I palestinesi condannano il ribaltamento della politica USA sulle colonie israeliane

Al Jazeera e agenzie di informazione

19 novembre 2019 – Al Jazeera

Gli USA dicono di non considerare più illegali le colonie israeliane, provocando aspre critiche da parte dei palestinesi e delle associazioni per i diritti

Palestinesi, associazioni per i diritti, politici ed altri hanno aspramente criticato l’amministrazione Trump dopo l’annuncio che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come “incompatibili” con il diritto internazionale.

Dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti del dibattito legale, questa amministrazione concorda ….che l’insediamento di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé in contrasto con il diritto internazionale”, ha detto lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo quando ha dato l’annuncio.

Ha detto che l’amministrazione del presidente USA Donald Trump non si atterrà più all’opinione legale del Dipartimento di Stato del 1978 che affermava che le colonie erano “contrarie al diritto internazionale”.

Secondo diverse Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la più recente nel 2016, le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale, in quanto violano la Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area da essa occupata.

L’annuncio USA, l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Trump a favore di Israele, ha sollevato critiche immediate da parte di palestinesi, associazioni per i diritti e politici in tutto il mondo.

Un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che la decisione degli USA “è totalmente contraria al diritto internazionale.”

Washington “non è qualificata né autorizzata ad annullare le risoluzioni del diritto internazionale e non ha il diritto di concedere legittimità ad alcuna colonia israeliana”, ha dichiarato il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeinah.

Hanan Ashrawi, una importante negoziatrice palestinese e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha scritto su Twitter, di fronte alla dichiarazione di Pompeo, che l’iniziativa rappresenta un altro colpo “al diritto internazionale, alla giustizia e alla pace.”

Il Ministro degli Esteri della Giordania, Ayman Safadi, ha avvertito che il cambiamento di posizione degli USA potrebbe comportare “pericolose conseguenze” sulle prospettive di riavviare il processo di pace in Medio Oriente.

Safadi ha detto in un tweet che le colonie israeliane nel territorio sono illegali ed annientano la prospettiva di una soluzione con due Stati, in cui uno Stato palestinese dovrebbe esistere a fianco di Israele, cosa che i Paesi arabi ritengono essere l’unica via per risolvere il pluridecennale conflitto arabo-israeliano.

‘Un regalo a Netanyahu’

Più di 600.000 israeliani vivono attualmente in colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est occupata. Vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi.

Le colonie sono state considerate per molto tempo un gravissimo ostacolo ad un accordo di pace israelo-palestinese.

Gruppi di monitoraggio hanno detto che, da quando Trump è diventato presidente, Israele ha accelerato la creazione di colonie.

L’annuncio di lunedì ha segnato un’altra significativa tappa in cui l’amministrazione Trump si è schierata a favore di Israele e contro le posizioni dei palestinesi e degli Stati arabi ancor prima di svelare il suo piano di pace israelo-palestinese a lungo rinviato.

Nel 2017 Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e nel 2018 gli USA hanno aperto ufficialmente un’ambasciata nella città. La posizione politica USA precedentemente era stata che lo status di Gerusalemme doveva essere definito dalle parti in conflitto.

Nel 2018 gli USA hanno anche annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’UN Relief and Works Agency [Agenzia ONU per l’Aiuto e il Lavoro] (UNRWA), l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E in marzo Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana delle Alture del Golan occupate nel 1981, facendo un favore al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa che ha provocato una dura risposta da parte della Siria, che un tempo deteneva lo strategico territorio.

Lunedì Netanyahu ha plaudito al cambio di politica, dicendo che la mossa degli USA “corregge uno storico errore”.

Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna per i diritti dei palestinesi, ha definito l’annuncio di Pompeo “un altro regalo a Netanyahu e un semaforo verde ai leader israeliani per accelerare la costruzione di colonie e anticipare un’ annessione formale.”

Attualmente Netanyahu sta subendo pressioni interne su due fronti, dopo che all’inizio dell’anno in Israele si sono svolte elezioni inconcludenti. Il suo principale rivale politico, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ha due giorni per cercare di formare un governo per sostituire Netanyahu, che sta anche affrontando una possibile incriminazione in tre casi di corruzione.

Nell’ultima campagna elettorale Netanyahu ha promesso di annettere ampie parti della Cisgiordania, una mossa che metterebbe ulteriormente a rischio una soluzione con due Stati.

Gantz ha accolto positivamente l’iniziativa statunitense, dicendo in un tweet che “il destino delle colonie dovrebbe essere deciso da accordi che rispettino le esigenze di sicurezza e promuovano la pace.”

Pompeo ha negato la volontà di dare sostegno a Netanyahu, dicendo: “La tempistica di questo (annuncio) non è collegata a niente che abbia a che fare con politiche interne in Israele o altrove.”

Reazioni

Un portavoce dell’Ufficio ONU per i Diritti Umani (OHCHR) ha detto di “condividere la posizione da tempo adottata dall’ONU sulla questione che le colonie israeliane violano il diritto internazionale.”

Rupert Colville ha detto anche che ci sono diverse risoluzioni ONU, come anche sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che si riferiscono alla questione.

Il 9 luglio 2004 la CIG nel suo parere consultivo ha affermato che la costruzione da parte di Israele del muro di separazione e l’espansione delle colonie sono illegali ed alterano la composizione demografica dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), compromettendo in tal modo gravemente la possibilità per i palestinesi di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”, ha detto martedì ai giornalisti.

Al contempo l’Unione Europea ha detto di continuare a credere che l’attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati sia illegale in base al diritto internazionale e vanifichi le prospettive di una pace duratura.

La UE chiede ad Israele di porre fine all’attività di colonizzazione, in conformità con i suoi obblighi in quanto potenza occupante”, ha detto il capo della politica estera europea Federica Mogherini in una dichiarazione in seguito all’iniziativa USA.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha tweettato: “La fittizia dichiarazione di Pompeo non cambia niente. Trump non può spazzare via con questo annuncio decenni di diritto internazionale consolidato secondo cui le colonie israeliane sono un crimine di guerra.”

Anche il senatore USA Bernie Sanders, uno dei più importanti candidati democratici alle elezioni presidenziali USA, , ha detto la sua su Twitter: “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali.

Risulta chiaro dal diritto internazionale e da molte risoluzioni delle Nazioni Unite. Ancora una volta il signor Trump sta isolando gli Stati Uniti e compromettendo la diplomazia per assecondare la propria base [elettorale] estremista”, ha detto Sanders.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’altro Benjamin: chi è Benny Gantz, il rivale di Netanyahu?

Marie Niggli

Giovedì 24 ottobre 2019 – Middle East Eye

Dopo la rinuncia di Benjamin Netanyahu lunedì, Benny Gantz è stato nominato per tentare di formare una coalizione di governo. Una missione difficile, se non impossibile, per questo ex-capo di stato maggiore dell’esercito di cui è difficile definire gli obiettivi

Bibi” contro “Benny”: negli ultimi mesi la politica israeliana si è ridotta a un duello al vertice tra i due Benjamin. Da una parte Benjamin Netanyahu, la vecchia volpe, soprannominato Bibi dai suoi sostenitori, che detiene il record di longevità come primo ministro in Israele; dall’altra il novellino Benjamin Gantz, detto Benny, un ex-militare che si è lanciato in politica da meno di un anno.

