Secondo un’esperta gli Stati che tagliano i fondi all’UNRWA potrebbero violare la convenzione sul genocidio

Redazione The New Arab

28 gennaio 2024 – The New Arab

Sabato un certo numero di Paesi – tra cui Australia, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Italia – hanno seguito lesempio degli Stati Uniti sospendendo i finanziamenti allUNRWA.

Domenica un’esperta delle Nazioni Unite ha avvertito che i Paesi che hanno bloccato i finanziamenti allAgenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati palestinesi stanno violando lordine del tribunale di fornire validi aiuti a Gaza e potrebbero violare la convenzione internazionale sul genocidio.

Sabato un certo numero di Paesi donatori – tra cui Australia, Gran Bretagna, Finlandia, Germania e Italia – hanno seguito lesempio degli Stati Uniti sospendendo ulteriori finanziamenti allUNRWA.

Ciò è avvenuto dopo che Israele ha affermato che diversi membri dello staff dell’Agenzia delle Nazioni Unite sarebbero coinvolti nell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Le accuse israeliane si basano su confessioni ottenute durante gli interrogatori e non sono state oggetto di indagini indipendenti. Dall’inizio della sua ultima offensiva contro Gaza Israele ha ucciso più di 150 membri del personale dell’UNRWA.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati, ha avvertito che la decisione di sospendere i finanziamenti all’UNRWA “sfida apertamente” l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia di consentire che una valida assistenza umanitaria” raggiunga gli abitanti di Gaza.

“Ciò comporterà responsabilità legali – o la fine dell’ordinamento giuridico (internazionale)”, ha scritto su X, ex Twitter.

L’UNRWA ha reagito alle accuse licenziando diversi membri del personale e promettendo un’indagine approfondita sulle accuse non specificate, ma Israele ha comunque giurato di interrompere l’attività dell’agenzia a Gaza dopo la guerra.

Il conflitto tra Israele e UNRWA fa seguito alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di venerdì secondo cui Israele deve prevenire possibili atti di genocidio nel conflitto e consentire maggiori aiuti a Gaza.

Albanese, esperta indipendente nominata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, ma che non parla a nome delle Nazioni Unite, ha sottolineato i tempi delle decisioni dell’interruzione dei finanziamenti.

In un altro commento su X ha detto: “Il giorno dopo che l’ICJ ha concluso che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio a Gaza alcuni Stati hanno deciso di tagliare i fondi all’UNRWA”, dichiarando che, così facendo quei Paesi stanno punendo collettivamente nel momento più critico milioni di palestinesi e molto probabilmente violano i loro obblighi ai sensi della Convenzione sul Genocidio”.

Secondo un conteggio ufficiale dell’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] l’attacco di Hamas contro Israele ha provocato il 7 ottobre la morte di circa 1.140 persone. Le prove emerse indicano che sia i combattenti palestinesi che Israele sono responsabili della morte dei civili.

Inoltre i combattenti hanno sequestrato circa 250 ostaggi e Israele afferma che si trovano ancora a Gaza circa 132 di loro, compresi i corpi di almeno 28 prigionieri.

Secondo il ministero della Sanità dell’enclave costiera la successiva offensiva militare di Israele ha ucciso a Gaza almeno 26.422 persone, la maggior parte delle quali donne e minori.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Trovati in una scuola di Gaza corpi di donne, minori e neonati ‘colpiti a morte dalle forze israeliane’

Redazione di The New Arab

13 dicembre 2023 – The New Arab

A quanto riferito l’esercito israeliano ha colpito ed ucciso palestinesi che si erano rifugiati in una scuola vicino al campo profughi di Jabalia, nella parte settentrionale di Gaza.

I corpi di più di una decina di palestinesi che sarebbero stati colpiti a morte dalle forze israeliane sono stati trovati mercoledì in una scuola nella parte settentrionale di Gaza.

Almeno 15 corpi crivellati di proiettili e decomposti sono stati trovati ammucchiati nella scuola Shadia Abu Ghazala ad ovest del campo profughi di Jabalia, in un’area chiamata Al-Faluja. La scuola è stata usata come rifugio per le persone sfollate a causa dei bombardamenti israeliani.

