A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Separazione con solida maggioranza ebraica’: alla conferenza di J Street appello per una versione israeliana delle leggi ‘Jim Crow’

Philip Weiss

10 dicembre 2022 – Mondoweiss

È sicuramente scioccante sentire pubblicizzata la separazione razziale in uno contesto progressista americano, ma, lo scorso fine settimana, alla conferenza di J Street [associazione  ebraica sionista americana che promuove la soluzione a due Stati, N.d.T.] un politico israeliano, Yair Golan, ha promosso come l’unica soluzione alla questione palestinese una esplicita visione di un Israele con leggi ‘Jim Crow’ [norme in vigore nel sud degli USA fra il 1877 e il 1964 per mantenere la segregazione razziale dei servizi pubblici, N.d.T.]. 

L’unica possibilità per Israele è scegliere l’opzione della separazione… Dobbiamo ammetterlo: la realizzazione della visione sionista è quella di una patria per il popolo ebraico con una solida maggioranza ebraica. Questo è l’unico percorso per uno Stato libero, egalitario e democratico.”

Golan, un generale in pensione, è all’estrema sinistra dello spettro politico ebraico in Israele, ex parlamentare del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, N.d.T.] che, nelle ultime elezioni israeliane, non ha neppure superato la soglia di sbarramento. 

Così questa è la vostra tesi proveniente dalla sinistra sionista in Israele. Ospitata dai sostenitori sionisti in America ed è l’idea della segregazione.

Domenica, nel suo discorso dal palco della conferenza, Golan ha descritto la questione palestinese come una “minaccia esistenziale” per Israele: La questione palestinese minaccia di lacerare la società israeliana dall’interno. Non c’è una questione più controversa del futuro dei territori. Nessun’altra ha causato tale violenza politica in Israele, e nessun’altra esige di prendere decisioni così difficili come quelle richieste dal problema palestinese. 

Di fatto Israele ha due opzioni, una devastante e la seconda molto difficile. Israele deve scegliere, e quanto prima, tanto meglio: annessione o separazione. 

Ribadisco: annessione o separazione. Guardando al futuro queste sono le uniche due alternative. L’annessione distruggerà il sogno sionista. In Giudea e Samaria (termini biblici per Cisgiordania) vivono tra i 2,6 e i 3,2 milioni di palestinesi, nella striscia di Gaza 2,1 milioni. In Israele la destra messianica mira ad annettere la Giudea e la Samaria, rioccupare Gaza e ricostruire Gush Khatif (le colonie a Gaza). È folle. 

Questa visione messianica è una completa pazzia. L’unica possibilità di Israele è scegliere l’opzione della separazione. Non la spiegherò ora, ma la separazione può essere attuata nella pratica…

Dobbiamo ammetterlo: la realizzazione della visione sionista è quella di una patria per il popolo ebraico con una solida maggioranza ebraica. Questo è l’unico percorso per uno Stato libero, egalitario e democratico. Tutti gli altri tentativi di costringere a vivere insieme due popoli differenti, all’incirca delle stesse dimensioni, con una lunga storia di ostilità e guerre, sono destinati a fallire. La sfida di creare una collaborazione vera ed egalitaria con una numerosa minoranza araba, i cittadini arabi di Israele, è piuttosto ardua e difficile. 

Neppure la separazione sarà facile da realizzare, ma è l’unica possibilità per un futuro di sicurezza e pace per Israele. Il processo per realizzare la separazione potrebbe significare azioni unilaterali, bilaterali e multilaterali, e Israele, potenza originaria, deve prendere l’iniziativa. 

Signore e signori, è tutta una questione di iniziativa e, mi vergogno nel dire che abbiamo perso questa abilità di prendere l’iniziativa.

Meretz è sceso sotto la soglia del 3,25% per l’elezione in parlamento dopo una campagna politica in cui la questione palestinese non è mai stata neppure discussa dai partiti israeliani.

L’appello per la segregazione di Golan è coerente con altre tesi simili presentate a J Street, come la ricetta per la separazione delle comunità palestinesi ed ebree del defunto Amos Oz.

