In migliaia scandiscono “No alla legge dello stato-nazione, sì all’uguaglianza”

Ma’an news 12 agosto 2018

TEL AVIV (Ma’an) – Sabato, durante una manifestazione in cui decine di migliaia di arabi ed ebrei hanno marciato a Tel Aviv per protestare contro la controversa legge sulla nazionalità, si sono viste sventolare in alto bandiere palestinesi.

Circa 30.000 manifestanti si sono riuniti in piazza Rabin a Tel Aviv e hanno marciato verso il Museo d’Arte, dove si è svolto il raduno principale. Durante tutta la manifestazione, arabi ed ebrei hanno protestato insieme contro la legge sulla nazionalità e hanno chiesto che venga annullata con lo slogan “No alla legge dello stato-nazione, sì all’uguaglianza”.

Nonostante la decisione degli organizzatori della protesta di vietare lo sventolio di bandiere, durante l’evento si sono visti diversi manifestanti sventolare bandiere israeliane e palestinesi.

In risposta alle bandiere palestinesi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pubblicato sul suo account Twitter un video della manifestazione con alcuni dimostranti che sventolavano la bandiera palestinese cantando “Con lo spirito, con il sangue ti redimeremo, Palestina” e ha commentato: “Non c’è prova migliore della necessità della legge sulla nazionalità.”

Il messaggio degli organizzatori della protesta rispetto alla manifestazione recitava: “La nostra dichiarazione è chiara: tutti i cittadini, tutti, sono uguali”.

Tra coloro che hanno parlato alla manifestazione c’erano l’ex deputato del Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] Muhammad Barakeh, il presidente dell’Alta Commissione di Monitoraggio degli Affari Arabi, Mazen Ganaim, sindaco di Sakhnin e presidente del Consiglio Nazionale dei Leader delle Comunità Arabe, la prof.ssa Eva Illouz [famosa sociologa israeliana, ndtr.] e molti altri.

L’ex deputato Muhammad Barakeh ha espresso il proprio sostegno a coloro che hanno sventolato la bandiera palestinese e ha detto: “È la bandiera che la legge sulla nazionalità cerca di cancellare dalla storia, ma è la bandiera di una nazione fiera”.

Barakeh ha sottolineato: “Ebrei e arabi stanno scendendo in piazza a migliaia, per abrogare questa legge abominevole e cancellare la macchia lasciata dal governo Netanyahu. Israele e il sionismo hanno due opzioni tra cui scegliere: genocidio o apartheid. Siamo qui insieme – arabi ed ebrei – per dire che non lo permetteremo”.

Barakeh ha fermamente concluso: “Primo Ministro Netanyahu, non ce ne andremo via, te ne andrai tu”.

Il sindaco di Taybeh, Shuaa Mansour Masaru, ha parlato alla manifestazione definendo la legge sulla nazionalità come “molto pericolosa” e ha detto: “Ci siamo riuniti qui per protestare contro questa legge razzista che afferma che in questo paese ci sono due tipi di esseri umani “.

Masaru ha messo in guardia che, in base alla legge, le istituzioni governative israeliane potrebbero far cessare completamente l’uso della lingua araba.

E ha spiegato: “È possibile che venga presa la decisione di impedire del tutto l’uso della lingua araba in tutte le istituzioni pubbliche. Un’altra cosa che potrebbe accadere in seguito alla legge è che, nel giorno dell’Indipendenza, sarà impedito ai membri delle minoranze di sventolare qualsiasi altra bandiera che non sia quella israeliana. Questa legge è razzista e non in linea con il diritto internazionale “.

L’ex deputato Issam Makhoul ha sottolineato l’importanza della manifestazione: “Questa è una manifestazione importantissima, che esige un’alternativa all’attuale modo di pensare di Israele, pericoloso per entrambe le nazioni, che cerca di delegittimare la parte araba [della popolazione]. Facciamo parte del contesto di questo paese “.

Anche il deputato Michal Rozin, membro di Meretz, partito politico di sinistra [sionista, ndtr.], socialdemocratico e verde, ha criticato il governo Netanyahu.

Rozin ha sottolineato: “Noi non ci stiamo a questa politica di divide et impera del governo Netanyahu: chiunque ritenga che il governo che oggi discrimina una comunità non ne discrimini un’altra domani, si sbaglia: non si può opporsi alla legge sulla nazionalità e difendere l’uguaglianza per tutti “. 

Le organizzazioni e i partiti politici che hanno partecipato alla protesta comprendevano l’Associazione Israeliana degli Ebrei Etiopi, Peace Now, il Centro di Azione Religiosa di Israele, Standing Together, Sikkuy, la Coalizione contro il Razzismo in Israele, il Centro Mossawa, i giovani del partito laburista, Hadash, Meretz, Ta’al, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Zazim – Azione Comune, il Forum del Negev di Coesistenza per l’Uguaglianza Civile, Kulan, il Movimento di Lotta Socialista, il Nuovo Fondo Israeliano e Shatil.

(trad. di Luciana Galliano)

 




1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico

Shmuel Sermoneta-Gertel

15 maggio 2018,Mondoweiss

Quest’anno segna non solo il 70esimo anniversario della Nakba [espulsione dei palestinesi dai territori su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele, ndtr.], ma anche il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. I due eventi sono strettamente correlati in molti modi, che intenderei esplorare attraverso lo sguardo di un eminente ebreo antisionista dell’inizio del XX secolo, Aharon Shmuel Tamares (1869-1931), rabbino della città di Milejczyce (Russia, e in seguito Polonia).

Nel suo ultimo lavoro, “Sheloshah Zivugim Bilti Hagunim” (“Tre unioni inopportune”), scritto in risposta alla rivolta in Palestina del 1929 [rivolta palestinese contro la dominazione inglese e la presenza sionista, ndtr.] e pubblicato circa un anno prima della sua morte, Tamares spiegò la propria contrarietà al movimento sionista, soprattutto riguardo all’atteggiamento sionista verso la Grande Guerra ed il suo esito.

Tamares inizia la sezione del suo testo a questo riguardo (“Parte 3: L’unione tra ‘la rinascita della lingua e della cultura ebraica’ e il sionismo”) con un’inequivocabile denuncia della guerra e della divisione del bottino tra le potenze vittoriose:

Le grandi potenze mondiali hanno deciso di discutere su chi fosse più potente – una discussione infuocata. Nel frattempo, hanno dato alle fiamme migliaia di città e villaggi e ricoperto la terra intera di vittime. Dopo aver concluso il loro “elegante” dibattito, i membri della parte i cui fucili avevano avuto l’ultima parola e di cui il mondo è caduto preda, hanno convenuto di spartirsi il pianeta tra loro, per smembrarlo in piccoli Stati che obbedissero al loro volere.

Definisce la Prima Guerra Mondiale “il più grande scandalo della storia del mondo” e paragona la conferenza di Parigi (Versailles) ad un gruppo di macellai che stanno intorno a un tavolo per sezionare la vittima. Creando numerosi nuovi Stati nazionali, argomenta Tamares, le potenze hanno dato supporto all’idea di nazionalismo etnico – che inevitabilmente sfocia, secondo Eric Hobsbawm, nell’“espulsione di massa o nello sterminio delle minoranze.”

È questo nazionalismo etnico che Tamares identifica come la causa prima della violenza anti-semita e della discriminazione contro gli ebrei in Europa nel periodo post bellico, soprattutto nei nuovi Stati etnico-nazionali creati nel centro e nell’est dell’Europa. Tamares inoltre cita la normalizzazione della brutalità come fattore esacerbante, prevedendo che d’ora in avanti chi ha il potere farà il ragionamento che “se è stato accettabile, durante la guerra, trattare milioni di persone come carne da macello, viene di conseguenza che si possano anche imprigionare in gran numero, che possano semplicemente morire di fame.”

Queste ragioni stanno alla base dell’accusa di Tamares al sionismo ed alla leadership sionista: la loro glorificazione ideologica del concetto stesso di guerra e la loro attiva partecipazione a quell’abominio che fu la Prima Guerra Mondiale (nella “Legione ebraica” ed in azioni di spionaggio contro l’impero ottomano in Palestina); la loro adozione del principio di nazionalismo etnico, incoraggiando in tal modo altri e gettando sé stessi nell’abisso morale dell’espropriazione colonialista degli abitanti nativi della Palestina.

Tamares non afferma che il movimento sionista non avesse queste aspirazioni prima della guerra, ma che la guerra ed il “Balfourismo” [riferimento al ministro inglese Balfour, che diede il nome alla famosa dichiarazione che impegnò la Gran Bretagna a favorire un focolare ebraico in Palestina, ndtr.], al quale ha dato impulso, le hanno rese possibili.

Incoraggiati dalla Dichiarazione Balfour e dalle decisioni della Conferenza di Parigi e della Società delle Nazioni, i leader sionisti non fecero segreto del fatto che la loro intenzione era di portare gli ebrei in Palestina non come normali immigrati, ma come “occupanti…per imporre il proprio comando sui suoi originari abitanti….per essere padroni della terra…per diventare maggioranza…e trasformare i suoi precedenti abitanti, gli arabi, in una minoranza.” Con il potere di Balfour dietro di loro (non solo come ideatore della Dichiarazione Balfour, ma anche come uno degli architetti di Versailles), pensarono di poter ignorare il fatto che “la terra in questione non era una sorta di nuova isola disabitata che avevano trovato alla fine del mondo e nei mari lontani, ma la patria di un popolo che senza dubbio avrebbe vissuto le loro aspirazioni alla “sovranità” e allo “Stato” come una spina nel fianco”. Prosegue citando un racconto del Talmud che parla di un gruppo di marinai che si era fermato a riposare in quella che credevano un’isola. Dopo un po’ cominciarono a sentirsi i suoi padroni e quando accesero un fuoco il gigantesco pesce sul cui dorso avevano deciso di stabilirsi si girò, gettandoli tutti in acqua. “L’analogia, scrive, è ovvia.”

L’affermazione sionista che gli arabi fossero, nella versione sarcastica di Tamares, “un popolo incolto che aveva rubato la terra, installandovisi per soli quindici secoli, che non sono che un giorno e mezzo secondo gli standard delle antiche tribù “storiche”, ai cui occhi mille anni sono come ieri”, coincideva perfettamente con il profondo razzismo che ha portato gli inglesi e la Società delle Nazioni ad appoggiare la creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina.

Alla base del nazionalismo etnico, secondo Tamares, vi è l’idea che gli abitanti del mondo si dividano tra coloro che sono “padroni” nei propri Paesi e coloro che sono “stranieri”, a volte tollerati in vario grado, ma sempre alla mercé dei primi.

Egli identifica questa divisione delle persone tra ‘chi è dentro e chi è fuori’, promossa e perpetuata dalle potenze alla Conferenza di Parigi e dalla Società delle Nazioni, con il peccato del popolo di Sodoma, per cui la città venne distrutta da Dio (Genesi 19; vedere anche il Talmud babilonese: Sanhedrin 109b). È proprio questo approccio che egli attribuisce al movimento sionista, che accusa sia di fornire aiuto e sostegno ai nazionalisti europei, responsabili della brutale persecuzione degli ebrei in Europa, che di cercare di creare un regime in Palestina in cui anche gli originari abitanti della terra sarebbero trattati come “stranieri”, costretti a dipendere da un qualunque tipo di “tolleranza” potesse essere manifestata dai loro “padroni” ebrei.

Questa giustapposizione tra antisemitismo e sionismo, attraverso la lente del nazionalismo etnico, è particolarmente interessante, non solo come una sorta di regola fondamentale (Non fare agli altri…), ma anche in quanto analisi del sionismo come reazione all’antisemitismo e soluzione della “questione ebraica”. Tamares sostiene infatti che il sionismo non solo non ha combattuto l’antisemitismo in Europa, ma lo ha attivamente incoraggiato accettandone la causa profonda e, a volte, sostenendo i suoi effettivi esponenti (come “fratelli” ideologici ed anche come strumenti per i propri fini).

Questo potrebbe sembrare uno scritto storico e commemorativo, ma non è questa la mia intenzione. Un secolo dopo l’armistizio del 1918 e 70 anni dopo la Nakba, il nazionalismo etnico è vivo e vegeto. È per questo che i dimostranti palestinesi, a Gaza o a Gerusalemme o a Umm al-Fahm, possono essere colpiti impunemente; che i gazawi possono essere imprigionati in massa per 11 anni, senza che se ne veda la fine; che i palestinesi in Cisgiordania possono essere privati dei fondamentali diritti umani; che ai cittadini palestinesi di Israele si può negare l’eguaglianza; che i diritti dei rifugiati palestinesi possono ancora essere ignorati.

Come ai tempi di Tamares, questa ideologia non è feudo esclusivo dei sionisti, né esiste nel vuoto. E come ai tempi di Tamares, è il ‘balfourismo’ stesso che deve essere contrastato, dovunque cerchi di dividere il popolo tra “padroni” e “stranieri”.

