Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Da Gaza al Congo: il sionismo e la storia dimenticata del genocidio

Ramzy Baroud

9 gennaio 2024 – Middle East Monitor

Migliaia di chilometri separano l’Uganda e il Congo dalla Striscia di Gaza, ma questi luoghi sono connessi alla Palestina in modi che le tradizionali analisi geopolitiche probabilmente non riuscirebbero a spiegare. Eppure il 3 gennaio è stato rivelato che il governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu sta attivamente discutendo proposte per espellere milioni di palestinesi verso Paesi africani in cambio di un prezzo definito.

Apparentemente la discussione sull’espulsione di milioni di palestinesi da Gaza è entrata nel pensiero mainstream israeliano il 7 ottobre, tuttavia il fatto che questo dibattito continui a oltre tre mesi dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza indica che le proposte israeliane non sono l’esito di uno specifico momento storico come l’Operazione Diluvio Al-Aqsa, per esempio.

Anche a una rapida disamina le testimonianze storiche israeliane puntano al fatto che l’espulsione di massa dei palestinesi, nota in Israele come “trasferimento”, era, e resta, una rilevante strategia sionista che mira a risolvere il cosiddetto “problema demografico” dello Stato di apartheid.

Molto prima che il 7 ottobre i combattenti delle Brigate Al-Qassam e altri movimenti palestinesi assaltassero la recinzione che separa l’assediata Gaza da Israele, i politici israeliani avevano discusso in varie occasioni come ridurre la popolazione palestinese complessiva per mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. L’idea non era solo limitata agli estremisti oggi al governo in Israele, ma era anche dibattuta da personaggi come l’ex ministro della difesa israeliana Avigdor Lieberman che, nel 2014, suggerì un progetto per un “piano di scambio della popolazione”.

Persino intellettuali e storici ritenuti progressisti hanno sostenuto questa idea, sia in teoria che in pratica. In un’intervista con il giornale israeliano progressista Haaretz nel gennaio 2004 uno dei più influenti storici israeliani, Benny Morris, si rammaricava che il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, non fosse riuscito ad espellere tutti i palestinesi durante la Nakba, il catastrofico evento di massacri e pulizia etnica che portò alla costruzione dello Stato di Israele sopra città e villaggi palestinesi.

Essi includono una memoria ufficiale pubblicata il 17 ottobre della think tank Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy e un rapporto diffuso tre giorni dopo dalla testata israeliana Calcalist, [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.] che riportava un documento che proponeva la stessa strategia.

Che Egitto, Giordania e altri Paesi arabi abbiano apertamente e immediatamente dichiarato la loro totale opposizione all’espulsione dei palestinesi è un’indicazione del grado di serierà di queste proposte ufficiali israeliane.

Il nostro problema è [trovare] un Paese che voglia accogliere i gazawi,” ha detto il 2 gennaio Netanyahu, “e noi ci stiamo lavorando.” I suoi commenti non sono i soli. Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha detto che “la cosa da fare nella Striscia di Gaza è incoraggiare l’emigrazione.”

È stato allora che il dibattito ufficiale israeliano ha adottato il termine “migrazione volontaria”. Non c’è niente di “volontario” in 2.2 milioni di palestinesi ridotti alla fame che devono affrontare il genocidio mentre vengono spinti sistematicamente verso la zona di confine fra Gaza ed Egitto.

Nella causa presentata alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il governo del Sudafrica ha incluso la pulizia etnica di Gaza pianificata da Tel Aviv come uno degli argomenti principali elencati da Pretoria, che accusa Israele di genocidio.

A causa del mancato entusiasmo da parte dei Paesi occidentali filoisraeliani, i diplomatici israeliani stanno facendo il giro del mondo alla ricerca di governi che vogliano accettare palestinesi vittime di pulizia etnica. Immaginate se questo comportamento provenisse da un qualsiasi altro Paese, un Paese che ammazza civili, minori, donne e uomini e poi fa shopping per trovare altri Stati che accettino i sopravvissuti in cambio di denaro.

Israele non solo si fa beffe del diritto internazionale, ma ha anche raggiunto un livello ancora più basso nel comportamento spregevole di qualunque altro Stato, ovunque nel mondo, in qualsiasi momento della storia, antica o moderna. Nonostante ciò il mondo continua a rimanere a guardare, sostenere, come nel caso degli USA e del Regno Unito, o a protestare timidamente o energicamente, ma senza fare neanche un passo significativo per fermare il bagno di sangue a Gaza, o per bloccare la possibilità di scenari veramente terrificanti che potrebbero seguire se la guerra non finisce, e presto.

Tuttavia c’è una cosa che molti forse non sanno: il movimento sionista, l’istituzione ideologica che fondò Israele, prese in considerazione il suggerimento di spostare gli ebrei del mondo in Africa e stabilire là il loro Stato, prima di scegliere la Palestina quale “focolare ebraico”. Il cosiddetto “Schema Uganda” del 1903 fu formulato da Theodor Herzl, il giornalista ateo che fondò il sionismo politico, al sesto congresso sionista. Era basato su una proposta avanza da Joseph Chamberlain, ministro britannico per le Colonie. Alla fine il progetto venne abbandonato, ma i sionisti prima continuarono a cercare altri posti, per poi decidere per la Palestina e stabilirsi là, sfortunatamente per i palestinesi.

Se paragoniamo il linguaggio genocidiario dei leader israeliani di oggi e studiamo i loro punti di riferimento razzisti riguardo ai palestinesi, possiamo vedere una significativa coincidenza con il modo in cui le comunità ebraiche sono state percepite dagli europei per centinaia di anni. L’improvviso interesse sionista per il Congo come “patria” potenziale per i palestinesi illustra ulteriormente il fatto che il movimento sionista continua a vivere all’ombra della sua storia, proiettando il razzismo europeo contro gli ebrei attraverso il razzismo di Israele contro i palestinesi.

Il 5 gennaio Amihai Eliyahu ministro israeliano per il Patrimonio [di Gerusalemme], ha suggerito che gli israeliani “devono trovare delle soluzioni per i gazawi che siano più dolorose della morte.” Non dobbiamo affannarci per trovare un simile linguaggio usato dai nazisti tedeschi contro gli ebrei nella prima metà del Ventesimo Secolo. Se la storia si ripete, lo fa in modo grottesco e crudele.