Dopo due elezioni in meno di sei mesi – lo scorso aprile e in settembre – il Paese si trova in una situazione di stallo politico. Né vincitore né vinto: di per sé per Netanyahu, che ha dominato l’arena politica negli ultimi dieci anni, è già una sconfitta. Lunedì sera è persino sembrato che vacillasse: incapace di mettere insieme un governo, il primo ministro uscente ha restituito il mandato al presidente israeliano.

Per la prima volta dal 2009 è un altro, Benny Gantz, che cercherà di formare una coalizione per prendere il suo posto. Ha 28 giorni di tempo. Una missione impossibile, prevede la maggior parte degli osservatori.

Com’è riuscito questo ashkenazita [ebreo di origine europea, ndtr.] alto e dagli occhi azzurri a far inciampare Netanyahu, là dove tanti politici esperti in precedenza si sono rotti le ossa? Sicuramente non grazie alla sua esperienza politica: non ne ha affatto.

Il suo curriculum? Quello di un militare che ha salito i gradini uno a uno. Arruolato nell’esercito nel 1977, questo figlio di un sopravvissuto alla Shoah è diventato paracadutista, nel 1991 ha partecipato all’operazione “Salomon”, che in 48 ore ha trasferito 14.000 ebrei dall’Etiopia verso Israele, ha combattuto in Libano nel 2000 e alla fine è diventato capo di stato maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015.

Fascino militare

Gantz ha lasciato un’impronta sanguinosa: sotto il suo comando, Israele e Hamas si impegnano in due guerre a Gaza. Nel 2012 l’offensiva israeliana ha fatto 163 morti nell’enclave. Nel 2014, durante più di un mese e mezzo, un diluvio di fuoco si è abbattuto sulla stretta striscia di terra e sono stati uccisi 2.220 palestinesi, di cui più di 1.500 civili (550 minori).

Nel 2015 un rapporto dell’ONU ha affermato di aver raccolto “delle informazioni rilevanti che mettono in evidenza possibili crimini di guerra commessi sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi.” Ha rimproverato all’esercito israeliano in particolare l’“uso intensivo di armi concepite per uccidere e ferire in un ampio raggio.”

Invece di tener nascosto questo bilancio disastroso, l’ex capo di stato maggiore l’ha utilizzato per lanciare la sua campagna elettorale. Con una serie di video scioccanti, il prudente Gantz si è trasformato in falco, vantando gli atti di guerra sanguinosi dell’esercito israeliano a Gaza nel 2014 sotto il suo comando, che secondo lui hanno riportato certe zone dell’enclave “all’età della pietra.”

Un macabro calcolo sulle immagini dei funerali di palestinesi si conclude con questo slogan: “Solo i forti sopravvivono.”

Questo immaginario parla al pubblico ebraico in Israele: è “una società molto militarizzata”, spiega Yara Hawari, analista politica di Al-Shabaka, un centro di analisi palestinese. Gli israeliani hanno “molto rispetto per i generali, perché c’è anche questo contesto un po’ machista, una certa mascolinità nociva e i generali vengono quindi percepiti come forti.”

Salvo il fatto che, tra tutti i militari che hanno sfondato in politica, Benny Gantz è il meno esperto.

Ehud Barak era un ex-capo di stato maggiore che è diventato primo ministro, ma da quasi due anni dirigeva il partito Laburista. Ariel Sharon, tutti lo dimenticano, è stato in politica per circa 30 anni prima di diventare primo ministro,” ricorda Dahlia Scheindlin, consigliera politica che ha aiutato a elaborare sette campagne elettorali per conto di diversi partiti israeliani, di cui l’ultima con il partito di sinistra “Unione democratica”.

Anche se figlio del responsabile politico del partito Laburista nella comunità dove è nato, Kfar Ahim – costruito sulle rovine del villaggio palestinese di Qastina –, a 60 anni Gantz ha scoperto il gioco politico nello scorso dicembre, quando ha lanciato il suo partito, “Hosen L’Yisrael” – “Resilienza per Israele”.

All’inizio la formazione sembrava un “piccolo gruppo di amici che hanno preso un anno sabbatico e di professionisti della campagna elettorale reclutati all’ultimo momento,” sfotte il quotidiano israeliano di sinistra “Haaretz”. Insomma, tutto meno che un partito di militanti impegnati.

Ma il rigido militare, un po’ austero, trova dei partner ideali: un ex-ministro, Yaïr Lapid, e due ex-capi di stato maggiore, Gabi Ashkenazi e Moshe Ya’alon, quest’ultimo anche lui con esperienza di governo. Di che rafforzare la sua base politica: ecco com’è nata, all’inizio del 2019, la coalizione “Blu e Bianco”, dai colori della bandiera israeliana.

Presentata come di centro, la lista in “altri luoghi nel mondo sarebbe definita di destra,” sottolinea Yara Hawari, che nota lo spostamento dello scacchiere politico israeliano verso l’estrema destra.

Uniti contro i palestinesi

Ormai circondato da “partner politici e consiglieri”, Gantz ha “condotto due campagne elettorali” che l’hanno fatto progressivamente maturare, ricorda Ofer Zalzberg, analista del Medio Oriente dell’ “International Crisis Group” [Ong con sede in Belgio che cerca di prevenire i conflitti, ndtr.] (ICG). Ma sul piano politico, con più di 30 anni di carriera, “Netanyahu ha un vantaggio enorme.”

In confronto il militare fatica ancora, poco presente sulle reti sociali, non sempre a suo agio, ambiguo nella linea politica. “È molto complicato sapere chi è Benny Gantz e per cosa si batte,” constata Dalhia Scheindlin.

Salvo che in politica estera e sulla questione palestinese. Benny o Bibi, sono la stessa cosa, evidenzia Yara Hawari: secondo lei entrambi applicheranno la stessa politica “violenta d’occupazione e di colonizzazione” nei territori palestinesi.

Quello che cambierà sarà il discorso, la retorica utilizzata da Israele. (Gantz e i suoi alleati) utilizzeranno un linguaggio più accattivante per perpetuare il progetto coloniale e continueranno l’annessione di fatto” della Cisgiordania, territorio sotto il controllo di Israele da 52 anni. Quanto alla prospettiva di negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, essa tornerà a “negoziare i termini del nostro imprigionamento, non quelli della liberazione” dei palestinesi, sottolinea la ricercatrice.

Con un linguaggio più educato, più diplomatico, Gantz “cercherà di riconquistare gli alleati internazionali” trascurati da Netanyahu, che si accontentava del sostegno incondizionato che gli concede il presidente americano Donald Trump, in spregio al diritto internazionale.

Gli “europei sono pronti per questo,” vedono nell’ex-militare “qualcuno a cui possono parlare, lo definiscono un partner per la pace, cosa che è risibile,” continua Yara Hawari. “Penso che ciò sia pericoloso.”

