Cosa unisce i suprematisti americani bianchi e la brutale aggressione israeliana contro i palestinesi

David Rothkopf

16 maggio 2022 – Haaretz

Un killer razzista uccide dieci persone a Buffalo, New York. La polizia israeliana carica i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Due eventi, due mondi lontani, ma con molto in comune

A Buffalo, New York, un diciottenne entra in un negozio di alimentari e apre il fuoco uccidendo dieci persone. Sulla canna del suo fucile è inciso un epiteto razzista così offensivo che quasi tutti i media (anglosassoni) dicono semplicemente “n-word, [n**ro].”

La polizia israeliana aggredisce brutalmente i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Strappa la bandiera palestinese dal suo feretro che veniva trasportato a spalla. 

Due eventi, due mondi lontani. Cosa potrebbero mai avere in comune?

Dopo tutto Payton S. Gendron, lo stragista di Buffalo, era un noto antisemita che temeva che ebrei, neri e persone di colore stessero cercando di “sostituire” i bianchi. Un altro simbolo trovato sulla sua arma, il numero 14, evoca un credo della supremazia bianca: “Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra gente e un futuro ai bambini bianchi.” Si è trattato di un criminale. 

Secondo la polizia israeliana si stava cercando di “agevolare un funerale calmo e dignitoso. “Cosa potrebbe mai avere a che fare il suo comportamento con quello di un razzista squilibrato che considera quelli diversi da lui come un pericolo mortale e, di conseguenza, si è sentito giustificato a ricorrere alla violenza contro di loro?

Gendron è stato collegato a un manifesto di 180 pagine in cui elogiava altri killer razzisti, tra cui Robert Gregory Bowers, che [nel 2018] ha attaccato la sinagoga Tree of Life a Pittsburgh in cui morirono undici persone e sei rimasero ferite. Come potrebbe mai avere qualcosa in comune con una forza di polizia incaricata di proteggere un popolo che lui detesta?

Eppure l’impulso alla base di entrambi gli attacchi è stato l’odio alimentato dalla paura dell’ “altro.” Sì, sia Gendron che la polizia israeliana hanno agito con totale indifferenza per la vita o il senso morale umani. Sì, la polizia e Gendron stavano attivamente proteggendo una visione del mondo secondo cui le persone di razze e fedi diverse sono viste come inferiori, e negare loro le libertà fondamentali, persino privarle della vita, è diventato normale.

Sì, la teoria della sostituzione dei bianchi sostenuta da Gendron è propagandata da media di destra come Fox News di Rupert Murdoch. E sì, quando Tucker Carlson, star della Fox, è stato attaccato per aver sposato “la teoria della sostituzione dei bianchi,” in sua difesa ha citato il caso di Israele: “È irrealistico e inaccettabile aspettarsi che lo Stato di Israele sovverta volontariamente la propria esistenza sovrana e la propria identità nazionalista e diventi una minoranza vulnerabile all’interno di quello che una volta era il suo territorio.”

Per quanto ripugnanti siano le frasi di Carlson è facile capire la logica che l’ha portato a citare le opinioni israeliane sui palestinesi come simili a quelle dei suprematisti bianchi americani verso i non cristiani e i non bianchi.

Il razzismo e l’odio dei media di destra in entrambi i Paesi sono direttamente collegati a partiti politici negli USA e in Israele che hanno attinto all’odio e alle paure razziali per alimentare la propria popolarità: nel caso degli USA il GOP [il Great Old Party, il partito repubblicano, ndt.], e in particolare il movimento di Donald Trump con il suo slogan MAGA [Make America Great Again, rendiamo l’America di nuovo grande, ndt.], e nel caso di Israele le coalizioni di destra che hanno sostenuto Bibi Netanyahu e ora sostengono il primo ministro Naftali Bennett.