Ci è stato detto che il mondo ha imparato dalle uccisioni di massa delle guerre precedenti, incluso l’Olocausto e altre atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Eppure sembra che le lezioni siano state ampiamente dimenticate. Non solo Israele sta ora assumendo il ruolo di assassino di massa, ma anche il mondo occidentale continua a giocare il ruolo assegnatogli in questa storica tragedia. I leader occidentali o applaudono Israele, o protestano garbatamente, o non fanno assolutamente nulla.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Golda: maldestro tentativo di promuovere la propaganda israeliana

Nada Elia

30 agosto 2023 – Middle East Eye

Il film è permeato dalla narrazione sionista, mentre ignora verità fondamentali sulla guerra arabo-israeliana del 1973

Avevo scarse aspettative per Golda, il film sull’ex prima ministra israeliana che nel 1973 ottenne la vittoria del proprio Paese contro gli eserciti egiziani e siriani. 

L’Hollywood Reporter ha descritto il film come un biopic che presenta l’unica donna capo di stato di Israele come “una leader militare sorprendentemente efficace” e una scaltra diplomatica. Ovviamente il regista Guy Nattiv non voleva mostrarci molto del lato “umano” dietro la leggenda, o solo aspetti che potrebbero renderla ancor più leggendaria. Ma con un interesse potenzialmente rinnovato in questo personaggio storico forse questo potrebbe essere un ottimo momento per separare il mito dalla realtà. 

Il mito: negli Stati Uniti Golda Meir è un’icona femminista. Era il quarto primo ministro di Israele dal 1969 al 1974 quando, in un sondaggio Gallup, fu votata “la donna più ammirata” negli USA, davanti all’allora first lady Betty Ford, con Pat Nixon, moglie dell’ex presidente Richard Nixon, al terzo posto. 

La leader israeliana era bianca, appartenente alla seconda ondata [migratoria], ragazza copertina del femminismo sionista progressista americano, il cui ritratto con la didascalia “Ma sa scrivere a macchina?” era comparso sui manifesti di una campagna pubblicitaria che criticava gli stereotipi di genere sul posto di lavoro. 

Naturalmente è detestata dai palestinesi come la donna che, fra numerose altre affermazioni offensive, ha detto che “i palestinesi non esistono” e insinuato che gli arabi odino gli ebrei più di quanto non amino i propri figli. 

 Non molti di quelli a cui piacerebbe riproporre la negazione della nostra esistenza fatta dalla Meir sono effettivamente al corrente del più ampio contesto di quella affermazione, di quanto sia profondamente radicata nella visione del mondo eurocentrica ed imperiale che un popolo non costituisca di diritto una nazione in mancanza degli orpelli del moderno Stato-Nazione europeo. 

Quindi Meir non stava negando che noi esistessimo come esseri umani, ma piuttosto che avessimo diritti in quanto palestinesi perché la Palestina, la nazione storica, non era uno Stato indipendente riconosciuto secondo i criteri europei. 

Quando mai c’è stato un popolo indipendente palestinese con uno Stato palestinese?” ha detto. “Era Siria meridionale prima della Prima Guerra Mondiale e poi una Palestina che includeva la Giordania. Non è che ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considerava un popolo palestinese e noi siamo arrivati e li abbiamo buttati fuori e tolto loro il Paese. Non esistevano.” 

Mentalità coloniale

Ovviamente questa è la stessa mentalità con cui si sono privati i popoli autoctoni dell’isola di Turtle [nel lago Erie, tra Michigan e Ohio, ndt.] del loro diritto alla sovranità, perché non avevano confini arbitrari e un sistema politico riconosciuto dai conquistatori europei. Il sionismo si basa su questa mentalità coloniale reiterata ufficialmente quest’anno dal ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich, che ha anche detto che la storia palestinese e la nazione palestinese non esistono.

Basta dare un’occhiata ai documenti dell’epoca a cui Meir fa riferimento per dimostrare che si sbaglia: la rivista Falastin fu fondata agli inizi del 1900 e la valuta dell’epoca reca la scritta “Palestina”, non “Siria meridionale”.

Gli israeliani sembrano più equilibrati a proposito di questa donna controversa. L’enciclopedia delle donne ebree Shalvi/Hyman scrive: “Era, come si dice oggi, un’‘ape regina,’ una donna che, arrivata in vetta, ha tolto la scala. Non ha esercitato le prerogative del potere per risolvere i problemi specifici delle donne, per promuovere altre donne o per far progredire lo status delle donne nella sfera pubblica. Il fatto è che, alla fine del suo mandato, le sue sorelle israeliane non stavano meglio di prima che si insediasse.” 

Le prime recensioni di Golda non sono state entusiastiche. Bad Movie Reviews, un canale YouTube dedicato alla recensione di brutti film, l’ha descritto come parole come “noioso”, “piatto” e “unidimensionale”.

Secondo il Washington Post il film “è superficiale”. Infatti non ci è mai detto il motivo per cui l’Egitto e la Siria hanno attaccato Israele il 6 ottobre 1973. Era per riottenere la penisola del Sinai e le alture del Golan, entrambe occupate illegalmente da Israele dal 1967. 

Invece sentiamo Meir mettere in guardia dalla minaccia per Israele “se i siriani conquistano le alture di Golan”. Ma un esercito che si riprende una terra occupata illegalmente non sta “conquistando” quella terra, la sta liberando. 

Invenzioni offensive

Meir è interpretata da Helen Mirren, il cui talento va “perso in una nuvola di fumo”, secondo una recensione pubblicata dal Detroit News, che definisce i film “irritante” e “maldestro”. Inoltre il focus è sull’ “autodifesa” di Israele, un presunto “diritto” più volte ricordato dai nostri politici quando in realtà nessun Paese ha il “diritto” di difendere un’occupazione illegale, anzi ha l’obbligo giuridico di porvi fine.

Persino il Los Angeles Times, una testata decisamente filo-sionista, ha definito la pellicola “scialba”, pur lodando l’interpretazione di Mirren, “la migliore e forse la sola cosa interessante”. Stranamente il quotidiano osserva che, mentre Bradley Cooper ha suscitato controversie perché indossava una protesi sul naso per interpretare un altro famoso ebreo, Leonard Bernstein, il dibattito se ‘solo ebrei dovrebbero interpretare ebrei?’ qui non c’è stato”, anche se Mirren indossa un naso finto (e abiti imbottiti) per interpretare il personaggio sullo schermo.