Shmuel Sermoneta-Gertel è un insegnante, traduttore e ricercatore indipendente che vive a Roma. È membro della Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La realtà e la sua maschera

Giorgio M., Cruciati C., Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma, 2018, 15 €.

Amedeo Rossi

Il libro di Michele Giorgio e Chiara Cruciati, giornalisti de “Il Manifesto”, rappresenta un utile strumento per fare un bilancio di 70 anni della nascita di Israele, ma soprattutto per misurare quanto la realtà storica e l’attualità siano lontane dall’opinione corrente su questa vicenda.

Il libro è strutturato in due parti e tre appendici: una cronologia fondamentale, un glossario e alcune immagini relative a questioni affrontate nei precedenti capitoli. Nella prima parte gli autori ripercorrono la storia del sionismo dalle sue origini nel XIX° secolo alla fondazione dello Stato di Israele. Nonostante le differenze tattiche tra le sue varie correnti, dal capitolo emerge una sostanziale condivisione dell’obiettivo da raggiungere, e ciò implicasse la negazione del diritto dei palestinesi alla terra su cui avevano vissuto per secoli. Anzi, nel negare la loro stessa esistenza, in quanto intralcio per la realizzazione del progetto sionista. Questa è stata una delle ragioni delle aspre critiche nei confronti del movimento da parte di intellettuali ebrei, tra cui Martin Buber, Hannah Arendt, Marek Edelman, Noam Chomsky. Oltre all’estrema coerenza e determinazione con cui i dirigenti sionisti, contro ogni ragionevolezza, hanno perseguito, realizzato ed ampliato il sogno di Herzl, emerge la spietatezza nei confronti della popolazione autoctona che ha guidato l’azione politica sionista fin dai primi tempi. Gli autori citano ad esempio Israel Zangwill, scrittore ebreo britannico: “Non esiste alcuna ragione particolare perché gli arabi debbano restare aggrappati a questi pochi chilometri di terra. Ripiegare le tende e andarsene di soppiatto è la loro proverbiale abitudine. Che lo facciano anche ora […] Dobbiamo garbatamente convincerli a mettersi in marcia.” Il brano mette in luce gli stereotipi orientalisti del suo autore e la convinzione che i palestinesi avrebbero facilmente lasciato posto ai nuovi venuti. I sionisti si resero presto conto che invece erano tenacemente legati alla propria terra, e passarono a metodi tutt’altro che “garbati”.

La seconda parte costruisce, per lo più attraverso una serie di interviste ad intellettuali sia israeliani che palestinesi, una sorta di mosaico a partire da alcune questioni cruciali che costituiscono la narrazione prevalente sul conflitto israelo-palestinese. E’ su questi punti che si è costruito il mito citato nel titolo del volume: il rapporto tra ebrei, Olocausto e Israele; la Palestina, i palestinesi e gli ebrei prima e dopo la nascita di Israele, tra ritorno negato agli uni e “ritorno” promesso agli altri; il sionismo e i Israele come esperienze socialiste; la questione di stretta attualità dei diritti di cittadinanza e nazionalità tra ebrei e palestinesi in Israele; il rapporto tra antisemitismo e filo-sionismo; infine, l’idea di Israele come parte dell’Occidente e quindi dei palestinesi come intrusi.

I capitoli-interviste sono sintetici ma ricchi di notazioni e spunti interessanti. Per ragioni di spazio mi limiterò a citarne solo alcuni.

Lo storico palestinese Salim Tamari smentisce una delle asserzioni della narrazione sionista: il fatto che il nazionalismo palestinese sia stato una reazione tardiva al sionismo. Secondo Tamari in realtà tra la fine dell’XIX° secolo e i primi del XX° si era risvegliato tra i palestinesi un sentimento nazionale anti-turco prima e antisionista poi. In particolare divenne centrale la questione delle terre: “I sionisti compravano terreni per dare vita a colonie per ebrei e cacciavano via i contadini palestinesi che in molti casi le avevano coltivate per generazioni, sebbene per conto dei proprietari. E questo problema rappresentò un punto centrale per la mobilitazione nazionalista palestinese.” La citazione per un verso individua nel problema della terra e non nell’odio razziale o religioso la causa dei primi conflitti tra palestinesi e sionisti. Dall’altro evidenzia una delle caratteristiche costanti del progetto sionista: separare la popolazione autoctona dalla terra. Ciò ebbe in Palestina, come in altre realtà coloniali pre-capitaliste, effetti dirompenti sulla popolazione e sull’economia locali.

Il risultato di questo processo viene analizzato in un capitolo successivo, costruito con inserti di un’intervista a Wasim Dahmash, docente di lingua e letteratura araba all’università di Cagliari, che riguarda il “ritorno” degli ebrei e la contemporanea espulsione dei palestinesi. Si tratta di una situazione caratterizzata da una serie di palesi contraddizioni. Agli ebrei di qualunque Paese al mondo viene concessa l’aliyah (letteralmente la “salita”, dalla diaspora alla biblica terra degli antenati), ai palestinesi è negato questo diritto e vengono considerati “infiltrati”, ed alcuni di quelli rimasti nello Stato d’Israele sono considerati “presenti assenti”. La recentissima legge, approvata a luglio relativa allo “Stato-Nazione ebraico” attribuisce valore costituzionale alle discriminazioni cui è già soggetto il 20% della popolazione non ebraica di Israele e di cui parla un capitolo del libro.

Due capitoli si occupano invece del mito relativo ad Israele come Paese “socialista”, che in Occidente ha affascinato parte della sinistra. Il primo riguarda l’Histadrut, il sindacato sionista. Esso si adeguò a quanto affermato da Ben Gurion già nel 1934: “Se non facciamo ogni genere di lavoro, facile e difficile, specializzato e non, se resteremo dei meri proprietari, questa patria non sarà mai nostra.” Il corollario di questa affermazione è stata naturalmente l’espulsione della maggioranza dei palestinesi. Tuttavia Israele ha utilizzato prigionieri arabi della guerra del ’48 come lavoratori forzati internati in veri e propri lager, e l’Histadrut è stato un sindacato di regime. È dal sindacato che nacque la principale milizia armata sionista, l’Haganah. Dopo la fondazione di Israele, fino al 1959 ai palestinesi con cittadinanza israeliana venne negata l’iscrizione al sindacato e imposte discriminazioni salariali. Un sindacalista britannico ha affermato: “Il principale ruolo di Histadrut non era la difesa dei salari e le condizioni di lavoro dei suoi membri ma la colonizzazione della Palestina […] Histadrut fu un sindacato capitalista.” Dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, ai lavoratori palestinesi nelle colonie o in territorio israeliano è stato imposto il pagamento delle quote sindacali senza però il godimento dei relativi diritti assistenziali e previdenziali.

Il secondo riguarda il modello del kibbutz, a lungo considerato come una sorta di comune. In realtà anch’esso è strettamente legato all’ideologia sionista, che esclude i palestinesi, ed anzi è stato storicamente uno degli strumenti per la loro espulsione dalle terre. È significativa a questo proposito la citazione presente nel libro dell’episodio narrato in un’intervista da Moshe Dayan, protagonista della vittoria militare del ’67: una delegazione di membri di kibbutz del nord di Israele si recò dall’allora primo ministro Levy Eshkol per intimargli di aprire le ostilità contro la Siria per occupare le fertili terre del Golan. Nel capitolo Sergio Yahni, giornalista e analista di origini argentine che ha vissuto a lungo in un kibbutz, racconta il ruolo attivo dei kibbutzim nel Palmach, reparto d’élite dell’Haganah, responsabile di massacri ed espulsioni di palestinesi. Inoltre per molti anni nei kibbutz non vennero accolti gli ebrei provenienti dai Paesi arabi. A partire dagli anni ‘80, con l’avanzare delle politiche neoliberiste, anche queste esperienze comunitarie sono diventate sempre più marginali o si sono trasformate a tutti gli effetti in aziende di tipo capitalistico.

In estrema sintesi, questo libro ricostruisce un’immagine di Israele ben lontana da quella più diffusa e mette in luce quello che hanno rappresentato e continuano a rappresentare il sionismo e il suo Stato, non solo negli anni di Netanyahu e dell’estrema destra al potere, ma fin dalle loro origini: nazionalismo, colonialismo e, con la nascita dello Stato di Israele, regime di apartheid, per certi versi peggiore di quello sudafricano. Lo denunciano, inascoltati, anche intellettuali e giornalisti israeliani, lo tacciono invece i nostri mezzi di comunicazione ed i nostri politici.

C’è da sperare che il lavoro di Giorgio e Cruciati non venga letto solo nella ridotta cerchia di chi già è impegnato nella lotta a favore dei diritti del popolo palestinese, ma soprattutto da chi continua a credere al mito dell’”unica democrazia del Medio Oriente”.




Con le nuove leggi, Netanyahu sta sequestrando l’ebraismo che conosciamo

David Sarna Galdi

22 luglio 2018 , +972

Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Quale? Basta guardare alle leggi dello Stato Nazionale Ebraico e sull’olocausto.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha suscitato le ire del mondo ebraico all’inizio di questo mese quando è apparso alla televisione nazionale per annunciare il suo sostegno a una versione modificata della controversa legge sull’olocausto polacca, una trovata inventata dal governo anti-democratico della Polonia per ottenere il favore della sua base di destra.

La legge mette in serio pericolo la libera discussione sull’Olocausto e presenta una narrazione ripulita del comportamento polacco durante la seconda guerra mondiale: le autorità polacche e la maggior parte dei civili avrebbero fatto di tutto per salvare gli ebrei e il tradimento di un ebreo da parte di un polacco sarebbe una rara anomalia.

I politici di tutto l’arco parlamentare israeliano hanno attaccato il primo ministro. Lo Yad Vashem, il Museo israeliano dell’Olocausto, ha espresso un ufficiale dissenso, mentre lo storico dell’Olocausto Yehuda Bauer, vincitore di un premio Israele, ha lanciato l’accusa più grave, definendo la legge un “tradimento” e una “completa menzogna”.

Poche settimane dopo, Netanyahu ha spinto per l’approvazione alla Knesset della controversa Legge dello Stato Nazionale Ebraico, nonostante le accese e negative reazioni pubblica e istituzionale. La legge è di buon senso in superficie, riaffermando il carattere ebraico di Israele. Lascia subdolamente fuori, tuttavia, qualsiasi impegno alla parità dei diritti, legalizza la preferenza per gli insediamenti ebraici e declassifica lo status dell’arabo da lingua ufficiale dello stato. 

In parole povere, è un gratuito attacco ultranazionalista – una legge razziale che istituzionalizza la discriminazione contro le minoranze di Israele, in particolare gli arabi, che costituiscono il 20% della popolazione. Prima che passasse, migliaia di manifestanti si sono radunati a Tel Aviv per protestare. Un’associazione di 14 organizzazioni ebraiche americane ha ufficialmente espresso la propria disapprovazione e personalità politiche di tutti i partiti si sono opposte alla legge.

La tempistica di queste due leggi apparentemente non correlate esprime il silenzioso colpo di stato di Netanyahu: la revisione calcolata e radicale di ciò che significa essere ebreo.

Abbandonare l’Ebraismo

L’identità ebraica è drasticamente cambiata due volte nella storia. Una prima volta, quando l’esilio trasformò la nazione ebraica in una minoranza dispersa e frantumata, suscettibile sia all’antisemitismo che alla riuscita assimilazione nella diaspora. Gli ebrei cominciarono a guardare, parlare e pensare in modo diverso, in base alla cultura ospite. Alla fine, gli ebrei yemeniti sembravano yemeniti e gli ebrei polacchi, polacchi.

Il progetto sionista ha ridefinito l’ebraismo ancora una volta. Ha cancellato l’immagine dell’ebreo come vittima indebolita e curva nel ghetto, imbastardita dall’esilio. Ha cercato di trasformare ebrei profondamente diversi e lontani in una potente nazione di forti lavoratori / combattenti che parlano una sola lingua.

Dopo l’Olocausto, Israele fu naturalmente ritenuto garante della sicurezza ebraica e rappresentante dei valori ebraici. I leader israeliani della Diaspora, come Moshe Dayan, emblematico generale e ministro, hanno detto chiaramente che il loro governo “non dovrebbe rappresentare solo il popolo di Israele, ma gli interessi di tutti gli ebrei”.

Ma con Netanyahu al timone, Israele ha ripetutamente e intenzionalmente sputato sull’ebraismo mondiale e sulla sua sensibilità. Il risultato? A cinquant’anni dall’euforia che seguì la Guerra dei Sei Giorni, il lontano sionismo idealistico degli ebrei della diaspora zoppica come un cane a tre zampe. Un recente studio del ‘Pew Research Center’ ha rilevato che solo il 35% degli ebrei americani tra il 18 e il 50 anni ha identificato Israele come parte fondamentale della propria identità ebraica.