A meno che le sfumature non siano anche da decifrare tra le righe. Nel 2015, dopo aver lasciato l’esercito, “Gantz ha fatto un discorso e sostenuto la soluzione dei due Stati,” ricorda Ofer Zalzberg, dell’ICG. Una posizione che non esprime più in pubblico, ma, se riuscisse ad essere eletto, “proporrà una graduale separazione tra i due popoli,” ritiene.

Resta il fatto che l’ex capo di stato maggiore non ha più evocato uno Stato palestinese durante la sua campagna elettorale. Peggio, ha chiaramente affermato la sovranità israeliana sulla valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, quando Netanyahu ha proposto di annetterla – tutt’al più una differenza semantica.

Religiosi contro laici

Né molto avvenente né molto carismatico, Gantz ha raggiunto da zero la cima della politica israeliana grazie a una fortunata congiunzione astrale. Dopo 10 anni di Netanyahu, il paesaggio politico si ricompone soprattutto attorno alla divisione della destra, ormai scissa tra religiosi e laici.

Il primo ministro uscente “è stato estremamente generoso con i partiti ebrei ultra-ortodossi, e la destra laica è rimasta frustrata,” analizza Ofer Zalzberg. “Non vuole più sedersi a fianco dei religiosi.”

Il grande simbolo di questo cambiamento? La rottura, insieme personale ed ideologica, tra Avigdor Lieberman, ex-ministro di Netanyahu, e il suo antico mentore: è lui che ha fatto fallire tutti i tentativi del primo ministro uscente di formare un governo dopo aver provocato le elezioni anticipate ritirandosi un anno fa dalla precedente coalizione.

Trasporti pubblici – ridotti – durante il sabato, giorno di riposo settimanale degli ebrei, durante il quale la religione vieta ai fedeli di lavorare, l’introduzione del matrimonio civile, la sua estensione agli omosessuali…il programma di Benny Gantz su alcune questioni sociali che sono diventate delle grandi sfide durante le ultime elezioni sono in netto contrasto rispetto a quanto imposto dagli alleati ultra-ortodossi di Netanyahu.

La divisione all’interno della destra tuttavia non è sufficiente a far arrivare Gantz alla guida di un governo, è solo sufficiente a impedire a Netanyahu di rimanere primo ministro,” nota Ofer Zalzberg.

Ed è lì tutta la debolezza della campagna di Benny Gantz. In pochi mesi, il militare discreto ha dolcemente instillato nell’opinione pubblica israeliana di essere l’anti-Bibi. Calmo, pragmatico, mette l’accento sull’unità quando Netanyahu ha costruito la sua carriera politica sulle polemiche e sull’incitamento all’odio verso i palestinesi, che siano o meno cittadini israeliani.

Nel mondo d’oggi si osservano due tipologie di politici,” ricorda Ofer Zalzberg. “Quelli di una sorta di politico ribelle, che si presenta come antisistema, e altri che rivendicano l’appartenenza al sistema e difendono le istituzioni. (Gantz) fa chiaramente parte di questa seconda categoria,” di fronte a un Netanyahu che si scaglia contro media e istituzioni come se gli fossero ostili.

Solo che per strappare Israele dalle mani di un dirigente così avvezzo al gioco politico come il primo ministro uscente, in un Paese frammentato e tormentato dalle divisioni, Benny Gantz non può appoggiarsi unicamente su un programma che caldeggia lo status quo.

La sua campagna elettorale non è riuscita a garantirgli la maggioranza: ha ormai poco meno di un mese per immergersi nell’aspra arena politica israeliana e andarsi a cercare il sostegno che ancora gli manca. In caso contrario, il Paese rivoterà per la terza volta in meno di un anno …

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




L’ultima àncora di salvezza: la vera ragione dell’appello di Abbas alle elezioni

Ramzy Baroud

14 ottobre, 2019 – Middle East Monitor

L’appello alle elezioni nei territori occupati da parte del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] Mahmoud Abbas è uno stratagemma politico. Non ci saranno elezioni veramente democratiche sotto la leadership di Abbas. La vera domanda è: innanzitutto, perché lo ha fatto?

Il 26 settembre Abbas ha scelto la sede politica più importante al mondo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per proporre “elezioni generali in Palestina – in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.”

Il leader palestinese ha fatto precedere al suo annuncio una nobile enfasi sulla centralità della democrazia nei suoi pensieri. “Fin dall’inizio abbiamo creduto nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato e della nostra società”, ha detto con inconfondibile disinvoltura. Ma, a conti fatti, è stata solo Hamas a rendere impossibile la missione democratica di Abbas – non Israele, e certo non il retaggio antidemocratico, evidente e corrotto della stessa ANP.

Al suo rientro da New York Abbas ha creato una commissione il cui compito, secondo i media ufficiali palestinesi, è di svolgere consultazioni con varie fazioni palestinesi riguardo alle elezioni che ha promesso.

Hamas ha immediatamente accettato l’invito alle elezioni, pur chiedendo maggiori delucidazioni. La principale richiesta del gruppo islamico, che controlla la Striscia di Gaza assediata, è di svolgere elezioni che comprendano contemporaneamente il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), la presidenza dell’ANP e soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – la componente legislativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Mentre l’OLP è caduta sotto lo stretto controllo di Abbas e di una cricca interna al suo stesso partito Fatah, le altre istituzioni hanno operato senza alcun mandato democratico e popolare per quasi 13 anni. Le ultime elezioni del CLP si sono tenute nel 2006, seguite da uno scontro tra Hamas e Fatah che ha portato all’attuale rottura politica tra i due partiti. Quanto al mandato di Abbas, anch’esso è scaduto nel 2009. Ciò significa che Abbas, che apparentemente crede “nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato”, è un presidente che regna in modo antidemocratico senza alcun mandato per governare i palestinesi.

Non è che i palestinesi rinuncino a esplicitare i propri sentimenti. Più volte hanno chiesto ad Abbas di andarsene. Ma l’ottantatreenne è deciso a rimanere al potere – per quanto si possa definire ‘potere’ sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana.

L’opinione prevalente dopo la richiesta di Abbas di elezioni è che, date le circostanze, una simile impresa sia semplicemente impossibile. Tanto per cominciare, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli USA di Gerusalemme come capitale, è difficile che Israele permetta ai palestinesi di includere Gerusalemme est occupata in qualunque futura votazione.

D’altro lato, è probabile che Hamas rifiuti l’inclusione di Gaza nelle elezioni se esse fossero limitate al CLP e escludessero la carica di Abbas e il CNP. Senza un voto per il CNP la riorganizzazione e la rinascita dell’OLP resterebbero fantomatiche, un’opinione condivisa da altre fazioni palestinesi.

Essendo consapevole di questi ostacoli, Abbas sa già che le possibilità di reali elezioni eque, libere e veramente inclusive sono minime. Ma la sua proposta è l’ultima, disperata mossa per fermare il crescente risentimento tra i palestinesi e la sua incapacità per decenni di utilizzare il cosiddetto processo di pace per ottenere i diritti del suo popolo a lungo negati.