Ovviamente questi recensori, come me, non si sono fatti influenzare dal battage pubblicitario del film. Cosa Golda dovesse trasmettere noi non l’abbiamo capito

E va bene così. La mia preoccupazione era che il film avrebbe avuto un gran successo, tale da migliorare l’immagine di Israele con la sua hasbara sionista [propaganda per diffondere all’estero informazioni positive su Israele e le sue azioni, ndt.] in un momento in cui il Paese ne ha un bisogno disperato. E la narrazione sionista certamente permea tutto il film: “Questo è di nuovo come nel 1948,” dice Meir, come se nel 1948 fosse stato Israele, non la Palestina, ad essere stato attaccato. 

Meir sostiene anche che gli “arabi” (riferendosi a egiziani e siriani, i palestinesi non sono citati neppure una volta nel film) non piangono i propri morti, mentre la morte di ogni soldato ebreo morto in battaglia grava pesantemente sulla sua anima. Altre simili invenzioni sioniste offensive costellano il film.

Ma l’effetto complessivo del film è proprio il contrario. Vediamo un Paese intenzionato ad attivare la sua potenza nucleare per tenersi illegalmente terra occupata e politici manipolatori disposti a estorcere armi agli USA anche quando il Paese sembra riluttante a offrirglieli senza condizioni. Questa non è proprio la leader eroica, straordinaria ed etica con cui il regista e i produttori sicuramente volevano far colpo su di noi. 

In conclusione, anche se Golda avrebbe dovuto tenere a galla la propaganda israeliana, in realtà l’ha affondata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)




Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, si tratta di supremazia liberale sionista

Sai Englert

28 marzo 2023 – Middle East Eye

Israele è uno Stato di apartheid basato sull’espropriazione palestinese, con metà delle persone che vivono sotto il suo dominio diretto private del diritto al voto. Altro che preziosa democrazia liberale dei manifestanti

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in piazza, i blocchi ripetuti delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi per il servizio militare e un insieme di azioni di sciopero e di serrate da parte dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – nel momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno in parte alle istanze del movimento di protesta sociale.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che era in procinto di rinviare la controversa riforma dei tribunali nazionali da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, per volontà di prevenire una spaccatura tra la nostra gente, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato al parlamento.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa degli appelli di quest’ultimo per la sospensione della riforma giudiziaria del governo, Netanyahu ha mostrato di aver perso il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut – la più grande federazione sindacale israeliana e pilastro storico del movimento coloniale sionista – hanno annunciato congiuntamente che avrebbero bloccato l’economia. Centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, così come l’unico aeroporto di Israele, sono stati chiusi, insieme ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto primo ministro a capo di una coalizione di destra, che andava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi all’organizzazione della destra più radicale dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti coloniali a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso un ulteriore giro di vite nei confronti dei palestinesi: violenze, furti e omicidi, ma all’ennesima potenza, da parte della colonizzazione israeliana.

Allo stesso tempo, la coalizione ha messo al centro della sua argomentazione l’idea che la sinistra israeliana avesse controllato per troppo tempo le leve del potere dello Stato e il proposito di porre fine a tutto ciò il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte israeliana e la porrebbe sotto il controllo del parlamento, cioè della coalizione di governo.

Assalto a tutto campo alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici sarebbe di competenza parlamentare, mentre le decisioni prese dalla Corte potrebbero essere ribaltate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un assalto a tutto campo alla democrazia israeliana e inaugurerebbe la fine di un tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Gettando benzina sul fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite – anche da commentatori di destra e da sostenitori del governo – come palesemente auto-centrate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici e dalla revoca del divieto di prestare servizio nel governo per i politici condannati, alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare registrazioni di [discorsi] di politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stato il disegno di legge approvato con successo la scorsa settimana che rende così difficile l’impeachment di un primo ministro in carica da concedere a Netanyahu l’immunità di fatto, proteggendolo dai potenziali esiti del suo processo per corruzione in corso.

Lo scenario era perfetto per uno scontro frontale nella società israeliana tra i campi pro e contro Netanyahu.

In effetti, i fronti pro e contro Netanyahu – o pro e anti-coalizione – costituiscono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono del tutto le divisioni politiche in Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come accennato in precedenza, i principali protagonisti dell’opposizione alle riforme del governo sono state le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari, considerati in Israele “d’élite”, cioè veterani.

Un ruolo centrale lo hanno avuto i piloti di caccia – gli stessi piloti che hanno acquisito una fama mondiale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono così ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento, ha costruito la sua carriera politica sulla scia del massacro di Gaza del 2014, che ha gestito come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “per decenni, io vi ho protetto. E mentre io vi proteggevo il tribunale proteggeva me”.

Nessuna di queste componenti può essere considerata di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito laburista, sono state storicamente gli artefici chiave dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, nel pieno dei dibattiti in corso, che è stato il movimento operaio israeliano – attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutz (fattorie collettive), le sue milizie e il suo partito politico – a battersi per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro, e ha imposto un regime militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966 e ai palestinesi nei Territori occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori che hanno espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, raso al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e impedito a qualsiasi rifugiato di tornare successivamente alle proprie case, in diretta violazione del diritto internazionale. Ancora una volta è difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, figuriamoci come paladine della democrazia.

Questa tensione è stata resa ben chiara dal recente clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha affermato: Non esiste una nazione palestinese. Non c’è una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono in Cisgiordania e il primo politico civile (e non funzionario militare) ad essere stato incaricato del controllo illegale israeliano sui territori palestinesi occupati.

Le sue dichiarazioni hanno generato un orrore diffuso – come dovrebbero – per la loro palese negazione razzista anche del fatto più basilare dell’esistenza dei palestinesi. Anche gli Stati del Golfo, normalmente così felici di collaborare con Israele, hanno ritenuto necessario chiedere l’intervento degli Stati Uniti.

Democrazia – per chi?

Tuttavia, i sentimenti espressi da Smotrich non sono né nuovi né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico per la colonizzazione in corso della Palestina da parte di Israele. Come diceva il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. L’episodio più famoso è quello in cui Golda Meir – una fedele sostenitrice dell’Histadrut e del partito laburista, che è stata la prima e unica primo ministro donna di Israele – dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Perciò riguardo a tutte le accuse nei confronti della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici di base è importante perché ci permette di dare un senso alla composizione – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte della copertura internazionale riguardo alle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi – ad esempio sul consenso alla legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte – queste stesse questioni sono state praticamente assenti sia nella protesta che nel dibattito pubblico.