Un’identità mutata

Non è una coincidenza. Netanyahu ha gettato i dadi e preso la calcolata decisione di abbandonare non solo gli ebrei americani in disaccordo con l’agenda populista in ascesa in Israele, ma proprio l’ebraismo stesso.

Cioè, l’ebraismo come lo conosciamo: ebraismo progressista, erudito, in dialogo con il mondo esterno per migliaia di anni. L’ebraismo le cui maggiori opere e innovazioni si sono sviluppate a Babilonia, in Spagna e in Polonia. L’ebraismo intellettuale che ha assorbito e impollinato l’Illuminismo (Mendelssohn); la filosofia (Buber, Scholem, Marx, Frankl, Arendt); i movimenti americani per l’uguaglianza dei diritti (Steinem, Friedan, Milk); e la cultura (Gershwin, Berlin, Streisand, Mailer, Allen, Marx, Polanski). Un ebraismo tollerante con la sensibilità dello straniero che “ama lo straniero”, come raccomandato 36 volte nella Torah.

Netanyahu vuole buttare tutto questo nel cestino della storia. Vuole mutare l’identità ebraica in hubris ebraica e trasformare Israele nella fortezza murata di una etnocrazia illiberale.

Come altro spiegare l’approvazione di Netanyahu per una maligna legge polacca che dissacra l’Olocausto? Come capire il tradimento di Netanyahu nei confronti degli ebrei riformisti e conservatori nel più sacro spazio comunitario dell’ebraismo? Come spiegare che nel 2016 Netanyahu ha ignorato le lodi del presidente Trump per i neo-nazisti americani e le oltre 190 minacce e attacchi antisemiti negli Stati Uniti? Queste domande hanno acquistato ulteriore rilievo in questa settimana, in cui Netanyahu ha dato il benvenuto al primo ministro ungherese Viktor Orban in visita ufficiale, nonostante la sua retorica antisemita e il suo apprezzamento per politici alleati dei nazisti.

Solo l’anti-ebraismo di Netanyahu può spiegare il nuovo fenomeno di leader come John Hagee, Richard Spencer o per l’appunto Orban, che sono pro-Israele e contemporaneamente denunciati come antisemiti.

Ci sono voci secondo cui la resa di Netanyahu alla legge sull’olocausto fa parte di un quid-pro-quo ideato per trasferire le ambasciate dell’Europa orientale a Gerusalemme. Ci sono ragioni diplomatiche e politiche per tutte le azioni di Netanyahu – ma c’è anche un quadro più ampio. Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente – se non attaccando – l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Di che tipo? Basta guardare alle leggi dello stato- nazione ebraico e sull’Olocausto.

Lo stop all’ebraismo di Netanyahu legalizza il furto di terra, limita la libertà di parola della sua stessa gente, maltratta i rifugiati africani, demolisce le comunità israeliane-beduine, discrimina le coppie omosessuali, esclude gli ebrei di sinistra dall’entrare in Israele e mitizza un soldato condannato di omicidio colposo. Non rispetta la lingua delle minoranze native perché è razzista. Demonizza la stampa perché teme la verità. Finanzia la giudaizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania perché è avido e deve cancellare le tracce di qualsiasi narrativa in competizione. Si oppone ai matrimoni LGBT o a qualsiasi matrimonio civile perché è governato da un’intollerante egemonia ortodossa.

Netanyahu immagina il futuro dell’ebraismo non come una piazza con molte differenze, influenze e dibattiti, ma piuttosto come un uccello raro e feroce che sopravvive in gabbia ed è estinto ovunque al di fuori di essa.

David Sarna Galdi è stato redattore del quotidiano Haaretz. Lavora a Tel Aviv per un’organizzazione senza scopo di lucro.

(traduzione di Luciana Galliano)

 




Israele si è finalmente rivelato come Stato etno-religioso

Haidar Eid

22 luglio 2018, Al-Jazeera

L’unica cosa che rimane da fare ai palestinesi è lottare per uno Stato democratico e laico.

In Palestina stiamo affrontando una situazione complicata: abbiamo un progetto di colonialismo di insediamento che nega di esserlo, sostiene di essere una democrazia ed abbiamo le sue vittime, la cui persecuzione è stata ignorata per decenni e la cui lotta di liberazione nazionale è stata diffamata.

I colonizzatori sono riusciti a manipolare la narrazione su quello che sta avvenendo, riscrivendo la storia e occultando i propri crimini. Molti Paesi al mondo hanno creduto alle loro menzogne e adottato un atteggiamento “neutrale”, sostenendo di avere una posizione “equilibrata”.

Cosa c’è di equilibrato, quando una parte possiede uno degli eserciti più avanzati al mondo, finanziato e rifornito da una superpotenza alleata, e l’altra è stata abbandonata sia da alleati che da sostenitori e si può basare solo sulla determinazione e sulla forza del proprio popolo?

Ma queste professioni di “neutralità” ed “equidistanza” non sono più sostenibili. Israele ha smesso di giocare al gioco della finta democrazia e si è dimostrato per quello che è veramente: uno Stato di apartheid. Il 19 luglio la Knesset [parlamento] israeliana ha approvato la cosiddetta “legge per lo Stato-Nazione”, che dichiara Israele “la patria del popolo ebraico”. Ora è ufficialmente uno Stato esclusivamente etno-religioso.

Smascherare lo Stato etno-religioso di Israele

Per noi palestinesi questa legge ribadisce quello che è scontato, ossia che l’ideologia sionista è intrinsecamente razzista e antidemocratica.

L’obiettivo politico del sionismo era determinare artificialmente un cambiamento demografico in Palestina, rendendo maggioranza la minoritaria popolazione ebraica (che nel 1914 costituiva solo il 7,6% della popolazione) per mezzo di una massiccia immigrazione ebraica, la costruzione di insediamenti e l’espulsione dei palestinesi.

Inevitabilmente l’espropriazione di terre venne accompagnata dalla violazione dei diritti della maggioranza palestinese. I sionisti hanno sempre guardato ai palestinesi come invisibili, se non assenti, o piuttosto “presenti assenti” [definizione israeliana di una parte dei palestinesi rimasti o tornati nel territorio del nuovo Stato, ndtr.]. L’identità di quanti rimasero all’interno dei confini di quello che era diventato Israele venne cancellata con il termine “arabo-israeliani” e i loro diritti vennero negati da una miriade di leggi (di cui la “Legge per lo Stato-Nazione” è solo l’ultima riproposizione).

Ciò è dovuto al fatto che, contrariamente al pensiero liberale moderno, in Israele la cittadinanza e la nazionalità sono concetti separati, indipendenti. In altre parole, Israele non è lo Stato dei suoi cittadini, ma lo Stato del popolo ebraico. Quindi i palestinesi in Israele hanno passaporto israeliano ma non hanno gli stessi diritti dei cittadini ebrei.

Con la nuova “Legge per lo Stato-Nazione”, i palestinesi in Israele ora sono considerati “immigrati nativi” o stranieri nella loro stessa patria, perché Israele viene definito da questa legge “la patria storica del popolo ebraico”, ovvero non lo Stato di tutti i suoi cittadini. Questo è il risultato diretto del sionismo e della sua ideologia razzista.

È anche il risultato diretto del prevalere di opinioni antidemocratiche tra gli ebrei israeliani. La contraddizione tra ideali professati e comportamenti concreti, che è stato il meccanismo del cambiamento politico in molti luoghi nel mondo, non esiste in Israele perché nella società israeliana la fede democratica o la democrazia civica sono assenti.

Nella cultura politica e nella prassi israeliane non c’è un impegno per l’uguaglianza di tutti i cittadini. E non c’è tradizione di libertà civili in Israele perché una simile tradizione è incompatibile con il sionismo.

Quindi si può comprendere l’opposizione dell’establishment alle richieste per la creazione di un unico Stato per palestinesi ed ebrei, uno Stato democratico e laico governato con elezioni parlamentari e il governo della maggioranza nella Palestina storica. Questa idea è stata categoricamente rifiutata dalla società degli ebrei israeliani perché significherebbe di fatto la fine del sionismo.

E, dato che Israele si trasforma concretamente in uno Stato esclusivamente etno-religioso, dobbiamo porre delle domande scomode: ciò significa che anche l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo etc. possono essere la base di Stati moderni? E se noi insistiamo ancora che la religione dovrebbe essere separata dallo Stato, dov’è l’indignazione internazionale? Perché i principali mezzi di comunicazione non sono ossessionati dallo Stato ebraico allo stesso modo in cui lo sono dello “Stato islamico”? In cosa Israele è diverso dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che intendeva costruire uno Stato solo per i musulmani attraverso la violenza e la spoliazione?

La lotta contro l’apartheid è in corso

L’approvazione della “Legge sullo Stato-Nazione” dovrebbe eliminare qualunque dubbio che ci possa ancora essere tra gli osservatori “neutrali” che Israele è, di fatto, uno Stato dell’apartheid.

Proprio come il Sudafrica dell’apartheid diede la cittadinanza ai sudafricani bianchi e relegò i neri in “bantustan indipendenti” [enclave con limitato autogoverno della popolazione nera, ndtr.], il sionismo concede a tutti gli ebrei il diritto di cittadinanza nello Stato di Israele, mentre nega la cittadinanza ai palestinesi – i suoi originari abitanti.

Mentre il Sudafrica dell’apartheid utilizzava la razza per determinare la cittadinanza, lo Stato di Israele utilizza l’identità religiosa per definire la cittadinanza. Proprio come l’apartheid sudafricano emanò leggi che criminalizzavano la libertà di movimento dei neri sulla loro terra ancestrale, Israele controlla ogni aspetto della vita dei palestinesi attraverso le strutture di un’occupazione militare fatta di posti di blocco, strade e colonie solo per gli ebrei e il Muro, insieme a una rete di norme giuridiche.

I paralleli tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid sono infiniti. E probabilmente l’unica significativa differenza tra i due è che Israele, con un’impunità senza precedenti, non paga mai per i suoi delitti, come messo in rilievo dagli ultimi crimini di guerra a Gaza.

Cosa rimane al popolo palestinese dopo l’approvazione di questa legge palesemente razzista? Bene, non siamo sicuramente tanto sciocchi da aspettarci qualcosa dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Anni di “negoziati” hanno creato solo bantustan in Cisgiordania e un campo di concentramento a Gaza. I palestinesi fanno ancora le spese di attacchi spietati da parte delle truppe razziste israeliane nascoste nei loro elicotteri ed F16 costruiti negli USA.

Quello che gli inviati USA nella regione hanno cercato di fare è arrivare ad una “soluzione” in linea con le condizioni di Israele, ignorando risoluzioni del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU] e leggi internazionali. Né l’attuale amministrazione USA di destra né la codarda UE hanno un piano equo su come risolvere la crisi in Palestina.

L’unica cosa su cui noi palestinesi possiamo contare è la forza della gente, proprio come i sudafricani hanno fatto quando, attraverso una lunga campagna globale, hanno obbligato i governi a boicottare il loro regime di apartheid.

Continueremo ad estendere il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) e a marciare verso la barriera a Gaza finché porremo fine a questa follia. Continueremo anche a lavorare a un modello alternativo, democratico e laico, che garantisca uguaglianza e abolisca apartheid, bantustan e separazione in tutta la Palestina. Non abbandoneremo la lotta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al-Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La storia della Palestina e di Israele

La storia più convincente e sensata della Palestina e di Israele

PalestineChronicle – 19 giugno 2018

Di Rima Najjar

La storia che sta dietro alla Palestina e a Israele è una storia di colonialismo di insediamento di ebrei europei – cioè, sionismo.   E dato che il razzismo è un sintomo e uno strumento del colonialismo di insediamento, il sionismo è visto anche come antisemitismo, e come supremazia etnica o ebraica, arabofobia e islamofobia. 

La triangolazione di antisemitismo, islamofobia e arabofobia nella storia della Palestina e di Israele è parte del movimento coloniale di insediamento del sionismo e non è una “nuova storia” nel senso di come il termine è stato presentato dallo storico israeliano Benny Morris nel 1980 per rendere umane, nel discorso accademico israeliano, le vittime del sionismo.   Riflette semplicemente una terminologia moderna e comprende eventi storici che la mentalità sionista in buona misura ancora non accetta.

In linea generale questi avvenimenti storici sono semplici. Gli ebrei sionisti (che si autoproclamavano atei) decisero di costruire uno Stato ebraico in Palestina e finirono per prendersi con la forza la maggior parte della terra e per espellere la maggior parte della popolazione arabo-palestinese non ebraica, impedendole di tornare.

Ora Israele sta occupando il resto del territorio che l’Organizzazione Sionista Mondiale non era riuscita a prendersi e continua a “insediarvisi”.