Ci sono tre principali ragioni che spingono Abbas a compiere questa mossa in questo specifico momento.

Primo, la fine del processo di pace e della soluzione dei due Stati, attraverso una serie di iniziative israeliane e americane, hanno lasciato l’ANP, e soprattutto Abbas, isolati e con scarse disponibilità finanziarie. I palestinesi che hanno sostenuto simili illusioni politiche non sono più la maggioranza.

Secondo, lo scorso dicembre la corte costituzionale dell’ANP ha stabilito che il presidente avrebbe dovuto indire le elezioni entro i prossimi sei mesi, cioè entro giugno 2019. La corte, anch’essa sotto il controllo di Abbas, ha inteso fornire al leader palestinese uno strumento giuridico per sciogliere il parlamento precedentemente eletto – il cui mandato è scaduto nel 2010 – e predisporre nuove basi per la sua legittimazione politica. Tuttavia egli non ha rispettato la decisione della corte.

Terzo, e più importante, il popolo palestinese è chiaramente stufo di Abbas, della sua autorità e di tutti gli intrighi politici delle fazioni. Infatti, secondo un sondaggio dell’opinione pubblica svolto a settembre dal Centro palestinese per la Ricerca Politica e di Opinione, il 61% di tutti i palestinesi in Cisgiordania e Gaza vuole che Abbas si dimetta.

Lo stesso sondaggio indica che i palestinesi rifiutano l’intero discorso politico che è stato alla base delle strategie politiche di Abbas e della sua ANP. Inoltre, il 56% dei palestinesi è contrario alla soluzione dei due Stati; quasi il 50% ritiene che l’azione dell’attuale governo dell’ANP di Mohammed Shtayyeh sia peggiore del precedente e il 40% vuole che l’ANP venga sciolta.

Significativamente, il 72% dei palestinesi vuole che le elezioni legislative e presidenziali si svolgano in tutti i territori occupati. La stessa percentuale vuole che l’ANP interrompa la sua partecipazione all’assedio imposto alla Striscia di Gaza.

Abbas si trova ora nella posizione politica più debole da quando ha preso il potere, molti anni fa. Privo del controllo sugli esiti politici che sono decisi da Tel Aviv e Washington, ha fatto ricorso ad una vaga richiesta di elezioni che non hanno possibilità di successo.

Mentre l’esito è prevedibile, Abbas spera che, per ora, potrà ancora una volta apparire come il leader impegnato che rivolge l’attenzione al consenso internazionale e ai desideri del suo popolo.

Ci vorranno mesi di spreco di energie, di contese politiche e di un imbarazzante circo mediatico prima che l’imbroglio delle elezioni vada in pezzi, lasciando il campo ad un gioco al massacro tra Abbas ed i suoi rivali che potrebbe durare mesi, se non anni.

È difficile che questa sia la strategia che il popolo palestinese – che vive sotto una brutale occupazione ed un soffocante assedio – necessiti o desideri. La verità è che Abbas e qualunque classe politica egli rappresenti sono diventati un vero ostacolo nel cammino di una nazione che ha un disperato bisogno di unità e di una strategia politica seria. Ciò che il popolo palestinese chiede con urgenza non è una timida chiamata al voto, ma una nuova leadership, una richiesta che ha ripetutamente espresso, benché Abbas rifiuti di ascoltare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il miraggio di Benny Gantz

Jonathan Ofir

23 Settembre 2019 – Mondoweiss

“Il Paese ha scelto l’unità, il Paese ha scelto ‘prima Israele’” ha detto il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz giovedì, dopo che la stragrande maggioranza dei voti alle elezioni di Israele del 17 settembre ha dato al suo partito un leggero vantaggio sul Likud di Netanyahu (adesso 33 a 31, i risultati ufficiali ci saranno mercoledì) [il risultato definitivo è stato 33 a 32, ndtr.]. Nessuno dei due sembra poter creare un governo se non uno di coalizione che combini i loro due partiti, dal momento che Avigdor Lieberman lo esige con i suoi decisivi 8 seggi. Entrambi i partiti maggiori (destra e centro-sinistra) senza Lieberman restano sotto la soglia dei 61 seggi.

Oggi, se si dice ” prima l’America “, è chiaro cosa significhi. Significa supremazia bianca. Anche in Israele, quando dici “prima Israele”, sai cosa significa: significa supremazia ebraica, nota anche come sionismo. Ma in Israele, per qualche ragione, questa nozione è accettata come opinione prevalente. Il sionismo sopra ogni cosa non è considerato razzismo.

Ora di recente è successo un grande evento: la Joint List [Lista Unita], che rappresenta sostanzialmente i cittadini palestinesi ed è il terzo  ad aver ricevuto più voti con 13 seggi, ha sostenuto Benny Gantz come Primo Ministro.

All’inizio è stato detto che il blocco di centro-sinistra è in vantaggio con 57 seggi rispetto ai 55 del blocco di destra. Ma poi si è  scoperto che all’interno della Joint List non tutti sono d’accordo. Una delle quattro fazioni, Balad (che chiede uno Stato democratico laico) ha insistito sul fatto che “Gantz sta progettando di formare un governo con Lieberman e Likud”, e quindi “sostenerlo sarebbe sostenere un governo di unità, che è perfino peggio di uno di destra. ”

Ayman Odeh, capo della Joint List, nella sua apertura al presidente israeliano Reuven Rivlin, ha insistito che gli avrebbe portato il sostegno di tutti e 13 i suoi rappresentanti, ma la cosa non è certa. Secondo il Jerusalem Post, il supporto che Gantz può effettivamente ottenere è sceso a 54, un seggio sotto i 55 di Netanyahu.

Gli 8 seggi di Lieberman sono i più incerti. Quindi, ancora una volta, senza il supporto di Lieberman, nessuno dei due blocchi ce la farebbe – ma Lieberman non si alleerà con la Joint List, che chiama i “nemici”.

Quindi tutto punta al centro, quel centro sionista che in realtà è un blocco di centro-destra. Il presidente Rivlin ha sottolineato che “il popolo di Israele vuole un governo che sia stabile” e “un governo stabile non può essere un governo senza entrambi i due maggiori partiti”.

Il capo della delegazione Blu e Bianco che ha incontrato il presidente è Moshe Ya’alon, ex ministro della Difesa, terzo nella direzione del partito e zelante sostenitore del progetto israeliano di colonizzazione. Ya’alon ha detto che avrebbe accolto con favore “tutti i partiti sionisti” nella coalizione, il che significa non la Joint List, e la Joint List sa che sarebbe stata comunque all’opposizione.