Invece i manifestanti si sono drappeggiati con le bandiere israeliane e si sono presentati come difensori dello Stato e delle sue istituzioni contro intrusi illegittimi – le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid israeliano contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi dello Stato che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nelle proteste, si sono trovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. È stata costretta a presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi le hanno chiesto di modificarlo.

Hazzan aveva pianificato di dire ai manifestanti che esiste un collegamento diretto tra il ritiro delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare pluridecennale in corso e la discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti, ndt.]. Di questo, a quanto pare, la lotta del movimento per la “democrazia” non si occupa.

“Supremazia ebraica”

Hazzan non è sola. E’ talmente eclatante l’esclusione sistematica dei palestinesi, e così totale è il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo governo, o come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare che il Tajammu (Balad), che un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele ha rilasciato una dichiarazione che afferma:

Il mancato riconoscimento della stretta connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della Linea Verde e il colpo di stato giudiziario ci fanno capire che non è per una vera democrazia e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione dell’equazione ebraico e democratico”, che si concentra su una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Pretendere che il popolo arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato, è anche indice di sfrontatezza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più eclatante dal momento che l’elezione del governo Netanyahu è stata interpretata – giustamente – dal settore militare e dei coloni come un’indicazione che essi hanno completa libertà d’azione in Cisgiordania. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi oltre 80 palestinesi con attacchi militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuto appoggio del governo ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara, dove centinaia di coloni hanno imperversato per ore, attaccando gli abitanti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dei militari. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che lo Stato di Israele dovrebbe farlo”.

È a dir poco inquietante che in un tale contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri rifiutandosi persino di ascoltare le vittime del regime “liberal democratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su una terra rubata e la continua esclusione dei palestinesi, che sancisce il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei riconosce.

Le organizzazioni sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo confermano ripetutamente, e lo confermano ulteriormente i rapporti di forza che ripropongono al suo interno. Sarebbe lecito chiedersi se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso la sua Alta Corte sia migliore, o più democratica, nel vero senso della parola, di una che lo fa attraverso il suo parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come di una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano ad espandere gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle Alture del Golan e mantengono oltre 65 leggi che prendono di mira specificamente i palestinesi di entrambe le parti della Linea Verde?

Ha senso discutere di democrazia liberale a proposito di uno Stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di suoi futuri cittadini ma continua a rifiutare a loro e ai loro discendenti il diritto al ritorno? Che tipo di democrazia – liberale o meno – si basa sulla negazione del fondamentale diritto di voto a più o meno la metà della popolazione – circa sei milioni di persone – che vive sotto il suo dominio diretto?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese e messe in pratica sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esserci democrazia sotto una supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. Un dominio coloniale richiede il solido dominio di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. O potrebbe resistere alla tempesta.

In ogni caso, la democrazia non emergerà vittoriosa tra il fiume e il mare [Il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ndt.].

Sarebbe necessario sfidare le idee più basilari del sionismo per raggiungere un tale risultato: che uno Stato democratico debba essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa battaglia non viene condotta nelle strade attorno alla Knesset [parlamento israeliano, ndt.] né portata avanti da sindacati, soldati e datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende da sempre dal soddisfacimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È l’autore di Settler Colonialism: an Introduction [Colonialismo da insediamento: un’introduzione]. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. È impegnato anche sul colonialismo di insediamento, sulla trasformazione del lavoro e sull’antisemitismo. È membro del comitato editoriale sia della rivista Historical Materialism [Materialismo Storico, ndt.] che di Notes from Below [Note a piè di pagina, ndt.].

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Inventare il nuovo antisemitismo

Em Hilton

16 gennaio 2023+972 magazine

Israele ei suoi sostenitori hanno a lungo promosso l’agenda secondo cui l’antisionismo è una forma di razzismo antiebraico. Un nuovo libro mostra come questo sforzo sia avvenuto a spese sia dei palestinesi che degli ebrei della diaspora.

Whatever Happened to Antisemitism?: Redefinition and the Myth of the ‘Collective Jew,’” by Antony Lerman, Pluto Press, June 2022, pp. 336.

Antony Lerman, “Cosa accidenti è successo alll’antisemitismo? Ridefinizione e mito dell’ebreo collettivo’”, Pluto Press, giugno 2022, pp. 336.

Stiamo vivendo un momento particolarmente preoccupante nella lotta globale contro l’antisemitismo. In mezzo al risorgente autoritarismo di destra, le teorie antisemite del complotto vengono poste alla base delle campagne elettorali in tutto il mondo; gli attacchi violenti agli ebrei in Europa  sembrano in aumento e vanno di pari passo con gli attacchi ad altre minoranze; negli Stati Uniti i politici nazionalisti bianchi continuano a gettare la maschera, mentre personaggi pubblici con numeri enormi di follower professano il loro sostegno al nazismo.

Eppure nel frattempo la comprensione pubblica di ciò che costituisce antisemitismo è più confusa che mai. Le accuse di antisemitismo vengono regolarmente lanciate – molto spesso da Israele stesso – per mettere a tacere chi critica Israele  e per attaccare qualsiasi forma di difesa della Palestina come se fosse motivata esclusivamente dal razzismo antiebraico. Nel Regno Unito questa politicizzazione della questione dell’antisemitismo, che si esprime in gran parte come una battaglia di definizioni, ha ridotto a una partita di calcio politica e a stucchevoli politiche sull’identità la un tempo intellettualmente rigorosa ricerca per comprendere come si manifesti l’antisemitismo.

È in questo contesto che dobbiamo esaminare il nuovo libro dello scrittore britannico Antony Lerman, “Whatever Happened to Antisemitism?”. Offrendo un’esplorazione storica e analitica dei tentativi di ridefinire l’antisemitismo nel contesto moderno, il libro si concentra in particolare sullo sviluppo negli ultimi decenni del concetto di “nuovo antisemitismo” – un approccio politicizzato che mira a fondere le critiche a Israele e al sionismo con precedenti interpretazioni dell’antisemitismo che cercavano di fare una distinzione tra i due.