Ne “La fine del sionismo: razzismo e lotta palestinese”, Joseph Massad [docente alla Columbia University, ndtr.] scrive:

“Il sionismo, in quanto movimento colonialista, è costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa e razziale attraverso la quale concepisce se stesso ed il mondo attorno a lui… Non si mette più in discussione, persino tra molti israeliani, che l’impatto del sionismo sul popolo palestinese nell’ultimo secolo include: l’espulsione di una maggioranza di palestinesi dalle loro terre e case, impedendone il ritorno, e la successiva confisca delle loro proprietà per uso esclusivo degli ebrei;  l’imposizione dal 1948 al 1966 di un sistema di  apartheid militare sui palestinesi rimasti in Israele, che da allora si è attenuato in un sistema civile discriminatorio di supremazia ebraica; l’occupazione militare e un sistema di apartheid imposto alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza ed alla loro popolazione per i rimanenti 35 (ora 51) anni, come anche la continua colonizzazione di quei territori occupati.”

In questo senso la storia del colonialismo di insediamento degli ebrei europei – cioè del sionismo – che sta dietro la Palestina e Israele (come opposto alla storia come “narrazione” o mito sionista) ha a monte la voce della ragione, perché rivela un’atrocità a cui si deve porre rimedio.

Riconoscere ed assumersi la responsabilità dei crimini storici ed attuali di Israele contro gli arabi palestinesi è il primo passo per risolvere la Nakba.  I particolari storici riguardo a come e perché questi tragici avvenimenti sono accaduti hanno riempito molti libri, ma non è questo il punto.

La questione generale ha di per sé la voce della ragione, se si considerano anche la giustizia come ragionevole e l’ingiustizia come irragionevole.

Per esempio, cos’è ragionevole e plausibile riguardo ad Ivanka Trump, figlia del presidente USA Donald Trump e moglie di Jared Kushner, che ora può comprarsi una casa a Gerusalemme e “tornare” in Israele grazie alla sua conversione all’ebraismo ed all’ebraicità del suo marito americano, mentre a Ghada Karmi, un’araba palestinese musulmana, viene negato il ritorno alla sua patria e non le viene neppure consentito di ricomprare la casa rubata a suo padre?

In “Umanizzare il testo: la ‘nuova storia’ israeliana e il percorso della storiografia sul 1948”, Ilan Pappe [storico israeliano attualmente docente in Gran Bretagna, ndtr.], universalmente noto per il suo “La pulizia etnica della Palestina”, scrive:

“Una cosa è chiara quando si analizzano le sorti della nuova storia israeliana dal tempo dei suoi inizi, alla fine degli anni ’80, fino alla sua breve/momentanea scomparsa nel 2000: la ricostruzione storica è strettamente legata agli sviluppi e sconvolgimenti politici generali. In società lacerate da fratture e conflitti interni ed esterni, il lavoro degli storici è costantemente pervaso dal dramma politico intorno a loro. In questi contesti geopolitici la pretesa di obiettività è particolarmente fuori luogo, se non totalmente infondata.”    

Storici ebrei dissidenti radicali come Ilan Pappe in Israele sono fondamentali per una storia che ha dalla sua parte la voce della ragione. Sono un ponte verso un pubblico più vasto in Israele.

Spesso i palestinesi si chiedono cosa sia necessario per fare breccia nella coscienza dell’opinione pubblica occidentale riguardo alla tragica storia della Palestina lunga 70 anni.

Credo che il modo migliore per spostare l’opinione pubblica occidentale dall’appoggio ad Israele verso il sostegno alla causa palestinese sia continuare a sottolineare quello che ha già avuto luogo attraverso l’abbandono del cosiddetto “processo di pace” e della “soluzione dei due Stati” – la comprensione, finora  poco chiara, che il problema di Israele risiede nella sua natura di progetto sionista di colonialismo d’insediamento in Palestina, piuttosto che di “occupante” militare.

In “Perché il termine ‘occupazione israeliana’ deve essere rifiutato”, Ramzy Baroud scrive:

“…Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le norme sull’occupazione come stabilite dalle leggi internazionali. Sarebbe stato così un anno, due anni o cinque anni dopo che l’occupazione iniziale ha avuto luogo, ma non 51 anni dopo. Da allora l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.”

Molte persone credono che la “Grande Marcia del Ritorno” abbia riscosso reazioni giornalistiche così positive nei media occidentali perché le proteste sono state essenzialmente non violente – ad esempio, non si può dire che abbiano minacciato la sicurezza di Israele e quindi la forza mortale che Israele utilizza è “sproporzionata” e criminale.

È il massimo a cui arriva l’azione non violenta palestinese. Ciò non fa nulla per cambiare la percezione dell’opinione pubblica occidentale di Israele come uno Stato legittimo simile a quelli occidentali, che protegge le proprie frontiere (benché con una forza sproporzionata) contro un mare di arabi o la percezione dei palestinesi come “turbolenti” e “barbari”, il cui unico desiderio malvagio è di uccidere ebrei.

La resistenza non violenta sicuramente ha i suoi vantaggi, ma a mio parere non deve mai essere imposta ad un popolo oppresso e brutalizzato come se fosse un terreno moralmente superiore di resistenza.

Inoltre l’enfasi sulla tattica della resistenza non violenta delegittima implicitamente altre forme di resistenza, santificando alcuni martiri palestinesi e prigionieri tenuti in detenzione amministrativa [cioè senza un’imputazione né una condanna, ndtr.] in sciopero della fame ed accettando le giustificazioni di Israele per l’uccisione e l’arresto di migliaia di altri palestinesi.

Quello che c’è di diverso nella “Grande Marcia del Ritorno” è che la sua richiesta di tornare mette in rapporto l'”occupazione” e l’assedio [di Gaza] con la Nakba, mettendo in scena per il pubblico occidentale, con la protesta e la resistenza, la colonizzazione di tutta la Palestina.

Questa richiesta, udita per la prima volta nella storia recente della resistenza palestinese, sta spostando la percezione dell’opinione pubblica occidentale.

Sulle reti sociali attivisti per la giustizia in Palestina hanno a lungo utilizzato diverse tattiche (soprattutto documentando e rendendo pubbliche le violazioni delle leggi internazionali e della dignità umana da parte di Israele) per raggiungere il pubblico occidentale (per aprirsi un varco nei principali media dell’Occidente). Le più efficaci sono le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS – PACBI), che hanno convinto grandi nomi dell’accademia e celebrità della cultura e dello sport ad abbracciare la causa dei palestinesi.

L’opinione pubblica occidentale è anche diventata più informata della reazione violenta sionista contro le campagne del BDS, soprattutto in quanto incide sulla libertà di parola.

In generale, per rivolgersi a un pubblico occidentale, soprattutto quello di sinistra, è efficace fare riferimento ai valori progressisti applicabili alle ingiustizie contro tutti i gruppi marginalizzati nella società occidentale, in quanto ciò evidenzia la contraddittorietà di  prendere in considerazione unicamente la causa palestinese come se fosse un’eccezione.

Il pubblico occidentale si presume faccia parte della tradizione giudaico-cristiana, un termine coniato da George Orwell nei lontani anni ’30 per combattere l’antisemitismo. Sfortunatamente questa tradizione umanistica è stata infangata perché ora antisemitismo e antisionismo vi sono inesorabilmente legati, e quindi lottare contro uno significa lottare contro l’altro.

La civiltà occidentale è stata a lungo definita dalle conquiste coloniali (in Medio oriente con islamofobia e arabofobia) e dal potere imperialista; ciò ha dato vita al sionismo.

Oltretutto,

“… una volta occupata la posizione di superiorità militare, la cultura colonialista produce, attraverso un’ampia gamma di mezzi di comunicazione, un’infinita serie di asserzioni che lentamente e sottilmente – con l’aiuto di libri, giornali, scuole e i loro testi, pubblicità, film, radio – invade le menti e plasma la visione del mondo del gruppo a cui si appartiene…La colonizzazione efficace porta l’oppresso a identificarsi con la visione del mondo dell’oppressore.” [citazione da “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon, ndtr.]

L’Autorità Nazionale Palestinese ora si identifica con il suo oppressore in modo così profondo che non si vergogna, come imposto da Israele, di reprimere brutalmente i palestinesi che in Cisgiordania si riuniscono contro le misure economiche punitive di Mahmoud Abbas a Gaza.

Ciò che alla fine cambierà la percezione del pubblico occidentale saranno gli stessi palestinesi che comunque scelgono di resistere. Devono insistere sulla liberazione – sulla decolonizzazione e non solo sulla “fine dell’occupazione”.

– Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna viene dal villaggio di Lifta, nella periferia occidentale di Gerusalemme, svuotato dei suoi abitanti con la forza. È un’attivista, una ricercatrice e docente in pensione di letteratura inglese all’università di Al-Quds, nella Cisgiordania occupata.   Ha offerto quest’articolo a PalestineChronicle.com. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’intervento di ILAN PAPPÉ

al panel “Memorie e Identità”del CONVEGNO L’eredità di Edward Said in Palestina,

TORINO 1-2 MARZO 2018

Aula Magna Campus Luigi Einaudi*

Sono un professore di storia e vedendo qui studenti, non studenti e professori nei banchi, credo che farò una lezione molto storica… è nel mio DNA! Metto da parte le questioni più concettuali e teoriche, e avrò un approccio più storico.

Ho appena firmato un contratto per un libro, che non ho ancora scritto (un errore!), l’unica cosa che so è il titolo che avrà: “Qual è il senso della storia?”. Ho scelto questo titolo perché negli ultimi 30-40 anni c’è stato un grande dibattito tra gli storici e gli accademici, non su cosa sia il senso della storia, ma su cosa sia la storia. Abbiamo distrutto cinque belle foreste in Brasile per farne dei libri su cui scrivere centinaia di pagine, per dire che cosa è la storia, e oggi non ne sappiamo molto di più. Abbiamo avuto delle scuole di pensiero nel 1900, e sono ancora le stesse. Ancora non sappiamo esattamente che cosa è la storia. I relativisti e gli empiristi stanno ancora dibattendo se si può o non si può conoscere esattamente ciò che è accaduto nel passato. Vico soleva dire “Ciò che sapete del passato è in realtà ciò che sapete del presente, non di più.” La maggior parte di noi si colloca nel mezzo tra un punto di vista relativista ed il suo opposto. È tempo di affrontare un altro problema: quale è il significato della storia.

Il motivo è che la questione palestinese è diventata un nodo che riporta ad un problema molto più ampio: che cosa è stata la Palestina negli ultimi 30-40 anni; è diventata un simbolo, o un oggetto di ricerca, di questioni che vanno molto al di là della Palestina stessa, come la giustizia sociale, o la decolonizzazione. Inoltre la Palestina è diventata importante per la discussione di che cosa sia il senso della storia. Noi viviamo in una società e in un ambiente neoliberale e anche l’università è vittima di questo tipo di percezione ideologica ed economica: da un punto di vista neoliberale l’insegnamento della storia è inutile e non molto importante. L’insegnamento della letteratura, la cultura, in generale l’umanesimo non sono considerati molto importanti. In Gran Bretagna, dove insegno, c’è una nuova idea di rendere la laurea in materie umanistiche e in scienze sociali molto più economica di quella in materie scientifiche, perché sono considerate meno importanti, per cui si paga meno per una laurea in sociologia o storia e molto di più per laurearsi in legge o in medicina. Non me lo sto inventando, è ciò che avverrà in Gran Bretagna nei prossimi anni.

Credo sia importante lottare per l’importanza della storia, non solo per il passato, ma per tutti noi. Sappiamo tutti che se c’è un vuoto nella storia, se l’università e gli storici non vengono considerati come una parte essenziale della nostra società, sappiamo da chi verrà colmato questo grande gap nella società: lo si è visto in Italia, dove stanno tornando i nuovi fascisti, quando la storia non viene raccontata correttamente e quando non viene considerata come questione morale: allora ci sono persone che propongono una loro narrazione e creano la base per politiche razziste ed immorali, in questo paese come anche altrove. Perciò credo che dobbiamo lottare per il diritto di parlare dell’importanza della storia e non vi è un altro caso che richieda un così serio approccio quanto il caso della Palestina. Voglio perciò fornirvi un approccio storico alla lotta contro la cancellazione della memoria della Palestina.

