sono entrambi uniti a Lapid nel chiedere attacchi più pesanti contro Gaza, senza alcuna riflessione sulle azioni israeliane che ci hanno portato a questo punto.

D’altra parte il partito islamista Ra’am [arabo-israeliano di destra, ndtr.], che ha affermato di sostenere Lapid e Bennett per la formazione di un governo, in seguito all’escalation da parte di Israele ha sospeso i colloqui per una coalizione. Né Ra’am né la Lista Unita potrebbero appoggiare la formazione di un governo con politici che chiedono attivamente un incremento degli attacchi contro Gaza.

Nel novembre 2019, quando per la prima volta è nata l’idea di formare un’alleanza di centro destra con la Lista Unita, Netanyahu ha utilizzato Gaza come ragione assoluta per l’impossibilità di formare un simile governo. Ora, pochi giorni prima che Lapid e Bennett annuncino la formazione di un nuovo governo per spodestare Netanyahu, gli eventi di Gaza stanno facendo direttamente il gioco del primo ministro in carica.

Netanyahu ha pianificato e orchestrato questa escalation? Non c’è ovviamente nessun modo per dimostrare una cosa simile. Ci sono le sue impronte digitali su questi sviluppi? Dato che il primo ministro è responsabile delle varie iniziative delle autorità sotto il suo comando, la risposta è indubbiamente sì. Tutto quello che è successo in quest’ultimo mese, con livelli di violenza inediti da anni, lo ha aiutato nel tentativo di evitare di essere spodestato? Assolutamente sì.

L’incremento della violenza costituisce un avvertimento che non possiamo abbandonare la lotta contro l’occupazione e l’apartheid e che sostituire Netanyahu con un altro uomo di destra non risolverà le questioni fondamentali che influenzano ogni aspetto delle nostre vite su questa terra. Ci troviamo in una terribile trappola, ma è la trappola della situazione colonialista di Israele. Non c’è altro modo per andare avanti se non una lotta per l’uguaglianza e la libertà per tutti gli abitanti di questa terra. Non è niente meno che una lotta per la vita stessa.

Haggai Matar è un giornalista israeliano pluripremiato e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di “+972 – Promozione del giornalismo dei cittadini”, l’associazione no-profit che pubblica +972 Magazine.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Adolescente palestinese ucciso durante un’incursione in un villaggio della Cisgiordania

Al Jazeera e agenzie di notizie

6 maggio 2021- Al Jazeera

Il sedicenne Said Odeh è morto dopo essere stato colpito due volte alla schiena da forze israeliane nella Cisgiordania occupata.

Fonti palestinesi affermano che durante un’incursione in un villaggio a sud della città di Nablus, nella Cisgiordania occupata, truppe israeliane hanno sparato a un sedicenne palestinese uccidendolo.

Secondo Defense for Children International Palestine [Difesa Internazionale dei Minori-Palestina, Ong internazionale, ndtr.] (DCIP) forze israeliane che si trovavano in un uliveto all’ingresso del villaggio di Odala hanno sparato per due volte alla schiena a Said Odeh. Afferma che per 15 minuti è stato impedito a un’ambulanza di raggiungere Odeh , che al suo arrivo è stato dichiarato morto dopo essere stato trasferito all’ospedale Rafidia di Nablus.

Le forze israeliane uccidono sistematicamente minori palestinesi in modo illegale nella più totale impunità, utilizzando intenzionalmente una forza letale contro minori palestinesi che non stanno rappresentando alcun pericolo,” afferma Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per la responsabilizzazione di DCIP. “L’impunità sistematica ha favorito un contesto in cui le forze israeliane non conoscono limiti.”

In un comunicato il ministero della Salute palestinese afferma che mercoledì un secondo palestinese è stato colpito alla schiena durante scontri ed è stato curato in ospedale, e annuncia la morte del sedicenne.

L’esercito israeliano afferma che nella notte di mercoledì le truppe hanno sparato a palestinesi che lanciavano molotov nei pressi del villaggio palestinese di Beita, a sud di Nablus.

Le truppe hanno agito per bloccare sospetti sparando verso di loro,” ha detto una portavoce dell’esercito israeliano, aggiungendo che sull’incidente ci sarà un’indagine.