Il saggio di Lerman è completo e ben documentato. Il libro inizia con un riepilogo dei principali eventi relativi all’imbroglio dell’antisemitismo nel Partito Laburista durante tutto il periodo in cui Jeremy Corbyn ne fu il leader (2015-20): la confusione sulle definizioni di antisemitismo e l’uso e l’abuso della nozione di stereotipi antisemiti. Mentre i lettori potrebbero essere riluttanti a immergersi ancora una volta nei vari attacchi [all’interno del Labour, ndt.] di quella stagione politica – dall’evento di lancio del Rapporto Chakrabarti sull’antisemitismo, che l’ex deputata laburista ebrea Ruth Smeeth lasciò in lacrime, al commento di Corbyn, secondo cui i sionisti britannici  “non capiscono l’ironia inglese” –, il libro mostra l’acume dell’analisi di Lerman nel collocare quella che è nota come la “crisi dell’antisemitismo laburista” all’interno della più ampia strategia internazionale della destra per ridefinire l’antisemitismo in funzione della propria agenda politica piuttosto che lanciarsi in una nuova controversia autonoma su un terreno già battuto.

Il libro quindi passa a una rivisitazione storica della costruzione del “nuovo antisemitismo” da parte delle organizzazioni sioniste e dei successivi governi israeliani. Ciò è avvenuto in gran parte come risposta al cambiamento del clima politico seguito all’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, e in particolare all’ormai famosa risoluzione 3379 delle Nazioni Unite, approvata nel novembre 1975 e poi revocata, che dichiara che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Come sostiene Lerman, la mossa simboleggiava una crescente ostilità verso Israele sulla scena internazionale, che costrinse il governo israeliano e gli accademici sionisti a elaborare una nuova strategia per puntellare la legittimità dello Stato.

La loro soluzione fu cercare di dimostrare come la critica a Israele sia, di fatto, un attacco al popolo ebraico in tutto il mondo, sostenendo che lo Stato [di Israele] rappresenta “l’ebreo collettivo” nella famiglia delle Nazioni. I fautori di questo “nuovo antisemitismo”, spiega Lerman, hanno suggerito che [secondo gli oppositori di Israele, ndt] “il diritto di stabilire e conservare uno Stato sovrano e indipendente è prerogativa di tutte le Nazioni, tranne che di quella ebraica”.

Lerman si affretta a sottolineare che l’intervento di Israele nei tentativi precedentemente condotti da organizzazioni ebraiche di tutto il mondo per affrontare l’antisemitismo nei propri Paesi non ha tenuto molto conto della sicurezza degli ebrei che vi vivono; l’esempio di Israele che vende armi alla giunta militare argentina che ha fatto sparire 20.000 dissidenti politici – 2.000 dei quali ebrei – tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 chiarisce bene questo punto.

Sancire che la critica a Israele è antisemitismo

In questo contesto Lerman esamina lo sviluppo della miriade di organizzazioni, istituzioni e organizzazioni no-profit dedicate all’identificazione e alla risposta all’antisemitismo contemporaneo che hanno adottato la premessa del “nuovo antisemitismo” e l’hanno incorporata nella loro difesa [degli ebrei, ndt.] e nei loro sforzi educativi. Questi organismi, sostiene, hanno compiuto un notevole sforzo, spesso in collaborazione con il governo israeliano o istituzioni affiliate, per ridefinire il modo in cui il fanatismo antiebraico è inteso a livello politico e socioculturale, lavorando per sancire fermamente che la critica a Israele o al sionismo è la versione moderna di un odio classico.

Questo era e continua ad essere chiaramente un progetto internazionale: gruppi come l’Anti-Defamation League e l’American Jewish Committee negli Stati Uniti, il World Jewish Congress (precedentemente con sede a Ginevra, ora a New York) e il Community Security Trust nel Regno Unito hanno convogliato e sviluppato risorse e analisi dell’antisemitismo che hanno spinto per il riconoscimento del “nuovo antisemitismo”. Altre organizzazioni, come il Britain Israel Communications and Research Center e il Canadian Institute for the Study of Antisemitism, sono state istituite sulla scia della Seconda Intifada e, secondo Lerman, si sono “concentrate su ‘nuovo antisemitismo’ e ‘antisionismo antisemitico.'”

Sebbene sia importante comprendere la natura interconnessa di questi problemi, Lerman entra nel merito con una quantità estremamente densa di informazioni sulle discussioni tra i vari gruppi ebraici storici, il che rischia di enfatizzare eccessivamente la rilevanza di dibattiti che potrebbero non aver avuto un impatto oltre la ristretta cerchia della politica o del discorso intracomunitario. Si potrebbe anche sostenere che a volte Lerman insiste troppo sull’idea che le organizzazioni ebraiche britanniche abbiano scarso interesse per il benessere e la sicurezza delle comunità che servono, e siano puramente motivate dal loro rapporto con Israele. È forse più giusto suggerire che il loro desiderio di sostenere Israele e il sionismo come pilastro cruciale dell’identità ebraico-britannica abbia avuto la priorità rispetto alle minacce materiali contro le comunità che vivono nel Regno Unito.

Tuttavia il livello di approfondimento di questa sezione del libro mette in evidenza gli ampi sforzi delle istituzioni accademiche israeliane e delle istituzioni governative – come il Ministero degli Affari Strategici, recentemente rimesso in funzione, responsabile della campagna internazionale di Israele contro il movimento BDS – per distogliere l’attenzione dall’ antisemitismo che colpisce principalmente le comunità ebraiche al di fuori di Israele e concentrarsi sul presunto pericolo che la delegittimazione di Israele rappresenterebbe per l’ebraismo globale. Lerman non sottovaluta l’impatto di questo sforzo e le considerevoli risorse che Israele vi ha riversato: non solo ha generato confusione nell’opinione pubblica su cosa sia l’antisemitismo, ma è anche servito a restringere la discussione pubblica su come comprenderlo e, cosa più importante, su come affrontarlo quando si presenta.

E’ inquietante l’ipotesi che la lotta contro l’antisemitismo dalla fine del XX secolo fosse invischiata con e subordinata agli interessi del sionismo in modo tale che le interpretazioni contrastanti dell’antisemitismo contrapponessero la sicurezza e il benessere degli ebrei in tutto il mondo alla forza di uno Stato-Nazione. Ma, come mostra Lerman, queste sono le inevitabili conseguenze della politicizzazione della lotta all’antisemitismo.

Abbiamo visto questa competizione manifestarsi in modo più netto dall’inizio del nuovo secolo: dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che afferma abitualmente di parlare a nome di tutto il popolo ebraico mentre si allinea con alcuni dei leader più antisemiti del mondo; all’ex primo ministro Naftali Bennett, che sfrutta l’orribile sparatoria nella sinagoga di Pittsburgh per giustificare l’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza; a Yair Lapid, che critica come antisemita il rapporto, sostenuto da prove inequivocabili, di Amnesty International sull’apartheid israeliano. Interventi come questi da parte dei leader israeliani hanno ulteriormente alimentato la confusione e lo scetticismo sull’antisemitismo come fenomeno reale, distogliendo l’attenzione e le risorse dall’effettivo antisemitismo che si manifesta ovunque. Lerman mostra come, anteponendo gli interessi del suo progetto nazionale agli interessi degli ebrei di tutto il mondo,  i tentativi di Israele di ridefinire l’antisemitismo per adattarlo ai suoi obiettivi politici stiano attivamente rendendo gli ebrei meno sicuri.