Il punto di partenza, che è già stato citato dai due amici che mi hanno preceduto, è che cerchiamo di guardare al sionismo di Israele oggi come ad un progetto di colonialismo di insediamento. Sono sicuro che tutti voi avete già sentito questo termine, colonialismo di insediamento, ma per essere certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, chiariamo la differenza tra colonialismo e colonialismo di insediamento. Quest’ultimo non è il classico colonialismo. Il colonialismo di insediamento è stato creato dai rifugiati, da quelli che hanno dovuto fuggire dall’Europa con l’aiuto di un altro potere colonialista ed in realtà non volevano tornare in Europa, non cercavano solo una nuova casa, ma una nuova patria. E tra le sfide in cui potevano imbattersi dovunque andassero, in America, Australia, Africa o Palestina, la maggiore era che vi fossero persone che già vivevano là, in un territorio che gli apparteneva, che per loro era invece il territorio dove costruire una propria nuova identità. In molti casi questi incontri con popoli indigeni andarono a finire con il genocidio dei nativi. Nel caso del Sudafrica e della Palestina vi furono la pulizia etnica, l’apartheid, ed altre atrocità che dopo la seconda guerra mondiale sono state considerate crimini di guerra contro l’umanità.

Fin dall’inizio la storia è molto importante per il colonialismo di insediamento. Questo intende dire ai popoli indigeni “inferiori, voi non avete una storia”. Gli indigeni sono stati rimossi dai libri di storia dei coloni, prima ancora di essere espulsi fisicamente dalla loro terra. Per esempio, se considerate i pittori sionisti nelle prime fasi del progetto sionista, alla fine del diciannovesimo secolo – inizio del ventesimo, se leggete le loro poesie o i loro racconti, ma penso che soprattutto la pittura sia significativa, potete vedere che i pittori sionisti guardavano la collina dove noi sappiamo che c’era un villaggio palestinese, ma nel dipinto o nel disegno il villaggio non c’è. Il villaggio è stato fisicamente distrutto nel 1948, ma non c’era già più nel 1910. Si tratta dello stesso approccio, attraverso il disegno, di rimuovere i nativi prima di eliminarli fisicamente che si trova… per chi di voi ha visto il muro israeliano intorno a Gerusalemme, là ci sono dei graffiti israeliani (no, non di Bansky…) di ciò che si può vedere al di là del muro, perché gli israeliani di Gerusalemme si lamentavano di dover passare da una parte all’altra della città attraverso un muro molto brutto, quindi qualcuno ha detto “bene, dipingiamolo e ci disegneremo un paesaggio che sta oltre il muro”, per cui si possono vedere le colline, ma non ci sono villaggi né città palestinesi. In realtà ci sono ancora e noi che abbiamo coscienza sappiamo che è un brutto segno che nei graffiti israeliani sul muro i villaggi che ancora esistono, nel disegno non ci sono, il che significa che loro hanno un piano diverso.

Prendiamo in considerazione il colonialismo di insediamento, non solo quello sionista, ma dovunque. Prima che abbiano il potere di espellere la popolazione indigena, la rimuovono dalla narrazione; ma fanno anche altro, lo sappiamo riguardo agli Stati Uniti. Si appropriano della storia degli indigeni come fosse la propria. Prendono la storia dei palestinesi, dei nativi d’America, degli aborigeni e sostengono che in realtà quella è la loro storia. Questo è parte di un progetto che costringe i nativi, la popolazione locale, a lottare per qualcosa che ai loro occhi è evidente, quindi ci vuole molto tempo prima che i palestinesi si rendano conto che devono difendere qualcosa che a loro appare un concetto naturale. Perché dovevano spiegare alle Nazioni Unite nel 1947 che appartenevano alla Palestina? Perché la popolazione di Torino dovrebbe spiegare all’Unione Europea che fa parte di Torino? È un esercizio inutile. Eppure ai palestinesi venne chiesto dalle Nazioni Unite nel 1947: ‘Diteci, siete voi il popolo della Palestina?’ Risposero ‘Sì, noi siamo palestinesi, siamo il popolo della Palestina.’

Sì, ma voi non lo avete articolato bene, perché ci sono i sionisti che hanno detto di essere loro il popolo della Palestina.’ Con un’assenza di 2000 anni, è vero, ma …

Questa sorta di de-indigenizzazione, o di negazione dell’identità indigena dei nativi, la pretesa che la loro storia sia la vostra, è una potente azione di cancellazione e ridefinizione della memoria e dobbiamo capire che la difesa della memoria inizia dal primo momento in cui un colono ebreo venne in Palestina alla fine dell’800.

I coloni ebrei, soprattutto quelli arrivati con la seconda ondata, tra il 1905 e il 1920, divennero il gruppo dal quale più tardi nacque la leadership israeliana fino al 1990, forse fino ad oggi. Molti di loro sono morti, ma la maggioranza di coloro che hanno impostato il sistema politico ed economico israeliano erano arrivati in quell’ondata, ciò che chiamiamo in ebraico la seconda Aliyah, la seconda ondata. Non era un grande gruppo, ma era molto qualificato. Quelle persone hanno scritto riguardo a qualunque cosa, ci hanno lasciato montagne di diari e di giornali ed hanno continuato a scrivere dal momento in cui sono arrivati, non è sfuggito nulla alla loro attenzione, ogni puntura di zanzara, ogni goccia d’acqua, se gli piacesse o no, ci hanno riferito tutto di quel periodo. Ciò che è stupefacente riguardo a questi coloni è che non erano mai stati prima in Palestina e solitamente hanno passato la prima notte nella città di Jaffa, dove tra l’altro i palestinesi li hanno ospitati, perché erano molto poveri; non sapevano dove stare a Jaffa per cui i palestinesi gli hanno permesso di rimanere gratis almeno per i primi due giorni prima di tentare di raggiungere le più vecchie colonie nel nord o nel centro della Palestina. Di notte, probabilmente usando lampade a petrolio (non c’era elettricità) scrivevano del loro primo arrivo nei diari o nelle lettere a casa. Erano davvero stupefatti perché in Polonia o in Russia, da dove provenivano, gli avevano detto che quando fossero arrivati avrebbero trovato una terra vuota, ma poi hanno scoperto che non era vuota, quindi vi è già una narrazione della storia che gli israeliani avrebbero poi portato avanti fino ad oggi, nel 2018. E la narrazione è: noi siamo ospitati da alieni, siamo ospitati da stranieri della nostra patria, che hanno preso la terra dei nostri antenati, e noi siamo venuti a riscattarla, quindi la generosità dei palestinesi, la loro umanità, vengono totalmente ignorate. Ciò che importa è che qui c’è una sfida, c’è una contraddizione tra l’idea che la terra che era deserta da 2000 anni doveva essere vuota, ma se ci sono esseri umani non possono far parte della patria, perciò sono stranieri. Questa idea che i palestinesi siano stranieri non è mai cambiata nella concezione degli israeliani, nemmeno di quelli di sinistra oggi: quando ragionano di compromesso coi palestinesi o quando parlano della cosiddetta pace con loro, li pensano sostanzialmente come stranieri in Palestina; anche se da un punto di vista liberale o socialista intendono arrivare ad un compromesso o a tollerarli in una piccola parte della Palestina, non li riconosceranno mai come indigeni. E questo fa parte del sistema educativo israeliano ancora oggi: noi siamo gli indigeni e chiunque altro è un immigrato, magari ebreo, che si accoglie, oppure è uno straniero. Anche l’ebraismo ha un ben noto modo di dire, che bisogna trattare bene lo straniero, quindi c’è un’idea religiosa che dice che si possono integrare gli stranieri, ma il profondo concetto dei palestinesi come stranieri esiste fin dall’inizio e i palestinesi hanno dovuto combatterlo fin dal primo momento.

Negli anni Trenta per la prima volta la comunità internazionale si è resa conto che la storia ha svolto un ruolo nel destino palestinese. Come saprete, negli anni Trenta gli inglesi che occupavano la Palestina dal 1918 cominciarono a pensare che c’era un problema in Palestina fra le promesse fatte agli ebrei con la Dichiarazione Balfour, che si sarebbe creata una casa per loro in Palestina, e il fatto che sul terreno c’era quella che si può definire una popolazione locale, un popolo che costituiva la schiacciante maggioranza della popolazione [96%], che aveva aspirazioni diverse rispetto alla terra, all’identità collettiva e che esistevano già movimenti di liberazione, gruppi di resistenza all’occupazione. Insomma gli inglesi capirono di dover trovare un modo per conciliare questi contrasti e non sapevano bene come rapportarsi alla Storia in merito. Se avessero utilizzato criteri universali nel 1936, e cioè quante persone, democraticamente, vogliono che la Palestina sia la Palestina, quante vogliono che la Palestina sia uno stato arabo, insomma usando i criteri che le nazioni legalmente usano per stabilire i diritti delle persone all’autodeterminazione, era molto chiaro che al massimo i coloni ebrei avrebbero potuto avere una qualche autonomia culturale nelle loro colonie e che l’aspirazione ebrea di avere una patria a spese dei palestinesi già nel 1936 non andava d’accordo con il diritto internazionale all’indipendenza e all’autodeterminazione. È molto chiaro, come ha detto anche Jamil Khader, che a causa del sionismo cristiano e di altri elementi in gioco, chi perseguiva quel disegno ha visto l’occasione di mettere in dubbio il diritto dei palestinesi alla Palestina attraverso la narrazione di un ritorno in patria dopo 2000 anni di esilio, che di base quella è la patria degli ebrei e i palestinesi sono stranieri. Ma non funzionò tanto bene, ci furono delle pressioni sul movimento sionista affinché provasse non solo che la Palestina fosse disabitata ma anche una continua presenza degli ebrei dall’epoca Romana. Gli inglesi dissero loro che se avessero potuto dimostrare una continuità questo avrebbe rafforzato la loro richiesta della Palestina. Ci fu un famoso incontro, fra David Ben Gurion, capo della comunità ebrea durante il periodo del mandato inglese, e lo storico più importante della comunità ebraica Ben-Zion Dinaburg, più tardi Ben-Zion Dinur, il secondo Ministro all’Istruzione dello Stato israeliano. Ben Gurion chiamò questo eminente storico sionista e gli disse “Voglio che tu faccia un grande progetto di ricerca: dimostra, indaga se c’è stata una presenza continua degli ebrei in Palestina dall’epoca Romana ai nostri giorni.” – cioè gli anni Trenta. Ben-Zion era un serio storico professionista e disse “È un grande progetto e mi piace! Mi darai i fondi?” – ciò che qualsiasi accademico avrebbe chiesto – e Ben Gurion disse “Certo! Tutto ciò di cui hai bisogno!” e poi gli chiese “Quanto tempo pensi di metterci per darci i risultati?” e Ben Zion disse “È un grande progetto, penso una decina d’anni… epoche differenti, lingue diverse, devo raccogliere un gruppo di ricerca ecc.” e Ben Gurion disse: “Non capisci. Una commissione d’inchiesta inglese, la Commissione Peel, arriverà tra un paio di settimane e dunque hai due settimane per trovare le prove che gli ebrei hanno sempre vissuto in Palestina; poi avrai altri dieci anni per sostanziare il tuo lavoro.” E in effetti se leggete il documento ebreo, sionista, consegnato alla Commissione Peel, c’è questa incredibile falsificazione di una continua presenza degli ebrei in Palestina, poiché questo avrebbe fornito la giustificazione morale al diritto degli ebrei di costruire una loro nazione in Palestina. I palestinesi all’epoca non capirono affatto la spaventosa sfida che dovevano affrontare: lo vediamo quando gli inglesi ne ebbero abbastanza della Palestina e demandarono il problema all’ONU e l’ONU creò una speciale commissione di inchiesta, l’UNSCOP, e anche UNSCOP era interessato alla Storia. Voleva capire i racconti, le narrazioni storiche di entrambe le parti. I palestinesi dissero – ed è probabilmente comprensibile – “Non vogliamo fornirvi la narrazione storica, non abbiamo intenzione di fornire le giustificazioni morali” – come penso sappiate, i palestinesi boicottarono la commissione speciale d’inchiesta dell’ONU, pensando “Noi siamo palestinesi in Palestina, perché dovremmo aver bisogno di andare all’ONU a dimostrare che è così!?” Ma quando sei un colonizzatore con il progetto di insediarti, sei bravissimo in storia, e la ricostruzione storica che il movimento sionista consegnò all’UNSCOP è un documento impressionante, di invenzione e falsificazione, ma comunque un documento impressionante: più note a pié pagina di quanto in Italia un dottorando metterebbe nella sua tesi, un mucchio di note, incredibile, è così sostenuto e comprovato e con tanti e tali riferimenti incrociati che prenderebbe 100 su 100 come lavoro storico se sottoposto ad una giuria accademica – quanto alla validità delle affermazioni… lasciamo stare. Era chiaro già nel 1946 allo stesso movimento sionista come alla comunità internazionale che fosse essenziale una narrazione storica, quand’anche falsa e inventata, per giustificare l’immorale idea di dare la Palestina al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in particolare per l’Olocausto. Non si può procedere direttamente dall’argomento morale: non basta che gli ebrei meritino una patria a causa dell’antisemitismo, bisogna motivare perché in Palestina e a spese dei palestinesi e ottimi storici erano presenti sia nel movimento sionista che alle Nazioni Unite nel 1946… e dunque qual è il senso della storia? di fornire giustificazione morale ad azioni di disumanizzazione [riduzione demografica], pulizia etnica, colonizzazione, che hanno fatto davvero tante vittime umane. Allora “Storia” non è soltanto il nome di una pratica accademica, è anche la narrazione che giustifica l’umanità [nel suo agire]. Dopo il 1948, per la prima volta vediamo i palestinesi rivolgersi di nuovo alla storia, specialmente alla storia recente. I palestinesi, malgrado il trauma dei fatti del 1948, cercarono di spiegare al mondo, con libri storici, cosa era accaduto in quel 1948 – fra questi uno famoso è quello di Walid Khalid [All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948]. Ma nel 1949 e nemmeno negli anni cinquanta il mondo era minimamente interessato a sentire la versione storica di un palestinese, che fosse di uno storico professionista o di livello amatoriale. È molto interessante: Walid l’ha studiata per tutta la vita, è considerato oggi uno storico palestinese dei più importanti e voleva fare un PhD a Oxford, nel 1949-’50, usando la sua memoria ancora molto fresca dei fatti accaduti in Palestina e anche ricostruendo una narrazione e spiegando chiaramente quali fossero i risultati della risoluzione dell’ONU e dell’atteggiamento internazionale rispetto alla Palestina. Fu però convinto dal suo professore della prestigiosa università inglese a non trattare di quei fatti perché erano troppo politici, troppo emotivi, troppo vicini nel tempo, e lui fece un PhD su un altro argomento. Anni dopo avrebbe contribuito alla nostra conoscenza storica della Palestina, ma nei tardi anni quaranta e cinquanta, nella memoria degli studi universitari la versione degli israeliani era considerata professionale, valida, accademica, mentre gli storici palestinesi… chi erano? erano considerati degli emotivi, orientali, che lavoravano su visioni di fantasia piuttosto che sui fatti. Ma è incredibile che gli israeliani scrissero un numero incredibile di libri, specialmente i generali che avevano partecipato alle pulizie etniche del 1948 scrissero le proprie memorie, erano chiamati “i libri della Brigata” in Israele, una letteratura enormemente vasta che uscì in ebraico nel 1950 e ’51, in base a cui infatti qualcuno di noi – ma nessuno di noi lo fece – insomma se qualcuno fra gli ebrei vivo e abbastanza cosciente nel 1951 avesse voluto, avrebbe potuto scrivere quella che fu in seguito chiamata la “nuova storia” del 1948, avrebbe potuto farlo nel 1950 senza un solo documento degli Archivi israeliani. Sapete, il mito che dovessimo aspettare la desecretazione degli archivi nel 1978 per sapere cosa fosse accaduto in Palestina nel 1948, è un’assurdità: nel 1950 i generali, i militari, le truppe che avevano preso parte alla pulizia etnica della Palestina scrissero molto onestamente di ciò che avevano fatto, ma quando non hai le giuste lenti ideologiche, morali, non leggi correttamente quella produzione di conoscenza, non capisci che la parola “nemico” vuol dire “donne e bambini”, non capisci che la parola “base nemica” vuol dire “un villaggio o un quartiere”, non capisci che l’espressione “eliminare il nemico” vuol dire “distruggere un’intera comunità”; è solo dopo, quando il dizionario ideologico cambia e si inizia a rileggere queste fonti – disponibili, non desecretate – capisci che non era necessario aspettare il 1978, che già nel 1950 era possibile scrivere la vera storia del 1948. Ma di certo Israele allora era protetto da quella nuova idea degli storici che un documento in un archivio scritto da un politico, un militare – il genere di persone più inattendibili che ci sia al mondo – insomma che questo scritto, già coperto dalla polvere di 30 anni, non debba essere altro che la verità e nient’altro che la verità e questa era una cosa su cui anche i palestinesi sfortunatamente cominciarono a riflettere più tardi, quando la nuova storia di Israele cominciò ad apparire. Cominciarono a tenere in considerazione i documenti dell’esercito israeliano sui fatti del 1948, pensando che contenessero la sola versione possibile degli eventi rispetto alle testimonianze orali o ad altri mezzi che si usano per ricostruire cosa accadde nel passato. Per questo la nostra battaglia contro il memoriale è anche la nostra battaglia contro la gerarchia, che considera dei documenti politici e militari desecretati possedere una sorta di validità che ogni altra fonte che usiamo per ricordare e rammentare non possiede. Penso a questo proposito al lavoro di Jacques Derrida e di Michel Foucault sugli archivi, che aiutano molto a invalidare gli Archivi Nazionali in quanto deposito di fatti manipolati e aggiustati dallo Stato, e non una via diretta alla verità del passato.