Gli oratori sionisti progressisti mettono spesso in relazione le loro paure delle violenze che ne seguirebbero nel caso di uno Stato con ebrei e palestinesi in lotta per il potere. Tali timori sono comprensibili, ma in questo momento esiste già una realtà con uno Stato unico e ai palestinesi è inflitta molta violenza che non è contrastata dai sionisti progressisti. E forse dovrebbero smettere di parlare del “sogno” del sionismo come qualcosa da preservare, dato che il sionismo è sicuramente responsabile di “un regime di supremazia ebraica” dal fiume al mare [cioè sia in Cisgiordania che in Israele, N.d.T.] (che la più importante organizzazione per i diritti umani del Paese definisce come una situazione di apartheid). 

Golan ha riconosciuto il potere degli ebrei americani su queste questioni: 

Israele è la patria di tutti gli ebrei. Quale devoto servitore e vero patriota di Israele vi chiedo di continuare a intraprendere tutte le azioni possibili. Noi in Israele abbiamo bisogno della vostra saggezza, della vostra perspicacia, della vostra cultura ebraica senza pari, delle vostre capacità organizzative, della vostra competenza politica e di tutti gli altri mezzi che vogliate impiegare e condividere. Vi ringrazio per l’incredibile lavoro già svolto da voi. 

Mi sembra che gli ebrei americani progressisti e di sinistra debbano farsi valere e smettere di delegare agli israeliani, essere onesti riguardo all’apartheid e presentare il movimento dei diritti civili in America, non il segregazionismo del Sud, come un modello per il cambiamento. Il politico palestinese Ayman Odeh ha fatto proprio questo alla conferenza di J Street, chiedendo agli americani di aiutare Israele e la Palestina a provare una grande trasformazione simile all’opera incompleta per i diritti civili negli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il fallimento della soluzione a due Stati spinge Israele a proporre nuove opzioni

Adnan Abu Amer

7 giugno 2022 – Middle East Monitor

La mancanza di un orizzonte politico tra palestinesi e israeliani a causa delle politiche di colonizzazione sta provocando il fallimento della soluzione a due Stati, che è stata alla base del processo di pace fin dalla conferenza di Madrid del 1991. L’attuale dibattito la descrive come una soluzione impraticabile, che deve essere sostituita da un modello a Stato unico dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]. Il principale argomento è la mancanza di una possibilità concreta di attuare una divisione fisica dei territori palestinesi attualmente occupati. Ciò si deve agli sviluppi sul terreno relativi alle frontiere della Linea Verde e ai confini dell’armistizio tra Israele e i suoi vicini fissati in seguito alle guerre del 1948 e del 1967.

Israele non ha esitato ad annettere grandi aree della Cisgiordania. Ciò ha incentivato i progetti di colonizzazione, accelerando la spinta verso l’idea di uno Stato unico e scartando la soluzione a due Stati. Tuttavia questa idea richiede ancora un’analisi approfondita e solleva dubbi riguardo a quanto il quadro della soluzione di uno Stato unico sia realmente praticabile.

Negli ultimi anni gli israeliani hanno discusso dei possibili modelli per risolvere il conflitto con i palestinesi. Questi modelli includono uno Stato unificato che comprenda tutta la regione geografica senza frontiere interne, uno Stato autogovernato su terra palestinese indipendente e uno Stato unico federale diviso in province ebraiche e palestinesi con ampi poteri, oppure una confederazione. Nel modello confederale c’è una divisione tra due Stati – palestinese ed ebreo – con frontiere aperte precise, con un governo a livello confederale che riunisca elementi israeliani e palestinesi e prenda decisioni su questioni come sicurezza e commercio.

Questi modelli si basano su una prospettiva centrata sugli interessi di Israele. A questo fine si sono esaminati alcuni indicatori riguardo a ogni modello o alternativa: la divisione territoriale; lo status delle colonie; lo status di Gerusalemme; le questioni della nazionalità e della residenza; le autorità di governo e amministrazione; la libertà di movimento; la questione dei rifugiati; le preoccupazioni riguardanti la sicurezza, sociali, economiche e civili; la salvaguardia dell’identità ebraica dello Stato; le ripercussioni sui palestinesi del 1948 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e lo status della Striscia di Gaza. L’analisi di questi parametri solleva questioni sulle possibilità di successo di ciascun modello come soluzione permanente al conflitto.