Testimoni oculari e parenti delle vittime hanno affermato che sono state colpite a bruciapelo dalle truppe israeliane. A quanto pare le vittime sono state uccise nella notte tra martedì e mercoledì, ma ciò non può essere confermato.

Un video sconvolgente dei corpi è stato ottenuto da Al Jazeera e condiviso sui social media.

Precedentemente mercoledì Israele ha bombardato la scuola primaria per ragazzi Abu Hussein di Jabalia gestita dalle Nazioni Unite, uccidendo e ferendo decine di persone.

Israele ha continuamente bersagliato scuole ed ospedali dove avevano trovato rifugio decine di migliaia di palestinesi sfollati per la brutale campagna militare aerea e terrestre israeliana.

Intere famiglie ed edifici multipiano sono stati spazzati via dagli attacchi dell’aviazione israeliana e la maggior parte delle 18.600 persone uccise dal 7 ottobre sono donne e minori.

Ci sono state richieste internazionali di portare Israele davanti ad una corte di giustizia per il genocidio in corso a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La Chiesa anglicana del Sud Africa solidarizza con la Palestina e dichiara Israele Stato di apartheid

Redazione

02 ottobre 2023-The New Arab

La Chiesa anglicana in Sud Africa ha dichiarato Israele uno “Stato di apartheid”, a seguito di una campagna condotta da attivisti palestinesi.

Mercoledì il Comitato permanente provinciale della Chiesa cristiana ha approvato una risoluzione che definisce Israele come uno Stato di apartheid e rivede [le modalità dei] pellegrinaggi in Terra Santa.

Amnesty International, insieme ad altre ONG, definisce le condizioni in cui vivono i palestinesi sotto l’occupazione israeliana come “apartheid”, riferendosi al sistema oppressivo di segregazione razziale in Sud Africa in vigore fino al 1994.

“Come persone di fede che sono angosciate dal dolore dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza – e che desiderano la sicurezza e una pace giusta sia per la Palestina che per Israele – non possiamo più ignorare la realtà sul terreno”, ha affermato sul suo blog il capo della Chiesa anglicana sudafricana, l’arcivescovo Thabo Makgoba.

“Quando i neri sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid visitano Israele i parallelismi con l’apartheid sono impossibili da ignorare. Se restiamo a guardare e restiamo in silenzio saremo complici della continua oppressione dei palestinesi”.

L’arcivescovo ha chiesto la pace per palestinesi e israeliani, ma ha condannato le politiche oppressive dei successivi governi israeliani e ha affermato che stanno “divenendo sempre più estreme”.

In un messaggio audio ha detto: “Per i cristiani, la Terra Santa è il luogo dove Gesù è nato, è stato allevato, cresciuto e crocifisso. I nostri cuori soffrono per i nostri fratelli e sorelle cristiani in Palestina, il cui numero include anglicani ma sta rapidamente diminuendo”.

“Le persone di tutte le fedi in Sud Africa hanno sia una profonda comprensione di cosa significhi vivere sotto l’oppressione, sia l’esperienza di come affrontare e vincere un governo ingiusto con mezzi pacifici”.

La risoluzione della Chiesa sudafricana chiede anche di stabilire rapporti con i cristiani palestinesi, compresi incontri con la comunità laica e il clero durante i pellegrinaggi, e che si attiri l’attenzione sulla persecuzione dei palestinesi.

La risoluzione dichiara: “Le visite ai cristiani di Palestina per ascoltare le loro storie spesso non rientrano nel programma di questi pellegrinaggi e, inoltre, la parola ‘Palestina’ non è mai o quasi mai usata nel materiale pubblicitario o nella preparazione del pellegrinaggio”.

“L’occupazione militare della Palestina non è quasi mai menzionata o discussa in questi pellegrinaggi e le somiglianze con l’apartheid in Sud Africa [sono] raramente discusse.”