Il presidente Rivlin deciderà al più presto mercoledì sera, quando i risultati finali saranno ufficiali, se affidare il primo tentativo di formazione di una coalizione di governo a Gantz o Netanyahu. Vi sono varie considerazioni che influenzano tale decisione. Uno è il numero di seggi del partito del leader. In questo caso Gantz sarebbe in testa ma solo di poco. Un’altra considerazione è la possibilità di formare una futura coalizione. In questo caso nessuno dei due ce l’ha senza Lieberman, che cerca di escludere entrambi i settori di destra e di sinistra: i 24 seggi dei partiti religiosi e di destra (Ebraismo della Torah Unita, Shas e il nazionalista religioso Yamina) e 24 seggi della sinistra sionista (Unione Democratica, Lavoro-Gesher) e Joint List. Quindi al momento Lieberman non sta sostenendo alcun candidato per la carica di Primo Ministro, ma sta cercando di unire il suo Yisrael Beitenu ai due partiti principali come “l’unica opzione”.

Rivlin è ansioso di raggiungere l’accordo. Dice che l’opinione pubblica israeliana è “disgustata” dalla prospettiva di una terza elezione (le elezioni di settembre sono state necessarie poiché le precedenti elezioni in aprile non sono riuscite a produrre un governo).

Ciò che ha guidato molti dei “sionisti liberali” è stata l’idea di “solo non Netanyahu”. Netanyahu è stato un bel regalo per queste persone, dal momento che potevano dire di essere contrari a Netanyahu ed ecco! sei un progressista! Bari Weiss, una degli opinionisti sionisti del New York Times, in un’intervista a Bill Maher, distingueva tra il sionismo e quello che lei chiama “bibiismo” (usando il soprannome di Benjamin Netanyahu, Bibi):

“Sono due cose molto diverse. Sono molto critica rispetto all’attuale Primo Ministro dello Stato di Israele. Credo che proprio come gli ebrei hanno un diritto alla terra, così anche i palestinesi, e se Israele vuole essere uno Stato democratico e liberale, ci devono essere due Stati.”

Be’, è semplicemente fantastico, ma quei “due Stati” non sono comunque sul tavolo di Gantz, che ha appena rimproverato Netanyahu di aver rubato la sua idea di annettere la Valle del Giordano. Dunque, Bari Weiss sta indicando davvero una reale alternativa? No, solo “non Bibi”.

E la Joint List, almeno la corrente che ha sostenuto Gantz, fa anch’essa parte di questo “solo non Bibi”. Ayman Odeh ha detto al presidente Rivlin: “Stiamo cercando il modo di impedire a Netanyahu di diventare primo ministro, ed è quello che vuole la maggior parte della gente.”.

Ma esiste un grave pericolo. È in pericolo la relativa legittimità che un governo di unità può ottenere per politiche che, sul fronte politico più critico nei confronti dei palestinesi, non sono diverse da quelle di un governo Likud. E così si capisce l’affermazione di Balad secondo cui un tale governo di unità è anche peggio di un governo di destra. Perché il governo di unità, specialmente se sarà guidato da Gantz, renderà più facile legittimare lo status quo israeliano dell’apartheid. Ed è quello che vuole la maggior parte degli israeliani.

A cui non dispiacerebbe che Gantz – il macellaio di Gaza, che si vanta di averla ridotta all’età della pietra e desidera ardentemente tornare ai giorni di gloria dei sistematici omicidi extragiudiziali– guidasse il paese, perché dopo tutto è così sionista. Ed è meno volgare di Netanyahu, e sicuramente anche meno corrotto, quindi ha una buona immagine. Le persone sono stanche di Netanyahu, cambiate l’immagine.

Deve essere un bel dilemma per un palestinese che ha diritto di voto in Israele. Tutto ciò che fai finisce per essere solo una limitazione del danno, qualunque cosa tu faccia finisce per essere “prima Israele ” – che significa “ultimi i palestinesi “.

 

Jonathan Ofir

Musicista, direttore d’orchestra e blogger / scrittore israeliano che risiede in Danimarca.

 

(traduzione di Luciana Galliano)




Ayman Odeh: stiamo mettendo fine alla presa di Netanyahu su Israele

Ayman Odeh

Odeh guida la Lista Unita, la terza principale coalizione nel parlamento israeliano, la Knesset, ed è il segretario del partito Hadash

22 settembre 2019 – New York Times

Il leader della Lista unita, composta principalmente da partiti arabi spiega perché userà il suo potere per contribuire a a far diventare Benny Gantz primo ministro di Israele

GERUSALEMME – i cittadini arabo-palestinesi di Israele hanno scelto di bocciare il primo ministro Benjamin Netanyahu, la sua politica di paura e di odio, la disuguaglianza e la divisione che ha promosso nell’ultimo decennio. La scorsa estate Netanyahu ha dichiarato che i cittadini arabo-palestinesi di Israele, che rappresentano un quinto della popolazione, dovessero essere ufficialmente cittadini di seconda classe. “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini,” ha scritto su Instagram Netanyahu dopo aver fatto approvare la legge dello Stato-Nazione. “Secondo la legge fondamentale sulla nazionalità che abbiamo approvato Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico – e solo di esso.”

Il governo israeliano ha fatto di tutto per respingere quelli di noi che sono cittadini arabo-israeliani, ma la nostra influenza è solo aumentata. Saremo la pietra angolare della democrazia. I cittadini arabo-israeliani non possono cambiare da soli l’andamento delle cose in Israele, ma il cambiamento è impossibile senza di noi. In precedenza ho sostenuto che, se i partiti di centro-sinistra israeliani credono che i cittadini arabo-israeliani abbiano un posto in questo Paese, devono accettare che abbiamo un posto nella sua politica.

Oggi quei partiti non hanno più scelta. Almeno il 60% dei cittadini arabo-palestinesi ha votato nelle ultime elezioni, e la Lista Unita, la nostra alleanza che rappresenta gli arabi e i partiti arabo-ebraici, ha conquistato 13 seggi ed è diventata la terza principale coalizione alla Knesset. Decideremo chi sarà il prossimo primo ministro di Israele.

A nome della Lista Unita, ho suggerito che il presidente di Israele scelga Benny Gantz, il leader del partito di centro “Blu e Bianco”, perché sia il prossimo primo ministro. Questo sarà il passo più significativo per contribuire a creare la maggioranza necessaria ad impedire un altro mandato per Netanyahu. E ciò dovrebbe porre fine alla sua carriera politica.

I miei colleghi ed io abbiamo preso questa decisione non per sostenere Gantz e le sue proposte politiche per il Paese. Siamo consapevoli che Gantz ha rifiutato di accettare le nostre legittime richieste politiche per un futuro condiviso, e per questo non parteciperemo al suo governo.

Le nostre richieste per un futuro condiviso e più equo sono chiare: chiediamo risorse per affrontare la violenta criminalità che affligge città e villaggi arabi, leggi per la casa e piani regolatori che concedano alle persone dei Comuni arabi gli stessi diritti dei loro vicini ebrei e un loro maggior accesso agli ospedali.  Chiediamo un aumento delle pensioni per tutti in Israele, in modo che i nostri anziani possano vivere dignitosamente, e la creazione e il finanziamento di un piano per prevenire la violenza contro le donne.