Alla luce di questa analisi si può concludere che non pare ci sia alcuna concreta possibilità di dar vita a una soluzione permanente e stabile del conflitto israelo-palestinese con uno dei modelli proposti. La ragione principale è che tutti i modelli prospettano contrasti tra palestinesi e israeliani. I palestinesi e gli israeliani continuano con le ostilità a lungo termine per fattori religiosi, culturali, sociali ed economici. Gli israeliani sono seriamente preoccupati che questi contrasti continui provochino instabilità in Israele e lo scoppio di continue ondate di dissenso e conflitto.

L’idea che lo Stato non abbia un’identità ebraica non è accettata dalla grande maggioranza degli israeliani. Perciò quasi tutti i sostenitori della soluzione a uno Stato si riferiscono a uno Stato unico che conservi tale identità, nonostante le difficoltà nel realizzarlo dovute alle dimensioni demografiche. Soprattutto perché l’allargamento della frontiera dello Stato a includere la Cisgiordania vi aggiungerebbe molti palestinesi a detrimento del numero di israeliani [ebrei, ndt.].

La maggior parte delle proposte israeliane di fondare lo Stato unico precisano che la Striscia di Gaza non sarebbe inclusa perché vi vivono due milioni di palestinesi ed è una zona povera e poco sviluppata che richiederebbe molti investimenti. Oltretutto, a differenza della Cisgiordania, non ha un valore né ideologico né strategico per Israele ed è controllata da gruppi palestinesi che non sono disposti a negoziare. Di conseguenza la sua annessione alle terre del futuro Stato richiederebbe la ripresa del controllo con la forza, e senza una soluzione per la Striscia di Gaza non ci sarebbe una soluzione completa del conflitto.

Nel contempo il modello di uno Stato ufficialmente unitario provoca preoccupazioni riguardo alla stabilità di Israele. C’è da aspettarsi che i palestinesi si opporrebbero a far parte di uno Stato ebraico; è nata quindi l’idea di creare una divisione all’interno dello stesso Stato per consentire ai palestinesi un certo livello di autonomia secondo diversi modelli, il primo dei quali è quello dell’autogoverno. In questo caso all’interno dello Stato ci sarebbe una terra palestinese indipendente. Il secondo è il modello federale, in cui ci sarebbe una divisione dello Stato in zone palestinesi ed ebraiche e si affiderebbero le diverse zone all’autorità di governo a livello regionale. Il terzo è il modello confederale, in cui ci sono due Stati, palestinese ed ebraico, con frontiere aperte e un governo confederale che prenderebbe certe decisioni sul territorio.

Allo stesso tempo la destra israeliana propone un’altra alternativa alla soluzione a due Stati. Essa consiste nell’annessione di parti della Cisgiordania, soprattutto dell’Area C, che include più del 60% della Cisgiordania, comprese tutte le colonie e la maggior parte delle zone aperte abitate da circa 100.000 palestinesi. Quest’area avrebbe uno statuto autonomo, o uno Stato con poteri limitati, sempre che Israele continui a controllare le aree circostanti, lo spazio aereo e quello elettromagnetico. Inoltre Israele continuerebbe ad esercitare il controllo sulla sicurezza in caso di necessità, anche se in questa zona si troverebbe la maggioranza delle aree economiche palestinesi.

Riguardo alla cittadinanza e alla residenza, in tutti i modelli proposti come alternativa alla soluzione a due Stati, con l’eccezione di quello confederale, tutti i palestinesi diventerebbero residenti permanenti di Israele. Nel modello confederale ci sarebbe una certa corrispondenza tra cittadinanza e residenza. I palestinesi sarebbero cittadini del loro Stato, pur vivendo sempre in Israele, mentre gli ebrei sarebbero cittadini di Israele, anche se fossero residenti permanenti dello Stato palestinese.