Da tempo i leader neri sudafricani e gli attivisti del movimento per i diritti civili del Sudafrica tracciano parallelismi tra le loro esperienze durante l’apartheid e le condizioni dei palestinesi oggi.

Dopo essere diventato presidente del Sudafrica post-apartheid Nelson Mandela disse: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Anche l’ex leader della Chiesa anglicana sudafricana, l’’arcivescovo emerito Desmond Tutu, ha ripetutamente utilizzato la sua piattaforma mediatica per difendere i diritti dei palestinesi prima della sua morte nel 2021.

Ha detto che per molti versi le condizioni dei palestinesi che vivono sotto l’’occupazione israeliana sono peggiori di quelle sopportate dai neri sudafricani durante l’’apartheid.

“Sono stato testimone dell’umiliazione sistematica di uomini, donne e bambini palestinesi da parte di membri delle forze di sicurezza israeliane”, ha detto ai media sudafricani nel 2014.

“La loro umiliazione è familiare a tutti i neri sudafricani che sono stati rinchiusi, molestati, insultati e aggrediti dalle forze di sicurezza del governo dell’apartheid”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il ricordo del massacro di Sabra e Shatila nelle sofferenze palestinesi passate e presenti

Rami Rmeileh

18 settembre 2023, TheNewArab

Ancora nessuna giustizia per i palestinesi a 41 anni dal massacro di Sabra e Shatila quando 3.500 persone furono uccise dalle milizie libanesi alleate di Israele. Dato che l’oppressione dei rifugiati palestinesi continua la loro lotta dev’essere sempre ricordata, scrive Rami Rmeileh.

Il 16 settembre 1982 gli abitanti dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut, per la maggior parte donne, bambini e anziani, pensavano che gli orrori della guerra civile libanese e dell’invasione israeliana sarebbero cessati dopo la partenza dei loro difensori, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Erano rimasti completamente disarmati e indifesi.

I residenti dei due campi, molti rifugiati provenienti da Beirut est e da altri campi che erano stati distrutti dalle milizie israeliane o libanesi, stavano raccogliendo i pochi brandelli di speranza rimasti dopo 34 anni di sfollamento e 7 anni di sanguinosi scontri. Avevano cieca fiducia nell’umanità, convinti che vite innocenti e disarmate non sarebbero state uccise – in particolare in seguito alla promessa fatta dalle forze di occupazione israeliane (IOF) al diplomatico americano Philip Habib che aveva facilitato il ritiro dell’OLP dal Libano. Tuttavia le Forze di occupazione e i loro alleati di destra in Libano avevano altri piani.

I palestinesi scampati alla morte nei massacri precedenti erano tutt’altro che al sicuro.

Nessuna vita risparmiata

Prima del tramonto i carri armati e le truppe israeliane assediarono i confini di Sabra e Shatila, posizionando i cecchini intorno alle uscite dei campi. Gli israeliani distribuirono sacchi per cadaveri ai combattenti del Partito Cristiano di destra Kataeb (noto anche come Falange) e all’esercito del Libano meridionale e diedero loro il via libera per assaltare il campo. Quei combattenti erano motivati dall’assassinio del comandante delle forze libanesi Bachir Gemayel che era stato eletto presidente settimane prima di cui erano stati ingiustamente incolpati i palestinesi.

Per 43 ore, giorno e notte, intere famiglie furono rastrellate e uccise in modi orribili mentre gli israeliani lanciavano razzi per illuminare la zona. Le donne furono violentate e uccise davanti ai loro figli, i neonati furono mutilati e pugnalati, ci furono donne incinte sventrate, altri furono sepolti vivi e/o gettati in fosse comuni. Le testimonianze rivelano che i libanesi usarono anche i bulldozer delle Forze d’occupazione israeliane per distruggere le case ed assicurarsi che le persone fossero morte.

Nessuna vita fu risparmiata.

In totale circa 3.500 palestinesi, libanesi e altre persone di nazionalità non documentata furono brutalmente assassinati. Le Nazioni Unite lo definirono un atto di genocidio e l’opinione pubblica internazionale si indignò quando furono diffuse immagini orribili. Ciò contribuì solo a disumanizzare ulteriormente le vittime nella loro morte.

