I palestinesi devono imparare dagli errori del Sudafrica

Ramzy Baroud

4 ottobre 2019 – Al Jazeera

I palestinesi che guardano al Sudafrica post-apartheid devono esaminare con attenzione i suoi tanti errori.

Oggi il paragone tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid è tanto diffuso quanto ovvio. Proprio come fecero in passato il Sudafrica e molti altri colonialismi di insediamento, ora Israele sta applicando politiche di segregazione razziale e di pulizia etnica per favorire e proteggere gli interessi dei colonialisti negando e marginalizzando i fondamentali diritti umani della popolazione colonizzata.

Naturalmente il discorso della liberazione della Palestina ha preso a riferimento la lotta popolare contro l’apartheid sudafricana, mentre anche il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) ha largamente adottato il modello del movimento di boicottaggio del Sudafrica.

L’indomita resistenza e gli enormi sacrifici dei sudafricani fatti per rovesciare definitivamente centinaia di anni di colonialismo e di apartheid razziale olandesi e britannici sono eccezionali e degni di ammirazione. Sfidare e sconfiggere ufficialmente le potenti e sinistre forze che hanno perpetrato una tale storica ingiustizia è un’impresa straordinaria. Essa sottolinea l’invincibile potere dei movimenti popolari ed offre un esempio positivo per i palestinesi.

Tuttavia, nella corsa ad enfatizzare le similitudini tra le due esperienze – che nasce dal bruciante e giustificabile desiderio dei palestinesi di raggiungere la propria “opportunità sudafricana” – vengono commessi due gravi errori.

Primo: i palestinesi spesso fraintendono e idealizzano il percorso della lotta sudafricana contro l’apartheid. Secondo: tra i palestinesi ed i loro sostenitori vi è una assai diffusa convinzione che l’abolizione ufficiale delle leggi di apartheid abbia automaticamente aperto la strada ad una nuova era di democrazia ed eguaglianza in Sudafrica.

Simili percezioni conducono all’erronea ipotesi che un’analoga vittoria legale in Israele possa risolvere tutti i problemi della Palestina e spianare la strada all’agognata soluzione di uno Stato unico.

Questa questione ha occupato i miei pensieri durante una recente visita in Sudafrica. Mentre facevo conferenze sulla Palestina e sulla comune lotta delle due Nazioni, ho avuto l’occasione di incontrare, per discutere dell’esperienza sudafricana, parecchi intellettuali, ex militanti anti-apartheid e attivisti per i diritti umani, che partecipano all’attuale lotta per l’uguaglianza in Sudafrica.

A mio avviso i palestinesi devono ascoltare ed analizzare attentamente le opinioni dei sudafricani che hanno lottato e continuano a lottare per una reale uguaglianza e per una democrazia piena, in modo da poter meglio comprendere il Sudafrica post-apartheid e ricavarne importanti lezioni per la nostra lotta.

Nazione, democrazia ed emarginazione

Una delle principali sfide che il Sudafrica post-apartheid ha affrontato è stata la costruzione di una Nazione sulle ceneri di un regime connotato dalla divisione razziale, dall’emarginazione e dall’oppressione.

Come hanno spiegato gli accademici Na’eem Jeenah e Salim Vally nel loro saggio ‘Beyond ethnic nationalism: lessons from South Africa’ [Oltre il nazionalismo etnico: lezioni dal Sudafrica], un futuro comune per colonialisti e colonizzati può essere costruito solo “quando vi sia accordo sul fatto che una nuova Nazione deve essere forgiata all’interno di un nuovo Stato.”

Benché si possa essere tentati di discutere subito di un nuovo Stato e di lasciare la questione della nuova Nazione ad una fase post-liberazione, questo sarebbe un enorme errore. In Sudafrica essa è stata rimandata e ora i sudafricani ne stanno subendo le conseguenze”, hanno scritto Jeenah e Vally.

Di certo, mentre i governi post-apartheid in Sudafrica hanno enfatizzato i simboli dell’unità e esaltato la diversità – come la bandiera arcobaleno – il simbolismo non è stato sufficiente a tenere insieme una Nazione.

Come ha sottolineato Enver Motala, professore associato alla cattedra di Educazione per comunità, adulti e lavoratori dell’università di Johannesburg, “l’approccio alla creazione della Nazione nel Sudafrica post-aprtheid spesso ha privilegiato le rivendicazioni democratico- progressiste che tendono all’inserimento in costituzione dei diritti umani e giuridici, dei loro simboli, di bandiere e slogan per l’unificazione, lasciando inalterati gli assetti strutturali e le perduranti caratteristiche del potere storicamente costituito, e la frammentazione sociale.”

