‘Foto della vittoria’: l’uccisione a Beirut aiuterà politicamente il contestatissimo Netanyahu?

Nils Adler

7 gennaio 2024 – Al Jazeera

La popolarità di Netanyahu non è mai stata così bassa. Secondo alcuni analisti gli omicidi di Beirut non cambieranno in modo sostanziale la situazione.

È stato un inizio di 2024 difficile per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Lunedì primo gennaio la Corte Suprema di Israele ha bocciato una controversa legge presentata dal governo Netanyahu nel 2023 per limitare alcuni poteri dell’Alta Corte che ha scatenato diffuse proteste in tutto il Paese.

Poi, il giorno dopo, l’attacco contro un appartamento di Beirut ha ucciso importanti membri di Hamas. Anche se Israele non ha rivendicato l’azione, alcuni analisti affermano che ha avuto in tutto e per tutto le caratteristiche di un attacco mirato israeliano. Ciò contribuirà a fermare la perdita di popolarità del primo ministro israeliano più a lungo in carica?

La decisione della Corte Suprema è una “importante battuta d’arresto”

La bocciatura del progetto di riforma giudiziaria è un’“importante battuta d’arresto” per Netanyahu e l’estrema destra israeliana che avevano investito “un significativo impegno politico sulla questione”, dice ad Al Jazeera Nader Hashemi, professore associato di Medio Oriente e Politica Islamica alla Georgetown University [prestigiosa università statunitense, ndt.] .

Per alcuni israeliani, afferma Hashemi, l’insistenza di lunga data di Netanyahu sulle modifiche del sistema giudiziario ha “diviso la società israeliana e l’ha resa più debole, consentendo ciò che è avvenuto il 7 ottobre.

Recenti sondaggi di opinione mostrano che la stragrande maggioranza degli israeliani pensa che Netanyahu dovrebbe ammettere pubblicamente le sue responsabilità per gli errori che hanno portato all’attacco di Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele, in cui circa 1.200 persone sono state uccise e più di 200 sono state prese in ostaggio. Da allora a Gaza le bombe e il fuoco di artiglieria israeliani hanno ucciso più di 22.000 palestinesi.

Nimrod Goren, ricercatore esperto delle questioni israeliane presso il Middle East Institute [centro studi statunitense fondato nel 1946, ndt.], dice ad Al Jazeera che la sentenza della Corte Suprema è stata vista come una “grande vittoria per la democrazia israeliana”.

Dopo questa decisione il ministro della Giustizia Yariv Levin ha attaccato la Corte, affermando che il momento scelto per il suo verdetto è stato “l’opposto dell’unità necessaria per il successo dei nostri combattenti al fronte.”

Tuttavia il leader dell’opposizione Yair Lapid ha messo in guardia il governo Netanyahu dall’ignorare la sentenza, affermando che se lo facesse ciò “dimostrerebbe che non ha imparato niente dal 7 ottobre”. Anche l’ex ministro della Difesa Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra di Netanyahu, ha chiesto che la decisione venga rispettata.

Secondo Goren i battibecchi politici seguiti alla sentenza, dopo mesi di relativa unità dopo il 7 ottobre, sono serviti da “promemoria di quello che ci attende (come israeliani) quando la guerra sarà finita.”

Egli afferma che concentrarsi sulle riforme proposte, una questione divisiva prima della guerra, “invece di fare i conti con gli importanti problemi che dobbiamo affrontare (ora)” non fa che aggiungersi alle critiche della società israeliana a Netanyahu.

Le uccisioni di Beirut sono una “fotografia della vittoria” per il gabinetto di guerra

Eppure, se la sentenza della Corte Suprema è stata un colpo per Netanyahu, l’assassinio di importanti dirigenti di Hamas a Beirut ha rappresentato un momento trionfale per lui e il suo gabinetto di guerra, che include il ministro della Difesa Yoav Gallant e Gantz, ora membro dell’opposizione.

“Penso che le clamorose uccisioni di questo tipo contro nemici giurati di Israele aiutino politicamente Netanyahu,” dice Hashem.

Un articolo pubblicato dal giornale israeliano di sinistra Haaretz ha affermato che le notizie da Beirut sono state viste “positivamente” dalla società israeliana e hanno fornito ai dirigenti del Paese una “fotografia della vittoria” indispensabile mentre la guerra si sta avvicinando al terzo mese.

Ma, secondo l’articolo, per le famiglie degli oltre cento ostaggi ancora trattenuti a Gaza la notizia è giunta come “una pugnalata al cuore”.