Per quel che riguarda le condanne globali, l’unica azione che ne seguì furono alcune donazioni.

L’assenza di giustizia

Ad oggi gli autori dei reati non sono stati processati.

Sebbene Ariel Sharon, ministro della Difesa israeliano, sia stato ritenuto “indirettamente” responsabile del massacro dalla Commissione d’inchiesta Kahan della Knesset israeliana, fu successivamente ricompensato con la carica di Primo Ministro. Nel 2001 un gruppo di 28 sopravvissuti intentò una causa contro Sharon nei tribunali belgi, ma il loro caso fu archiviato su pressione degli Stati Uniti e di Israele.

Non solo, Elie Hobeika, il signore della guerra cristiano libanese che comandava la milizia che entrò nei campi e compì i massacri, che aveva accettato di testimoniare contro Sharon in tribunale fu assassinato nel 2002.

Altri leader rimangono liberi, tra cui Fadi Ephram, che era il capo di stato maggiore falangista, e molti altri leader delle milizie ancora in posizioni di potere nei partiti di destra in Libano.

Per quanto riguarda i combattenti della milizia, quando il regista Lokman Slim intervistò sei dei responsabili nel suo documentario Massaker (2005), nessuno mostrò alcun rimorso e nemmeno raccontò in dettaglio i gesti più raccapriccianti. Spiegano come prima del massacro le Forze d’occupazione israeliane li avessero portati in campi di addestramento nella Palestina occupata e gli avessero fatto guardare documentari sull’Olocausto e detto ai combattenti che sarebbe successo anche a loro come minoranza in Libano se non avessero preso provvedimenti contro i palestinesi. I combattenti svilupparono di conseguenza un rinnovato odio per i palestinesi. Israele aveva generato dei mostri.

In effetti, i massacri di Sabra e Shatila segnarono un’era nuova e difficile per i palestinesi in Libano, dove affrontavano terrore ed esclusione. E nello stesso tempo gli veniva negato il diritto al ritorno da parte di Israele, erano dimenticati dalla leadership palestinese e circondati dal silenzio globale.

Per di più al massacro seguirono anni di torture, interrogatori, rapimenti, sparatorie e intimidazioni. L’obiettivo di questa violenza, facilitata e incentivata da Israele, era quello di spingere i palestinesi fuori dal Libano e il più lontano possibile dai villaggi da cui erano stati sradicati nella Palestina occupata.

Oggi i palestinesi continuano ad essere oggetto di violenze in Libano, strangolati dal sistema legale del paese e dalle sue restrizioni economiche.

Persino la strategia adottata dalla destra libanese negli anni ’80 di espellere i palestinesi dal paese è oggi diventata praticamente impossibile. Le persone sono intrappolate in campi chiusi, soffocate dalla povertà cronica, dalla disoccupazione, dalla cattiva salute e dalla mancanza di istruzione.

La situazione ha spinto alcuni palestinesi a prendere decisioni drastiche, a volte pagando con la vita il tentativo di lasciare il Libano. Proprio l’anno scorso, quando la barca Tartus affondò al largo di Tripoli, 25 palestinesi di cui 6 di Shatila annegarono.

I palestinesi sono inoltre lasciati senza risorse per combattere i signori della droga e le milizie islamiste che utilizzano i campi come basi. Gli scontri ad Ain al Hilweh nelle ultime settimane sono stati agevolati dal governo libanese e da altre fazioni complici il cui obiettivo è la distruzione dei campi palestinesi e del loro tessuto sociale.

Proprio come i massacri, questi fatti servono a soddisfare antiche aspirazioni di alcuni partiti libanesi e cooperano allo stesso tempo all’obiettivo di Israele di allontanare i palestinesi dai propri confini.