Motala ha aggiunto che la creazione di uno Stato e di una Nazione veramente uniti può essere possibile solo attraverso “l’eliminazione di ogni forma concepibile di privilegio sociale”.

Ci si aspettava che l’eliminazione delle strutture politiche dell’apartheid e l’introduzione della democrazia avrebbero facilitato il processo di costruzione della Nazione. Ma, come mi ha detto Karima Brown, importante giornalista e analista politica, la svolta democratica del 1994 è stata solamente “l’inizio di un processo di rafforzamento della democrazia e di costruzione di un ordine più equo, non sessista e antirazzista.”

Ha sottolineato l’importanza di non consentire che il colonialismo di apartheid venga sostituito da un progetto neo-coloniale che continuerebbe ad emarginare molti gruppi e a minare gli sforzi di costruzione della Nazione.

Disuguaglianza e diritti sulla terra

Secondo un recente studio della Banca Mondiale il Sudafrica “resta il Paese economicamente più iniquo al mondo”, una triste realtà che ha molto a che fare con il modello economico neoliberista che il governo sudafricano democraticamente eletto ha adottato dal 1994 e che è strettamente collegato con le potenti forze neocoloniali che continuano ad agire in Sudafrica.

Vally mi ha detto che “le carenze dell’attuale sistema di disuguaglianza in Sudafrica si possono far risalire alla natura dell’accordo negoziato tra il movimento di liberazione allora egemone ed il regime di apartheid.”

Di conseguenza, la fine del sistema di apartheid non ha modificato la composizione di classe e le relazioni di potere in Sudafrica, dato che il periodo post-apartheid ha testimoniato “il permanere del carattere classista dello Stato (nonostante il discorso sui diritti umani, la democrazia borghese liberale e lo sviluppo) e l’inserimento del Sudafrica nell’economia globale di mercato.”

In un certo senso, mentre l’impianto delle leggi discriminatorie di impronta razziale è stato eliminato, le fondamenta e la struttura della diseguaglianza permangono, addirittura più forti che prima del 1994. I tradizionali capitalisti bianchi, il capitale globale, una parte della classe media nera e pochi capitalisti neri sono oggi coloro che traggono benefici a spese della grande maggioranza”, ha detto Vally.

La persistente disuguaglianza si manifesta in vari modi, in modo più evidente nella questione dei diritti e nella ridistribuzione della terra. Come nel caso dei palestinesi, i sudafricani concepiscono la terra come se avesse un valore molto più alto del suo prezzo di mercato; esso è strettamente legato all’identità e alle radici culturali.

Mahlatse Mpya, una ricercatrice del Centro africano – mediorientale, mi ha detto che il governo del Sudafrica è ancora incapace di “ capire che cosa significhi la terra per la popolazione nera”. Per i neri sudafricani “la terra è parte della loro identità ed eredità, un modo per molti di loro di collegarsi alle proprie radici e ai propri antenati”, mi ha spiegato.

I neri sudafricani si aspettavano che nel periodo post-apartheid la terra gli sarebbe stata restituita, ma per anni l’African National Congress (ANC) [prima movimento di liberazione e poi principale partito politico sudafricano, al governo dal 1994, ndtr.] si è mostrato riluttante a confiscare la terra ai bianchi. Temendo che una simile iniziativa avrebbe provocato al Paese la perdita di investimenti ed appoggi stranieri, il governo ha invece cercato di ottenere la terra comprandola dai bianchi.

Recentemente l’ANC ha adottato una risoluzione per promuovere leggi di esproprio della terra senza indennizzo. Mentre alcuni hanno apprezzato l’iniziativa, altri sono diffidenti.

La terra continua ad essere una questione conflittuale e non sarà risolta da un governo che privilegia gli investimenti esteri rispetto alla volontà del popolo”, ha detto Mpya.

Violenza e giustizia sommaria

E poi c’è il problema della violenza. L’esperienza del Sudafrica ha dimostrato che l’abbandono ufficiale dell’apartheid non significa necessariamente la fine dello stato di repressione e coercizione. Se la violenza da parte dell’apparato di sicurezza sudafricano è gestita in modo differente rispetto ai tempi dell’apartheid, l’effetto traumatizzante che provoca è sostanzialmente lo stesso.