In effetti questi potenti movimenti politici e i loro benefattori e accoliti nei media hanno fatto da megafono e operato per istituzionalizzare la loro intolleranza. È così, sia che si manifesti negli USA, dove si fa di tutto per scoraggiare gli elettori di colore, si erige un muro lungo la frontiera o si rinchiudono i bambini in gabbie, che in Israele, con un sistema che è stato giustamente condannato perché impone un sistema di apartheid, di cittadinanza di seconda classe, di limitazione dei diritti e di violenza seriale contro i palestinesi.

No, commettendo il suo crimine Gendron non stava lavorando per lo Stato come la polizia israeliana quando ha brutalmente e ingiustificabilmente aggredito coloro che in lacrime seguivano il corteo funebre. Ma il suo razzismo è direttamente collegato a un potente movimento politico statunitense, lo stesso che gli ha messo in mano un’arma, proprio come nel caso della polizia israeliana, che ha bastonato chi trasportava la bara e negato un funerale decente a una cittadina palestinese-americana estremamente rispettata che si meritava molto di meglio.

Naturalmente è facile stabilire un legame fra questi due atti, entrambi spregevoli, ripugnanti e offensivi, secondo qualsiasi norma morale. Ma è pericoloso accostare eventi solo per la loro vicinanza temporale. Sarebbe un errore farlo se tale analogia ne minimizzasse uno o travisasse l’altro.

Detto ciò, sarebbe anche un errore non vedere le somiglianze, poiché i due atti sono in effetti associati a movimenti tossici che rappresentano una gravissima minaccia per i Paesi in questione, specialmente quando questi due Paesi, USA e Israele, sono intimamente legati.

Entrambi sono scaturiti da un odio irrazionale fomentato da politici etno-nazionalisti che hanno reso ancora più possibili tali reati, offrendo la giustificazione per gli attacchi (anche se l’orrendo comportamento era di natura molto diversa) e, in un modo o nell’altro, rendendo disponibili le armi usate per commettere questi crimini. 

(E prima di dire che nell’aggressione israeliana non è morto nessuno, quanti palestinesi innocenti sono morti senza giustificazione per mano di polizia o esercito israeliani? Non sappiamo ancora esattamente a chi appartenessero i proiettili che hanno ucciso Shireen Abu Akleh, ma è persino troppo facile citare altri casi. Sappiamo anche che le indagini sulla sua morte saranno probabilmente inconcludenti e che tali crimini continueranno, spesso in conseguenza del calcolo delle istituzioni israeliane che regolarmente valutano le vite dei palestinesi meno di quelle israeliane.)

Sono ben consapevole che alcuni incaselleranno tale analisi fra le tipiche affermazioni da ebreo americano critico di Israele o del sionismo, spesso equiparate all’antisemitismo dagli esponenti della destra israeliana. Loro, come quelli della destra americana, sono allergici al dissenso e propendono a mettere in dubbio la reputazione dei loro oppositori.

Ma se sionismo significa sostenere il tipo di razzismo di uno Stato creato per fuggirlo, allora sostenerlo e chiudere un occhio davanti alle violazioni e ai valori corrotti che lo appoggiano è in realtà il vero atto di antisemitismo.

Proprio come nel partito Repubblicano negli USA, molti appartenenti all’ala destra del governo israeliano hanno perso la strada e stanno danneggiando il proprio Paese più di quanto non potrebbero farlo i loro nemici. E proprio come negli USA la cura consiste nell’accantonare gli eufemismi, il cerchiobottismo e le scuse e riconoscere che entrambi i nostri Paesi stanno soffrendo per l’istituzionalizzazione di forme di razzismo che vanno nella direzione contraria ai nostri valori fondanti, anche se per niente contrarie alla verità effettiva della storia in entrambe le nazioni.