Martedì Netanyahu ha incontrato le famiglie e le ha informate che si stava per concretizzare un possibile accordo con Hamas che avrebbe potuto portare alla liberazione degli ostaggi.

Subito dopo è filtrata l’informazione dell’uccisione di importanti dirigenti di Hamas a Beirut, seguita da notizie secondo cui i passi avanti del possibile accordo per il rilascio degli ostaggi erano in fase di stallo.

Haaretz, citando Eli Shtivi, padre del ventottenne Idan Shtivi, rapito durante il festival musicale Supernova, ha affermato che le notizie hanno spento il crescente ottimismo tra i familiari riguardo alle prospettive di un accordo. Shtivi ha detto alla televisione israeliana che le uccisioni “sono avvenute in un momento in cui pensavamo che avremmo visto la reale possibilità che altri ostaggi tornassero a casa.”

È una sensazione che Gil Dickmann, la cui cugina Carmel Gat è stata rapita da Hamas, non condivide.

Egli sostiene che la politica dovrebbe aspettare e che la priorità assoluta delle famiglie degli ostaggi è appoggiare qualunque cosa il governo stia facendo per riportarli a casa.

“Quando tutto sarà finito avremo il tempo sufficiente per parlare di politica, ma voglio che mia cugina Carmel sia qui quando lo faremo,” dice ad Al Jazeera.

Fino ad allora, afferma, “appoggeremo qualunque tentativo” per il rilascio degli ostaggi. “Penso che la cosa più importante sia che il governo sappia di avere l’appoggio della stragrande maggioranza degli israeliani.”

Le uccisioni di Beirut dimostrano che non c’è nessuna volontà di arrivare a un cessate il fuoco

Comunque gli omicidi hanno irritato molti israeliani che chiedono ad alta voce una soluzione pacifica della guerra.

Nelle scorse settimane Standing Together [Stare uniti], un movimento ebreo-arabo per la pace, ha portato migliaia di persone in piazza per chiedere un cessate il fuoco bilaterale e la fine dell’attuale campagna militare a Gaza.

Alon-Lee Green, il suo co-direttore, dice ad Al Jazeera che gli omicidi sono stati un messaggio di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra che “non siamo disposti a negoziare”.

Una vittoria militare, non politica

Secondo alcuni analisti quanto successo a Beirut potrebbe essere visto da molti israeliani come un successo militare, ma non si traduce necessariamente in una vittoria politica di Netanyahu.

Piuttosto, secondo Goren, ciò allarga il divario tra la “mancanza di fiducia nell’attuale dirigenza del governo e il costante alto livello di fiducia nei confronti degli ambienti dell’apparato della sicurezza, nonostante tutto quello che è successo il 7 ottobre.”

Secondo lui il fatto che anche Gantz, un oppositore politico, faccia parte del gabinetto di guerra dimostra che l’obiettivo di dare la caccia ad Hamas è condiviso dalla maggioranza dei dirigenti politici, e di conseguenza i successi militari non sono attribuibili solo a Netanyahu.

Yossi Mekelberg, professore associato del programma MENA [Medio Oriente e Nord Africa] presso la Chatham House [prestigioso centro studi britannico, ndt.], afferma che, anche se avvenimenti come le uccisioni di Beirut possono offrire una breve tregua alla criticatissima dirigenza israeliana, non cambieranno la precaria situazione politica di Netanyahu.

Il primo ministro è generalmente considerato responsabile di quanto avvenuto il 7 ottobre, quindi secondo Mekelberg anche se ci fosse un cessate il fuoco l’opposizione probabilmente contesterebbe la sua posizione e chiederebbe nuove elezioni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Sinistra israeliana oggi

Jon Wiener

14 dicembre 2023 – The Nation

Alcune domande a David Myers sul movimento per la pace in Israele

David Myers è professore emerito e Kahn Professor di storia ebraica presso l’UCLA (University of California – Los Angeles), dove ricopre il ruolo di direttore del Luskin Center for History and Policy e dell’Initiative to Study Hate [Centro Luskin per la Storia e la Politica e dell’Iniziativa per lo Studio dell’Odio]. Ha scritto per la pagina degli opinionisti del Los Angeles Times, The Forward e The Atlantic. Questa intervista è stata sintetizzata e rivista.

Jon Wiener: Il governo Netanyahu non ha alcun piano per ciò che accadrà dopo la guerra a Gaza. Sappiamo che abbiamo bisogno di una vera soluzione politica a quella che Edward Said chiamava “la questione palestinese”.