Resistenza

I campi profughi in Libano sono sempre stati luoghi di gravi sofferenze ad opera di alcuni dei peggiori sistemi di oppressione che l’umanità abbia prodotto. E i palestinesi sanno fin troppo bene che le loro difficoltà sono il prodotto di questioni intrecciate che si manifestano all’interno dei campi: imperialismo, colonialismo d’occupazione, capitalismo e neoliberismo. Questo è il motivo per cui in passato si sono ribellati piuttosto che aspettare di essere ulteriormente abbandonati da forze esterne.

Anche se la popolazione continua a vivere all’ombra della morte, spesso definendosi “dimenticata”, si descrive anche come “quelli che non dimenticano mai”. Rimangono incrollabilmente fedeli alla lotta per la liberazione e continuano a vivere per il ritorno in Palestina.

Possono essere stati traditi dalle nazioni e dai paesi vicini, ma hanno ancora fiducia nell’umanità. Affinché questo continui, e in assenza di una leadership palestinese unita, è compito della diaspora palestinese e degli alleati globali rafforzare l’impegno per la lotta dei rifugiati palestinesi in Libano. Vanno ricordati non solo in occasione di anniversari significativi.

Lodare i palestinesi per la loro resilienza e ricordare i momenti peggiori della loro storia è ipocrita se non è seguito dall’impegno politico per ottenere il loro diritto al ritorno e alla giustizia.

Il massacro di Sabra e Shatila ripropone l’ininterrotta richiesta dei diritti di tutti i palestinesi – vivi e martiri.

Rami Rmeileh è psicologo sociale e ricercatore dottorando presso l’Università di Exeter – Istituto di studi Arabi e Islamici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Banca Mondiale: le restrizioni israeliane ostacolano l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria.

Redazione di The New Arab

18 settembre 2023- The New Arab

La Banca Mondiale ha affermato che le restrizioni israeliane e il peggioramento delle condizioni economiche nei territori palestinesi stanno ostacolando l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria.

Le restrizioni israeliane e i crescenti vincoli fiscali nei territori palestinesi stanno incidendo gravemente sulle condizioni economiche dei palestinesi e ostacolano il loro accesso a un’assistenza sanitaria salvavita tempestiva, ha affermato lunedì la Banca Mondiale.

In un rapporto intitolato “Racing Against Time” [corsa contro il tempo], la Banca Mondiale ha affermato che nel complesso l’economia palestinese sta sviluppandosi al di sotto del suo potenziale, con un reddito pro capite destinato a ristagnare.

La povertà nei territori palestinesi è in aumento, con un palestinese su quattro che vive al di sotto della soglia di povertà, ha affermato l’istituto di credito globale con sede a Washington.

Le restrizioni israeliane alla circolazione e al commercio nella Cisgiordania occupata, il blocco imposto alla Striscia di Gaza e la divisione tra i due territori palestinesi sono tra i diversi fattori che hanno messo ad alto rischio l’economia palestinese, afferma il rapporto.

In una dichiarazione rilasciata assieme al rapporto Stefan Emblad, direttore della Banca Mondiale per la Cisgiordania e Gaza, ha affermato: “I vincoli fiscali gravano pesantemente sul sistema sanitario palestinese e in particolare sulla sua capacità di far fronte al crescente peso delle malattie non infettive”.

Le restrizioni, comprese “le lungaggini del regime burocratico dei permessi”, spesso rendono difficile fornire una assistenza sanitaria salvavita tempestiva ai palestinesi, ha affermato.

L’accesso a cure mediche esterne per il trattamento di tumori, malattie cardiache e per le complicazioni della gravidanza e del parto è significativamente compromesso a causa di vincoli fisici e amministrativi, afferma la nota.

Si sostiene: “La situazione è particolarmente critica a Gaza, che soffre di una più limitata capacità del sistema sanitario e dove i pazienti faticano a ottenere tempestivamente i permessi di uscita richiesti per urgenti motivi medici”.

“I dati della ricerca mostrano che il quasi blocco di Gaza ha avuto un impatto sulla mortalità, dato che alcuni pazienti non sopravvivono alla durata del processo di autorizzazione”.

