Permessi di costruzione per palestinesi

I nuovi permessi di costruzione per i palestinesi aprono la strada all’annessione?

A fine luglio la decisione israeliana di approvare 715 alloggi in città palestinesi potrebbe essere un gesto simbolico o la premessa di una maggiore presa di controllo sulle terre della Cisgiordania occupata

Ben White

23 agosto 2019 – Middle East Eye

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano, annunciata a fine luglio, di approvare i permessi di costruzione per abitazioni palestinesi in zona C [sotto totale controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata costituisce un’eccezione perché si tratta della “prima decisione di questo tipo dal 2016”.

Benché il numero comunicato di 715 alloggi nelle città palestinesi sembri positivo, finora non è stata diffusa alcun’altra informazione, per esempio se i progetti riguardino nuove costruzioni o la regolarizzazione retroattiva  di abitazioni costruite senza i permessi rilasciati da Israele.

Al di là della mancanza di chiarezza, queste abitazioni sono una goccia nell’oceano: secondo Peace Now, «si stima che ogni anno nella zona C vi sia almeno un migliaio di giovani coppie palestinesi che hanno bisogno di un alloggio.»

Dal 2009 al 2016 le autorità d’occupazione israeliane hanno approvato solo 66 permessi di costruzione per palestinesi nella zona C, cioè appena il 2% del totale delle domande. Nello stesso periodo è iniziata la costruzione di 12.763 alloggi nelle colonie israeliane della zona C.

Ciononostante, benché questi nuovi permessi di costruzione si avvicinino appena alle necessità derivanti da un sistema intenzionalmente discriminatorio, questa resta una decisione inusuale. Perché un governo di estrema destra –alla vigilia delle elezioni – dovrebbe prendere una simile misura?

Una iniziativa dovuta «alla pressione americana » ?

Il «piano di pace» della Casa Bianca costituisce un elemento essenziale del contesto : Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] cita «fonti politiche» anonime che ritengono che questa iniziativa «potrebbe essere dovuta a pressioni americane.»

Queste autorizzazioni sono avvenute proprio prima della visita di una delegazione americana guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nel quadro di un tour regionale per promuovere il piano.

Questa possibilità ha destato preoccupazione in alcuni membri del movimento dei coloni: due importanti responsabili hanno definito i permessi di costruzione per i palestinesi «particolarmente inquietanti”, tenuto conto di ciò che descrivono come «il chiaro obbiettivo dell’Autorità Nazionale Palestinese di stabilire uno Stato terrorista nel cuore del Paese.»

Non devono preoccuparsi. Secondo Haaretz, che cita «fonti informate sui dettagli», alcune informazioni hanno rapidamente rivelato che la decisione del governo israeliano è dipesa in realtà da un «cambio di politica destinato ad estromettere l’Autorità Nazionale Palestinese dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione nei territori (occupati) ».

Prevenire uno Stato palestinese

Inoltre il Ministro dei Trasporti e deputato dell’Unione dei partiti di destra, Bezalel Smotrich, ha pubblicato su Facebook una spiegazione dettagliata  per giustificare questi permessi.

Affermando che uno dei principali obbiettivi della sua carriera politica è «impedire l’instaurazione di uno Stato terrorista arabo nel cuore di Israele » (con riferimento alla Cisgiordania), Smotrich scrive : «Oggi, finalmente…Israele predispone un piano strategico per fermare la creazione di uno Stato palestinese.”

Secondo Smotrich la decisione del gabinetto segna «la prima volta » che Israele « controlla che nella zona C vi siano costruzioni solo per gli arabi che siano residenti originari della regione dal 1994 e non per gli arabi arrivati in seguito dalle zone A [sotto controllo palestinese, ndtr.] e B [sotto controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, ndtr]. »

La costruzione per i palestinesi sarà quindi autorizzata solo «in luoghi che non nuocciano alla colonizzazione e alla sicurezza delle colonie e non creino una contiguità territoriale né uno Stato palestinese di fatto. »

E non è tutto. «Per la prima volta nella sua storia », prosegue il Ministro, « lo Stato di Israele applicherà la propria sovranità sull’insieme del territorio ed assumerà la responsabilità di ciò che accade al suo interno. »

Ecco, sta scritto nero su bianco. I permessi concessi ai palestinesi nella zona C sono una dimostrazione della «sovranità » israeliana – un’altra premessa all’annessione formale.

In quest’ottica il legame tra i permessi di costruzione ed il piano dell’amministrazione Trump assume una dimensione più preoccupante – anche se poco sorprendente -, che non suggerisce una «concessione» per facilitare i negoziati, ma un coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti riguardo all’annessione della zona C.

Dare priorità alle comunità ebree

Fatto rivelatore, parallelamente alla concessione di permessi ai palestinesi, il governo israeliano ha approvato circa 6000 alloggi nelle colonie israeliane. Il giorno dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione di una visita nella colonia di Efrat, dichiarava: «Nessuna colonia e nessun colono saranno sradicati…Ciò che fate qui è definitivo.»

