Il New York Times ha un orribile pregiudizio anti-palestinese

BEN BURGIS

29 febbraio 2024 – Jacobin

Il fatto che il New York Times abbia affidato la sua inchiesta sulle denunce di aggressioni sessuali del 7 ottobre ad Anat Schwartz, una giornalista non professionista con convinzioni antipalestinesi e rapporti con l’esercito israeliano, è un esempio estremo della indefettibile tendenziosità del giornale a favore di Israele.

Il New York Times forse è il quotidiano più prestigioso del mondo anglofono. I suoi articoli hanno ottenuto 132 premi Pulitzer, a cominciare da quello che il giornale ricevette nel 1918 per i suoi servizi sulla Prima Guerra Mondiale. Ne ha aggiunti altri tre solo l’anno scorso.

In un’epoca in cui è diventato sempre più comune per i lettori vantarsi non di leggere o vedere reportage oggettivi ma piuttosto di consultare fonti “delle due parti”, il Times può essere percepito come la reliquia di un tempo passato, quando vigeva ancora l’ideale della neutralità. Il giornale è stato storicamente soprannominato “La Vecchia Signora”, sia per la sua tradizione di stamparlo solo in bianco e nero – non ha iniziato a includere immagini a colori fino agli anni ’90 – e per una certa etica di prudenza e accuratezza giornalistiche.

Tuttavia, come ha evidenziato Mona Chalabi, una delle giornaliste che ha aggiunto un Pulitzer al giornale lo scorso anno, una delle aree in cui questa reputazione è più difficile da conciliare con la realtà è l’informazione del Times su Israele/Palestina. Poco prima di presentarsi alla cerimonia del Pulitzer a novembre Chalabi ha postato sulla sua pagina Instagram un grafico che fa un bilancio devastante.

Persino mentre il numero di morti palestinesi rende minimo quello degli israeliani – le stime attuali del numero di civili israeliani uccisi il 7 ottobre è di centinaia, mentre decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi durante i molti mesi di brutale rappresaglia israeliana – il Times ha destinato molta più attenzione ai morti israeliani. Di fatto, come mostra la tabella, la disconnessione dalla realtà è effettivamente aumentata nello stesso momento in cui i morti palestinesi stavano aumentando in modo esponenziale.

Più di recente la polemica sulla giornalista freeelance del Times Anat Schwartz ha rivelato l’orribile profondità della tendenziosità. Nonostante non abbia esperienza giornalistica, ha fatto parte del piccolo gruppo di reporter designati a coprire una delle vicende più delicate e importanti di cui il Times si è occupato da quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza: le accuse secondo cui Hamas avrebbe sistematicamente utilizzato aggressioni sessuali come arma di guerra durante l’attacco del 7 ottobre. Da allora dettagli fondamentali di questa vicenda si sono dimostrati discutibili, e Schwartz ha evidenziato di essere quanto più lontana si possa immaginare da una giornalista neutrale.

Prima di diventare regista – e, improvvisamente lo scorso anno, giornalista freelance del New York Times — Schwartz ha fatto parte del reparto di intelligence dell’aviazione militare israeliana. E le sue opinioni sul conflitto israelo-palestinese, che sono di dominio pubblico, tendono a un razzismo genocida.

Anat Schwartz e il New York Times

La firma di Schwartz è comparsa, insieme a quelle di suo nipote Adam Sella e dell’esperto giornalista Jeffrey Gettleman, in un articolo intitolato “Urla senza parole: come Hamas ha utilizzato sistematicamente la violenza sessuale il 7 ottobre”. L’articolo è stato scelto per una lode speciale dal direttore esecutivo del Times, Joe Kahn, che in una mail alla redazione ha affermato: “Il gruppo” di Gettleman, Schwartz e Sella ha trattato una vicenda “molto politicizzata e delicata” in “modo sensibile e dettagliato”.

Da allora l’articolo è stato messo sotto accusa per evidenti imprecisioni. In particolare, circa un terzo dell’articolo è stato dedicato fondamentalmente a un solo incidente: il presunto stupro di Gal Adbush, uccisa il 7 ottobre, diventata nota come “la donna vestita di nero” per la sua apparizione in un video che la mostra a terra morta con il corpo in parte denudato. Il video non mostra un’aggressione sessuale, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretato come una prova che avrebbe potuto avvenire in precedenza.