Israele occupa la Cisgiordania – che oggi ospita circa tre milioni di palestinesi – dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando conquistò anche la Striscia di Gaza, l’enclave costiera densamente popolata da cui si è poi ritirato.

L’anno scorso, secondo il COGAT, l’organismo del ministero della Difesa israeliano che sovrintende agli affari civili nei territori palestinesi, Israele ha rilasciato permessi di ingresso per oltre 110.000 visite mediche per i residenti in Cisgiordania.

Nello stesso periodo sono stati rilasciati più di 17.000 permessi di questo tipo ai palestinesi di Gaza, dove vivono 2,3 milioni di persone.

Un blocco imposto da Israele da quando il movimento islamista Hamas è salito al potere nel 2007 ha anche ostacolato le forniture mediche all’enclave.

La Banca Mondiale ha esortato Israele e le autorità palestinesi a gestire meglio questi casi medici e ad agevolare il processo di autorizzazione nel tentativo di fornire assistenza sanitaria tempestiva ai pazienti e ai loro accompagnatori.

Nel complesso, l’economia palestinese è rimasta stagnante negli ultimi cinque anni, ha detto Emblad, aggiungendo che non si prevede un miglioramento a meno che non cambino le politiche sul campo.

“Date le tendenze di crescita della popolazione si prevede che il reddito pro capite ristagnerà”, ha affermato la Banca Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Mekorot, l’impresa idrica nazionale di Israele, riduce la fornitura d’acqua a Betlemme e Hebron in Cisgiordania

Redazione The New Arab

16 luglio 2023The New Arab

L’Autorità idrica palestinese ha descritto come ‘razzista’ e ‘discriminatoria’ la decisione di ridurre la fornitura d’acqua a Betlemme e Hebron.

Sabato l’Autorità idrica palestinese (PWA) ha riferito che Mekorot, l’impresa idrica nazionale di Israele, ha ridotto la quantità giornaliera che fornisce a Betlemme e Hebron, nella Cisgiordania occupata.

La PWA ha detto che Mekorot ha ridotto la fornitura di circa 1.419 litri e sta privando i palestinesi dell’accesso all’acqua sufficiente, specialmente durante l’estate con le attuali alte temperature in Cisgiordania.

L’Autorità idrica ha continuato definendo “razzista” la decisione e precisando che “non ci sono motivi tecnici”.

“Non sono stati rilevati guasti alla sorgente, si tratta piuttosto di una misura discriminatoria che va ad aggiungersi alle politiche razziste messe in atto dalle autorità di occupazione,” continua l’Autorità citata da WAFA, l’agenzia di notizie ufficiale palestinese.

I palestinesi in Cisgiordania e nell’assediata Striscia di Gaza soffrono da tempo per le forniture idriche insufficienti e a causa della siccità, poiché Israele controlla l’80 % delle riserve d’acqua del territorio occupato.

A causa delle restrizioni soprattutto i contadini incontrano moltissime difficoltà a coltivare le proprie terre in Cisgiordania mentre i coloni illegali israeliani non devono affrontare gli stessi ostacoli.

Secondo la ONG israeliana B’tselem gli israeliani, inclusi i coloni illegali in Cisgiordania, consumano una media di 247 litri per persona al giorno, tre volte tanto i palestinesi che consumano una media di 82,4 litri al giorno.

A maggio di quest’anno l’ONG ha riferito che solo il 36% dei palestinesi in Cisgiordania ha l’acqua corrente ogni giorno.

In media il consumo d’acqua per palestinese è inferiore alla quantità raccomandata a livello internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che prevede 100 litri. al giorno.

La differenza nelle forniture idriche fra palestinesi e israeliani è solo una delle discriminazioni che i palestinesi subiscono per mano degli israeliani, che occupano Cisgiordania e Gerusalemme Est dal 1967.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele, con demolizioni e confische di proprietà, sfolla 50 palestinesi in due settimane

Redazione di The New Arab

20 maggio 2023 – NewArab

Sono più di venti i minori tra i 50 palestinesi sfollati a causa di confische e demolizioni di proprietà, compresi alcuni casi in cui le autorità israeliane hanno costretto le persone a demolire le proprie case.