Procedo verso il prossimo punto, con cui concluderò. Una cosa importante da ricordare riguardo ad Edward Said è che scrisse un libro, The Question of Palestine, pubblicato negli anni Settanta e dunque prima che si avesse accesso agli archivi israeliani, o agli archivi britannici o americani. E questo perché lui aveva idea che ciò che è importante dei fatti sia il loro significato piuttosto che la loro autenticità; lui fu in grado per la prima volta di articolare in modo molto chiaro una narrativa palestinese, che naturalmente compare più tardi nell’atto costitutivo dell’OLP e nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1988; per la prima volta i lettori inglesi ebbero a disposizione una narrazione concisa, che conteneva ciò che è importante in una narrazione e cioé non i dettagli, ma lo scheletro della storia, una storia di colonizzazione, spossessamento – non una storia complicata, infatti è il primo a dire che ciò che fa Israele erige anche uno schermo di complessità. Penso che ognuno di voi che abbia discusso in veste ufficiale o con un portavoce informale di Israele sa che il maggiore genere di rivendicazione di Israele è che la cosa è troppo complessa, voi non riuscirete mai a capire, solo Israele la capirebbe. E questa complessità della storia è costruita, perché purtroppo la storia non è affatto complessa, di gente che arriva e caccia via altra gente, è già accaduto e purtroppo accadrà ancora, e la domanda è se si possa fermare piuttosto che se si possa comprendere. Come sapete negli anni ottanta capitarono due cose, e con questo concludo. Apparve il grande articolo di Edward Said che hanno menzionato i miei colleghi, Permission to Narrate, un articolo molto importante che vi raccomando di leggere se non l’avete già fatto, che Said scrisse immediatamente dopo l’invasione israeliana del Libano, nel 1982. Dopo l’invasione del Libano del 1982, che in Israele è chiamata la Prima Guerra del Libano, l’ONU nominò una commissione d’inchiesta con a capo una persona di nome Sean McCright, un irlandese che era famoso nel mondo come l’avvocato più autorevole per i Diritti Umani, e fu nominato dall’ONU anche perché aveva effettivamente a livello internazionale la reputazione di persona integra e questo avvocato produsse un report molto incriminatorio della guerra in Libano, specialmente [delle azioni] contro i campi profughi palestinesi, report che fu completamente ignorato dalle Nazioni Unite, dai media internazionali e questo irritò molto Said. E fu così che iniziò a scrivere il suo articolo.

E la seconda cosa che successe, che lo irritò, fu che il buon amico Noam Chomsky scrisse un libro intitolato Il triangolo palestinese e concludeva il libro dicendo che, riguardo alla questione palestinese, se si guardavano realmente le cose in faccia, i palestinesi non avrebbero avuto proprio alcuna possibilità di cambiare la realtà. Non so che cosa l’abbia irritato di più, se il report di McCright o le conclusioni di Chomsky, ma scrisse l’articolo con molta rabbia, questo è evidente. E nell’articolo dice, e questo è molto importante, che non solo i palestinesi hanno il permesso di avere la loro narrazione, e che anche se l’equilibrio di potere è contro di te, non hai il potere militare, non hai il potere economico, non hai il potere diplomatico, nessuno può toglierti il potere di raccontare la tua storia.

Ma questo non è il punto principale, il punto principale è che Said ha detto a Chomsky: se i fatti sono così deprimenti devi raccontarli in modo che si possa scegliere di venirne fuori. Il ruolo della Storia non è quello di dire le cose così come sono state, la Storia racconta le storie del passato con una visione di cambiamento della realtà nel futuro. Certo, così dicendo Said entrava in conflitto con la percezione professionale accademica del lavoro della Storia in quanto imparziale, oggettiva, priva di agenda politica, e diceva: la gente non ha un’agenda politica, una posizione morale e se si ricostruisce la storia della Palestina senza alcun impegno, si finisce certo con il rappresentare dei fatti che perpetuano la realtà. Mentre le persone che scrivono assumendosi un impegno, possono anche contribuire scrivendo a produrre un cambiamento nella realtà.

Lui credeva che la penna possa a volte essere più potente dei pensieri; la maggior parte di voi è molto giovane e magari non sa che cos’è una penna, allora diciamo che una tastiera può essere più potente dei pensieri…..Ma Said da più punti di vista non era certo naïf su questo, semplicemente pensava che questa fosse una parte importante della lotta. Permettetemi di finire dicendo che oggi in Palestina, in Israele, nei Territori Occupati e all’interno della comunità palestinese Said lancia un appello al permesso di narrare, e cioè “io ho il diritto di raccontare la mia storia anche se sono occupato, anche se sono colonizzato e anche se sono rifugiato”, e ho il diritto come storico professionista di essere un attivista. Queste sono le due raccomandazioni di Said per il futuro per noi storici professionisti. Lui viene preso molto sul serio dalla società civile, ma ancora non abbastanza sul serio dalla comunità accademica, purtroppo. Quindi molte delle cose che Said avrebbe voluto veder accadere in ambito accademico – cioè che avremmo fatto lezioni sul 1948 come pulizia etnica, che avremmo fatto lezioni sulla Palestina nei nostri corsi sul colonialismo, che avremmo fatto lezioni su Gaza nei nostri corsi sul genocidio, negli studi sul genocidio – non è successo. Questo non è successo, né in Italia, né in Inghilterra, in nessun posto, quindi non sentitevi esclusi. In nessuna parte del mondo è facile cambiare il piano di studi in modo che rappresenti il tema Palestina come una conquista nella produzione accademica di conoscenza.

Ma nella società civile, che è meno inibita dalla nuova scuola di pensiero liberale, lo stanno facendo, e in Palestina potete vedere progetti di storia orale, progetti di ricostruzione di modelli dei villaggi distrutti, il racconto di storie attraverso interviste individuali o spettacoli o folclore. Il permesso di narrare è ciò che Gramsci probabilmente chiamava resistenza culturale, come prova concessa alla resistenza politica. Come sapete Gramsci diceva che se non si può fare resistenza politica, si fa una resistenza culturale nel senso che questa è il banco di prova concesso alla resistenza politica. E da più punti di vista gli Israeliani stanno iniziando a capire il progetto culturale di memoria che i giovani palestinesi hanno intrapreso non solo in Israele, ma anche in altri paesi, in Palestina e fuori dalla Palestina, e improvvisamente stanno capendo, senza comprendere appieno il perché, che si sentono spaventati da questo molto più che dai missili che Hamas lancia contro di loro da Gaza o dai missili di Hezbollah ed è per questo che hanno approvato delle leggi, di cui la più famosa è la legge sulla Nakba, hanno approvato una legge che dice che i palestinesi non hanno il permesso di fare riferimento agli eventi del 1948 come Nakba. Credo che persino George Orwell non avrebbe potuto inventare una legge di questo tipo, voglio dire che è incredibile il modo in cui lo fanno, ma lo fanno perchè percepiscono che in qualche modo la società civile palestinese, non quella accademica, ricorda il 1948 come un evento contemporaneo. Come ha detto Jamil Khader a questo proposito, è la “Al-Nabka al-Mustamirra” [“La Nakba ininterrotta”, ndt], voglio dire che non sono riusciti nonostante i fatti, nonostante abbiamo cancellato i villaggi e le foreste ora coltivate con alberi europei, nonostante il fatto che abbiano costruito le colonie, eliminando quartieri e villaggi, nonostante tutto lo smantellamento che hanno fatto e continuano a fare, non possono controllare un progetto di questo tipo, che riporta e ripete la storia di Israele in modo da dimostrargli che il loro progetto di spopolare la Palestina dei palestinesi non è riuscito.