L’ultimo libro di David Rothkopf si intitola: ‘Traitor: A History of Betraying America from Benedict Arnold to Donald Trump’ [Traditore: una storia del tradimento in America da Benedict Arnold a Donald Trump]. È anche conduttore di podcast e amministratore delegato del Rothkopf Group.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




L’uccisione di Shireen Abu Akleh: come i media occidentali hanno ripetuto a pappagallo la propaganda israeliana

Abir Kopty

13 maggio 2022 – Middle East Eye

Invece di confidare nelle dichiarazioni dei testimoni oculari palestinesi, i giornalisti occidentali hanno ripreso le argomentazioni di Israele

Questa settimana noi palestinesi siamo rimasti tutti scioccati nel commemorare l’uccisione della celebre giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh. Ma nel nostro cordoglio siamo obbligati a testimoniare come ancora una volta i mezzi di comunicazione occidentali ci stiano deludendo.

Quando un palestinese viene ucciso da forze israeliane il fatto è sempre descritto in termini passivi. Moriamo sempre per conto nostro, nessuno ci uccide. A volte moriamo come danni collaterali in “scontri”, senza che venga descritto il contesto, come sia scoppiato lo scontro o la sproporzione delle forze in gioco.

Poi scatta l’automatica adozione del punto di vista israeliano, che è sempre manipolatorio. La strategia israeliana è negare immediatamente ogni responsabilità, poi mettere in dubbio i testimoni palestinesi, ponendo le basi per l’affermazione che ci sono “due versioni” della vicenda. Quindi i media lo ripetono in modo acritico.

Il giorno in cui Abu Akleh è stata giustiziata ho ascoltato per un paio d’ore il BBC World Service [servizio della televisione pubblica britannica sulle notizie internazionali, ndt.]. L’inviato ha ripetuto la versione israeliana secondo cui è stata uccisa dal fuoco palestinese, poi ha notato che i palestinesi hanno detto che è stata uccisa dal fuoco israeliano. Il servizio ha anche incluso l’affermazione di Israele secondo cui ha chiesto all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di condurre un’inchiesta congiunta, ma che l’offerta è stata respinta. Inizialmente l’ANP ha negato di essere stata contattata dalle autorità israeliane, ma i media hanno continuato a riportare le affermazioni israeliane.

La maggior parte dei media internazionali ha adottato la stessa impostazione, quasi come se avessero scritto i loro articoli in collaborazione su un documento Google condiviso.

Tuttavia, mentre si sono assicurati di diffondere per intero la versione israeliana, i media occidentali non hanno dato la stessa importanza alla versione palestinese. Giovedì l’ANP ha spiegato perché ha rifiutato di partecipare a un’indagine insieme a Israele, cercando invece di esaminare la questione in modo indipendente. I palestinesi hanno tutte le ragioni di diffidare di Israele, che abitualmente utilizza queste inchieste per insabbiare i casi – ma i media occidentali non sembrano preoccupati di questo contesto fondamentale.

Scavare più in profondità

L’informazione distorta è continuata persino durante il funerale di Abu Akleh. Dopo che forze israeliane hanno attaccato i palestinesi in lutto, con immagini dal vivo che mostravano un’aggressione deliberata e non provocata, i principali mezzi di comunicazione hanno scritto falsamente che sono scoppiati “scontri” o che “si è scatenata la violenza”.

In effetti la maggior parte dei mezzi di informazione occidentali attinge a un copione standardizzato. Invece di scavare più in profondità per trovare la verità e per sfidare le affermazioni israeliane, gli inviati aiutano Israele ad avvolgere i fatti nell’ambiguità. E non importa quello che ne consegue: anche se l’articolo successivo include una riga sulla reazione palestinese, la prima impressione è già stata data.

Nel caso di Abu Akleh ci voleva poco per respingere la versione israeliana dei fatti. Era accompagnata da molti altri giornalisti le cui testimonianze coincidono. Dicono tutti la stessa cosa: Abu Akleh è stata presa di mira da un cecchino israeliano. Sfortunatamente sembra che le parole dei giornalisti palestinesi non siano sufficientemente credibili per i media occidentali.