In due settimane dall’inizio di questo mese Israele ha sfollato 50 palestinesi con demolizioni e confische di proprietà a Gerusalemme Est e in aree della Cisgiordania.

Tra gli sfollati c’erano 23 bambini, ha detto venerdì l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) nel suo rapporto dal 2 al 15 maggio.

Vi sono stati anche casi in cui le autorità israeliane hanno costretto le persone a demolire da sé le proprietà. Ha riguardato Gerusalemme Est e l’Area C della Cisgiordania che è sotto il controllo di Israele.

“Le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 42 strutture a Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, comprese 17 case, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele che sono quasi impossibili da ottenere”, ha affermato l’OCHA.

Ha aggiunto che nove delle strutture, tra cui una scuola, erano state edificate come aiuto umanitario.

Delle 42 strutture in questione, 26 erano ubicate in Area C.

“Le restanti 16 sono state demolite a Gerusalemme Est, compresi due complessi residenziali demoliti nell’area di Wadi Qaddum a Silwan provocando lo sfollamento di sette famiglie comprendenti 39 persone di cui 22 minori”, ha affermato l’OCHA.

Altre sette strutture sono state distrutte dai proprietari per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane”.

Il 7 maggio le forze israeliane hanno distrutto la scuola elementare Jubbet Al-Dhib vicino a Betlemme, suscitando aspre critiche da parte dell’Unione Europea che aveva finanziato il progetto.

L’UE ha dichiarato di essere “sconvolta” alla notizia delle forze israeliane entrate all’alba nel sito della scuola, che secondo un funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ospitava 45 studenti ed era composta da cinque aule.

Si richiede un blocco affinché Israele “fermi tutte le demolizioni e gli sfratti, che aumenteranno solo le sofferenze della popolazione palestinese e aggraveranno ulteriormente un’atmosfera già tesa”.

“Le demolizioni sono illegali secondo il diritto internazionale, e il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato”, ha affermato in una nota l’ufficio del rappresentante UE nei Territori palestinesi.

A parte gli eventi a Gerusalemme Est e nell’Area C, un’altra struttura residenziale è stata distrutta e altre tre danneggiate nell’Area A della Cisgiordania, che dovrebbe essere sotto il pieno controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha affermato l’OCHA.

Ne sono responsabili le forze israeliane secondo l’organismo delle Nazioni Unite che ha affermato i fatti essere accaduti durante un’operazione nella città vecchia di Nablus.

Nablus, insieme alla città di Jenin, è stata obiettivo centrale di micidiali raid israeliani in Cisgiordania negli ultimi mesi.

Ad oggi, di quest’anno le forze e i coloni israeliani hanno ucciso oltre 150 palestinesi, in media più di uno al giorno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo

Ben White

13 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Nablus i palestinesi hanno scioperato contro le uccisioni da parte di forze israeliane

Redazione di The New Arab

12 marzo 2023 – The New Arab

Domenica, dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo con palestinesi a bordo nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus, i negozi sono rimasti chiusi.

Domenica nella città cisgiordana di Nablus i palestinesi hanno scioperato contro l’uccisione di tre palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane all’inizio della giornata.

I negozi sono rimasti chiusi dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo in cui viaggiavano tre palestinesi nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che nell’attacco sono rimasti uccisi tre palestinesi, tra cui un diciottenne. Ha informato che i loro corpi sono stati sequestrati dalle forze israeliane.

Una fonte ha detto al servizio in lingua araba Al-Araby al-Jadeed di The New Arab che durante l’attacco un palestinese, identificato come Ibrahim al-Awartani, è stato arrestato.

Secondo il ministero della Sanità palestinese le morti di domenica hanno portato a 84 il numero totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane da gennaio.

Il coordinatore di una campagna nazionale per la restituzione di corpi palestinesi tenuti da Israele, Hussein Shujaia, ha detto ad Al- Araby Al-Jadeed che il numero dei corpi di palestinesi trattenuti dalle forze di occupazione dal 2015 è ora salito a 133, tra cui 19 trattenuti da gennaio.