E questo richiede un grosso sforzo ed ottimismo, lo so, ed i tempi non ci offrono una buona ragione per essere ottimisti, ma ritengo che Said, il permesso di narrare di Said, ci dimostri che qualsiasi sia l’equilibrio di potere – e nessuno può pensare uno squilibrio di potere peggiore tra i palestinesi e gli Israeliani, non me ne viene in mente uno, almeno non nella storia contemporanea –, qualunque sia lo squilibrio, un fatto resta innegabile: gli Israeliani vogliono avere una vita normale, essere accettati come una normale parte organica della Palestina – cosa che potrebbe anche diminuire la possibilità di una prevedibile terza ondata di coloni – ed essere parte del Medio Oriente, gli Israeliani vogliono questo tipo di normalità. L’unico popolo che può garantirgli questo, sfortunatamente per loro, sono i palestinesi, non gli americani, non i cinesi, non gli indiani, non gli europei. È in qualche modo assurdo, perchè i palestinesi sono le vittime principali, sono stati oppressi, colonizzati, è stata fatta una pulizia etnica nei loro confronti, ma sono l’unico popolo che può dar loro legittimità; ora certo gli Israeliani hanno sufficiente potere per fare a meno della legittimità, ma lo potete vedere nella reazione alla campagna del BDS: la delegittimazione è qualcosa con cui gran parte degli Israeliani non sarebbe in grado di coesistere per lungo tempo. E questo è qualcosa che noi dovremmo comprendere, è qualcosa che noi dovremmo utilizzare e non perdere la speranza, nonostante la discordia, lo squilibrio di potere, una comunità internazionale indifferente, nonostante tutto questo, perché ciò che è successo in quell’area del mondo non si dovrebbe mai permettere che accada, pensando positivamente alla Palestina, nonostante tutto questo o il colonialismo dei coloni è trionfante, come in caso di genocidio, o alla fine è destinato a perdere, come è successo in Algeria o in Sud Africa.

Quella è la speranza, che la Palestina nel 2055 sia insegnata in questa università come caso della possibilità di sconfitta del progetto colonialista.

Grazie!

(traduzione di Cristiana Cavagna, Luciana Galliano e Paola Merlo)

vers. orig. https://www.youtube.com/watch?v=e2Y7ZH27Tt4,video a cura di Invicta Palestina

*Il seminario “L’eredità di Edward Said in Palestina” è stato organizzato dagli studenti del Progetto Palestina e si è svolto nei giorni del 1 e 2 marzo con quattro panel con tre relatori ciascuno.




La storia mai raccontata degli ebrei che se ne andarono dalla Palestina mandataria

Nir Hasson

Haaretz 16 febbraio 2018

Nei tre decenni precedenti la fondazione di Israele circa 60.000 ebrei lasciarono il Paese per ragioni finanziarie o ideologiche. Un nuovo libro rivela una pagina nera della storia sionista, compresa l’espulsione forzata degli immigrati ebrei “onerosi”.

Nell’ottobre 1926 a Varsavia ebbe luogo un avvenimento decisamente inusuale: si tenne un processo pubblico contro il movimento sionista per il modo in cui aveva trattato quelli che erano immigrati nella Palestina sotto mandato britannico durante quel periodo. A testimoniare erano ex-immigrati che avevano tentato senza successo la sorte nella Palestina mandataria e poi se n’erano andati. Uno di loro, un industriale di nome Rubin era partito quando la fabbrica di sigarette che aveva fondato non riuscì ad entrare nel mercato locale perché i fumatori preferivano marche importate, per cui chiuse la sua fabbrica e tornò in Polonia.

Nella sua testimonianza Rubin raccontò di come venne convocato ad una riunione con la “Brigata dei Difensori della Lingua” – un gruppo di appoggio alla recentemente rinata lingua ebraica nella Palestina mandataria. Lo rimproverarono per i suoi pacchetti di sigarette, che mostravano diciture in inglese, mentre sulla scrivania del segretario [della brigata, ndt.] che lo rimproverava si trovava un pacchetto di sigarette “Mabrouk” di fabbricazione egiziana.

Il testimone concluse affermando che nella Palestina sotto Mandato britannico venivano semplicemente boicottati i prodotti degli ebrei polacchi – anche se erano i migliori ed i più economici”, riferì il quotidiano “Doar Hayom” [uno dei primi giornali sionisti in Palestina e di destra, ndt.].

Il processo pubblico mette in luce una storia sconosciuta e, secondo qualcuno, deliberatamente messa a tacere nella storia sionista: quella degli ebrei che prima immigrarono, ma in seguito emigrarono durante il periodo dell’incremento della comunità ebraica (l’Yishuv) nella Palestina del Mandato britannico. Ebrei che erano immigrati per ragioni ideologiche o per necessità, tentarono la sorte ma ripartirono quando le cose non gli andarono bene. (In ebraico quelli che lasciano lo Stato ebraico sono chiamati “yordim”, che letteralmente significa “scendere”).

Il dottor Meir Margalit ha fatto una ricerca sulla storia degli emigranti ed ha recentemente pubblicato un libro in ebraico: “Tornare in lacrime. L’emigrazione durante il periodo del Mandato britannico.”

Margalit, un ex-consigliere comunale del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] a Gerusalemme e immigrato dall’Argentina, a cui spesso è stato chiesto se ha fatto una buona scelta a venire qui, ha scritto lo studio come tesi di dottorato, prima all’Università Ebraica e poi all’università di Haifa. Spiega che lo spostamento di università è dovuto al soggetto della sua dissertazione e alla contrarietà per il suo interesse riguardo all’argomento.

Mi hanno etichettato come un ‘nuovo storico’ [corrente storiografica israeliana che ha messo in dubbio la versione ufficiale delle vicende precedenti e successive alla fondazione dello Stato, ndt.]” dice Margalit, raccontando come la sua ricerca ha innescato molte discussioni accese. “Per esempio, è stato scritto che, negli anni dal 1927 al 1929, gli emigranti se ne andarono per la carestia. Il tutor della mia tesi ha sostenuto che, in base ai dati macroeconomici, non c’è stata nessuna carestia nell’Israele pre-statale. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che non ci fu una carestia ma c’era gente affamata.”

Margalit ha deciso che si doveva attenere al principio di ascoltare la narrazione degli emigranti come loro stessi l’hanno raccontata, senza mettersi a discutere con loro.

Quando la famiglia Mendelsohn lasciò (la Palestina mandataria) nel 1942 – dopo che l’esercito di Erwin Rommel aveva raggiunto le vicinanze del Paese – spiegando che ‘non erano fuggiti dalla furia di Hitler in Germania per caderne preda in Palestina,’ non abbiamo voluto verificare se in termini militari la paura fosse giustificata,” dice Margalit, per fare un esempio.

Egli sostiene che quelle voci rivelano un lato oscuro e ignorato della narrazione sionista.

Un fenomeno significativo

In termini demografici questo è un fenomeno significativo. Secondo stime, durante la Prima e la Seconda Aliyahs [lett. “salita”, l’emigrazione degli ebrei in Palestina, avvenuta in varie fasi, ndt.] (1882-1903 e 1904-1914 rispettivamente), oltre la metà di tutti i nuovi immigrati aveva lasciato il Paese persino prima che scoppiasse la Prima Guerra Mondiale nel 1914. Margalit si è concentrato sui circa 60.000 immigrati ebrei che se ne andarono durante il periodo del Mandato, dal 1923 al 1948. Negli anni di maggior insediamento ebraico nella Palestina mandataria – alla vigilia della fondazione dello Stato nel 1947 – circa il 10% di tutti i nuovi immigrati sarebbe emigrato.

Insieme a quelli che se ne andarono prima dell’inizio del dominio britannico nel 1917, gli emigranti furono circa 90.000 persone. Tuttavia Margalit sottolinea che, confrontata con altre ondate di immigrazione durante lo stesso periodo, questa dovrebbe essere considerata un successo. Per esempio, degli italiani che lasciarono la loro patria durante lo stesso periodo e andarono in Sud America, circa il 30% tornò più tardi in Italia.

Ma, a differenza degli italiani, gli ebrei della Palestina mandataria affrontarono difficoltà molto maggiori dopo essere emigrati. Ovviamente durante la Seconda Guerra Mondiale non c’erano possibilità di tornare in Europa, ma era pericoloso persino viaggiare verso altre destinazioni.

Margalit afferma che c’erano migliaia di persone che avrebbero voluto emigrare dalla Palestina mandataria, ma mancavano di mezzi. “A volte non avevano le otto sterline palestinesi per comprare un biglietto. Ci sono prove di persone che si riunivano nei porti e gridavano ai nuovi immigrati: “Perché venite qui?” O andavano agli uffici delle compagnie di navigazione per vedere se fosse possibile avere un posto in quarta o quinta classe.”

Altre crude testimonianze descrivevano come alcune persone erano riuscite a raggiungere un porto europeo, ma rimanevano bloccate là senza alcuna speranza di raggiungere le città d’origine, morendo lentamente di inedia e malattie. Questi racconti, sostiene Margalit, scoraggiavano quelli che volevano lasciare la Palestina mandataria.

Una delle storie più sconvolgenti riguardante quelli che volevano andarsene dalla Palestina mandataria è quella delle migliaia di aspiranti ad emigrare che si rivolgevano all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale, chiedendo di essere inclusi nelle liste dei rifugiati con diritto a tornare ai loro Paesi d’origine in Europa – come gli sfollati dispersi in tutta Europa.

Un gruppo chiamato “Organizzazione per il Ritorno degli Immigrati Tedeschi” si rivolse all’ONU con la richiesta di rimandarli in Austria e in Cecoslovacchia. Nel 1947 vennero inoltrate 485 richieste per un passaporto austriaco nella Palestina mandataria. E il console polacco a Tel Aviv parlò di 14.500 ebrei polacchi che chiedevano visti per tornare alla loro patria.

La dirigenza sionista lavorò per impedire che agli ebrei venisse concesso il “diritto al ritorno” nei Paesi europei, sostiene Margalit.

Ci sono prove di un accordo tra l’Agenzia Ebraica [una delle principali istituzioni sioniste, ndt.] e il consolato polacco nella Palestina mandataria, affinché provocasse ritardi infiniti per gli ebrei che volevano tornare, in modo che perdessero il desiderio di andarsene,” dice Margalit. “È chiaro perché l’Agenzia non voleva che tornassero, ed è anche chiaro perché non lo volevano neanche i polacchi – c’erano parecchi problemi di antisemitismo e di odio, così come questioni di proprietà. Ma è chiaro che se la porta fosse stata aperta il numero sarebbe notevolmente aumentato,” afferma.

Secondo Margalit, non furono solo quelli che ebbero successo e si fermarono qui che scrissero la storia dell’‘Israele pre-statale’, ma anche quelli che non rimasero. “Non sono solo i vincitori che hanno fatto la storia,” dice. “Quando ho osservato la storia con gli occhi degli emigranti, ho scoperto cose che non conoscevo.”

Per esempio, continua: “In generale descriviamo l’assimilazione delle prime ondate di aliyah come una storia di successo – eppure ho improvvisamente capito che non era vero. La dirigenza ebraica nella Palestina mandataria semplicemente perse il controllo e quelli che rimasero – lo fecero solo grazie ai propri sforzi.”

Triste e vergognoso

Il libro di Margalit racconta che la questione più triste e vergognosa riguardo al movimento sionista fu l’emigrazione forzata – soprattutto dei malati cronici o dei disadattati sociali, che vennero deportati dalle organizzazioni sioniste in modo che non diventassero un peso per la comunità ebraica.

Yehoshua Gordon era direttore dell’ufficio immigrazione a Tel Aviv durante il periodo del Mandato, e nel 1921 si lamentò che gli immigrati malati non solo venivano rimandati in Europa, ma che non stavano ricevendo le cure necessarie in Europa e stavano persino “morendo di malattia per le strade.” Ma, nonostante le critiche, rimandare indietro questi immigrati diventò una politica ufficiale nel 1926.

Margalit scrive che, un anno più tardi, vennero rese pubbliche istruzioni secondo le quali un immigrato che non fosse in grado di provvedere a se stesso potesse ricevere danaro per coprire le spese del viaggio di ritorno, mentre quelli che sceglievano di rimanere avrebbero ricevuto “assistenza economica a breve termine perché trovassero un contratto di lavoro – se erano in grado di dimostrare che, con questo contratto, avrebbero potuto sistemarsi stabilmente nel Paese.”

Uno degli immigrati, Moshe Ashberg, a cui venne detto che se ne doveva andare, effettivamente in lettere agli impiegati dell’ufficio immigrazione implorò che lo risparmiassero: “Ho paura di non poter vivere qui, perché non ho nessuno da cui andare,” scrisse.

Ma la maggior parte degli emigrati se ne andò di spontanea volontà. Tra costoro c’erano imprenditori borghesi che decisero di tentare la fortuna altrove, e anche pionieri [gli ebrei che fondarono le prime comunità in Palestina, ndt.]. Margalit ha scoperto che le difficoltà finanziarie erano la ragione principale citata per persone che tornarono al Paese d’origine o emigrarono del tutto in un altro Paese. La gente che non trovò lavoro o che vide che la propria situazione stava costantemente peggiorando scelse di andarsene per “salvare il salvabile”, come dice Margalit.