Un successivo reportage della pubblicazione progressista ebraica Mondoweiss ha messo in dubbio praticamente ogni elemento di questo articolo:

“Al momento non c’è alcuna traccia del video su internet, nonostante le affermazioni del Times secondo cui “è diventato virale”. Oltretutto la stampa israeliana, benché abbia raccontato centinaia di vicende sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai citato “la donna vestita di nero” neppure una volta prima dell’articolo del 28 dicembre. Non sembra che il video di fatto sia diventato il simbolo ampiamente diffuso che il Times sostiene sia. Ma comunque dopo un giorno dalla pubblicazione del reportage sono emersi fatti che smentiscono l’articolo del Times.

In particolare i genitori e i fratelli di Adbush hanno strenuamente smentito l’idea che ci sia una qualche prova del fatto che Gal sia stata stuprata ed hanno manifestato disgusto nei confronti del comportamento dei giornalisti del Times. Non hanno interpretato il video nello stesso modo e dicono che non avrebbero collaborato con l’articolo se avessero saputo che sarebbe stato centrato su queste accuse.

Per essere chiari, niente di quanto detto intende affermare che nessuna donna o ragazza israeliana sia stata violentata il 7 ottobre. Anche se Adbush non è stata una di loro, sarebbe sorprendente se il 7 ottobre fosse la prima volta nella storia dell’umanità che migliaia di soldati infuriati ed esaltati siano stati mandati in territorio nemico per una missione che include l’uccisione e il rapimento a caso di civili senza che nessuno di questi soldati abbia commesso alcuna aggressione sessuale.

Ma la specifica accusa fatta da Schwartz e dai suoi co-autori in “Urla senza parole” è che “le aggressioni contro le donne non sono state eventi isolati ma parte di un modello di comportamento più generale.” È un’accusa estremamente grave e la posta in gioco è molto alta. Un organo informativo con valori etici se ne sarebbe occupato con cautela e avrebbe controllato rigorosamente ogni dettaglio.

La posta in gioco è alta perché la narrazione dello Stato di Israele sugli avvenimenti del 7 ottobre, che ha incluso una pesante insistenza sulle aggressioni sessuali, è stata utilizzata per giustificare atrocità su grande scala. Nel momento in cui scrivo 1,9 milioni dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza sono stati espulsi dalle loro case e la fame sta dilagando. Le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF) sono state così metodiche nel loro obiettivo di distruggere le infrastrutture civili del territorio che l’ultima università rimasta a Gaza è stata distrutta con una esplosione controllata. Decine di migliaia di civili, tra cui oltre dodicimila bambini, sono stati uccisi. E, con un colpo di scena deprimente ma prevedibile, ci sono prove credibili che le atrocità israeliane abbiano incluso violenze sessuali, il che non sarebbe una novità.

Proprio a causa della gravità dei crimini sessuali e della giustificazione che essi spesso conferiscono ai nemici di chi li ha commessi, è estremamente importante avere una chiara e concreta attendibilità delle prove. Quanto ci vorrà – quanto ci vorrebbe – perché un giornale come il New York Times dichiari che aggressioni sessuali da parte di membri delle IDF sono “non incidenti isolati ma parte di un modello di comportamento più generale?”

È possibile immaginare che il Times assegni un articolo che faccia una simile accusa a un gruppo di tre giornalisti, uno dei quali membro di Hamas senza esperienze giornalistiche che non abbia mai preso le distanze dal suo passato e un altro che sia nipote dell’ex membro di Hamas? Se ciò per qualche ragione avvenisse, potete immaginare che l’articolo poi venga gestito senza verificare accuse cruciali, persino mentre i genitori e fratelli della principale presunta vittima negassero chiaramente che lo stupro fosse avvenuto?

Se potete arrivare con la vostra immaginazione così lontano, aggiungete un dettaglio in più. Immaginate che l’ex membro di Hamas abbia recentemente approvato sulle reti sociali post che chiedono l’uccisione di massa di israeliani, e che lo abbia fatto molto prima che la sua firma apparisse per la prima volta sul Times.

In effetti il più recente cambiamento nella saga di Schwartz è che si è scoperto che lei, prima che il suo lavoro comparisse sul Times, aveva approvato un grottesco post che definiva i palestinesi “animali umani” e chiedeva che Gaza venisse “trasformata in un mattatoio”. Il post proponeva anche che Israele abbandonasse l’idea di “proporzionalità” a favore di una “risposta sproporzionata” e incoraggiava le IDF a “violare ogni regola” per garantire la vittoria.