Le testimonianze di giornalisti come Shatha Hanaysha, che stava vicino ad Abu Akleh quando è morta, di Ali al-Samoudi, anche lui colpito e ferito nell’incidente, e di Mujahid al-Saadi, un altro testimone dell’uccisione, non sono accettate senza ulteriori conferme da parte di gruppi israeliani per i diritti umani come B’Tselem o fonti giornalistiche come Haaretz.

Persino allora, quando i media occidentali non possono più evitare di evidenziare le menzogne israeliane, possono aggiungere ai loro articoli qualche riga qua e là, ma quando la correttezza di questi articoli è fondamentale, nelle ore immediatamente successive a questo tipo di avvenimenti, gli inviati di solito si attengono alla propaganda israeliana. A sua volta questa rimane impressa nelle menti dei loro lettori e telespettatori.

Quando si tratta della guerra tra Russia e Ucraina non vediamo le stesse esitazioni ad attribuire la responsabilità a chi le ha. Quando dei giornalisti vengono uccisi in Ucraina i servizi dei media occidentali citano immediatamente i bombardamenti russi. Le fonti e i giornalisti ucraini sono considerati di per sé sufficientemente credibili da essere citati, e una risposta russa non è necessaria, né lo sono le richieste di un’inchiesta per determinare chi ne è stato responsabile.

Questo doppio standard evidenzia la complicità dei media occidentali nel nascondere i crimini israeliani. Porvi fine non richiederebbe molto, solo che i mezzi di comunicazione internazionali trattassero i palestinesi, compresi i giornalisti, con il rispetto che si sono meritati.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Shireen Abu Akleh: le forze israeliane aggrediscono il corteo funebre che accompagnava la bara prima dell’inumazione.

Huthifa Fayyad, Latifeh Abdellatif , Lubna Masarwa

venerdì 13 maggio 2022 – Middle East Eye

Nonostante l’aggressione da parte delle forze israeliane, in migliaia hanno sfilato nella Città Vecchia di Gerusalemme per dire addio alla giornalista palestinese

Questo venerdì le forze israeliano hanno lanciato granate assordanti e aggredito i palestinesi che accompagnavano la bara della giornalista assassinata Shireen Abu Akleh all’esterno dell’ospedale di Gerusalemme, prima del suo servizio funebre e della sua inumazione nella Città Vecchia.

Alcuni palestinesi in lutto hanno insistito per portare il suo feretro sulle spalle dall’ospedale francese Saint-Louis alla Chiesa cattolica romana della Città Vecchia, prima di trasportarla al luogo dell’inumazione, il cimitero del monte Sion.

Prima che potessero lasciare la cinta dell’ospedale le forze israeliane li hanno aggrediti, spinti indietro e hanno fatto irruzione nel cortile.

Secondo fonti palestinesi almeno 14 persone sono state arrestate e 33 ferite dalla repressione israeliana.

Una ripresa in diretta di Al Jazeera ha colto il momento in cui i palestinesi in lutto hanno quasi lasciato cadere il feretro sotto gli attacchi delle forze israeliane.

Givera al-Budeiri, una collega di lunga data e amica intima di Abu Akleh ha descritto dal vivo in diretta la violenta repressione contro i partecipanti al funerale riuniti fuori dall’ospedale.

“Forze dell’occupazione stanno attaccando l’ospedale. Ora stanno sparando proiettili. Stiamo parlando di un ospedale, non di una zona di conflitto,” ha affermato, addolorata e trattenendo le lacrime.

“Persino nella sua morte Shireen ha denunciato le azioni delle forze di occupazione,” ha detto un altro giornalista di Al Jazeera.

Qualche istante dopo gli israeliani li hanno obbligati a mettere la bara su un’automobile e hanno permesso loro di lasciare l’ospedale, purché non in corteo. Decine di persone all’ospedale volevano unirsi alla processione e gli è stato impedito.