C’erano anche quelli che se ne andarono perché temevano per la propria vita – sia a causa dei tumulti arabi del 1929, della rivolta araba del 1936-39 o per timore delle truppe di Rommel e di una possibile occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale. E poco prima della guerra d’Indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i Paesi arabi dopo la fondazione dello Stato di Israele, ndt.] gli inglesi aiutarono la comunità degli ebrei messianici [movimento ebreo cristiano di matrice evangelica, ndt.] a lasciare il Paese, dato che avevano paura sia degli ebrei che degli arabi.

Rivoluzione ideologica

Ci furono anche quelli che lasciarono la Palestina mandataria per pura e semplice nostalgia della patria. “Si trovano documenti strazianti, gente che scrive: ‘Ho sognato di venire qui, e improvvisamente sto sognando la casa e la famiglia.’” Altri se ne andarono per ragioni ideologiche: socialisti che ritenevano che il sionismo stesse tradendo la sua missione di fondare una società modello; ultraortodossi (o haredi) che vedevano i pionieri come profanatori della terra, e che preferirono praticare l’ebraismo nelle “corti” hassidiche in Polonia piuttosto che nel pre-Stato di Israele.

Capisco quelli che se ne andarono per ragioni ideologiche più degli altri – ho avuto pensieri simili,” ammette Margalit. “Tuttavia a un certo momento, mentre stavo scrivendo e vedevo le difficoltà dell’epoca, ho pensato che la domanda non fosse perché la gente emigrava, ma perché rimase.”

Il fatto che fosse così difficile lasciare il Paese è stata la fortuna del movimento sionista,” ritiene Margalit. “Se non fosse stato per le circostanze storiche, saremmo arrivati all’aprile 1948 molto più deboli di quanto eravamo all’epoca. E allora la decisione di (David) Ben-Gurion (di dichiarare la fondazione dello Stato) sarebbe stata diversa.”

Margalit, 65 anni, padre di tre figli e con un nipote, immigrò dall’Argentina nel 1972 come membro del movimento giovanile del Betar [della destra sionista, ndt.]. Poco dopo il suo arrivo, venne arruolato nell’esercito israeliano e fu uno dei fondatori della colonia di Netzarim nella Striscia di Gaza. Però venne ferito durante la guerra dello Yom Kippur, e durante la sua convalescenza in ospedale subì una rivoluzione ideologica, spostandosi da destra a sinistra.

Per anni è stato attivo nel “Israeli Committee Against House Demolitions” [Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case”, ndt.] e, quando era consigliere del consiglio comunale della Città di Gerusalemme, ha lavorato a favore dei palestinesi a Gerusalemme est.

Ammette che la storia degli emigrati ebrei lo tocca al di là dell’aspetto della ricerca: “Nel 2012 ho visitato l’Argentina e mi sono incontrato con membri del movimento (Betar) che sono rimasti o sono tornati, e ho fatto un confronto tra me e loro,” racconta. “Tutti attorno a me erano benestanti, ma io sono uno di quelli che il 4 di ogni mese si chiede dove troverà i soldi per pagare l’affitto. Mi domando anche che diritto ho di far crescere i bambini in questo Paese pericoloso, sull’orlo di un vulcano. Questo è qualcosa che passa per la testa di molti israeliani sani di mente che conosco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ministro della Giustizia di Israele approva l’apartheid – lo Stato ebraico “a scapito dell’uguaglianza”

Jonathan Ofir

13 febbraio 2018, Mondoweiss

Ayelet Shaked, la ministra della Giustizia israeliana, lo ha fatto di nuovo: ha illustrato l’apartheid israeliano in termini inequivocabili, e lo ha legato direttamente al sionismo:

“C’è spazio per conservare una maggioranza ebraica persino a prezzo di una violazione dei diritti,” ha detto ieri (lunedì 12 febbraio) al “Convegno su Ebraismo e Democrazia”, come riferito da Haaretz. Shaked stava parlando della legge israeliana “Stato-Nazione del popolo ebraico” ed ha detto chiaramente che l’uguaglianza è essenzialmente un pericolo per lo “Stato ebraico”.

Sul tentativo della coalizione [di governo] di tenere fuori la parola “uguaglianza” dalla legge sullo Stato-Nazione, Shaked ha detto che “Israele è uno Stato ebraico. Non è uno Stato per tutte le sue nazioni. Cioè, stessi diritti per tutti i cittadini ma non diritti nazionali uguali.”

Shaked ha detto che la parola “uguaglianza” è molto generica e l’autorità giurisdizionale potrebbe portarla “molto lontano”, aggiungendo che “ci sono luoghi in cui il carattere dello Stato di Israele come Stato ebraico deve essere conservato e a volte ciò avviene a scapito dell’uguaglianza.”

Quindi sta ripetendo quello che ha detto sei mesi fa – che “il sionismo non dovrebbe – e qui sto dicendo che non lo farà – continuare a inchinarsi ad un sistema di diritti individuali interpretati in modo universalistico.”

All’epoca il giornalista di Haaretz Gideon Levy [vedi zeitun.info] aveva ringraziato Shaked per aver detto la verità:

“Quindi Shaked crede, come molti nel mondo, che Israele sia costruito sulle fondamenta dell’ingiustizia e di conseguenza debba essere difeso dal discorso ostile della giustizia. In quale altro modo può essere spiegato il rifiuto di discutere dei diritti? I diritti individuali sono importanti, dice, ma non quando questi sono slegati dalle “sfide sioniste”. Ha di nuovo ragione: le sfide sioniste sono quindi in contraddizione con i diritti umani…”

E ha concluso:

“Il sionismo è la religione fondamentalista di Israele, e, come in ogni religione, la sua negazione è proibita. In Israele ‘non sionisti’ o ‘antisionisti’ non sono insulti, sono ordini di espulsione dalla società. Non c’è niente di simile in nessuna società libera. Ma ora che Shaked ha smascherato il sionismo, messo la sua mano sul fuoco e detto la verità, possiamo finalmente ragionare più liberamente sul sionismo. Possiamo riconoscere che il diritto degli ebrei ad avere uno Stato ha contraddetto il diritto dei palestinesi alla loro terra, e che il sionismo legittimo ha dato vita a un terribile errore nazionale che non è mai stato corretto; che ci sono modi per risolvere e fare ammenda di questa contraddizione, ma gli israeliani sionisti non li vogliono accettare.”

Shaked ha ancora una volta accentuato aspetti che sono una diretta conferma delle conclusioni essenziali del “Rapporto ONU sull’Apartheid Israeliano” [stilato dalla “Commissione Economica e Sociale per l’Asia occidentale” dell’ONU, ndt.], accantonato lo scorso anno, che ha chiarito le pratiche razziste dello Stato di Israele e la sua intrinseca natura razzista. Il rapporto evidenziava che “i partiti politici palestinesi possono battersi per riforme di scarsa importanza e per una migliore destinazione del bilancio, ma hanno la proibizione giuridica da parte della Legge Fondamentale di sfidare la legislazione che mantiene il regime razzista. La politica è rafforzata dalle implicazioni della distinzione fatta in Israele tra ‘cittadinanza’ (ezrahut) e ‘nazionalità’ (le’um): tutti i cittadini israeliani godono della prima, ma solo gli ebrei della seconda. Nella legge israeliana diritti ‘nazionali’ vuol dire diritti nazionali ebrei.”

Quel rapporto provocò grande ira tra la dirigenza israeliana, e il Segretario Generale dell’ONU si inchinò alle pressioni israeliane (e americane) perché venisse accantonato per la sua presunta natura ‘antisemita’ – ma qui il ministro della Giustizia di Israele sta confermando quello che [il rapporto] sta essenzialmente dicendo.

Shaked, che ha una propensione per una retorica genocidaria e fascista, è molto esplicita sul perché vuole che la legge dello Stato-Nazione sia codificata all’interno di una “legge fondamentale” quasi costituzionale: l’obiettivo della legge sullo Stato-Nazione, ha detto, è di prevenire una sentenza come quella del caso Ka’adan del 2000, che condannò la discriminazione contro una famiglia araba che voleva andare ad abitare in una piccola comunità ebraica che aveva cercato di impedirglielo. Shaked vuole che sia assolutamente possibile per una comunità ebraica impedire l’ingresso di cittadini palestinesi su base razziale. Infatti Shaked, riferendosi alla sentenza Ka’adan, ha detto che

“sulla questione se sia giusto per una comunità ebraica essere, per definizione, solo ebraica, voglio che la risposta sia ‘sì, è giusto’.”

Shaked ha lamentato di nuovo che i “valori universali” starebbero prendendo il sopravvento:

“Negli ultimi 20 anni c’è stata maggiore attenzione a emettere sentenze su valori universali e meno sul carattere ebraico dello Stato. Questo (la legge sullo Stato-Nazione) è uno strumento che vogliamo fornire ai tribunali per il futuro.”

Perciò Shaked vuole chiudere la porta a quelle piccole aberrazioni, in cui compaiono sottili crepe nel muro dell’apartheid israeliano. Vuole che sia completamente chiusa e sprangata. E, cosa più importante, il mondo deve accettarla come un’ideologia e una politica legittime.

Si noti che tutto ciò riguarda la politica israeliana nei confronti dei suoi stessi cittadini non ebrei. Non riguarda neppure l’occupazione israeliana del 1967 (anche se ciò indirettamente influisce sulla politica israeliana in tutti i territori).

Da un lato si potrebbe essere tentati di credere che Shaked stia solo combattendo una lotta contro i tribunali e che ci sia una Corte Suprema presumibilmente progressista che potrebbe agire come un contropotere rispetto a questo.

Ma va ricordato che la Corte Suprema è essenzialmente sionista, e che di conseguenza è comunque di parte nei confronti dello “Stato ebraico”. Dato che quel principio non può essere sfidato in alcun modo significativo, e dato che Shaked sta effettivamente dando voce sincera e rumorosa all’ideologia sionista, rimangono pochissime risorse di una certa importanza per protestare o contrastare tutto ciò.

Una è rappresentata, ovviamente, da mezzi di protesta civili e democratici dal basso: il [movimento per il] Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Ma ecco quello che ha detto la presidentessa della Corte Suprema Esther Hayut in una recente conferenza contro il BDS. Il BDS è un “illecito civile”, ha detto, e ha continuato:

 “Chiedere un boicottaggio è un mezzo di coercizione e non di persuasione. Non è utile ai principi fondamentali della democrazia, ma piuttosto li colpisce impedendo un libero scambio di idee. Di conseguenza, non è degno della protezione costituzionale di cui godono altre forme di espressione politica.”

Quindi, peggio – il BDS, secondo la più alta carica giudiziaria di Israele, non è tutelato dalla libertà di espressione. E pertanto è permesso allo Stato di imporre sanzioni contro singole persone che lo propugnano:

“L’imposizione di sanzioni legali è proporzionata quando lo Stato è interessato a difendersi contro un boicottaggio da parte di civili,” ha detto Hayut.

Deve essere chiaro che questa posizione è fascismo allo stato puro. Lo Stato può essere “criticato” con mezzi che consentano “scambio di idee”, ma non con metodi che lo Stato stesso reputa possano effettivamente determinare un cambiamento della sua struttura e gerarchia razziali. Questo non è un inaspettato sviluppo esterno rispetto a un presunto ‘sionismo democratico’. Tutto ciò rappresenta un ulteriore smascheramento riguardo alla vera essenza del sionismo. È vero e proprio apartheid.

L’ex primo ministro Ehud Barak ha detto qualche anno fa che “Israele è stato infettato dai semi del fascismo.” Ma egli è lo stesso “eroe di sinistra” che si è vantato di come la sinistra israeliana ha “liberato” i territori occupati, e si è lamentato che gli USA non abbiano riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele già 65 anni fa. Perciò Barak sta dicendo che questi “semi di fascismo” sono solo qualcosa che ha “infettato” Israele di recente. Ma sono sempre stati lì, sono i semi dei frutti del sionismo, di cui anche Barak è sostenitore. È dubbio che un ‘progressista’ come Barak o simili possa mai ‘salvare’ il sionismo dai suoi più espliciti fascisti come Shaked.

Gli Stati Uniti hanno attraversato la fase fiabesca dell’apartheid in cui si trova Israele, con la loro dottrina legale ‘separati ma uguali’, la quale sosteneva che, benché ci fosse segregazione razziale (letteralmente apartheid), gli afro-americani potevano comunque essere considerati “uguali”, semplicemente “separati”. Ci vollero parecchie sentenze della Corte Suprema dagli anni ’50, nonché la legge sui diritti civili del 1964, per rovesciare questa falsa nozione di “uguaglianza”.

Ma Israele sta funzionando esattamente in modo opposto, e Shaked sta confermando che l’ideologia dello Stato prevale esplicitamente sull’uguaglianza. A dir la verità, è stato così fin dall’inizio.

(traduzione di Amedeo Rossi)