David Myers: I paradigmi esistenti sembrano essere due Stati o un unico Stato, entrambi ampiamente screditati. Questo è un momento in cui dobbiamo spingere verso una maggiore immaginazione politica nel pensare a ciò che esiste tra due e uno.

JW: Quali gruppi in Israele ora guidano questo tipo di pensiero? Storicamente, Peace Now è stato il grande gruppo in Israele – e negli Stati Uniti – che ha sostenuto uno Stato palestinese. Raccontaci del panorama della sinistra in questo momento.

DM: Nellattuale contesto, ci sono un paio di categorie di gruppi che stanno svolgendo un lavoro essenziale. La prima categoria sono i gruppi che riuniscono arabi ed ebrei, a cominciare dal movimento che opera un grande lavoro organizzativo: Standing Together [Stare Insieme]. È un gruppo di palestinesi israeliani ed ebrei israeliani impegnato nell’organizzazione di base in nome degli ideali di giustizia e uguaglianza per tutti. Si è dimostrato estremamente efficace, in questo senso, nella lotta contro la violenza contro le donne e nel chiedere la cessazione delle ostilità tra ebrei e arabi nelle città miste israeliane nel maggio 2021. Anche nell’’attuale contesto di enorme tensione, Standing Together ha avuto successo: è stato in prima linea per cercare di tenere insieme le diverse comunità di Israele.

JW: E oltre a Standing Together?

DM: Poi c’è il Parents Circle [Circolo dei Genitori], che riunisce i parenti delle vittime di violenza, sia palestinesi che ebrei. E Combatants for Peace [Combattenti per la Pace]: riuniscono ex combattenti delle due parti che riconoscono l’’inutilità di continuare l’’attuale schema di ciclica violenza. Le storie raccontate da questi ex combattenti sono straordinariamente avvincenti. Loro, insieme a Parents Circle, costituiscono il mondo che è stato ricreato in modo così brillante dall’autore irlandese-americano Colum McCann nel suo libro Apeirogon, [la storia vera dell’inaspettata amicizia fra due padri, un palestinese e un israeliano, che hanno rispettivamente perso le loro figlie a causa della violenza e che trasformano il loro dolore in attivismo per la pace, tradotto in italiano da Feltrinelli, ndt] che consiglio a tutti.

JW: E chi sta svolgendo un lavoro significativo su questioni a lungo termine?

DM: Mitvim è un think tank che immagina una politica estera diversa per Israele, una politica che non ignora o trascura il problema palestinese ma lo pone al centro della sua visione. E un altro gruppo davvero importante che penso sia diventato ancora più significativo negli ultimi mesi si chiama A Land for All [Una Terra per Tutti]. È un gruppo che si impegna esattamente nel tipo di immaginazione politica di cui abbiamo bisogno che propone una confederazione. È un’organizzazione che crede nel principio dei due Stati con alcune modifiche, come una frontiera aperta che consenta ai cittadini israeliani, in maggioranza ebrei, di vivere in uno Stato palestinese e ai cittadini palestinesi di uno Stato palestinese di vivere nello Stato di Israele. Ci sono molte questioni e dettagli ancora da capire, ma questo è il tipo di immaginazione e di nuovo modo di pensare di cui penso abbiamo bisogno, nella misura in cui fa crollare l’apparente dicotomia tra un ideale di separazione assoluta, che molti desiderano e tuttavia è impossibile e non è particolarmente favorevole alla crescita economica, e il principio dell’’integrazione sotto forma di un unico Stato di tutti i cittadini, che dopo il 7 ottobre sembra essere destinato al fallimento per la maggior parte degli israeliani. La bellezza di A Land for All è che in un certo senso fa crollare la distinzione tra separazione e integrazione in un formato noto, due Stati , ma la modifica in modo significativo.

Sia che sosteniamo questa particolare idea o qualche sua modifica, dobbiamo evitare quella che sarà la campana a morto per il futuro, ovvero la stasi, nessun cambiamento all’orizzonte.

JW: Sei stato un leader del New Israel Fund. Dove si inseriscono i suoi sostenitori in questa costellazione?

DM: Il New Israel Fund [Nuovo Fondo Israele] ha sostenuto finanziariamente quasi tutte le ONG sul lato progressista del panorama della società civile israeliana, ed è un sostenitore di molte delle organizzazioni di cui abbiamo parlato qui. Il NIF c’è stato, c’’è e continuerà ad esserci.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




due articoli sul futuro dell’opposizione israeliana con proposte diametralmente opposte

Nota redazionale: riteniamo interessante presentare questi due articoli che affrontano il problema cruciale della ricerca strategica di un’alleanza tra le classi popolari del gruppo maggioritario e dominante e di quelle dominate e oppresse in un contesto coloniale. I due articoli che seguono propongono prospettive opposte.