Alcuni abitanti di Beita e Odala affermano che ci sono state proteste contro le incursioni delle forze israeliane, che hanno sparato lacrimogeni e proiettili veri, vicino agli ingressi dei villaggi nelle ultime notti.

Le incursioni sono state condotte come parte delle ricerche da parte dell’esercito israeliano in alcuni villaggi nella zona di un presunto palestinese armato che domenica ha aperto il fuoco al posto di controllo di Za’tara nella Cisgiordania occupata, ferendo gravemente due israeliani e leggermente un altro.

Uno degli israeliani, un diciannovenne, è morto mercoledì notte per le ferite, ha detto su Twitter il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz.

L’Agenzia Israeliana per la Sicurezza, nota anche come Shin Bet, ha detto di aver arrestato un palestinese sospettato di aver sparato, identificandolo come Muntaser Shalabi, un quarantaquattrenne abitante del villaggio palestinese di Turmus Ayya.

Lo Shin Bet ha detto che Shalabi, trovato in un edificio abbandonato nel villaggio di Silwad, non è affiliato ad alcun gruppo armato.

Veglia a Sheikh Jarrah attaccata

Nella Gerusalemme est occupata la polizia di frontiera israeliana ha ancora una volta attaccato la veglia notturna di Sheikh Jarrah, organizzata da abitanti che devono affrontare l’espulsione dalle loro case e da attivisti solidali con loro.

Decine di persone sono rimaste ferrite e, secondo l’agenzia di notizie palestinese Maan, almeno 10 palestinesi, tra cui un medico, sono stati arrestati.

Le forze israeliane hanno anche sparato lacrimogeni e acque reflue chimicamente potenziate nella casa degli al-Kurds, una delle famiglie minacciate di espulsione dalle loro case a favore di coloni israeliani, come stabilito dal tribunale distrettuale israeliano di Gerusalemme.

Martedì la Corte Suprema di Israele deciderà se le famiglie palestinesi hanno il diritto di presentare appello contro l’ordine del tribunale distrettuale di cacciarli.

Attivisti per i diritti umani affermano che se i palestinesi perderanno la battaglia legale ciò potrebbe rappresentare un precedente per decine di altre case nella zona.

Dovranno ucciderci… è l’unico modo per farci andare via,” ha detto alla Reuter [agenzia di notizie britannica, ndtr.] Abdelfatteh Iskafi.

Nuha Attieh, 58 anni, ha affermato di temere che la sua famiglia sia la prossima [ad essere cacciata] se la sentenza verrà confermata. “Temo per la mia casa, per i miei ragazzi, ho paura di tutto.”

Mercoledì, parlando con Al Jazeera, il capo del partito [laico di sinistra, ndtr.] Iniziativa Nazionale Palestinese Mustafà Barghouti ha affermato che quanto sta avvenendo a Sheikh Jarrah è un “processo di pulizia etnica”.

Non è niente di nuovo, ma parte di un metodo sistematico che il governo israeliano ha seguito dall’annessione di Gerusalemme (est), cercando di eliminare la presenza palestinese dalla città,” ha affermato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo la corte israeliana gli abitanti di Sheikh Jarrah devono “raggiungere un accordo” con i coloni che vogliono sfrattarli

Yumna Patel

3 maggio 2021Mondoweiss

Le famiglie di Sheikh Jarrah che lottano per rimanere nelle loro case hanno detto di “respingere con fermezza” l’accordo proposto dalla Corte Suprema di Israele, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa“.

Decine di palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata, che domenica 2 maggio avrebbero dovuto essere cacciati con la forza dalle loro case, hanno avuto dalla Corte Suprema israeliana altri quattro giorni per “raggiungere un accordo” con i coloni israeliani che stanno tentando di impossessarsi delle loro case.

Nell‘udienza di domenica in merito a un ricorso presentato dalle famiglie di Sheikh Jarrah contro il loro sfratto, un giudice della corte suprema ha deciso di rinviare la sentenza sull’appello a giovedì 6 maggio.

Nel frattempo il tribunale ha ordinato alle sei famiglie, circa 27 persone, di “mettersi d’accordo” con gli stessi coloni che da decenni tentano di sfrattarli con la forza dalle loro case.