Tuttavia, che i permessi di costruzione per i palestinesi – se mai si concretizzeranno – siano solo un gesto simbolico oppure una premessa all’annessione, questi sviluppi mettono in evidenza i limiti di una critica meramente umanitaria alla politica israeliana di demolizione e di espulsione.

Negli ultimi anni il brutale approccio «discriminatorio ed iniquo» di Israele riguardo alle comunità e alle abitazioni nella zona C della Cisgiordania ha suscitato giustamente critiche internazionali sempre più numerose, e Amnesty International ha condannato il regime di pianificazione discriminatorio di Israele come “unico al mondo.”

Nonostante questo, man mano che Israele si avvicina all’ufficializzazione dell’annessione della zona C, alcuni diranno che tale sviluppo è vantaggioso per gli abitanti palestinesi perché concederà loro la cittadinanza, legalizzerà le loro comunità, rilascerà dei permessi, eccetera.

Beninteso, un simile argomento può essere contestato in base ai suoi stessi termini, anche citando gli argomenti chiaramente avanzati dai sostenitori di Smotrich, secondo i quali la politica di pianificazione continuerà a dare priorità alle comunità ebree (come è sempre stato entro i confini del 1967).

Progetto colonizzatore

Tuttavia, una posizione molto più forte consiste nel considerare le demolizioni e le espulsioni di Israele nella zona C, compresi i permessi che rilascia, nel contesto di un regime di apartheid molto più vasto, nel quale i palestinesi vengono espulsi, frammentati e discriminati per perseguire l’obbiettivo principale di mantenere lo Stato ebraico – ed il controllo della terra e della demografia necessario a tale obbiettivo.

Il regime di pianificazione territoriale discriminatorio di Israele costituisce una crisi umanitaria e dei diritti umani, ma non si tratta solo di questo – e se l’opposizione alle demolizioni si esprime in questi termini, le critiche diventano vulnerabili alle iniziative israeliane quale un aumento simbolico dei permessi, cioè l’annessione.

In fin dei conti, come altrove in Palestina, è più facile comprendere e attaccare le politiche israeliane collocandole nel quadro di un progetto di colonizzazione di molti decenni – un quadro che mantiene tutta la sua rilevanza, piuttosto che assistere tra breve ad un’annessione ufficiale della zona C o alla perpetuazione dello statu quo.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




70 anni di promesse mancate: la storia non raccontata del piano di partizione

Ramzy Baroud

22 novembre 2017, Palestine Chronicle

In un recente discorso prima del gruppo di ricerca di Chatham House [Ong britannica che si occupa di ricerche di politica internazionale, tra i più influenti al mondo, ndt.] di Londra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione dello Stato palestinese da un punto di vista astratto.

Prima di pensare alla creazione di uno Stato palestinese, ha affermato, “è tempo che noi riconsideriamo se il nostro modello di sovranità, e di sovranità illimitata, sia applicabile ovunque nel mondo.”

Non è la prima volta che Netanyahu getta discredito sull’idea di uno Stato palestinese. Nonostante le chiare intenzioni di Israele di vanificare ogni possibilità di creare un tale Stato, l’amministrazione USA di Donald Trump, a quanto sembra, sta mettendo a punto piani per un “accordo di pace definitivo.” Il New York Times suggerisce che “il piano previsto dovrà essere costruito intorno alla cosiddetta soluzione dei due Stati”.

Ma perché sprecare sforzi, quando tutte le parti in causa, compresi gli americani, sanno che Israele non ha intenzione di consentire la creazione di uno Stato palestinese e gli USA non hanno né l’influenza politica, né il desiderio, per imporla?

La risposta forse non si trova nel presente, ma nel passato.

Inizialmente uno Stato arabo palestinese era stato proposto dagli inglesi come tattica politica, per fornire una copertura giuridica alla creazione di uno Stato ebraico. Questa tattica politica continua ad essere utilizzata, anche se mai con l’obbiettivo di trovare una “giusta soluzione” al conflitto, come spesso viene propagandato. Quando, nel novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour promise al movimento sionista di garantire uno Stato ebraico in Palestina, l’ipotesi, in precedenza remota e poco plausibile, iniziò a prendere forma. Si sarebbe realizzata senza sforzo, se i palestinesi non si fossero ribellati.

La rivolta palestinese del 1936-1939 dimostrò un impressionante livello di consapevolezza politica collettiva e di capacità di mobilitazione, nonostante la violenza britannica.

Allora il governo britannico inviò in Palestina la Commissione Peel per analizzare le radici della violenza, nella speranza di sedare la rivolta palestinese.

Nel luglio 1937 la Commissione pubblicò il suo rapporto, che scatenò immediatamente la rabbia della popolazione nativa, che era già consapevole della collusione tra inglesi e sionisti.

La Commissione Peel concluse che “le cause sottostanti ai disordini” erano il desiderio di indipendenza dei palestinesi e il loro “odio e timore per la creazione del focolare nazionale ebraico.” Sulla base di questa analisi, raccomandava la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese, quest’ultimo destinato ad essere incorporato nella Transgiordania, che era sotto il controllo britannico.