La sicurezza esterna e delle frontiere con l’estero continuerebbero ad essere controllate da Israele. Tuttavia nella federazione ci sarebbe spazio per integrare, per lo meno gradualmente, le forze palestinesi perché collaborino nelle decisioni riguardanti la sicurezza. Le forze di sicurezza israeliane potrebbero operare anche nei territori sotto controllo palestinese per affrontare le minacce alla sicurezza interna. Tuttavia, nel caso dell’autonomia, sarebbe necessario stabilire la distribuzione delle competenze tra le forze di entrambe le parti. In altri casi le operazioni delle forze di sicurezza israeliane nello Stato palestinese si potrebbero limitare a circostanze eccezionali e venire gradualmente eliminate.

Il fatto di proporre questi modelli alternativi alla soluzione a due Stati rivela la preoccupazione israeliana riguardo a una crescente ostilità di entrambe le parti nei confronti di ogni situazione in cui i palestinesi entrino a far parte di uno Stato con un’identità ebraica senza ottenere una propria identità nazionale. Di conseguenza privare i palestinesi dei pieni diritti nello Stato promesso inasprirebbe la sensazione di discriminazione e l’animosità, il che potrebbe portare allo scoppio della violenza e a una guerra civile all’interno dello Stato unico alternativo alla soluzione a due Stati, un avvertimento sollevato recentemente in molti contesti israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

 

 

È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

Un recente sondaggio rivela che persino gli esperti occidentali e israeliani sanno che due Stati in Palestina sono impossibili.

Haidar Eid*

19 settembre 2021 – Al Jazeera

 

Lo scorso agosto l’autorevole rivista USA Foreign Affairs ha condotto un sondaggio sulla soluzione dei due Stati in Palestina fra “autorità con conoscenze specialistiche e i maggiori generalisti del campo”. I 64 esperti dovevano rispondere alla domanda “la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile?” e spiegare la propria posizione con un breve commento.

La metà ha risposto che la soluzione dei due Stati non è morta, sette non si sono espressi e 25 hanno risposto di sì – quella soluzione è morta.

Tra chi ha risposto di no, qualcuno ha tuttora oppure ha avuto in precedenza a che fare con istituti di ricerca sionisti, quali il Washington Institute for Near East Policy. Uno di loro è Martin Indyk, ex ambasciatore USA allo Stato segregazionista di Israele, che prima di iniziare la carriera diplomatica ha prestato servizio come vicedirettore per la ricerca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, considerata la più potente lobby negli USA, che sostiene lo Stato di Israele, ndtr].

L’elenco comprende anche Dennis Ross e altri fortemente impegnati nel cosiddetto “processo di pace”, una storia infinita il cui obiettivo è salvaguardare lo Stato segregazionista di Israele e liquidare del tutto i diritti basilari dei palestinesi.

Ovviamente chi ha avuto parte nel “processo di pace” continua a restare attaccato all’illusione che sia possibile instaurare un bantustan [territori del Sudafrica riservati alle popolazioni native dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndtr.] palestinese.

Chi ha difeso la soluzione dei due Stati ha ammesso che alcune “barriere” ne ostacolano la realizzazione; fra queste la più citata è stata “la mancanza di volontà politica” da “entrambe le parti”. Qualcuno ha persino suggerito che la responsabilità sia esclusivamente della dirigenza palestinese, in quanto Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non hanno il sostegno del popolo palestinese necessario per fare i sacrifici richiesti ed accettare l’apartheid e le politiche di insediamento coloniale di Israele.

È curioso che alcuni di quelli che non si sono espressi abbiano preferito adottare una posizione relativista post-moderna su un tema di libertà, uguaglianza e giustizia – perché ciò altro non è. Altri ancora hanno adottato un approccio alla questione palestinese incentrato sui diritti umani, rifiutandosi di assumere una posizione politica.

Sta a ciascuno giudicare che cosa significhi restare “neutrali” su un’evidente questione di giustizia. Solo pochi decenni fa chi avrebbe osato essere “neutrale” sulla fine dell’apartheid in Sudafrica?

In generale gran parte dei sostenitori della soluzione dei due Stati nel mondo accademico, nei circoli di politica estera e così via sono israeliani, americani o europei che non trovano nulla da ridire su un progetto di insediamento coloniale. I pochi palestinesi che sono a favore di questo approccio razzista alla questione palestinese non riconoscono i fatti compiuti: il sistema fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è in realtà quello di un unico Stato, uno Stato di apartheid dove una comunità gode di tutti i privilegi di cittadinanza, mentre l’altra è privata dei suoi diritti umani fondamentali.