Smettiamola di parlare di una “collaborazione tra ebrei e arabi” falsa

Rami Younis e Orly Noy 

17 aprile 2019, +972

Creando una simmetria tra israeliani e arabi, gli ebrei di sinistra non hanno solo perso di vista l’intero quadro, ma stanno contribuendo attivamente a cancellare la lotta palestinese.

Il triste stato del “campo della sinistra” era già chiaro molto prima che la scorsa settimana venissero resi pubblici i risultati finali delle elezioni israeliane. Come se niente fosse, è iniziato il rituale delle dichiarazioni su cosa ci sia di sbagliato nella sinistra e su come rimediare.

La pozione utile per tutti i mali “collaborazione tra ebrei e arabi” è stata tra le suggestioni più diffuse. La prescrizione sembra così ideologicamente corretta e politicamente necessaria che ogni critica è spesso interpretata quanto meno come cinica pedanteria. Eppure vale la pena di dare uno sguardo approfondito all’essenza di questa collaborazione.

Invisibile egemonia ebraica

Più che manifestare un’aspirazione all’uguaglianza, l’idea della collaborazione tra ebrei ed arabi presuppone una condizione simmetrica. In questo senso, si tratta di una versione leggermente aggiornata del concetto di “coesistenza”, che negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di parolaccia nel campo pacifista, e per buone ragioni. Non è che ci opponiamo all’idea di coesistenza, ma siamo piuttosto arrivati alla convinzione che la coesistenza non riflette i rapporti di potere distorti tra gli ebrei israeliani e i palestinesi. È diventato un modo di dire troppo comodo da utilizzare per coloro i quali conoscono come unica coesistenza quella tra un cavallo e il suo cavaliere.

Possiamo presumere che quanti invocano una “collaborazione tra ebrei e arabi” non vogliano quella stupida forma di coesistenza, eppure si avvalgono dello stesso pericoloso senso di simmetria immaginario. Non è casuale che siano i maschi ebrei askenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndt.] che in genere guidano questi appelli alla collaborazione. Analogamente non è semplicemente simbolico che discorsi sulla collaborazione tra ebrei e arabi antepongano quasi sempre gli ebrei agli arabi, riflettendo l’invisibile egemonia ebraica che fa da base al concetto concreto.

Si può riscontrare la stessa asimmetria nello slogan non ufficiale delle persone e dei movimenti che sostengono che la risposta sia la collaborazione: “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”. L’importanza dell’oppresso che rifiuta di essere nemico del proprio oppressore non dovrebbe essere sottovalutata. Ma all’oppressore bisognerebbe chiedere qualcosa di completamente diverso: lui o lei devono rifiutarsi di dominare l’oppresso. Ciò non può essere ottenuto in una situazione di falsa simmetria.

Ciò è vero non solo per ragioni etiche, ma anche perché una lotta prigioniera di una realtà opposta, per quanto questa prospettiva possa essere valida, non potrà mai essere efficace. Finché l’egemonia ebraica resta invisibile, i vari modi in cui decide come sarà questa collaborazione, rimangono invisibili anch’essi in virtù dello stesso linguaggio di simmetria. Si prenda ad esempio il manifesto pubblicato da “Standing Together”, il principale movimento per la collaborazione tra ebrei e arabi, che afferma che non crede nello sventolio di nessuna bandiera nazionale.

Nella nostra situazione la bandiera ebrea-israeliana è ovviamente parte del panorama, mentre quella palestinese, e peraltro l’esistenza del popolo palestinese, è rifiutata, umiliata e cancellata. Quindi togliere di mezzo entrambe le bandiere non fa progredire l’uguaglianza, approfondisce la disuguaglianza. Nel mondo reale, la bandiera blu e bianca non ha bisogno di legittimazione, quella palestinese sì. Dire che le bandiere possono essere escluse simmetricamente significa negare che qui il destino di una persona sia determinato dalla propria affiliazione nazionale. Questa non è collaborazione, è partecipazione attiva all’oppressione.

La stessa invisibile egemonia ebraica sta anche dietro a varie proposte di fondere o unificare i partiti politici Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.], laburista [partito sionista dominatore della politica israeliana fino agli anni ’70, ndt.] e Hadash [partito non sionista a maggioranza arabo-israeliana, ndt.]. Questa fusione significherebbe ancora una volta che gli ebrei scelgono con quali “arabi buoni” possono costruire una “collaborazione”. Così facendo inoltre definiscono e delegittimano gli “arabi cattivi” che non sono degni di questa collaborazione.