Tokelo Nhlapo, un ricercatore del Comune sudafricano di Ekurhuleni per l’Economic Freedom Fighters (EFF) [Combattenti della libertà economica, partito di ispirazione panafricana, ndtr.], mi ha detto che il governo del Sudafrica ha utilizzato la repressione per mantenere lo stesso modello di controllo che veniva impiegato dai governanti coloniali del Paese. È stato in grado di farlo perché la giustizia sudafricana di transizione non è riuscita ad affrontare e risolvere molte delle conseguenze della violenza dell’apartheid sull’intera popolazione.

L’avvio del processo giudiziario della Commissione di Verità e Riconciliazione (TRC) ha promesso di guarire le ferite del Sudafrica e di portare la riconciliazione in un Paese un tempo profondamente diviso”, ha detto. “Mentre la TRC è stata generalmente ben accolta dalla comunità internazionale come strumento pacifico per superare un passato violento, in realtà l’approccio giudiziario alla storia del conflitto sudafricano ha identificato la violenza statale nei confronti di intere comunità, tralasciando il legame tra chi la perpetrava e chi ne beneficiava.”

Ha ulteriormente spiegato: “Con ‘approccio giudiziario’ mi riferisco all’eccessivo affidamento a mezzi legali per affrontare il fondamentale aspetto morale della violenza dell’apartheid, che negava alla maggioranza nera la concessione della cittadinanza, ne limitava la libertà di movimento tramite l’emanazione di leggi, all’espulsione forzata dalle proprie terre, al limitato accesso all’istruzione e alle opportunità di lavoro – su nessuno dei quali aspetti la TRC ha indagato.”

In conseguenza della mancanza di una vera riconciliazione e di seri sforzi da parte dell’ANC di affrontare la brutalità dell’apartheid in tutte le sue manifestazioni e strutture, la violenza si è diffusa anche all’interno delle comunità precedentemente oppresse.

Mphutlane wa Bofelo, un operatore culturale e critico della società sudafricano, ha spiegato che l’attuale violenza sommaria nella società sudafricana ha profonde radici nell’apartheid.

Ci sono stati tentativi di costruire il potere del popolo attraverso associazioni civiche, comitati di strada, di quartiere, di caseggiato, unità di difesa e tribunali del popolo”, ha detto Bofelo.

Un insieme di fattori, tra cui la detenzione di massa, gli arresti e l’esilio di leader socio-politici dotati di esperienza e maturità, la mancanza di competenze, il settarismo, la divisione in fazioni e l’infiltrazione di agenti del regime (post 1994), attenti al tornaconto personale, eccetera, ha condotto a parecchi atti di cattiva gestione della democrazia, che hanno ridotto le attività di alcune associazioni civili, comitati di strada e di caseggiato, unità di difesa e tribunali del popolo a strumenti di giustizia sommaria.”

Certamente, come hanno evidenziato ripetutamente i miei interlocutori sudafricani durante le nostre conversazioni, l’esperienza sudafricana è densa di difficoltà e di insuccessi. Molti intellettuali del Paese ritengono che il percorso post-apartheid sia poco promettente.

Perciò i palestinesi dovrebbero porre attenzione a ciò che sta avvenendo oggi in Sudafrica, piuttosto che esaltare ed applaudire ciecamente il suo passato di lotta anti-apartheid. Tutte queste questioni – la costruzione della Nazione post-apartheid, l’oppressione economica e la violenza endemica – devono essere attentamente esaminate e integrate nella strategia di liberazione palestinese.

Se vogliamo riuscire a sconfiggere l’apartheid di Tel Aviv e a costruire un luminoso futuro in cui gli arabi palestinesi e gli ebrei israeliani si spartiscano la terra e le risorse su un piano di eguaglianza, dobbiamo imparare dagli errori del Sudafrica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, consulente di media, scrittore.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

Si veda anche sullo stesso argomento il saggio di Al Shabaka




Pensiero critico sul boicottaggio culturale

Marguerite Dabaie

The Electronic Intifada, 11 Dicembre 2017

Assuming Boycott: Resistance, Agency, and Cultural Production edited by Kareem Estefan, Carin Kuoni and Laura Raicovich, OR Books (2017)

Assuming Boycott è una raccolta di saggi che derivano da presentazioni e seminari di diversi scrittori, studiosi e artisti che fanno attivismo usando boicottaggi culturali come un mezzo per (generare) il cambiamento. Tutti gli autori hanno partecipato o fatto esperienza di simili boicottaggi.