È piuttosto difficile non notare il razzismo e l’ingiustizia connaturati alla realtà segregazionista in Palestina, dove a soffrire non sono soltanto i palestinesi che vivono nei territori occupati dal 1967, come lascia intendere la domanda di Foreign Affairs.

Da parte mia, ho partecipato al sondaggio credendo che fosse importante far sentire la mia voce di palestinese. Ecco ciò che ho scritto nel limitato spazio a disposizione:

“Oltre al fatto che Israele ha intrapreso passi irreversibili che hanno reso impossibile questa soluzione – ossia l’espansione delle colonie ebraiche; l’annessione di altra terra in Cisgiordania oltre che a Gerusalemme; la costruzione del muro dell’apartheid che separa i palestinesi da altri palestinesi; il blocco della Striscia di Gaza; l’approvazione da parte della Knesset della razzista Nation-State Law [Legge sullo Stato-Nazione: questa legge, approvata dal parlamento israeliano nel 2018, restringe ai cittadini ebrei il diritto di autodeterminazione, legittimando così la discriminazione dei cittadini non ebrei, ndtr] – in linea di principio la soluzione dei due Stati non garantisce al popolo palestinese i diritti fondamentali previsti dal diritto internazionale (l’uguaglianza e il diritto al ritorno). Una soluzione di tipo bantustan è una soluzione razzista per antonomasia.”

Che una pubblicazione USA così autorevole sollevi questa domanda sulla realtà dei due Stati in Palestina e si assicuri che ci siano voci palestinesi fra gli intervistati è sicuro indizio della capacità dei palestinesi di fare sentire la propria voce nel cuore dell’impero. È anche rivelatrice del fatto che lentamente ma inesorabilmente il dibattito internazionale sulla Palestina si sta allontanando dagli argomenti del “processo di pace” o della “intransigenza” della dirigenza palestinese.

Se un intervistato ha espresso totale sconcerto per la semplice decisione da parte di Foreign Affairs di fare una simile domanda, ciò dà evidentemente fastidio ai sionisti USA e israeliani. Il tono difensivo adottato in molte delle risposte negative alla domanda indica che persino i più accaniti sostenitori di Israele sono consapevoli che la soluzione dei due Stati non può risolvere la questione palestinese e che essa è già morta a causa delle politiche israeliane di apartheid in Palestina.

L’alternativa è evidente: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di razza, etnia e religione; uno Stato simile al Sudafrica post-apartheid, che non sia basato sulla oppressione di una comunità da parte di un’altra. Non si può arrivare ad una vera soluzione della questione palestinese se si parte da idee razziste sulla separazione dei popoli. Soltanto il recupero dell’identità multiculturale della Palestina, che sia davvero inclusiva, laica e democratica, può portare ad una pace duratura non solo fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma anche oltre.

*Haidar Eid è professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




Gli Stati Uniti sono finalmente usciti allo scoperto

di Gideon Levy – 18 dicembre 2016,  Haaretz

In seguito alla designazione di un rappresentante favorevole alle colonie, l’inganno è finito: gli Stati Uniti non saranno più in grado di sostenere di essere un mediatore imparziale nel conflitto israelo-palestinese | Opinione

Il presidente eletto Donald Trump ha deciso di nominare ambasciatore in Israele un avvocato anti-israeliano e razzista. Che è, naturalmente, una sua prerogativa. Lo scorso giovedì, con la nomina di David Friedman, gli Stati Uniti sono usciti allo scoperto. D’ora in poi appoggiano ufficialmente la costituzione di uno Stato israeliano dell’apartheid tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Friedman non è il primo ambasciatore ebreo in Israele – una questione che ha sempre sollevato domande sulla doppia lealtà – ma è il primo sostenitore dichiarato delle colonie a ricoprire questo incarico. Il suo predecessore, Dan Shapiro, era anche lui favorevole alle colonie, come tutti gli ambasciatori prima di lui – rappresentanti di governi che avrebbero potuto bloccare il progetto di colonizzazione ma non hanno mosso un dito per farlo, ed anzi lo hanno finanziato.

Ma ora abbiamo un ambasciatore che ha anche contribuito di tasca propria alla spoliazione.