Ricordate la Nakba?

La falsa simmetria sostenuta da quanti credono che “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” è quantomeno pericolosa. Un’intera costruzione basata su un’ideologia razzista, il sionismo, ha lavorato senza sosta durante 71 anni per cancellare sia la narrazione che l’identità palestinesi. Intere generazioni di palestinesi cittadini di Israele sono cresciute qui senza sapere di essere palestinesi – senza conoscere le ingiustizie perpetrate contro il loro stesso popolo. Com’è possibile che queste stesse persone che rivendicano giustizia e uguaglianza contribuiscano solo a perpetuare questa situazione?

E se molti palestinesi non sanno da dove vengono, come potranno sapere dove devono andare?

Abolire l’identità nazionale è anche funzionale a uno dei più ripetuti cliché della destra contro i palestinesi. A ogni palestinese che osi parlare della Nakba, la più grande ingiustizia perpetrata qui – e che la classe dirigente sionista rifiuta di riconoscere – viene immediatamente detto dal simbolico fascista di turno di andarsene e di smetterla di piagnucolare. Questi stessi fascisti rifiutano di capire, o forse scelgono di ignorare, la ferita sanguinante del 1948 e il grande problema storico del popolo palestinese.

Quelli che insistono per una collaborazione tra ebrei e arabi preferiscono concentrarsi sul 1967 [cioè nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndt.] come l’anno della grande ingiustizia. Ma non è così. Nella migliore delle ipotesi, non vedono la realtà, se non altro per il fatto che la maggioranza dei palestinesi (soprattutto a Gaza e in Cisgiordania) si concentra sul 1948. Se tutti i tuoi amici arabi parlano del ’67, probabilmente non hai un numero sufficiente di amici arabi.

Sventolare la bandiera palestinese ed essere orgogliosi di questa identità non è una provocazione, è il dovere di ogni palestinese con una coscienza politica, in modo che per le future generazioni la lotta non scompaia. Quelli che sostengono la coesistenza, che si oppongono a questi indicatori di orgoglio e identità, non sono veri alleati politici, stanno lavorando attivamente contro i palestinesi, che sostengono di proteggere in modo paternalistico e arrogante.

Ci si deve quindi chiedere chi sono gli arabi che si uniscono a questa “collaborazione”. Si deve ricordare che la tendenza dei gruppi indigeni che vivono sotto l’oppressione ad entrare in contatto con il proprio oppressore – anche solo per impedire a quest’ultimo di distruggere le loro vite – è naturale. Ora pensate a quanto sia naturale per i palestinesi dire “sì” ai cosiddetti ebrei illuminati e progressisti che offrono loro la cooperazione. Sentiamo spesso che molti palestinesi scelgono di autocensurarsi in presenza dei loro partner per non far arrabbiare quelli che tendono ad avere privilegi, contatti e, molto spesso, finanziamenti.

I gruppi per la coesistenza ignorano inoltre i palestinesi che vivono nei territori occupati. È probabile che molti ebrei israeliani, anche di sinistra, non abbiano mai visitato la Cisgiordania né abbiano rapporti con abitanti palestinesi locali in un modo che consenta loro di comprendere quello per cui molti palestinesi stanno lottando. Sanno, ad esempio, che molti sostengono il diritto al ritorno? Se dipendesse solo dai palestinesi, invece di gridare “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”, preferirebbero scandire “Palestinesi ed ebrei appoggiano il diritto al ritorno”. Perché in realtà questo slogan non esiste? Perché questa “collaborazione” deve rimanere accettabile per gli ebrei.

Le decine di palestinesi che gridano lo stesso slogan insieme a voi nelle manifestazioni non hanno il diritto di parlare in nome dei palestinesi, così come gli autori di questo articolo non hanno mai ricevuto il diritto di parlare a nome dei rifugiati di Gaza. Eppure ciò non significa che non dobbiamo lottare per i loro diritti.

Questa è una lotta nazionale tra una Nazione indigena e una maggioranza violenta. Quelli che fanno parte della maggioranza non possono guidare e nemmeno pretendere di far parte della dirigenza della lotta contro l’oppressione. La prima cosa che devono fare è essere consapevoli della propria posizione in quanto membri del gruppo oppressore, per quanto possa essere difficile e spiacevole. Quello che possono e devono fare è solidarizzare con le lotte guidate dagli oppressi. Questa è un’idea rivoluzionaria per molti ebrei di buona volontà. Ovviamente si tratta di una posizione più difficile da prendere, in quanto richiede pazienza e ascolto dei problemi che i palestinesi devono affrontare.