In una dichiarazione le famiglie di Sheikh Jarrah hanno affermato che il giudice “ha ordinato che ‘entrambe’ le parti raggiungano un ‘accordo’ in base al quale le famiglie di Sheikh Jarrah riconoscano la proprietà della terra rivendicata dal movimento dei coloni e paghino l’affitto a tali organizzazioni”.

Le famiglie hanno dichiarato di “respingere con fermezza” i termini di tale accordo, “perché queste sono le nostre abitazioni e i coloni non sono i nostri padroni di casa”.

Nella dichiarazione si legge: “Il sistema intrinsecamente ingiusto dei tribunali coloniali israeliani non prende in considerazione la possibilità di mettere in discussione l’illegalità della proprietà da parte dei coloni e ha già deciso a favore dell’espropriazione delle famiglie”, e si aggiunge che la corte ha elaborato il procedimento giudiziario in modo da “stemperare la resistenza popolare e la protesta dell’opinione pubblica contro questi tentativi espansionistici e colonialistici”.

“Poiché la minaccia di espulsione dalle nostre case rimane come prima imminente, continueremo la nostra campagna internazionale rivolta a fermare questa pulizia etnica”, affermano le famiglie.

Il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] Ahmad Tibi, che ha partecipato all’audizione, ha riferito su Twitter che ciò che sta accadendo a Sheikh Jarrah” non è una questione di proprietà immobiliare ma politica al fine di ebraicizzare Sheikh Jarrah e Gerusalemme est”.

“In Israele esistono due sistemi giudiziari, uno per gli ebrei … e uno per i palestinesi”, afferma Tibi.

Da decine di anni le famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sono sotto attacco in virtù di una disputa giudiziaria con i coloni israeliani, dopo che organizzazioni dei coloni hanno accampato dei diritti sulle loro case utilizzando una serie di leggi israeliane che consentono agli ebrei di rivendicare il possesso di proprietà palestinesi che un tempo, prima del 1948, erano abitate da ebrei.

Sebbene le famiglie, che sono state sistemate nel quartiere come profughi sulla base di un progetto residenziale istituito nel 1957 dall’UNRWA e dal governo giordano, contestino la validità delle rivendicazioni dei coloni sulle loro case, i tribunali israeliani si sono costantemente pronunciati a favore dei coloni.

Dagli anni ’90 l’associazione di destra dei coloni Nahalat Shimon International si è impegnata con forza per lo sgombero degli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah e la successiva sostituzione di questi con nuclei di coloni israeliani.

Finora nel quartiere il gruppo ha portato a termine con successo tutti i suoi tentativi e, con il sostegno del tribunale distrettuale israeliano e il pieno supporto da parte delle autorità israeliane, ha spostato più di 67 palestinesi da Sheikh Jarrah e continua a premere per un imminente spostamento di circa altri 87.

Oltre alle sei famiglie minacciate di espulsione immediata, un tribunale distrettuale israeliano ha anche stabilito all’inizio di quest’anno che altre sette famiglie del quartiere dovrebbero lasciare le loro case entro il 1° agosto.

In totale solo quest’anno 58 persone, inclusi 17 bambini, saranno sfollate con la forza da Sheikh Jarrah per far posto ai coloni ebrei.

Nel corso delle ultime settimane i palestinesi di Sheikh Jarrah hanno intensificato la loro lotta per salvare le loro famiglie dallo sfratto con una campagna sui social media per #SaveSheikhJarrah, sit-in e manifestazioni quotidiane nel quartiere.

Durante il fine settimana diverse manifestazioni in solidarietà con le famiglie si sono svolte a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania.

Sempre nel corso del fine settimana sono diventati virali i video della polizia israeliana che reprime manifestazioni pacifiche e confisca le bandiere palestinesi insieme al video di un colono israeliano che si introduce nella proprietà di una famiglia palestinese del quartiere.

Il video dello scambio verbale tra il colono e la palestinese proprietaria della casa, nel momento in cui il colono dice ai proprietari “se non la rubo io la ruberà qualcun altro”, ha suscitato indignazione sui social media.