Questo cambiamento rappresenta la fine delle ridicole denunce da parte del Dipartimento di Stato USA, che Israele ha sempre ignorato. Non più auto diplomatiche nere dopo la costruzione di ogni nuovo balcone nei territori occupati. D’ora in poi abbiamo un ambasciatore che sarà addolorato per l’evacuazione dell’avamposto di Amona [illegale anche in base alle leggi israeliane e di cui la Corte Suprema israeliana ha deciso l’evacuazione. Ndtr.] e che parteciperà alle cerimonie per la posa della prima pietra in ogni nuova colonia.

Ciò implica il fatto che gli Stati Uniti non potranno più sostenere di essere un mediatore imparziale. Non lo sono mai stati, ma ora la maschera è caduta. Da questo punto di vista, la nomina di Friedman è buona e giusta. I palestinesi, gli europei ed il resto del mondo lo sappiano: l’America è favorevole all’occupazione. Basta inganni.

Friedman è un anti-israeliano, come chiunque altro incoraggi Israele a intensificare l’occupazione. Friedman è un razzista, come chiunque altro spinga per uno Stato dell’apartheid. E’ anche antidemocratico e maccartista (avendo detto che i sostenitori di J Street [organizzazione di ebrei USA moderatamente critici con Israele. Ndtr.] sono “molto peggio dei kapo” [internati nei lager che collaboravano con i nazisti. Ndtr.]) – e già ne abbiamo abbastanza tra noi. Friedman li incoraggerà, ed anche in questo egli è palesemente anti-israeliano.

Ma Friedman non è un iscritto al partito di estrema destra Tekuma [partito dei coloni fondamentalisti. Ndtr.], né, per quanto ne sappiamo, del movimento anti-assimilazionista Lehava. Friedman sta per diventare il rappresentante del governo USA in Israele. Ci deve risposte ad una serie di domande – analogamente al Senato, che deve approvare la sua nomina.

Il governo USA ed il Senato sono consci della portata delle opinioni del nuovo ambasciatore? Comprendono che è favorevole all’istituzione di uno Stato dell’apartheid sostenuto e finanziato dal Paese leader del mondo libero? Perché chiunque, come Friedman, si opponga alla soluzione dei due Stati sostiene l’unica alternativa, che è uno Stato unico e, nel caso di Friedman, uno Stato dell’apartheid. E’ così che vogliono apparire gli Stati Uniti, persino gli Stati Uniti di Trump?

Gli israeliani di destra che sostengono l’annessione – e ce ne sono molti – possono velare il loro progetto dietro una fitta nebbia che nasconde il suo reale significato. Ma non è il caso del rappresentante del Paese più potente al mondo.

L’ambasciatore designato ci deve delle spiegazioni. Quando dici annessione, cosa intendi? Quando contribuisci economicamente alla colonia di Beit El, sai che per la maggior parte è costruita su terre private rubate ai palestinesi? Cosa dirà il Senato della tua complicità in un crimine? Quale sarà il destino degli abitanti autoctoni dei territori occupati, che sono ciò che rimane della loro terra rubata? Se tu parli di democrazia e uguaglianza per tutti, nello spirito della costituzione americana, allora avremo uno Stato binazionale, ugualitario e giusto – a cui, purtroppo, quasi ogni israeliano si oppone.

Tuttavia non è quello a cui ti riferisci. La tua annessione significa la perpetuazione dello status di padroni della terra ed espropriati, un regime di separazione che il mondo progressista chiama apartheid.

Sua eccellenza, presumibile ambasciatore, lei ci deve delle risposte. Anche quelli a Washington che la mandano qui ci devono delle risposte. Considerate i palestinesi come esseri umani con gli stessi diritti di cui godono gli ebrei in Terra di Israele? Vi pare che lo Stato vostro alleato agisca in modo giusto? Lo vedete come uno Stato che rispetta le leggi internazionali? Pensate che spingendolo avanti in una direzione nazionalista gli fate un favore? L’appoggio ad uno Stato dell’apartheid è utile agli interessi americani? Ciò riflette i valori dichiarati dall’America? In breve, state con noi o con i nostri avversari?

(traduzione di Amedeo Rossi)