Secondo un comunicato citato dall’agenzia di notizie palestinese Wafa, il movimento Fatah ha condannato l’attacco, che afferma essere stato un tentativo del governo israeliano di esacerbare la situazione.

Utilizzando una frase comunemente utilizzata dagli israeliani in riferimento ai palestinesi come “erbaccia” da tagliare, il comunicato afferma che “la cosiddetta politica di ‘falciare il prato’ praticata dalle forze di occupazione non intimidirà il nostro popolo.”

Il presidente del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndt.], Ruhi Fattouh, ha affermato che il governo israeliano deve essere chiamato a rispondere dell’uccisione dei palestinesi.

In una dichiarazione trasmessa dalla WAFA Fattouh ha detto: “Le forze di occupazione erigono barriere di morte agli ingressi delle città palestinesi per uccidere a sangue freddo cittadini con false accuse per giustificare le loro quotidiane esecuzioni sul campo.”

Fattouh ha sostenuto che le ripetute esecuzioni ai posti di controllo militari sono una chiara indicazione che le forze di occupazione “hanno istruzioni esplicite di uccidere” da parte del governo israeliano.

La violenza contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata è peggiorata da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu è tornato al potere in dicembre con una coalizione di governo insieme a ebrei ultra-ortodossi e alleati di estrema destra.

Associazioni per i diritti umani hanno spesso invitato le autorità di Tel Aviv a interrompere le “uccisioni illegali di palestinesi da parte di forze israeliane”, affermando che esse rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’esercito israliano ammette di aver ucciso senza motivo un padre palestinese disarmato di fronte a suo figlio

Redazione di The New Arab

23 gennaio 2023 – The New Arab

Continua a cambiare la narrazione dell’esercito riguardo all’uccisione di Ahmad Kahla, che era disarmato, ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno ammesso di aver ucciso senza motivo Ahmad Kahla, che non era armato e che è stato colpito a morte di fronte a suo figlio ad un posto di blocco a nord di Ramallah il 15 gennaio.

Secondo fonti di informazione israeliane, con una rara ammissione di responsabilità, un’indagine iniziale della polizia militare israeliana ha scoperto che il quarantacinquenne è stato “colpito a morte senza motivo”.

In precedenza l’esercito israeliano aveva affermato che i soldati avevano colpito qualcuno dopo uno “scontro violento” durante il quale Kahla “avrebbe tentato di impadronirsi delle armi di uno dei soldati”.

Ora indagini militari hanno concluso che queste affermazioni sono false.

Il figlio dell’uomo, Qusai Kahla, ha riferito ai giornalisti che si trovava nell’auto con suo padre quando sono stati fermati al posto di blocco.

I soldati sono arrivati ed hanno spruzzato uno spray al peperoncino sulla mia faccia e mi hanno tirato fuori dall’auto”, ha detto il diciottenne a sua casa nel villaggio di Rammun.

Non so cosa sia accaduto dopo,” ha detto “Ho saputo da mio zio che mio padre era stato ucciso.”

Nel frattempo l’esercito israeliano ha affermato che i palestinesi si erano rifiutati di fermarsi e i soldati avevano usato “mezzi anti-sommossa al fine di arrestare uno dei sospetti nel veicolo”.

Lo spray al peperoncino che i soldati israeliani hanno usato non è in dotazione dell’esercito, ma è stato spruzzato su tutto il corpo di Ahmad Kahla prima che fosse colpito a morte.

Poi, quando il video della sparatoria è stato pubblicato sui social media, le fonti dell’esercito hanno cambiato versione sostenendo che Kahla aveva “cercato di afferrare una delle loro pistole”.

Il video non supporta le loro dichiarazioni, e testimoni oculari hanno detto agli investigatori militari che egli stava agitando le braccia quando è stato tirato fuori dal veicolo.

Il ministero degli Esteri palestinese ha condannato l’uccisione come una “orrenda esecuzione”.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)