Quando il feretro è finalmente arrivato alla chiesa cattolica romana decine di altre persone stavano aspettando di assistere al servizio funebre per Shireen Abu Akleh.

Un degno tributo”

Venerdì migliaia di palestinesi musulmani e cristiani di Gerusalemme e della comunità palestinese in Israele, anche di Haifa e Nazareth, sono arrivati per rendere omaggio alla nota giornalista nella chiesa della Città Vecchia.

“Una Nazione unita, alza le tue mani e la tua voce,” hanno scandito i palestinesi prima del servizio funebre. “Musulmani e cristiani, fate sentire la vostra voce insieme.”

Anche molti dei colleghi e amici giornalisti di Abu Akleh erano presenti al funerale.

La stimata giornalista era nota e molto rispettata dai telespettatori del mondo arabo, soprattutto in Palestina, dove la sua morte ha avuto risonanza tra personalità di tutto lo spettro politico e sociale.

La sua uccisione, gli attacchi contro altri giornalisti e la repressione contro il suo corteo funebre hanno unito i palestinesi in quello che è stato descritto come un raro momento di unità nazionale. Nella Città Vecchia di Gerusalemme sono stati dedicati ad Abu Akleh servizi funebri, con bandiere palestinesi che sventolavano.

“Guardo queste scene del funerale di Shireen e si tratta sia di una commemorazione della sua vita che anche di una grande rabbia per il modo in cui è stata uccisa,” ha detto a Middle East Eye l’avvocatessa palestinese Diana Buttu.

“Shireen ha toccato ogni casa palestinese. Ogni casa araba. Ha portato la Palestina al mondo arabo e attraverso di lei il mondo ha compreso cosa significhi essere palestinesi,” ha aggiunto Buttu.

“Vedere queste migliaia di persone in un omaggio così degno di Shireen. Era veramente una persona che ha fatto del suo meglio per garantire che le nostre storie venissero ascoltate e non posso dire quanto io sia orgogliosa di dire che era mia amica.”

Dopo la messa di suffragio una grande folla ha portato la bara di Abu Akleh a 300 metri dalla chiesa fino al cimitero del monte Sion, con poliziotti pesantemente armati schierati nella Città Vecchia.

Forze speciali israeliane si sono ammassate fuori dalla chiesa, arrestando e aggredendo molte persone che sventolavano le bandiere palestinesi.

Tuttavia migliaia di palestinesi decisi a dare un addio degno ad Abu Akleh hanno sfilato lungo la stretta via che porta al cimitero.

Una croce di fiori, portata davanti alla bara da una folla di musulmani e cristiani, alla fine è arrivata alla tomba.

Lì, in un momento straordinario, rappresentanti delle varie denominazioni cristiane di Gerusalemme hanno fatto suonare insieme le campane delle chiese, un gesto di unità raramente visto nella storia della città.

Coperta da una bandiera palestinese, che le autorità israeliane hanno vietato ai sostenitori di portare, alla fine il feretro di Abu Akleh è stato calato nella terra in un appezzamento vicino ai suoi genitori.

Restrizioni israeliane prima del funerale

Poco prima del funerale le forze israeliane hanno imposto un certo numero di restrizioni. I palestinesi vi hanno visto un tentativo di ostacolare il rito e di limitare il numero di persone presenti.

Hanno vietato le bandiere palestinesi durante il funerale e imposto il divieto di manifesti e canti di canzoni nazionaliste.

Giovedì notte il fratello di Abu Akleh è stato convocato per essere interrogato, un’iniziativa che molti hanno visto come un tentativo di fare pressione sulla famiglia e ostacolare la cerimonia del venerdì.

Secondo fonti locali giovedì forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Abu Akleh, cercando di togliere una bandiera palestinese che era stata innalzata in suo onore.