Il libro è diviso in quattro capitoli. Il primo contiene saggi che analizzano criticamente il boicottaggio culturale del Sud Africa durante l’apartheid. A questo segue un capitolo sul movimento a guida palestinese di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Il terzo capitolo mette in discussione le dinamiche di potere dietro ai movimenti di boicottaggio chiedendosi se le diseguaglianze all’interno di questi movimenti determinino chi parla per chi. Il capitolo finale analizza i boicottaggi in base alla distanza – “geografica, politica, culturale, anche temporale”.

Nell’insieme Assuming Boycott prende in considerazione i passi che sono stati compiuti per iniziare i boicottaggi, e le ragioni dietro di essi, nonché i loro effetti, positivi e negativi.

Come suggerisce il titolo del libro, la raccolta comincia dall’assunto, come sostenuto nell’introduzione di uno dei curatori del libro, Kareem Estefan, che “l’arte non trascende le condizioni politiche in cui viene esibita, e che gli artisti stanno assumendo sempre più l’atteggiamento di chiedere che la loro arte sia esposta e circoli in accordo con la loro etica e la loro solidarietà.”

Il libro ha lo scopo di esporre i lati postivi e negativi dei movimento di boicottaggio, ma i curatori, giudicando dall’introduzione, sono decisamente a favore dell’utilizzo dei boicottaggi culturali come mezzo per [generare] il cambiamento.

Estefan argomenta che “le azioni di boicottaggio sono spesso inizi piuttosto che chiusure, che spesso generano discussioni critiche e produttive invece di chiudere il dialogo.”

    1. Ricordando l’apartheid

Cominciare il libro con il caso sudafricano è un’introduzione efficace sui movimenti di boicottaggio poiché – chiaramente – il paese è in una situazione di post-apartheid. Tuttavia, come sostenuto nell’introduzione a questa sezione, “c’è il pericolo che il boicottaggio del Sudafrica possa divenire storicamente chiuso in sé, ricordato solo come un evento concluso e passato.”

I saggi qui analizzano molteplici aspetti della resistenza culturale all’apartheid, inclusi quelli svolti tramite le arti visive, la musica, lo sport (con una nota sul fatto che il BDS finora non si è avvalso dei boicottaggi sportivi).

Sean Jacobs, professore associato di “Relazioni internazionali” alla ‘The New School’ a New York City, sostiene in “The Legacy of the Cultural Boycott Against South Africa” che il boicottaggio all’inizio ebbe successo – con artisti americani ed europei che si rifiutavano di andare in Sud Africa a esibirsi – a causa delle eventuali sanzioni internazionali che costringevano i sud-africani bianchi a smettere di considerarsi come “avamposto della civiltà occidentale.”

Hlonipha Mokoena, professoressa associata e ricercatrice a Witwatersrand, Johannensburg, tratta il boicottaggio nell’industria della musica in “Kwaito: The Revolution Was Not Televised; It Announced Itself In Song”, e nota: “C’era confusione su chi o cosa veniva boicottato.”

Mokoena sostiene che non c’era un’idea unica di cosa fosse esattamente il boicottaggio, e che ad alcuni artisti sudafricani – anche se erano contro l’apartheid – veniva impedito di esibirsi oltremare.

La consapevolezza di cosa ha funzionato o no in Sudafrica costituisce lo sfondo per il capitolo successivo sul movimento BDS. Joshua Simon, curatore dei musei di Bat Yam, situati in Israele, descrive il BDS come un mezzo efficace per contestare il neoliberismo su scala internazionale.

Simon sostiene, in Neoliberal Politics, Protective Edge, and BDS, che mettere in difficoltà investitori presenti e potenziali potrebbe “causare la crescita del debito estero, minando il valore del credito israeliano e incrementando fortemente gli interessi che [Israele] paga per il proprio debito.” Inoltre, egli aggiunge che “le sanzioni toccano la sovranità neoliberista dove fa più male.”

    1. Co-Resistenza

Ariella Azoulay – professoressa di studi dei media, editrice e regista di film documentari – sostiene, nel suo saggio “We, Palestinians and Jewish Israelis: The Right Not to Be a Perpetrator”, che l’appello al boicottaggio di Israele è positivo per gli ebrei israeliani in quanto dà loro modo di non essere “cittadini-colpevoli”, una cosa di cui essi sono privati per il fatto di vivere su terra palestinese.

Azoulay afferma che, anche se gli israeliani si rifiutano di servire nell’esercito, e viene imposto loro un periodo in carcere di conseguenza, essi rientreranno per forza di cose dentro all’oppressione quotidiana dei palestinesi una volta che vengono rilasciati.