Perché Chomsky digrigna i denti

Molto chiaramente Schwartz è uno dei sintomi di un problema molto più generale riguardo alla copertura di Israele/Palestina pubblicata dal New York Times. Un indizio di come abbia potuto avvenire viene da uno sguardo più attento sul direttore esecutivo succitato.

Come hanno scritto su Intercept Ryan Grim e Daniel Boguslaw, il padre di Kahn, Leo Kahn, è stato per molto tempo consigliere del Committee for Accuracy in Middle East Reporting and Analysis [Comitato per l’Accuratezza dell’Informazione e dell’Analisi sul Medio Oriente] (CAMERA), che intendeva imporre l’adesione a una linea filo-israeliana nell’informazione dei mezzi di comunicazione “denigrando giornalisti con il cui lavoro era in disaccordo e lanciando campagne di boicottaggio contro organizzazioni di comunicazione che ritiene non rispondano con sufficiente acquiescenza alle sue richieste.” E, secondo lo stesso profilo di Joe Kahn pubblicato dal Times quando è diventato direttore esecutivo del giornale nel 2022, padre e figlio “spesso ‘hanno analizzato insieme l’informazione giornalistica’”. Mentre il Times nega che CAMERA abbia una particolare influenza sulle sua informazione, Grim e Boguslaw notano che il livello di adesione del giornale alle continue richieste di CAMERA” è “in sorprendente contrasto con la sua tradizionale resistenza a correggere i propri articoli.”

Né, osservano, questo è l’unico rapporto familiare che suscita serie domande riguardo alla capacità del giornale di informare su Israele/Palestina in accordo con la sua aura di pesante integrità giornalistica. “Nel corso degli ultimi 20 anni i figli di tre giornalisti del Times si sono arruolati nelle IDF mentre i genitori coprivano questioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese,” notano gli autori di Intercept.

Tuttavia sotto la superficie di questi strati di tendenziosità antipalestinese potrebbe esserci una questione più profonda e più semplice. Come hanno sostenuto Noam Chomsky e il defunto coautore Edward Herman in Manufacturing Consent [La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014], uno dei pregiudizi caratteristici dei mezzi di comunicazione più importanti in generale – di cui il New York Times è stato emblematico molto prima dell’inizio di questi recenti drammatici conflitti di interesse – sono state la profonda deferenza e l’affinità ideologica rispetto alla sicurezza nazionale statunitense.

Questo era vero per come hanno informato sulla guerra del Vietnam quando i presidenti Lyndon B. Johnson e Richard Nixon bombardavano a tappeto quel Paese per reprimere una rivoluzione contadina. Lo era nella guerra contro l’Iraq, quando il Times pubblicò acriticamente le menzogne dell’amministrazione di George W. Bush sulle “armi di distruzione di massa”. Non dovremmo sorprenderci di scoprire che è vero riguardo a Gaza, dove il massacro di massa e l’espulsione di civili vengono portati avanti con fondi e armi americani.

Questa dinamica ha ispirato una classica storiella riguardo a una visita di Chomsky dal dentista. Come raccontato da Gore Vidal e Christopher Hitchens, il dentista disse a Chomsky: “I tuoi denti sono a posto, ma devi smettere di digrignarli.” Chomsky smentì di digrignare i denti, e il dentista gli garantì che lo faceva, come evidenziato dal fatto che il suo smalto era consumato. Era presente la moglie di Chomsky, che assicurò al dentista che Noam non digrignava i denti di notte mentre dormiva. In seguito la coppia capì. Noam digrignava i denti quando la signora Chomsky era fuori dalla stanza mentre lui beveva il suo caffè mattutino “e leggeva il New York Times.

Collaboratore

Ben Burgis è editorialista di Jacobin, docente di filosofia a contratto alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument [Date loro un argomento]. E’autore di vari libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters [Christopher Hitchens: quello che ha fatto bene, come si è sbagliato e perché è ancora importante. Hitchen è stato un intellettuale e giornalista britannico naturalizzato statunitense originariamente trotzkista e passato poi a posizioni di destra, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




New York Times e il podio del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite accusano Israele di apartheid

 PHILIP WEISS  

28 agosto 2022, Mondoweiss

Peter Beinart sul New York Times: le influenti organizzazioni ebraiche che denunciano come antisemiti i rapporti che accusano Israele di praticare l’apartheid sono una “minaccia alla libertà”.