IHRA: Il nuovo gold standard sull’antisemitismo

Negli ultimi anni la guerra sulle definizioni di antisemitismo ha portato questo tema al centro del dibattito pubblico. Lo sviluppo della definizione operativa dell’Osservatorio dell’Unione europea sul razzismo e la xenofobia nei primi anni 2000, che in seguito si è trasformata nella definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA), è stato un tentativo di generare una definizione unificante di antisemitismo, ma così facendo ha incluso varie critiche a Israele come esempi di tale sentimento antiebraico.

La definizione dell’IHRA è stata propagandata come il gold standard sull’antisemitismo, consentendo ai suoi sostenitori di screditare e respingere qualsiasi comprensione alternativa di come funziona l’antisemitismo. Il successo del sostegno all’IHRA è evidente nel contesto britannico: quasi tutti i principali partiti politici del Regno Unito l’hanno adottata, insieme a numerosi istituti di istruzione superiore e persino organizzazioni sportive come la Football Association. Eppure la definizione dell’IHRA è stata assente dalle risposte a incidenti antisemiti di alto profilo nella vita pubblica del Regno Unito, come il licenziamento dell’ex accademico dell’Università di Bristol David Miller [sociologo cacciato per aver sostenuto che Israele cerca di imporre la propria volontà al resto del mondo, ndt.]. Con questo in mente Lerman vuole che comprendiamo non solo l’inutilità del tentativo di creare una definizione universalmente accettata di antisemitismo, ma anche che i tentativi dei sostenitori dell’IHRA di espandere la comprensione del razzismo antiebraico per includervi le critiche a Israele o al sionismo in realtà rende gli ebrei più vulnerabili.

Negli ultimi due anni gruppi di studiosi hanno tentato di combattere l’influenza dell’IHRA producendo definizioni alternative di antisemitismo, tra cui la Definizione Nexus e la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (JDA), che non vedono l’antisionismo come necessariamente equivalente all’antisemitismo. Per Lerman, tuttavia, queste non sono riuscite a rappresentare una “sfida decisiva” all’IHRA, proprio perché tali iniziative sono viste come un tentativo politico piuttosto che accademico.

In questo contesto, Lerman descrive come parti dell’accademia che si dedicano allo studio degli ebrei, dell’antisemitismo e del razzismo siano state a volte reclute volontarie nella battaglia per difendere il sionismo e proteggere Israele dalle critiche. “Non esento lo studio accademico dell’antisemitismo contemporaneo dall’essere afflitto e dal contribuire allo stato di confusione intorno alla comprensione dell’antisemitismo… e dal ridurre tutte le critiche a Israele all’antisionismo antisemita”, scrive. L’impatto di questo sviluppo è stato duplice.

In primo luogo, è sempre più ovvio, in particolare nel contesto britannico, come il manto della ricerca accademica sia utilizzato per legittimare le motivazioni politiche alla base della definizione dell’IHRA. In effetti, gli sviluppi successivi alla pubblicazione di “Whatever Happened” hanno ulteriormente esemplificato le intenzioni di coloro che insistono, attraverso studi accademici, sul fatto che l’antisionismo è antisemitismo.

L’istituzione, alla fine del 2022, del London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism (LCSCA) illustra il punto di vista di Lerman. Sul suo sito web la LCSCA dichiara sua missione “sfidare le basi intellettuali dell’antisemitismo nella vita pubblica e affrontare l’ambiente ostile per gli ebrei nelle università”. Tuttavia uno sguardo più attento rivela ciò che sta alla base di questa missione, poiché l’organizzazione definisce esplicitamente l’antisionismo come “un’ideologia antiebraica”. Oltre a fornire credenziali accademiche per il perseguimento della ridefinizione dell’antisemitismo per includervi la critica a Israele, iniziative come queste promuovono anche l’idea che l’antisemitismo sia un’ideologia radicata nella politica di sinistra (molti degli oratori invitati all’evento di lancio dell’LCSCA, che è stato rinviato in seguito alla morte della regina Elisabetta II, erano accaniti critici del partito laburista di Corbyn).

Questi sforzi ad ampio raggio per politicizzare la lotta all’antisemitismo nel discorso pubblico britannico hanno avuto conseguenze significative. Lerman si concentra sul trattamento degli ebrei di sinistra nel partito laburista – alcuni dei quali sono stati espulsi per il loro sostegno a figure laburiste accusate di antisemitismo – da quando Keir Starmer ha sostituito Corbyn, e li cita come i principali obiettivi di questa strategia nel Regno Unito. Ma questi sforzi vanno oltre le fazioni del Labour. Stimati studiosi dell’antisemitismo che non aderiscono alla politica del “nuovo antisemitismo”, come il professor David Feldman, direttore del Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism di Londra, sono stati ampiamente attaccati dall’establishment ebraico-britannico per aver criticato la definizione dell’IHRA e la strategia che la guida e sottolineato come pregiudichi la nostra comprensione e capacità di affrontare l’antisemitismo. (Feldman è uno dei firmatari della JDA.)

Allo stesso modo, i sostenitori della definizione dell’IHRA hanno preso di mira gli accademici il cui lavoro riguarda la Palestina, tentando di restringere ulteriormente i parametri del legittimo discorso accademico. Alla fine del 2021, Somdeep Sen, autore di diversi libri sulla politica palestinese, si è ritirato da un seminario all’Università di Glasgow dato che gli era stato ordinato di divulgare in anticipo il materiale delle sue lezioni ed era stato ammonito di non violare le leggi nazionali antiterrorismo dopo che l’Associazione Ebraica dell’università aveva espresso preoccupazione per il suo invito. E l’anno scorso, l’accademica palestinese residente nel Regno Unito Shahd Abusalama è stata sospesa dalla sua posizione di docente presso la Sheffield Hallam University dopo che sono emersi post sui social media in cui difendeva uno studente che aveva fatto un cartello con scritto “Ferma l’Olocausto palestinese” – il che, secondo il suo datore di lavoro, violava l’IHRA.