La Palestina, come altri Paesi arabi, era teoricamente pronta per l’indipendenza, in base ai termini del mandato britannico, come garantito nel 1922 dalla Società delle Nazioni. Per di più, la Commissione Peel raccomandava un’indipendenza parziale per la Palestina, diversamente dalla piena sovranità assicurata allo Stato ebraico.

Ancora più allarmante era il carattere arbitrario di quella divisione. Allora il totale della terra posseduta dagli ebrei non superava il 5,6% dell’estensione dell’intero Paese. Lo Stato ebraico avrebbe incluso le regioni più strategiche e fertili della Palestina, compresa la Galilea Fertile [nota come Bassa Galilea, ndt.] e molta parte dell’accesso al mar Mediterraneo.

Durante la rivolta furono uccisi migliaia di palestinesi, che continuavano a rifiutare la svantaggiosa spartizione e lo stratagemma britannico teso ad onorare la Dichiarazione Balfour e privare i palestinesi di uno Stato.

Per rafforzare la propria posizione, la leadership sionista cambiò rotta. Nel maggio 1942 David Ben Gurion, allora rappresentante dell’Agenzia Ebraica, partecipò a New York ad una conferenza che riuniva i dirigenti sionisti americani. Nel suo intervento chiese che l’intera Palestina divenisse un “Commonwealth ebraico.”

Un nuovo potente alleato, il presidente [americano] Harry Truman, incominciò a colmare il vuoto lasciato aperto, in quanto gli inglesi erano propensi a terminare il loro mandato in Palestina. In “Prima della loro diaspora”, Walid Khalidi scrive:

(Il Presidente USA Harry Truman) fece un passo avanti nel suo appoggio al sionismo, sostenendo un piano dell’Agenzia Ebraica per la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese. Il piano prevedeva l’annessione allo Stato ebraico di circa il 60%della Palestina, in un momento in cui la proprietà ebraica della terra del Paese non superava il 7%.”

Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, in seguito a forti pressioni dell’amministrazione USA di Truman, approvò, coi voti favorevoli di 33 Stati membri, la Risoluzione 181 (II), che auspicava la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno Stato palestinese ed un regime di governo internazionale per Gerusalemme.

Se la proposta britannica di partizione del 1937 era già abbastanza negativa, la risoluzione dell’ONU fu motivo di totale sgomento, in quanto assegnava 5.500 miglia quadrate [circa 14.000 Km2, ndt.] allo Stato ebraico e solo 4.500 [circa 11.000 Km2, ndr.] ai palestinesi – che possedevano il 94,2% della terra e rappresentavano oltre i due terzi della popolazione.

La pulizia etnica della Palestina iniziò immediatamente dopo l’adozione del Piano di Partizione. Nel dicembre 1947 attacchi sionisti organizzati contro le zone palestinesi provocarono l’esodo di 75.000 persone. Di fatto, la Nakba palestinese – la Catastrofe – non iniziò nel 1948, ma nel 1947.

Quell’esodo di palestinesi fu congegnato attraverso il Piano Dalet (Piano D), che fu attuato per fasi e modificato per adeguarsi alle esigenze politiche. La fase finale del piano, iniziata nell’aprile 1948, comprese sei importanti operazioni. Due di esse, operazioni “Nachshon” e “Harel” , avevano lo scopo di distruggere i villaggi palestinesi all’interno e nei dintorni del confine tra Jaffa e Gerusalemme. Separando i due principali conglomerati centrali che costituivano il proposto Stato arabo palestinese, la leadership sionista intese spezzare ogni possibilità di coesione geografica palestinese. Questo continua ad essere l’obiettivo fino ad oggi.

I risultati conseguiti da Israele dopo la guerra non si attennero molto al Piano di Partizione. I territori palestinesi separati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est costituivano il 22% della dimensione storica della Palestina.

Il resto è una triste storia. La carota dello Stato palestinese viene esibita di tanto in tanto proprio dalle forze che spartirono la Palestina 70 anni fa e poi collaborarono diligentemente con Israele per garantire il fallimento delle aspirazioni politiche del popolo palestinese.

Infine il discorso della partizione è stato rimodellato in quello della “soluzione dei due Stati”, propugnato negli ultimi decenni da diverse amministrazioni USA, che hanno mostrato poca sincerità nel trasformare in realtà persino un simile Stato.

Ed ora, 70 anni dopo la partizione della Palestina, esiste un solo Stato, benché governato da due diversi sistemi giuridici, che privilegia gli ebrei e discrimina i palestinesi.

Esiste già da molto tempo un solo Stato”, ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy in un recente articolo su Haaretz. “È giunto il momento di lanciare una battaglia sulla natura del suo regime.”

Molti palestinesi lo hanno già fatto.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo libro in uscita è “L’ultima terra: una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi sulla Palestina all’università di Exeter ed è ricercatore ospite presso il Centro Orfalea per gli Studi globali ed internazionali dell’università Santa Barbara della California. Il suo sito web è:

www.ramzybaroud.net

(Traduzione di Cristiana Cavagna)