Va da sé che nel dibattito pubblico degli Stati Uniti in merito alla questione israeliana le voci ebraiche abbiano un grosso peso e le voci sioniste un peso ancora maggiore. Ebbene, questa settimana, giovedì e venerdì, due influenti ex sionisti ebrei hanno dato il loro sostegno alle accuse di apartheid contro Israele – sul New York Times e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ed entrambe le dichiarazioni hanno avuto ampia risonanza.

L’ex negoziatore israeliano Daniel Levy [presidente del US/Middle East Project, con sede a Londra e New York; ndt.] ha tenuto un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esortando le principali potenze a rendersi conto del fatto che la loro ipotesi di partizione è defunta. E “l’insieme sempre più consistente di accademici, giuristi e dell’opinione pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo” sta guadagnando terreno tra le Nazioni di tutto il mondo.

E Peter Beinart [noto editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndt.] ha pubblicato un editoriale sul New York Times che accoglie quasi completamente la definizione di apartheid data da Human Rights Watch e Amnesty International. L’articolo è un attacco alle organizzazioni ebraiche “influenti” che denunciano quei rapporti come presunti antisemiti, organizzazioni che rappresenterebbero una “minaccia alla libertà”. Beinart ha affermato che l’American Jewish Committee [dal 1906 una delle più antiche organizzazioni filosioniste degli USA, ndt.] e l’Anti-Defamation League [organizzazione mondiale nella lotta all’antisemitismo, ndt.] – e Deborah Lipstadt, incaricata di occuparsi di antisemitismo sotto Biden – stanno abbandonando il tradizionale impegno nei diritti umani per un cieco sostegno a Israele e si stanno schierando con i dittatori arabi per giustificare i crimini di Israele.

Entrambe le affermazioni hanno avuto un grande impatto. “Quando gli ex negoziatori israeliani come Daniel Levy parlano pubblicamente dell’apartheid in Israele non è forse ora che il Canada, che ha svolto un ruolo di primo piano a livello internazionale contro l’apartheid sudafricano, si alzi dalla panchina filo-israeliana e difenda i diritti umani in Israele e Palestina?” scrive un ex ambasciatore canadese.

I sionisti liberali sono infuriati e spingono per i due Stati. Independent Jewish Voices [rappresentanza degli ebrei canadesi impegnati per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt.] stila una lunga lista di quanti sostengono l’accusa di apartheid. Khaled Elgindy [direttore del Programmma Palestina e Affari Israelo-Palestinesi del Middle East Institute di Washington, ndt.] dice dell’analisi di Levy secondo cui Israele non potrà mai raggiungere la sicurezza espropriando e opprimendo i palestinesi: “Che qualcosa di così ovvio e sensato debba essere affermato in modo così esplicito e ripetuto è sia sconcertante che inquietante”. J Street [associazione liberal americana che promuove la soluzione a due Stati, ndt.] sembra ignorare entrambe le affermazioni.

Questa la sezione centrale del monito di Levy. C’è solo uno Stato, ed è l’apartheid. Il futuro di Israele è a rischio. Sono notizie vecchie, ma nuove per il Consiglio di Sicurezza:

Sappiamo che alcuni sviluppi possono essere allo stesso tempo politicamente scomodi e politicamente rilevanti. L’insieme sempre più rilevante dell’opinione accademica, giuridica e pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo è esattamente uno sviluppo di quel tipo.

La definizione data da studiosi e istituti palestinesi, successivamente esaminata e approvata dalla comunità israeliana per i diritti umani guidata da B’Tselem, è ora diventata la definizione legale per Human Rights Watch e quest’anno anche per Amnesty International. Ecco cosa risulta dall’incapacità di riconoscere le responsabilità e di lavorare per i due Stati.
Per quanto sia scomodo per alcuni, esorto quest’aula a non sottovalutare il significato a lungo termine e la direzione di ciò che sta accadendo. Lo scorso marzo a Ginevra agli incontri del Consiglio per i Diritti Umani, tutti gli Stati rappresentati nel gruppo africano, nel gruppo arabo e nel gruppo OIC [Organizzazione per la Cooperazione Islamica intergovernativa fondata nel 1969 da 57 Stati, ndt.], hanno fatto riferimento a questa situazione di apartheid.

Non sorprende che tutto ciò abbia eco e risonanza in quelle parti del mondo che hanno sperimentato l’apartheid e il colonialismo di insediamento e poi affrontato la decolonizzazione…

Deve essere un richiamo a reagire. Settantacinque anni fa le Nazioni Unite proposero la partizione come paradigma politico per la Terra Santa. Oggi quella terra è di fatto unita sotto un unico potere. In assenza di un’inedita azione di vasta portata per essere conseguenti con la partizione, i nostri successori in quest’aula dovranno discutere del compito di raggiungere l’uguaglianza in una realtà indivisa.