Chiediamo l’integrazione giuridica di villaggi e cittadine non riconosciuti – per lo più arabo-palestinesi – che non hanno accesso all’elettricità o all’acqua. E insistiamo per la ripresa di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi per raggiungere un trattato di pace che ponga fine all’occupazione e crei uno Stato palestinese indipendente sulla base dei confini del 1967. Invochiamo l’abrogazione della legge sullo Stato-Nazione che dichiara che io, la mia famiglia e un quinto della popolazione siamo cittadini di seconda classe. È a causa del fatto che per decenni i candidati a primo ministro si sono rifiutati di appoggiare un programma a favore dell’eguaglianza che dal 1992 nessun partito arabo o arabo-ebraico ha dato indicazioni di un primo ministro.

Eppure questa volta facciamo una scelta diversa. Abbiamo deciso di dimostrare che i cittadini arabo-palestinesi non possono più essere rifiutati o ignorati. La nostra decisione di indicare Gantz come il prossimo primo ministro senza unirci al suo previsto governo di unità nazionale è un chiaro messaggio che l’unico futuro per questo Paese è un futuro comune, e non c’è un futuro condiviso senza la piena e paritaria partecipazione dei cittadini arabo-israeliani.

La mattina dopo che è stata approvata la legge discriminatoria dello “Stato -Nazione”, ho accompagnato a scuola i miei figli e ho pensato al fatto di farli crescere in un Paese che ha ripetutamente rifiutato i bambini arabo-palestinesi. I governi israeliani hanno continuamente ribadito questo rifiuto, dagli anni della legge marziale imposta agli arabi in Israele tra la fondazione dello Stato [nel 1948, ndtr.] e il 1966, fino ai tentativi di lunga data di eliminare la cultura palestinese e alla continua decisione di occupare le terre e le vite dei nostri fratelli e sorelle in Cisgiordania e a Gaza.

Ogni volta che accompagno la mia figlia più giovane, Sham, a scuola vedo un brano del Libro dei Salmi scritto su un muro: “La pietra che il costruttore ha scartato è diventata una pietra angolare.”

Scegliendo di indicare Gantz abbiamo dimostrato che la collaborazione tra le persone, arabe ed ebree, è l’unica strategia politica di saldi principi che porterà a un futuro migliore per tutti noi. Innumerevoli persone in Israele e nel resto del mondo ci saranno grate di vedere la fine del lungo regno di corruzione, bugie e paura di Netanyahu.

Continueremo il nostro lavoro verso un futuro migliore e giusto, e la nostra lotta per i diritti civili, radicata nella nostra identità come palestinesi. C’è spazio sufficiente per tutti noi nella nostra patria comune, spazio sufficiente per i versi di Mahmoud Darwish e per le storie dei nostri nonni, spazio sufficiente perché tutti noi facciamo crescere le nostre famiglie nell’uguaglianza e nella pace.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché gli americani dovrebbero appoggiare il BDS

Omar Barghouti

29 luglio – The Nation

Ispirato ai movimenti per i diritti civili e contro l’apartheid, chiede la liberazione dei palestinesi nei termini di una piena uguaglianza con gli israeliani e si oppone in modo netto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti [USA, ndtr.] ha approvato una risoluzione, la “H.Res. 246”, che prende di mira il movimento internazionale di base per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi che ho contribuito a fondare nel 2005. Purtroppo la H.Res. 246, che fondamentalmente travisa i nostri obiettivi e le mie opinioni personali, è solo l’ultimo tentativo da parte dei sostenitori di Israele nel Congresso di demonizzare e reprimere la nostra lotta pacifica.

La H. Res. 246 è una radicale condanna degli americani che sostengono i diritti dei palestinesi utilizzando le tattiche del BDS. Rafforza altre misure incostituzionali contro il boicottaggio, comprese quelle approvate da circa 27 Stati, che, secondo l’“American Civil Liberties Union” [Unione per le Libertà Civili Americane, storica associazione USA a favore dei diritti e delle libertà costituzionali, ndtr.] ricordano le “tattiche dell’epoca di McCarthy”. Esaspera anche l’atmosfera oppressiva che i palestinesi e i loro sostenitori già devono affrontare, scoraggiando ulteriormente i discorsi che criticano Israele in un momento in cui il presidente Donald Trump sta pubblicamente calunniando membri del Congresso che si esprimono a favore della libertà dei palestinesi.

In risposta alla H.Res. 246 e a misure legislative simili, la deputata Ilhan Omar, affiancata da Rashida Tlaib, dall’icona dei diritti civili John Lewis [deputato afro-americano della Georgia, ndtr.] e da altri 12 co-firmatari, ha presentato la H.Res. 496, che difende “il diritto di partecipare a boicottaggi a favore di diritti civili e umani in patria e all’estero, in quanto protetto dal Primo emendamento della Costituzione.”

Ispirato al movimento USA per i diritti civili e a quello sudafricano contro l’apartheid, il BDS chiede la fine dell’occupazione militare israeliana del 1967, la piena uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele e il diritto stabilito dall’ONU al ritorno dei rifugiati palestinesi alla patria da cui vennero cacciati.

Il BDS si oppone nel modo più assoluto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Contrariamente alle false affermazioni della H.Res. 246, il BDS non prende di mira i singoli individui, ma piuttosto le istituzioni e le compagnie che sono coinvolte nella sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

La H.Res. 246 include anche una specifica calunnia contro di me, sostenuta dai gruppi della lobby israeliana come l’AIPAC, estrapolando un’unica frase fuori di contesto da un discorso che ho fatto nel 2013. La stessa affermazione falsa viene ripetuta in una risoluzione simile del Senato, la S.Res. 120.

In quel discorso ho sostenuto un unico Stato democratico che riconosca e accetti gli ebrei israeliani come cittadini uguali e partner a pieno diritto nella costruzione e nello sviluppo di una nuova società condivisa, libera da ogni sottomissione colonialista e discriminazione razziale e in cui Stato e chiesa siano separati. Chiunque, compresi i rifugiati palestinesi rimpatriati, saranno titolari degli stessi diritti indipendentemente dall’identità etnica, religiosa, di genere, sessuale o altre. Ho affermato che qualunque “Stato musulmano”, “Stato cristiano” o “Stato ebraico” escludente e suprematista negherebbe per definizione uguali diritti ai cittadini con identità differenti e precluderebbe la possibilità di una vera democrazia, che è la condizione per una pace giusta e duratura. Le risoluzioni della Camera e del Senato, così come il video propagandistico dell’AIPAC, cancellano tutto quel contesto, distorcendo intenzionalmente le mie opinioni.

Ad ogni modo questa è la mia opinione personale, non la posizione del movimento BDS. In quanto movimento per i diritti umani ampio ed inclusivo, il BDS non prende posizione su una soluzione politica definitiva per palestinesi ed israeliani. Include sostenitori sia dei due Stati che di uno Stato democratico unico con uguali diritti per tutti.