Anche l’artista Yazan Khalili arriva a questa conclusione in “The Utopian Confict”: “Invece di boicottare Israele a sostegno dei soli palestinesi, non si potrebbe svolgere il boicottaggio anche a sostegno dell’emancipazione dei soggetti ebrei dallo Stato di Israele?”

Il BDS – scrive la professoressa di studi giuridici e avvocatessa per i diritti umani Noura Erekat in “The Case for BDS and the Path to Co-Resistance” – non può essere basato sulla collaborazione tra palestinesi ed israeliani, ma deve essere fondato [piuttosto] sulla resistenza contro Israele, perché “gli israeliani non sono vicini, e nemmeno occupanti, ma dominatori coloniali e beneficiari della rapina tutt’ora in corso nei confronti dei palestinesi.”

E’ vero che la maggior parte del libro si concentra sui boicottaggi culturali, ma ci sono anche alcuni saggi che si focalizzano sui boicottaggi accademici. L’enfasi qui è posta, per esempio, sull’idea che le università che aderiscono ai principi del BDS devono “divenire luoghi di co-resistenza e non, come spesso viene sostenuto, luoghi di divisione.”

Ciò è articolato in una conversazione intitolata “Extending Co-Resistance” [Estendere la Co-Resistenza] tra Eyal Weizman, direttore del Centre for Research Architecture a Goldsmith, Università di Londra, e il co-curatore del libro Kareem Estefan.

Weizman fa notare che il fatto che gli Stati Uniti e diversi Stati europei abbiano denunciato il BDS (in alcuni casi lo hanno criminalizzato) è un segnale che questi paesi hanno rinunciato all’idea di risolvere il conflitto.

Dopotutto, egli sostiene, i principi del movimento BDS dovrebbero essere incontestabili. Tuttavia, agli occhi di molti governi occidentali oggi tendenti alla destra, Israele sembra “un pioniere nella gestione dei rifugiati indesiderati, dei poveri e di coloro che sono espropriati di tutto” nel suo trattamento dei palestinesi, il che fa sembrare il movimento BDS basato sui diritti umani antitetico rispetto agli interessi di questi governi.

Consiglio sensato

Tania Bruguera, un’artista che ha assistito alla repressione della libertà di espressione cubana, ha descritto quanto ha appreso in quel periodo in “The Shifting Grounds of Censorship and Freedom of Expression”. Tra queste cose c’è la sua motivazione a creare arte pubblica, “in quanto gli artisti cubani… non sono abituati a vedere la sfera pubblica come un’opzione.” Gli artisti, sostiene, devono prendersi la responsabilità di andare “agli avamposti di una lotta e di raccontare storie per controbilanciare la propaganda ufficiale e lottare contro lo status quo.”

L’artista Naeem Mohaiemen partecipa con la sua esperienza di contestazione delle condizioni di lavoro dei lavoratori migranti durante la costruzione del Guggenheim sull’isola di Saadiyat, ad Abu Dhabi. La critica presentata come un’installazione artistica è ampiamente accettata, sostiene in “The Loneliness of the Long-Distance Campaign.” Tuttavia, quando gli artisti negoziano o protestano di fatto con gli amministratori, questo viene visto come atto di ribellione.

La raccolta di saggi fornisce una guida su come sostenere un boicottaggio accademico e, attraverso le sue caute parole, offre buoni consigli sulle sfide attuali e potenziali che minacciano di impedire i movimenti di boicottaggio.

Gli artisti potrebbero trovare il libro particolarmente utile dato che diversi artisti hanno condiviso i loro personali aneddoti e consigli per l’impegno nei boicottaggi culturali.

Tuttavia, forse a causa dell’ampio numero di scrittori e dei loro diversi punti di vista, la raccolta può sembrare disorganica. Questo è particolarmente evidente nell’ultimo capitolo, dove i saggi non sono coesi.

Nonostante questo, Assuming Boycott riporta attentamente (vari) racconti sul boicottaggio in un momento in cui i governi occidentali stanno penalizzando le persone per il fatto di esercitare il loro diritto a resistere. Per coloro che desiderano sapere di più sui movimenti di boicottaggio è una lettura molto utile.

Marguerite Dabaie è un’illustratrice palestinese-americana e una vignettista che vive a Brooklyn, New York. Il suo lavoro può essere visto su www.mdabaie.com.

(Traduzione di Tamara Taher)