Come attesta Lerman, questa repressione dei discorsi critici nei confronti di Israele nel mondo accademico sono possibili grazie all’ambiguità della definizione dell’IHRA sull’identificazione dell’antisemitismo, che alla fine crea un effetto intimidatorio. In effetti l’ambiguità è il punto che fa leva sul desiderio delle persone più ragionevoli di non essere percepite come antisemite. Questa indeterminatezza è ciò che rende la definizione dell’IHRA così efficace non solo nel generare confusione su cosa sia l’antisemitismo, ma anche nel deviare il discorso dal danno che Israele perpetra quotidianamente contro i palestinesi. La decisione del Tower Hamlets Council [consiglio distrettuale di quartiere, ndt.] di Londra di cancellare “The Great Bike Ride for Palestine” nel 2019 per paura di essere considerato antisemita ne è un esempio.

Il secondo impatto che Lerman identifica sottolinea ulteriormente come la politicizzazione della lotta all’antisemitismo diminuisca e cancelli le esperienze vissute di molti ebrei, compresi quelli che hanno effettivamente sperimentato l’antisemitismo. Espandere la definizione di ciò che costituisce l’antisemitismo rischia di indebolirla, rendendo in ultima analisi inutili questi tentativi. Citando il filosofo ebreo britannico Brian Klug, Lerman sostiene: “Se tutto è antisemitismo, allora niente è antisemitismo”.

Lerman dà il meglio di sé nel capitolo sul mito dell'”ebreo collettivo”, che analizza come il tentativo di ritrarre Israele come l’ebreo nella famiglia delle Nazioni abbia alla fine minato la lotta per smantellare l’attuale antisemitismo. Sostiene che questa distorsione dell’antisemitismo per consentire a Israele di agire impunemente è avvenuta non solo (e in modo più pertinente) a scapito dei diritti umani e delle libertà dei palestinesi, ma anche  della sicurezza e del benessere del popolo ebraico in tutto il mondo.

Le affermazioni di Lerman sono viscerali e piuttosto caustiche. Dissezionare questo processo alla fine mette a nudo l’assurdità quasi comica dell’attuale clima politico, e come la cinica strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte di Israele e della sua industria dell’hasbara [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] significhi che la sicurezza ebraica è passata in secondo piano rispetto al desiderio di affermare un progetto di supremazia etnica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Forse il punto più prezioso di questo libro per gli attivisti progressisti è lo studio di come il nazionalismo ci renda tutti meno sicuri, sostenendo con vigore l’importanza di proteggere i valori universali e di incrementare la solidarietà collettiva di fronte all’eccezionalismo e all’ipernazionalismo

Respingere la definizione di “nuovo antisemitismo”

Il problema che Lerman identifica in “Whatever Happened” è enorme nella misura in cui può sembrare insormontabile. La diffusione del concetto di “nuovo antisemitismo” è sofisticata e dotata di adeguate risorse. È comprensibile che quando si tratta di tentare di sfidare l’identificazione tra Israele ed ebrei – e tra antisemitismo e antisionismo – Lerman sia deluso, come quando descrive gli accenni di resistenza ebraica dopo l’Operazione Piombo Fuso, l’attacco di Israele a Gaza nel 2008 -2009, come “di breve durata”. Sebbene Lerman comprenda l’urgenza e la necessità di respingere queste tendenze, rimane chiaramente scettico sulla nostra capacità collettiva di farlo. Ma gli ostacoli alle lotte di liberazione sono stati quasi sempre percepiti come insormontabili, finché non lo sono più stati.

Anche se Lerman forse non vede come suo compito offrire una visione di ciò che potrebbe essere, il suo libro è anche un intervento contro lo status quo, benché ridotto rispetto a quanto descrive. Ora c’è un’opportunità per valutare le prove presentate da Lerman e invitare coloro che lavorano per combattere il concetto di “nuovo antisemitismo” a riunirsi e identificare ulteriori punti con cui respingerla.

Quindi il valore fondamentale di questo libro per la comprensione del dibattito politico del nostro tempo è il fatto che dimostra non solo che lo sviluppo del progetto del “nuovo antisemitismo” è essenzialmente una questione politica piuttosto che accademica, ma anche che Israele, i suoi sostenitori e altre figure politiche di destra al fine di servire la propria agenda politica hanno sfruttato i timori delle comunità ebraiche di tutto il mondo per confondere le acque rispetto al compito vitale di smantellare l’antisemitismo. “Whatever Happened” fornisce una storia e un contesto di valore inestimabile per coloro che cercano di dare un senso a come la battaglia sulle definizioni di antisemitismo sia stata al centro di un processo per tentare di legare l’identità ebraica a un progetto nazionalista, sia tra gli ebrei che nella società in generale.

Em Hilton è una scrittrice e attivista ebrea che vive tra Tel Aviv e Londra. È la co-fondatrice di Na’amod: British Jews Against Occupation e fa parte del comitato direttivo del Center for Jewish Non-Violence.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un altro eminente sionista ammette che il progetto è fallito

Philip Weiss

9 gennaio 2023 – Mondoweiss

Hillel Halkin si è trasferito in Israele dagli Stati Uniti 50 anni fa come sionista convinto. Ora lo scrittore confessa che il progetto è fallito perché non poteva far fronte alle richieste palestinesi, e che è stato ingenuo.

Abbiamo seguito con attenzione indizi sul fatto che la comunità ebraica si stia rivoltando contro Israele in seguito allo shock per il nuovo governo fascista, e questa è un altra testimonianza.

Hillel Halkin, un sionista convinto di 83 anni trasferitosi dagli Stati Uniti in Israele nel 1970, scrive su Jewish Review of Books che Israele è condannato. “Siamo sull’orlo di un baratro e stiamo precipitando.” E nulla salverà Israele dall’abissodella politica messianica di destra.

I leader israeliani hanno evitato la questione centrale dei diritti dei palestinesi, spiega Halkin, scrittore e traduttore. Quindi il problema è cresciuto e Israele è diventato sempre più di destra. E non solo di destra, ma di un estremismo religioso. Quando l’intero scopo del sionismo era quello di svezzare il popolo ebraico dalla religione e produrre una democrazia laica.