Da quando è stata uccisa le forze israeliane hanno mantenuto una massiccia presenza poliziesca a Gerusalemme. Nonostante le restrizioni e la pesante repressione, migliaia di palestinesi hanno giurato di riunirsi per il servizio funebre e di sfilare accanto alla sua bara fino alla sepoltura.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’iconica “Voce della Palestina” di Al Jazeera uccisa durante un raid israeliano

Ali Abunimah – 11 maggio 2022

ElectronicIntifada

Mercoledì mattina Shireen Abu Akleh , corrispondente di Al Jazeera, è stata colpita a morte da uno sparo durante un raid israeliano nella Cisgiordania occupata, provocando shock e rabbia in Palestina e in tutta la regione.

“Un crimine tragico e deliberato che viola tutte le leggi e le norme internazionali, le forze di occupazione israeliane hanno assassinato a sangue freddo la nostra corrispondente Shireen Abu Akleh”, ha affermato la rete con sede in Qatar.

Israele inizialmente ha incolpato i palestinesi della morte di Abu Akleh, ma in seguito ha ritrattato l’affermazione.

La sua morte è stata annunciata dal Ministero della Salute palestinese poco dopo la diffusione di video online che mostravano il suo corpo inerte mentre veniva caricato su un’auto e portato via.

Il sito web in lingua inglese della rete ha riferito che la corrispondente veterana “è stata colpita mercoledì da un proiettile mentre seguiva in diretta i raid israeliani nella città di Jenin ed è stata portata d’urgenza in ospedale in condizioni critiche, secondo il Ministero e i giornalisti di Al Jazeera”.

Quando è stata uccisa Abu Akleh, palestinese con cittadinanza statunitense, indossava il giubbotto della stampa e un casco. Aveva 51 anni.

Un altro giornalista, Ali Samoudi, è stato colpito alla schiena durante lo stesso scontro ed è stato riferito che si trova in condizioni stabili.

Nelle interviste rilasciate dal suo letto d’ospedale, Samoudi ha insistito sul fatto che i giornalisti fossero stati deliberatamente presi di mira dalle forze israeliane e che al momento non c’era nessuna azione di fuoco da parte dei palestinesi contro i soldati israeliani.

Samoudi ha detto che i giornalisti si trovavano in uno spazio aperto e dunque erano chiaramente visibili ai soldati. Ha detto che non c’era alcun palestinese combattente o civile nella zona, solo soldati israeliani.

“Stavamo per filmare l’operazione dell’esercito israeliano e all’improvviso ci hanno sparato senza chiederci di andarcene o interrompere le riprese”, ha detto Samoudi. “Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sul posto”.

Anche Shatha Hanaysha, un’altra giornalista che si trovava proprio accanto ad Abu Akleh, ha affermato che non erano in corso scontri tra combattenti palestinesi ed esercito israeliano e ha affermato che i giornalisti sono stati intenzionalmente presi di mira.

“Eravamo quattro giornalisti, tutti indossavamo giubbotti, tutti indossavamo caschi”, ha detto Hanaysha ad Al Jazeera. “L’esercito di occupazione [israeliano] non ha smesso di sparare neanche quando si è accasciata. Non potevo nemmeno allungare il braccio per tirarla via a causa degli spari. Era evidente che l’esercito sparava per uccidere”.

Al Jazeera ha trasmesso il video di una persona con indosso un giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e un elmetto che giaceva immobile a terra, affermando che si tratta della scena finale dell’omicidio di Abu Akleh.

Si può vedere un’altra persona con indosso lo stesso abbigliamento accovacciata nelle vicinanze, mentre i palestinesi si avvicinano per prestare assistenza.

Israele si rimangia il tentativo di incolpare i palestinesi

Israele ha ammesso che i suoi soldati erano entrati nel campo profughi di Jenin alla ricerca di quelli che definisce “sospetti terroristi”.