Domenica sera gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah hanno organizzato un sit-in e un iftar [il pasto serale consumato dai musulmani che interrompe il digiuno quotidiano durante il mese del Ramadan, ndtr.] all’aperto per interrompere insieme il loro digiuno come testimonianza della loro presenza continua nel quartiere. La loro manifestazione, che era del tutto pacifica, è stata rapidamente repressa dall’esercito israeliano che ha disperso il raduno e sparato granate assordanti contro i gruppi di palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un viaggio diventato un calvario

Dima Ghanim

26 aprile 2021 WeAreNotNumbers

È difficile viaggiare nel deserto del Sinai in agosto, zanzare e particelle finissime di sabbia trasportate da folate di vento bollente caldo entrano nella macchina. Il sole allunga le sue braccia ardenti che si infilano dentro la gabbia metallica e opprimono i nostri corpi sudati.

Il taxi guadagna velocità, ma appena le gomme stridono per l’entusiasmo, i freni rispondono con un altro stridio e la velocità si riduce rapidamente: un altro checkpoint. Il motore dell’auto ottiene un riposo sgradito ogni cinque minuti, quando ci imbattiamo in un posto di blocco dopo l’altro.

Guardo fuori dal finestrino posteriore e seguo la nostra lenta avanzata. Punti di domanda volteggiano nell’aria torrida. Quanto ci vorrà prima che le gomme della macchina fondano? Abbiamo percorso abbastanza chilometri così il viaggio non si prolungherà durante la notte?

Le peculiari abilità degli autisti di confine

Gli autisti di confine non sono come quelli di taxi. Sono sempre in lotta con il tempo, passano giornate o settimane lontano dalle loro famiglie, in una corsa per portare e prendere passeggeri. Sanno a memoria i livelli di difficoltà di ogni checkpoint. Li vedo afferrare i loro cellulari e comunicarsi l’un l’altro i nuovi ordini sulle strade. Hanno i loro trucchi per trattare con i soldati dei checkpoint.

Il piano B può essere un’alternativa se sei disposto a correre il rischio di deviare dalla strada principale. Qualche volta si suggerisce di prendere un’altra via, cosa che può essere facilmente rifiutata se ci va troppo tempo e se nel viaggio di ritorno non ci sono passeggeri paganti. Funziona così per tentare di sfruttare ogni istante.

Mi dispiace per voi,” dice l’autista egiziano, interrompendo il silenzio. “Che dio vi assista in quello che state subendo. Tempo fa di solito portavamo i passeggeri dal valico di confine di Rafah al Cairo in cinque ore.” [valico tra Gaza e l’Egitto, aperto sporadicamente dalle autorità egiziane, ndtr.]

Le scene folli al confine

Sei ore prima al confine egiziano, le persone sembravano uno stormo di uccelli che sbattevano le ali. Si affollavano nello stanzone dell’attraversamento di Rafah, attenendosi al protocollo in maniera concertata, cercando di conservare la risorsa principale del loro viaggio, il tempo.

I miei familiari avevano ognuno un compito: compilare i nostri documenti di viaggio, fare la fila, ottenere i timbri e stare attenti ai bagagli. Dopo aver consegnato i passaporti, c’era solo da aspettare. L’attesa diventava sempre più insopportabile con i nuovi arrivati che si ammassavano nella sala e la torre sempre più alta di passaporti impilati davanti agli ufficiali. 

Finalmente uno si è alzato per chiamare i nomi di quelli i cui passaporti erano stati timbrati, la gente è saltata su dalle sedie o si è bloccata sorpresa mentre si aggirava nell’ufficio (non si erano mai allontanati per paura di non sentire quando il proprio nome sarebbe stato chiamato). Per quelli non ancora chiamati è cominciata un’altra condanna all’attesa, mentre quelli che avevano sentito la chiamata della salvezza erano liberati dalla gabbia. Ma non erano completamente liberi, anche se avevano provato la gioia di avanzare fino alla gabbia successiva.

Comunque la gioia poteva rapidamente essere strappata via. Una signora, la cui famiglia era stata costretta nel 1948 a fuggire da Giaffa, la propria patria, per andare in Siria, per poi scappare dalla guerra in Siria per subirne un’altra a Gaza, aveva optato per un altro scenario per il futuro dei figli. Dopo una lunga notte di attesa e speranza, lei, i suoi quattro figli (incluso quello che stava scalciando nella sua pancia, impaziente di vedere la luce) e l’anziana mamma avevano avuto autorizzazione di incamminarsi sul loro incerto futuro. Ma era destinata a portare questa responsabilità da sola, perché al marito era stato vietato di unirsi a loro.