In quanto difensore dei diritti umani, non sono solo oggetto di una costante denigrazione da parte di Israele e dei suoi sostenitori anti-palestinesi. Sono anche stato sottoposto, con le parole di Amnesty International, a un “arbitrario divieto de facto di viaggiare da parte di Israele”, anche nel 2018, quando mi è stato impedito di andare in Giordania per accompagnare la mia defunta madre per un’operazione per un tumore. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence di Israele mi ha minacciato di “eliminazione civile mirata”, attirando la condanna da parte di Amnesty. E per la prima volta in assoluto lo scorso aprile mi è stato vietato di entrare negli Stati Uniti, impedendomi di partecipare al matrimonio di mia figlia e a un incontro al Congresso.

Israele non ha semplicemente intensificato il suo pluridecennale sistema di occupazione, apartheid e pulizia etnica contro i palestinesi, sta sempre più esternalizzando le sue tattiche repressive all’amministrazione USA.

Trump sta sfacciatamente appoggiando e proteggendo dall’essere chiamato a rispondere delle proprie azioni il governo israeliano di estrema destra, mentre esso annienta le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto l’assedio a Gaza, di fronte alla spoliazione e l’espulsione nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est e a pari diritti negati nell’Israele attuale. Solo due settimane fa egli [Trump, ndtr.] ha accentuato il suo incitamento contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, attaccando quattro nuovi membri progressisti del Congresso, tutte donne di colore, dicendo loro di “chiedere scusa” a Israele e di “tornare” ai loro Paesi d’origine, benché tre di esse siano nate negli Stati Uniti.

Nonostante tutto ciò, la disperata guerra di Israele contro il BDS, combattuta con la falsificazione, la demonizzazione e l’intimidazione, come esemplificato da parte di questa risoluzione della Camera da poco approvata, sta fallendo. La nostra speranza rimane viva in quanto assistiamo a un promettente cambiamento nell’opinione pubblica a favore dei diritti umani dei palestinesi, anche negli Stati Uniti. L’orribile situazione del regime di apartheid israeliano e delle sue alleanza con forze xenofobe e palesemente antisemite stanno diventando incompatibili ovunque con valori liberali e democratici.

Guidati da comunità di colore, gruppi progressisti ebraici, importanti chiese, sindacati, associazioni accademiche, gruppi LGBTQI, movimenti per la giustizia per gli indigeni e studenti universitari, molti americani stanno abbandonando la posizione eticamente insostenibile dell’“eccezione progressista sulla Palestina”. Al contrario stanno adottando il principio moralmente conseguente di essere progressisti anche sulla Palestina.

Oggi essere progressisti comporta essere moralmente coerenti, stare dalla parte giusta della storia appoggiando noi che lottiamo per la nostra libertà, giustizia ed uguaglianza a lungo negate.

Omar Barghouti è un palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi. È stato uno dei vincitori del premio Gandhi per la Pace del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “accordo del secolo” di Jared Kushner è stato ideato per fallire fin dall’inizio

Bill Law

6 giugno 2019 – Middle East Eye

Al di là delle critiche, Kushner sta giocando un’importante partita sulla questione israelo-palestinese

Il genero del presidente USA Donald Trump e negoziatore per il Medio Oriente, Jared Kushner, non rilascia molte interviste – perciò quando lo fa, gli organi di informazione non sono solo attenti, ma ci si buttano a capofitto. E alcuni settori dei media statunitensi lo hanno fatto, dopo l’intervista a Kushner di Axios della [emittente televisiva americana via cavo, ndr.] HBO del 2 giugno.

Slate’ [rivista americana in rete, ndtr.] ha pubblicato un articolo dal titolo: “Le più imbarazzanti risposte dell’intervista di Jared Kushner ad Axios”. ‘Vanity Fair’ ha commentato: “In un’intervista comicamente disastrosa, il ‘primo genero’ ha imbastito risposte su nazionalismo, rifugiati, Arabia Saudita e sul suo piano di pace per il Medio Oriente.” La CNN è stata più gentile, optando per una disamina selettiva punto per punto delle “29 righe più assurde” dell’intervista.

L’ipotesi di queste ed altre apprezzate pubblicazioni nell’establishment dei media progressisti, che a Trump piace odiare, è che Kushner è al massimo un perfetto idiota, che si aggira beatamente in un paesaggio complicato senza avere idea dei pericoli in agguato – che è un ragazzino ricco e privilegiato con una storia fatta di automobili e di affari immobiliari ed una moglie che è la figlia preferita del presidente, e che è troppo complicato per lui.

Vincere perdendo

Queste convinzioni sono errate. Fin dal momento in cui a Kushner è stato assegnato l’incarico sul Medio Oriente, ha giocato una partita subdola, e quindi molto efficace, a favore sia del movimento dei coloni in Cisgiordania che dell’amico di famiglia Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano.

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Kushner, la cui fondazione di famiglia ha finanziato generosamente i progetti dei coloni, ha costruito un’attenta strategia atta a vincere perdendo.

L’ “accordo” non è mai stato pensato perché funzionasse.

Piuttosto, il suo modus operandi consiste nel costringere i palestinesi in un angolo da cui non c’è via di fuga e in cui l’unica risposta all’accordo di pace è “no”.

Kushner ha imparato questo trucco nel periodo in cui pare abbia acquistato proprietà con affitto bloccato, scacciando gli inquilini, ristrutturando gli appartamenti e poi rimettendoli sul mercato come proprietà di lusso.

É un gioco al massacro: una combinazione di cancellazione di servizi e di offerta di qualche compensazione finanziaria, ben impacchettata all’interno di minacce velate e non tanto velate, sulla linea di “accettate questo o le cose andranno solo peggio”. Kushner ha accuratamente applicato all’ “accordo del secolo” in Medio Oriente le lezioni apprese a Manhattan.

Ha colto la sua opportunità quando Trump ha sorpreso il mondo vincendo le presidenziali del novembre 2016. Nel dicembre di quell’anno Trump ha annunciato che l’avvocato fallimentarista David Friedman veniva nominato ambasciatore USA in Israele.

Nel marzo 2017 Friedman, che ha alle spalle una lunga storia di sostegno all’illegale movimento dei coloni in Cisgiordania, è stato debitamente confermato dal Senato. A Kushner è stato affidato il portafoglio del Medio Oriente, mentre un altro avvocato di Trump e strenuo difensore dei coloni, Jason Greenblatt, lo ha affiancato in qualità di inviato.

Uccidere la soluzione di due Stati

Kushner ha convinto il presidente che il suo primo viaggio oltreoceano avrebbe dovuto essere in Arabia Saudita nel maggio 2017. In quel momento Kushner aveva già instaurato uno stretto rapporto di lavoro con il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, che in seguito è diventato il principe ereditario. Un elemento centrale della strategia di Kushner è stato allontanare i sauditi dall’iniziativa araba di pace proposta nel 2002 dall’ex re saudita Abdullah, che all’epoca era principe ereditario.

Il piano di Abdullah includeva il riconoscimento di un credibile Stato palestinese a fianco di Israele. Quando l’ Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, si sono avvicinati ad Israele, Kushner sembrava, almeno in privato, essere riuscito a distruggere la soluzione di due Stati di Abdullah.