All’inizio di questa settimana prigionieri palestinesi, che per anni sono stati privati dei propri diritti ed hanno sopportato maltrattamenti nelle prigioni israeliane, hanno posto fine a uno sciopero della fame. Non c’è niente di “simmetrico” riguardo al loro problema. I prigionieri palestinesi che fanno parte della lotta nazionale sono perseguitati e obbligati a pagarne il prezzo. È anche difficile per l’opinione pubblica ebraica accettarlo. Quale posto potrebbe mai avere la lotta dei prigionieri nella cosiddetta collaborazione con l’egemonia ebraica che spera di vincere i cuori e le menti di più persone possibile?

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

Rinunciare alla collaborazione tra ebrei e arabi vorrebbe dire rinunciare alla speranza

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green

23 aprile 2019, +972

La maggior parte delle persone di questa terra è vittima del governo Netanyahu. La collaborazione tra loro è l’unico modo per lottare contro le sue diverse forme di oppressione – compresa l’occupazione.

È molto facile per chi si trova in una situazione privilegiata criticare qualunque azione intrapresa da persone che fanno lavoro di base come “non abbastanza radicale” e guardare al mondo attraverso lenti ciniche e negative. Non c’è da stupirsi che, dalla loro comoda posizione, nel loro recente articolo “Smettiamo di parlare di una falsa ‘collaborazione tra ebrei e arabi’”, Rami Younis e Orly Noy abbiano scelto di non vederne le opportunità concrete e di non credere nel cambiamento.

Noi, al contrario, sappiamo che c’è speranza. Non abbiamo abbandonato questo luogo e non disperiamo nelle persone che vivono qui. L’ottimismo è una posizione politica.

Ci sono due aspetti dell’articolo di Younis e Noy che meritano un apprezzamento. Il primo è che in questi giorni è lodevole quanto meno parlare della collaborazione tra ebrei e arabi, uno degli argomenti politici più importanti da prendere in considerazione. In secondo luogo, insistendo sulla separazione tra arabi ed ebrei, involontariamente dimostrano esattamente come la destra in Israele abbia conservato il suo potere con la sua strategia di divide et impera, mettendo una contro l’altra le lotte sociali di arabi ed ebrei. Il loro punto di partenza elude la questione di come riuscire ad ottenere un cambiamento in questa terra – e di chi abbia interesse a raggiungerlo – e ciò li porta alla conclusione errata che la collaborazione tra ebrei e arabi sia inutile.

In fondo all’articolo originale in ebraico, Rami Younis descrive se stesso come un “arabo per niente simpatico che crede che gli ebrei debbano appoggiare le lotte dei palestinesi” e Orly Noy si descrive come “un’ebrea che odia se stessa e crede che i palestinesi debbano condurre da sé la propria lotta.” Al di là del tentativo di essere spiritosi, le acide note biografiche rivelano gli assunti impliciti: gli arabo-palestinesi che vivono qui lottano legittimamente, ma gli ebrei israeliani no (e se lo fanno, non sono abbastanza importanti o abbastanza radicali). Ma non puoi mettere da parte le legittime lotte di quartieri e città con servizi inadeguati, di donne, di ebrei mizrahi [cioè di origine araba, ndt.], dei disabili, per le case di edilizia pubblica, della comunità etiope, dei richiedenti asilo e di altri. Non puoi cancellare intere comunità e dichiarare semplicemente che sono parte di una “maggioranza distruttiva e violenta”.

Per di più, cancellando tutte le lotte di quelle comunità e paragonandole a una “maggioranza distruttiva e violenta”, Younis e Noy stanno suggerendo che la maggioranza degli ebrei israeliani vota per la destra semplicemente perché è razzista e cerca di proteggere i propri privilegi. In breve, Younis e Noy pensano che gli ebrei israeliani siano degli stronzi. Noi di “Standing Together” [organizzazione ebreo-araba israeliana di sinistra, ndt.] pensiamo che l’attuale governo di destra e la gente che vive in questa terra abbiano interessi diametralmente opposti, e che sia compito della sinistra mostrare semplicemente quanto siano dannose le politiche del governo e organizzare le lotte contro quelle istituzioni e le loro politiche.

Le politiche economiche della destra danneggiano seriamente i lavoratori e i settori deboli della popolazione, come dimostrato almeno in parte da una serie di proteste sociali in Israele nel corso degli anni. Le politiche sociali della destra trascurano i punti di vista della maggioranza dell’opinione pubblica; solo nell’ultimo anno queste politiche hanno portato a proteste di massa contro le violenze a danno di donne e contro i diritti LGBTQ. La destra cerca di rimanere al potere non migliorando le vite dei suoi elettori, ma attaccando la minoranza nazionale arabo-palestinese di Israele. Tra le altre cose, l’istigazione al razzismo è il modo della destra per nascondere il fatto che essa non ha migliorato le vite di quanti la votano.