I raid quasi quotidiani delle forze di occupazione israeliane in tutta la Cisgiordania provocano regolarmente feriti e morti tra i palestinesi.

Ma Tel Aviv è subito passata all’offensiva, negando la responsabilità per la morte di Abu Akleh.

Il primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Sembra probabile che dei palestinesi armati – che al momento stavano sparando indiscriminatamente – siano i responsabili della sfortunata morte della giornalista”.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid, Bennett ha basato la sua affermazione su un video girato da palestinesi e condiviso sui social media.

Nel video si sente una voce che dice in arabo: “Hanno colpito un soldato, è sdraiato a terra”.

Il Ministero degli Esteri israeliano ha condiviso un’altra clip che mostra un uomo in uno stretto vicolo che spara con un’arma automatica. Il Ministero ha ribadito l’affermazione secondo cui i palestinesi “sparando indiscriminatamente avrebbero probabilmente colpito” Abu Akleh.

I sottotitoli nel video del Ministero degli Esteri non corrispondono al suo audio, e sembrano presi dal video condiviso da Ravid.

L’esercito israeliano ha condiviso lo stesso video.

Niente nei due video sembra collegato alla morte di Abu Akleh. L’obiettivo immediato di Israele sembra essere stato quello di sollevare abbastanza polvere da evitare titoli compromettenti e seminare dubbi su ciò che era realmente successo.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha detto che il suo operatore sul campo a Jenin “ha documentato il luogo esatto in cui ha sparato il palestinese armato ripreso nel video diffuso dall’esercito israeliano, così come il luogo esatto in cui è stata uccisa la giornalista Shireen Abu Akleh. “

In base a questa indagine, il gruppo ha concluso che il video degli “spari palestinesi diffuso dall’esercito israeliano non può essere quello dello sparo che ha ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh”.

Israele ha una lunga storia di utilizzo di video e immagini false o dati fuori contesto per eludere la responsabilità delle proprie azioni.

Israele in seguito ha ritirato le accuse contro i palestinesi, e il capo dell’esercito Aviv Kohavi ha affermato: “Al momento non è possibile determinare da quali proiettili sia stata uccisa Abu Akleh”.

Kohavi ha detto che l’esercito israeliano aprirà un’indagine interna per “chiarire i fatti e presentarli in toto il prima possibile”.

Nel frattempo Itamar Ben-Gvir, un deputato israeliano di estrema destra noto per aver elogiato la violenza contro i palestinesi, ha giustificato l’omicidio di Abu Akleh.

“Quando a Jenin i terroristi sparano sui nostri soldati, loro devono rispondere al fuoco con la massima forza, anche se nella zona ci sono ‘giornalisti’ di Al Jazeera che spesso stanno deliberatamente in mezzo alla battaglia e disturbano i soldati”, ha twittato Ben-Gvir.

“Secondo quanto riferito, è finita nel fuoco dei terroristi”, ha anche affermato Ben-Gvir, “E comunque pieno appoggio agli eroici soldati dell’esercito israeliano”.

Gli Stati Uniti chiedono un’indagine

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Thomas Nides si è detto “molto triste nell’apprendere della morte della giornalista americana e palestinese” Abu Akleh.

“Incoraggio un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte e del ferimento di almeno un altro giornalista oggi a Jenin”, ha aggiunto Nides.

Il tono gentile contrasta con la reazione dei funzionari statunitensi quando a marzo in Ucraina è stato ucciso il regista americano Brent Renaud.

Sebbene le circostanze dell’omicidio di Renaud non fossero chiare, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price aveva immediatamente denunciato quello che definiva un “raccapricciante esempio delle azioni indiscriminate del Cremlino”.

A febbraio, il Dipartimento di Stato aveva chiesto a Israele di condurre una “approfondita indagine penale” dopo che il mese precedente i soldati israeliani avevano attaccato Omar Assad, un anziano palestinese americano, lasciandolo senza vita.