Così Jeremy Pressman [docente in Scienze Politiche presso l’Università del Connecticut ed esperto della questione israelo-palestinese, ndt.] si prende gioco su Twitter della rivelazione di Halkin: “‘Non avrei mai pensato che i leopardi mi avrebbero divorato la faccia’, singhiozza la donna che ha votato per il Leopards Eating People’s Faces Party [partito dei leopardi divoratori di facce umane]”. Molto arguto. Ma io faccio i complimenti ad Halkin. Ci sono molti sionisti che sono stati attratti dall’ideologia per un senso di idealismo/liberazione ebraica/chiusura mentale; e sebbene quasi tutti per decenni non si siano curati delle notizie dalla Palestina, almeno Halkin ammette umilmente di aver sbagliato.

Halkin inizia il suo racconto descrivendo un amico israeliano che dopo l’elezione di Begin nel 1977 percepì dei segnali di pericolo e iniziò a votare per i partiti palestinesi prima di trasferirsi in Portogallo 10 anni fa: “un antisionista dichiarato le cui terribili previsioni per il futuro di Israele ci hanno portato ad accese discussioni”. Quell’amico ha recentemente scritto ad Halkin per dirgli: te l’avevo detto. Halkin ha risposto:

Hai vinto. Da anni ormai Israele mi sembra un sonnambulo che cammina verso un baratro. In quel baratro ora stiamo precipitando.

Halkin nutre la speranza che Israele possa riprendersi, ma afferma che il nuovo governo radicale fa presagire “un caos politico”. E quando “i consolatori” dicono: “Questa è solo un’elezione, tra due anni tornerà il blocco centrista”, dice che è un pio desiderio. , ci saranno altre elezioni. E i mascalzoni probabilmente le vinceranno con margini maggiori di quelli con cui hanno vinto queste.

I dati demografici mostrano che Israele sta solo peggiorando. Ci sono sempre più giovani elettori ultraortodossi. “La politica israeliana è ora talmente consolidata intorno a linee identitarie di gruppo che i blocchi elettorali sono estremamente stabili… le correnti che spingono Israele costantemente verso destra persisteranno”.

La confisca senza fine della terra palestinese e l’espansione degli insediamenti coloniali spinge l’opinione pubblica israeliana sempre più a destra. Più questo conflitto diventa senza speranza, più guadagna la destra e i suoi alleati religiosi e perde il centro-sinistra”.

Il razzismo domina la cultura politica israeliana:

Secondo un sondaggio dello scorso anno un quarto di tutti gli israeliani non religiosi di età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni e la metà di tutti i credenti pensano che i cittadini arabi di Israele debbano essere privati del diritto di voto!

Questa è la popolazione votante nel futuro di Israele – ed è un futuro in cui è esclusa qualsiasi alleanza tra il centrosinistra e i partiti arabi di Israele che possa bilanciare il blocco religioso di destra. Lo stato di cronica esacerbazione delle relazioni arabo-ebraiche lo garantisce, dal momento che nessun partito ebraico può permettersi di essere visto come “amante degli arabi”…

La soluzione dei due Stati è fallita nel 2009, ma su questo tutti mentono. “Sebbene le sue virtù continuino a essere decantate da tutti, tale soluzione è irrealizzabile, resa tale dall’attuale presenza di centinaia di migliaia di coloni israeliani in Giudea e Samaria”. Tutti i principali partiti in Israele hanno adottato la politica di “gestione del conflitto”. Come se ciò fosse realizzabile, tanto meno auspicabile.

E ora Israele “va verso un disastro… un Israele bi-nazionale che inevitabilmente imploderebbe dall’interno o un Israele moralmente ripugnante ostracizzato dal mondo e abbandonato da molti dei suoi stessi cittadini”. Sì, ben un milione di laici vivono già all’estero. Altri se ne andranno.

Halkin dice che Israele sparirà entro 30 anni, se annetterà la terra – qualcosa che il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich vuole fare “con l’aiuto di Dio”. Sia i palestinesi che gli israeliani sono diventati più religiosi e il conflitto distrugge ogni speranza. “La costante deriva verso la religione nella vita israeliana degli ultimi decenni, così opposta alla tendenza nei paesi occidentali, è direttamente correlata all’impasse israelo-palestinese”.

Halkin spiega che il sionismo doveva essere antimessianico:

Il sionismo aspirava a svezzare il popolo ebraico dalla convinzione che Dio fosse dalla sua parte e che a lui si potesse affidare per essere salvato dalle situazioni difficili, che avrebbe dovuto fare affidamento su Dio piuttosto che su se stesso perché ciò era stato stabilito da Dio. Fu proprio per questo che la maggior parte dei rabbini d’Europa, dove sorse il sionismo, e specialmente dell’Europa orientale, dove trovò le sue radici più profonde, lo combatterono con le unghie e con i denti. La maggior parte dell’ultra-ortodossia è rimasta aspramente antisionista fino alla dichiarazione dello Stato di Israele…

E ora, con il traino di Benjamin Netanyahu, queste sono le forze che ci trascinano nell’abisso. [Gli antisionisti] hanno dato la colpa al sionismo, e io l’ho data all’ebraismo, delle cui fantasie e delusioni il sionismo ha cercato di curarci solo per esserne esso stesso infettato. Il sionismo voleva renderci un popolo normale. Ha fallito e si è snaturato nel processo.

Halkin ha la bontà di ammettere che altri lo avevano già previsto molto tempo fa.

Non ho mai creduto agli avvertimenti, lanciati da molti nel corso degli anni, che l’espansione delle colonie avrebbe portato Israele al punto di non ritorno. Credevo che alla fine, prima o poi, per quanto tempo ci fosse voluto, l’unica soluzione praticabile, l’unica soluzione ancora da provare, sarebbe stata colta [la soluzione dei due Stati]…

Sono stato (come spesso mi è stato detto) ingenuo. Siamo oltre il dirupo e stiamo precipitando, e nessuno sa quanto il baratro sia profondo.

Halkin ha 83 anni e devo credere che sia un esponente rappresentativo dei sionisti laici che cominciano ad avere terribili dubbi su una filosofia che hanno abbracciato. Il governo Netanyahu-Ben-Gvir-Smotrich offre loro l’opportunità di distaccarsene.

Non analizzerò qui l’argomentazione di Halkin (le sue giustificazioni per la Giudea e la Samaria, il suo biasimare i palestinesi, la sua incapacità nell’attribuire da subito ai palestinesi una comprensione del sionismo). Penso che abbiamo bisogno che più ebrei sionisti divengano ex sionisti e decolonizzino la mente ebraica e l’establishment statunitense, per aprire la strada alla democrazia. Quindi plaudo al coraggio e onestà di Halkin e al suo cambiamento.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)