Il modo per lottare contro Netanyahu è duplice: mostrare come le sue politiche economiche danneggino la grande maggioranza dell’opinione pubblica e lottare sia contro il suo incitamento al razzismo nei confronti dei palestinesi in Israele che contro il costante controllo militare di Israele sui territori palestinesi. Dall’articolo di Younis e Noy si può presumere che essi ritengano che le lotte per alloggi a prezzi accessibili, delle femministe, per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza per i palestinesi all’interno di Israele siano tutte secondarie rispetto alla lotta per porre fine all’occupazione. Noi La pensiamo in modo diverso.

La maggior parte della gente di questa terra è danneggiata dalle politiche del governo. La collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare contro queste varie forme di oppressione, compresa la fine dell’occupazione. Dalla sua fondazione noi di “Standing Together” abbiamo sempre creduto che sia possibile quanto necessario lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi insieme alle lotte per la giustizia sociale e per uguali diritti civili e nazionali. Su ogni fronte di questa lotta insistiamo per lavorare insieme sulla base di interessi condivisi.

Adottiamo questo approccio con la piena consapevolezza del fatto che diversi gruppi della società israeliana sono vittime in modi diversi di sfruttamento, discriminazione e oppressione. I cittadini arabo-palestinesi non sono solo maggiormente danneggiati dalle politiche socioeconomiche della destra, ma sono anche discriminati sulla base della loro identità nazionale: le leggi razziste prendono specificatamente di mira la lingua e la cultura arabe e la legittimità della partecipazione politica araba. Ciò è stato strutturato in modo più rivelatore dalla legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sovverte il principio di uguaglianza e stabilisce per legge lo status di cittadini di seconda classe dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

Non c’è nessuna simmetria tra la situazione che vivono ebrei e arabi in Israele. Ma la destra israeliana sopravvive proprio trasformando questa asimmetria in una barriera per chiunque intenda cambiare. Ciò diventa particolarmente efficace quando la destra alimenta sistematicamente i timori degli ebrei israeliani, suggerendo che i simboli nazionali e culturali palestinesi incarnino un desiderio di “buttare a mare gli ebrei”. È così che la destra manipola i simboli nazionali palestinesi, soprattutto la bandiera palestinese e il Giorno della Nakba [commemorazione dell’espulsione dei palestinesi dal territorio poi diventato lo Stato di Israele nel 1948, ndt.].

Ferme restando le complicazioni intrinseche e i rapporti di potere di ogni collaborazione tra ebrei ed arabi in una società tanto segregata e polarizzata come la nostra, crediamo che questa collaborazione sia l’unico modo per far progredire un’alternativa e cambiare la nostra situazione. Sì, è una sfida. Come ha scritto Noam Shizaf [giornalista israeliano di +972, ndt.], non è facile raggiungere l’uguaglianza all’interno di una cornice politica comune. Ma noi di “Standing Together” abbiamo scelto di affrontare queste sfide ogni giorno della settimana. A volte abbiamo successo, a volte non molto, ma noi non rinunciamo, non ci disperiamo e non smettiamo di provarci.

Nel loro articolo Younis e Noy scrivono che i membri arabi di “Standing Together” non credono realmente nella collaborazione tra ebrei e arabi – che dicono che ci credono solo per tranquillizzare gli ebrei privilegiati nelle loro fila. Scrivendo ciò, riducono il contributo dei membri palestinesi di “Standing Together” – membri della dirigenza del movimento che definiscono il programma, lavorano per promuovere gli interessi degli arabo-palestinesi in Israele e che a volte pagano di persona per il fatto di essere dirigenti. Più tragicamente, attaccando “Standing Together”, Younis e Noy non fanno che rafforzare gli argomenti della destra, secondo cui i palestinesi che dicono di voler vivere pacificamente accanto agli ebrei israeliani in realtà stanno mentendo.

Queste sono le nostre convinzioni e ci crediamo davvero. Siamo convinti che le politiche della destra danneggino le famiglie arabe più di quelle ebraiche e che questi danni abbiano una radice storica. Sappiamo anche che la collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare per i diritti di tutte quelle famiglie, sia ebree che arabe, e per garantire che tutti possano vivere insieme in questa terra. Questi sono in nostri valori. Questa è la nostra teoria per il cambiamento. Questa è la fonte della nostra speranza. Crediamo nel cammino che abbiamo scelto e stiamo costruendo un ampio movimento – ebrei, arabi e socialisti – per realizzare un cambiamento fondamentale nella società, nell’economia e nella politica di Israele.