No! Non me ne andrò senza di lui!” gridava a squarciagola. 

 “Dovete andare,” ha detto tranquillamente il padre alla sua famiglia. “Non preoccupatevi. Io vi seguirò fra poco.” Controllava la propria disperazione, i bambini si aggrappavano al loro papà con calde lacrime salate che scorrevano sulle loro guance rosate.

I palestinesi hanno provato ogni tipo di perdita al punto che non sono più in grado di esprimerla a parole. Ironicamente, ai loro occhi, determinazione e paura della perdita racchiudono tutto. L’ho visto negli occhi della nonna. Erano come un rubinetto non completamente chiuso con gocce pesanti che si accumulavano sull’orlo e poi cadevano. Uno dei bambini le si era avvicinato e le picchiettava la mano che sembrava una pergamena, fissandola negli occhi senza dire una parola. Il piccolo affetto da autismo aveva dei problemi a comunicare, ma aveva provato empatia verso le sofferenze e l’infelicità di un altro essere umano e stava manifestando compassione con il linguaggio più semplice ed espressivo.

Confini e checkpoint sono una parte integrale di ciò che siamo come palestinesi. Possono aprire le porte all‘opportunità di far parte del mondo e di testimoniarne la diversità. O possono buttare la chiave della porta in acque profonde, rimandandoci indietro con cuori pesanti di delusione. In entrambi i casi, confini e posti di blocco restano un modo sicuro e crudele di ricordare occupazione e blocco.  

Sulla nostra lunga, lunga strada

Dopo dodici ore di attesa al confine, avevamo i nostri passaporti timbrati e ci siamo avviati in taxi per Il Cairo, sapendo di avere davanti a noi altre sfide e molte altre ore. “Non pensare. Ignora tutto quello di cui sei stata testimone, come se questa giornata non fosse mai esistita,” dice mio padre, assurdamente.  Essere un palestinese significa adattarsi a ogni difficoltà in cui ci imbattiamo. Impariamo ad acclimatarci al cambiamento del labirinto di sentieri e programmi: se davanti a te c’è un muro, scava e riappari dall’altro lato come un mago. Noi affrontiamo con cuore risoluto ogni difficoltà che ci si presenta.

Ora, dopo quattro ore di fermate e ripartenze, di viaggi da checkpoint a checkpoint, abbiamo raggiunto quello più difficile che dovevamo attraversare prima di mezzanotte per non dormire in macchina fino alla mattina dopo. Una fila di auto era ferma in attesa del proprio turno di un’ispezione dettagliata il che significava che sì, avremmo passato la notte qui.

La mattina dopo quando siamo ripartiti, ho deciso di liberarmi di tutti i pensieri negativi guardando un film che avevo scaricato: “Schindler’s List”. Ho accettato il consiglio di mio padre e mi sono distratta dalIa corsa piena di interruzioni guardando questo film e pensando alla tragedia vissuta dagli ebrei tedeschi. Il protagonista, Oscar Schindler, piange per non aver venduto tutti i suoi beni e aver riscattato una vita in più perché sfuggisse a una morte inevitabile. L’Olocausto è considerato il più noto esempio di pulizia etnica fomentata da nazionalismo estremista nella storia. Ma, come palestinesi, noi siamo esposti quotidianamente a successive ripetizioni di pulizia etnica. Il più recente di tali progetti è il trasferimento degli abitanti di Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città occupata, ndtr.] a Gerusalemme, per ordine del tribunale israeliano in favore dei coloni. Quello che sta succedendo a Sheikh Jarrah è un frammento di una visione più ampia per cancellare i palestinesi dalla terra tramite l’occupazione. L’occupazione sfrutta l’Olocausto per i propri scopi politici di oggi e maschera i feroci atti odierni compiuti contro il popolo nativo.

Io non so da quanto tempo questi pensieri mi girano per la testa. Tuttavia, il rumore del motore dell’auto mi riporta alla realtà. Fa ritornare la gioia di essere in viaggio. Ma altrettanto improvvisamente, il rumore cessa. Dopo due giorni di strada per andare da Gaza al Cairo, sono finalmente all’aeroporto proprio come qualsiasi altro viaggiatore, sto godendo della libertà di tenere in una mano il biglietto dell’aereo e nell’altra l’euforia.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)