Alla richiesta degli Stati Uniti di indagare sull’omicidio di Assad ha fatto seguito una rapida indagine interna israeliana che si era conclusa con un lieve rimprovero ai tre soldati coinvolti.

Washington, che fornisce a Israele miliardi di dollari di armi ogni anno, non ha mai dato seguito alle sue richieste con sanzioni che sanciscano la responsabilità di Israele.

Sistema di insabbiamento

“Non credo che l’abbiamo uccisa noi”, ha detto Ran Kochav, portavoce dell’esercito israeliano, all’emittente pubblica Kan.

Abbiamo proposto ai palestinesi di aprire una rapida indagine congiunta. Se l’abbiamo davvero uccisa, ci assumeremo la responsabilità, ma non sembra sia così”.

Va detto che le indagini interne di Israele nascondono sistematicamente i crimini dei soldati dell’occupazione contro i palestinesi.

Nel 2016, B’Tselem ha annunciato che avrebbe smesso di collaborare alle indagini militari israeliane, che ha definito un “sistema di insabbiamento”.

L’autorevole associazione israeliana per i diritti umani ha aggiunto che 25 anni di denunce infruttuose a nome dei palestinesi “ci hanno portato alla consapevolezza che non ha più senso perseguire la giustizia e difendere i diritti umani lavorando con un sistema la cui vera funzione consiste nella capacità di continuare a coprire con successo atti illegali e proteggere i colpevoli”.

Continui attacchi ai giornalisti

Alla notizia della sua morte molti utenti dei social media hanno pianto l’omicidio di Abu Akleh come il mettere a tacere la “Voce della Palestina”.

Abu Akleh lavorava ad Al Jazeera dal 1997. I suoi reportage sono noti a decine di milioni di persone in tutto il mondo arabo. Era molto rispettata tra i colleghi palestinesi e internazionali.

Nonostante ora neghi la propria responsabilità, Israele ha una lunga storia di ferimenti e uccisioni di giornalisti e operatori dei media.

Le forze israeliane hanno attaccato i giornalisti che seguivano la Grande Marcia del Ritorno, le proteste di massa disarmate a Gaza iniziate nel 2018.

Due giornalisti, Yaser Murtaja e Ahmad Abu Hussein, sono stati uccisi e altre decine sono stati feriti.

Durante la campagna di bombardamenti su Gaza l’anno scorso, Israele ha deliberatamente preso di mira gli edifici che ospitavano quasi tutti gli uffici dei media locali e internazionali.

Israele, che si vanta dell’abilità della sua intelligence, ha in seguito assurdamente affermato di non avere idea che nell’edificio fossero ospitate le principali organizzazioni dei media mondiali.

Quasi un anno fa, gli aerei da guerra israeliani hanno raso al suolo un edificio che ospitava gli uffici dell’Associated Press e di Al Jazeera.

Israele ha affermato che l’edificio era in uso all’intelligence militare di Hamas, ma non ha mai offerto alcuna prova.

Un raid aereo israeliano ha ucciso anche il giornalista Yousif Abu Hussein, 32 anni, nel suo appartamento a Gaza City. Era un popolare giornalista della radio Voice of Al-Aqsa.

Reporter senza frontiere lo scorso maggio ha dichiarato di “condannare l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i giornalisti, che in nessun caso dovrebbero essere trattati come parti del conflitto armato”.

E il mese scorso la Corte penale internazionale ha ricevuto una denuncia per presunti crimini di guerra contro giornalisti commessi dalle forze di occupazione israeliane.

Per la Federazione internazionale dei giornalisti la denuncia riguarda l’aver preso ” sistematicamente di mira” quattro operatori dei media palestinesi “uccisi o mutilati dai cecchini israeliani mentre seguivano le manifestazioni a Gaza”,.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], appena uscito da Haymarket Books e di  One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un solo paese: una proposta coraggiosa per por fine all’impasse israelo-palestinese].

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)