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green sono membri della direzione di “Standing Together”. La versione originale di questo articolo in ebraico è già comparsa su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Attivisti fatti scendere dall’autobus per aver protestato contro la discriminazione razziale in un ospedale israeliano

Edo Konrad

20 gennaio 2019, +972

Gli agenti della sicurezza allontanano gli attivisti che protestano su un autobus pubblico di linea nel sud di Israele contro la nuova politica di discriminazione dei palestinesi.

Gli agenti della sicurezza di un ospedale israeliano domenica hanno bloccato 10 attivisti arabi ed ebrei a causa di un’azione di disobbedienza civile di protesta contro la prassi di discriminare, allontanare e controllare i palestinesi su una linea pubblica di autobus nel sud di Israele.

Gli attivisti, che appartengono al movimento di base di protesta ‘Standing Together’ [“Stare insieme”], sono stati fatti scendere dall’autobus all’entrata del centro medico Barzilai ad Ashkelon, dopo essersi rifiutati di mostrare le loro carte di identità e aver chiesto di sapere perché ai passeggeri non arabi non fosse stato chiesto di mostrare le loro.

Local Call’ [sito di notizie e analisi israeliano in ebraico, ndtr.] ha riferito per la prima volta la scorsa settimana che da parecchi mesi gli agenti della sicurezza dell’ospedale chiedono ai passeggeri che hanno sembianze arabe di mostrare le loro carte di identità. Se sono palestinesi, gli agenti li fanno scendere dall’autobus e gli permettono di risalire quando si allontana dall’edificio dell’ospedale. Sia l’ospedale che la compagnia di autobus hanno confermato l’esistenza di questa nuova prassi, ma hanno sostenuto che “viene condotta in modo rispettoso”.

Domenica mattina un agente della sicurezza è salito sull’autobus numero 18 quando è arrivato nei pressi dell’edificio del centro medico Barzilai, si è avvicinato a Gadir Hani – una palestinese cittadina di Israele che indossa il velo ed è attivista di ‘Standing Together’, e le ha chiesto la sua carta di identità.

Una ripresa video mostra Hani che chiede all’agente di sicurezza perché lei fosse discriminata e di richiedere a tutti i passeggeri di mostrare la propria carta d’identità. Anche gli altri passeggeri arabi sull’autobus hanno rifiutato di mostrare i propri documenti, dopodiché sono saliti a bordo parecchi altri agenti della sicurezza.

Quando gli attivisti hanno esibito i loro cartelli, gli agenti gli hanno detto che erano in arresto e li hanno fatti scendere dall’autobus. Pochi minuti dopo è arrivato un ufficiale dell’ospedale di grado più alto e li ha rilasciati.

Questo tipo di discriminazione è esattamente ciò che avevano sperato i promotori della legge dello Stato-Nazione ebraico: mostrare alla società israeliana che è legittimo discriminare, in tutti gli ambiti della vita, tra ebrei ed arabi cittadini di Israele”, ha detto l’attivista di ‘Standing Together’ Uri Weltman. “Non accetteremo la segregazione razziale – sugli autobus o in qualunque altro luogo.”

Secondo il rapporto di ‘Local Call’ sulle pratiche discriminatorie, oltre 3.000 persone hanno firmato una petizione online che chiede che l’ospedale smetta di discriminare e allontanare i passeggeri arabi dall’autobus.

L’ospedale e la compagnia di autobus sostengono che solo i palestinesi residenti in Cisgiordania e Gaza sono sottoposti ad un controllo suppletivo e fatti scendere dal bus quando entra nell’ospedale, giustificando questa prassi con ambigue motivazioni di sicurezza. Tuttavia una residente del luogo che regolarmente usufruisce di quella specifica linea di autobus ha detto a ‘Local Call’ di aver visto anche palestinesi cittadini di Israele cacciati fuori dal bus in diverse occasioni. (I palestinesi residenti in Cisgiordania hanno carte di identità verdi, mentre i residenti e i cittadini di Israele, compresi i palestinesi, hanno carte di identità blu.)

Da quando questa prassi è stata resa pubblica per la prima volta la scorsa settimana in un post su Facebook, molte organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto che l’ospedale, la compagnia di autobus, i ministeri israeliani della Sanità e dei Trasporti la interrompano immediatamente.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)