Nel dicembre 2017 il presidente ha annunciato che l’ambasciata USA sarebbe stata spostata a Gerusalemme. Gli esperti erano sconcertati e Trump è stato attaccato perché concedeva qualcosa senza ottenere niente in cambio. Ma Kushner non mirava a nulla: voleva semplicemente fare una dichiarazione forte di fronte ai palestinesi. Lo ha fatto e gli USA l’hanno spuntata: il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della fondazione di Israele, l’ambasciata è stata aperta a Gerusalemme, mentre a circa 90 chilometri di distanza i palestinesi venivano abbattuti a fucilate sul confine di Gaza.

In quel momento il presidente ha annunciato che gli USA stavano abbandonando la soluzione dei due Stati. Mettendo sale sulla ferita, Washington ha tagliato più della metà del previsto finanziamento (65 milioni di dollari dei 125 milioni di aiuti complessivi) all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi che assiste oltre cinque milioni di rifugiati registrati. Lentamente ed inesorabilmente stava avvenendo un giro di vite.

Cadono colpi di maglio

Ad agosto 2018 gli USA hanno tagliato più di 200 milioni di dollari di aiuti economici, e poi hanno proseguito cancellando il resto dei finanziamenti all’UNRWA. A settembre è stato chiuso uno dei pochi programmi di aiuti rimasti, 25 milioni di dollari per i palestinesi negli ospedali di Gerusalemme est. Poi è stato chiuso l’ufficio di Washington dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il contatto diplomatico formale con i palestinesi.

Mentre i colpi di maglio continuavano a cadere, i governi occidentali non hanno detto niente. Kushner ha capito, al di là di ogni dubbio, che stava vincendo.

La mossa successiva sono state le Alture del Golan, annesse da Israele con il pieno appoggio ed approvazione dell’amministrazione Trump a marzo. La vittoria di Netanyahu nelle elezioni israeliane di aprile doveva essere la ciliegina sulla torta per poi procedere con l’annessione delle colonie della Cisgiordania nel grande Israele.

Purtroppo per Netanyahu e Kushner, è intervenuto il destino, sotto forma di Avigdor Lieberman. L’ex Ministro della Difesa e acerrimo rivale di Netanyahu ha rifiutato di entrare nella coalizione, mandando tutto all’aria e costringendo a nuove elezioni a settembre.

Trump non è stato contento. Il suo piano, che guardava al 2020 e alla speranza della rielezione, era di lasciare la sua impronta avvantaggiando Israele e mettendo i palestinesi al loro posto. “Israele è proprio messo male con le elezioni”, ha detto. “Bibi (Netanyahu) è stato eletto, adesso all’improvviso dovranno passare di nuovo per un processo elettorale, fino a settembre? É ridicolo. Perciò noi non siamo contenti di questo.”

Incrollabile fiducia

Intanto gli Stati arabi del Golfo hanno frenato l’entusiasmo per l’accordo di Kushner. Il padre di Bin Salman, il re Salman, ha criticato il sostegno di suo figlio a Israele, riabilitando pubblicamente la soluzione di due Stati. L’accordo che non doveva essere un accordo si sta allontanando e Kushner sta per vedere il suo lavoro completamente cancellato.

Kushner non ha una buona faccia da poker. La sua arroganza e la certezza di essere vincente trapelano in ogni cosa dica e faccia. Ma i suoi critici sbagliano a sottovalutarlo.

Kushner finora ha giocato una significativa partita. La sua fiducia di vincere a favore del movimento dei coloni e di un Israele più grande, di Netanyahu o di chiunque gli succederà, e di suo suocero il presidente, resta assolutamente incrollabile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Bill Law

Bill Law è un giornalista vincitore del premio Sony. É entrato alla BBC nel 1995 e dal 2002 è stato corrispondente dal Medio Oriente. Si è recato molte volte in Arabia Saudita. Nel 2003 è stato uno dei primi giornalisti a informare sull’inizio della rivolta che ha travolto l’Iraq. Il suo documentario ‘Il Golfo: armato e pericoloso’, che è stato trasmesso alla fine del 2010, ha anticipato le rivoluzioni che sono diventate la Primavera Araba. In seguito ha lavorato sulle rivolte in Egitto, Libia e Bahrein. É stato anche corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Prima di lasciare la BBC nel 2014, Law è stato il suo analista esperto del Golfo. Adesso lavora come giornalista indipendente che si occupa del Golfo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il Futuro della Palestina : il punto di vista dei giovani sulla soluzione dei due stati.

Hugh Lovat

ecfr, 28 maggio 2019

Un quarto di secolo dopo gli accordi di pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto di vista sulla soluzione dei due stati.

Mai come oggi la validità del modello dei due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione dei due stati.

È difficile dire se la prospettiva dei due stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.

Questa serie di brevi saggi scritti da giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione Europea in questo momento critico.

Le opinioni espresse di seguito non rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili politici.

Yasmeen Al Khodary, scrittrice e ricercatrice. Londra/Gaza

La domanda se si debba o no lasciar cadere la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?

La gente che quotidianamente subisce le conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania– hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco, arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12 anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il solo modello che possiamo portare avanti ora.

Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account twitter @yelkhoudary

Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington.

Venticinque anni di trattato di pace di Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato ridotto (state minus)’ palestinese.

Attualmente la scelta fra un unico stato binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello internazionale e dell’Europa in particolare.

I Palestinesi subiscono da oltre settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile. Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i Palestinesi.

Nel passato l’Europa è stata pioniera nel riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle richieste individuali e collettive dei Palestinesi.

Ma prima di tutto la UE e i suoi stati membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto perenne che non prevedono uguali diritti.

Zaha Hassan è avvocata specializzata in diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account twitter: @zahahassan

Yara Hawari, policy fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah

Molti stati dell’Unione Europea temono che l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di Israele sulla vita dei Palestinesi.

Israele accusa continuamente i Palestinesi di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così vulnerabile come in questo momento.

È necessario che gli stati dell’Unione Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti sperati né ha ottenuto risultati concreti.

Anziché impegnarsi in negoziati che ormai avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.

Contestualmente, abbandonato il sostegno caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati che li ha paralizzati per tutto questo tempo.

Yara Hawari è Palestine policy fellow per Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari

Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine, Haifa

Una regola elementare della politica ci insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto. Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio Oriente

prefigurato degli accordi Oslo, ignorano questo principio.

Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’, godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’ palestinese.

L’incapacità dell’Europa di comprendere questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna. Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della soluzione dei due stati.

Perciò questo modello non solo è liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.

Amjad Iraqi è un palestinese con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi

Inès Abdel Razek, consulente free-lance, ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese, Ramallah.

Dobbiamo prendere le distanze dai fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista israeliano.

Bisogna articolare un nuovo modello politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.

Questo nuovo modello politico dovrà quindi controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.

Il movimento nazionale palestinese deve impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora dominata dagli USA.

Inès Abdel Razek è consulente diplomatica e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo. Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm

Traduzione di Nara Ronchetti

A cura di AssopacePalestina