Ecco ora l’inizio dell’editoriale di Peter Beinart sul New York Times riguardo all’uso improprio dell’accusa di antisemitismo per difendere Israele. Israele è solo un altro governo “repressivo” che cerca di screditare i diritti umani.

Lo scorso aprile, quando Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto accusando Israele di “crimini di apartheid e persecuzione”, l’American Jewish Committee ha affermato che le argomentazioni del rapporto “a volte rasentano l’antisemitismo”. A gennaio, quando Amnesty International ha pubblicato il proprio studio in cui si afferma che Israele pratica l’apartheid, l’Anti-Defamation League ha predetto che “probabilmente porterà a un aumento dell’antisemitismo”. L’AJC e l’ADL hanno anche reso pubblica una dichiarazione insieme ad altri quattro noti gruppi ebraici americani che non solo hanno accusato il rapporto di essere parziale e impreciso, ma anche affermato che il rapporto di Amnesty “alimenta quegli antisemiti che in tutto il mondo cercano di minare l’unico Paese ebraico sulla Terra”.

I difensori dei governi repressivi spesso cercano di screditare le associazioni per i diritti umani che li criticano.

Il discorso di Beinart è degno di nota perché segna fino a che punto le organizzazioni ebraiche si sono dedicate ai diritti civili nel periodo precedente alla guerra del 1967. Da allora hanno abbandonato quell’impegno, nell’era di Israele militante e mentre la comunità ebraica organizzata è diventata sempre più conservatrice.

Ecco gli incisivi paragrafi sulle organizzazioni ebraiche che rappresentano una “minaccia alla libertà”.

Ora che qualsiasi critica allo Stato ebraico viene accolta con accuse di fanatismo anti-ebraico, importanti organizzazioni ebraiche americane e i loro alleati nel governo degli Stati Uniti hanno trasformato la lotta contro l’antisemitismo in mezzo non per difendere i diritti umani ma per negarli. La maggior parte dei palestinesi vive come cittadini di seconda classe all’interno dei confini di Israele o come non cittadini apolidi nei territori occupati da Israele nel 1967 o oltre i confini di Israele perché loro o i loro discendenti sono stati espulsi o fuggiti e non gli è stato permesso di tornare. Ma secondo la definizione di antisemitismo promossa dall’Anti-Defamation League, dall’American Jewish Committee e dal Dipartimento di Stato, i palestinesi sono antisemiti se chiedono la sostituzione di uno Stato che favorisce gli ebrei con uno che non discrimini in base all’etnia o alla religione.

Con amara ironia, la campagna contro “l’antisemitismo” condotta da influenti gruppi ebraici e dal governo degli Stati Uniti è diventata una minaccia alla libertà. Viene utilizzata come arma contro le organizzazioni per i diritti umani più rispettate al mondo e come scudo per alcuni dei regimi più repressivi del mondo. Abbiamo bisogno di un’altra lotta contro l’antisemitismo. Dovrebbe perseguire l’uguaglianza degli ebrei, non la supremazia ebraica, e includere la causa dei diritti degli ebrei in un movimento per i diritti umani in generale. Nello sforzo di difendere l’indifendibile in Israele, l’establishment ebraico americano ha abbandonato quei principi.

Beinart scredita anche Deborah Lipstadt come lacchè nelle relazioni di normalizzazione fra Israele e alcune dittature repressive.

A giugno la signora Lipstadt ha incontrato l’ambasciatore saudita a Washington e inneggiato a “i nostri obiettivi condivisi di superare l’intolleranza e l’odio”. Da lì è volata in Arabia Saudita, dove ha incontrato il Ministro degli Affari Islamici e ha riaffermato “i nostri obiettivi condivisi di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”. Negli Emirati Arabi Uniti si è incontrata con il Ministro degli Esteri, che ha definito un “sincero partner nei nostri obiettivi condivisi” – avrete indovinato – “di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”.

Tutto ciò non ha senso.

Il discorso di Levy è notevole perché ha messo in evidenza le recenti atrocità commesse da Israele, le uccisioni di bambini palestinesi e della giornalista Shireen Abu Akleh, e le incursioni fasciste contro sette organizzazioni palestinesi per i diritti umani con un pretesto infondato.

Dopo lo shock manifestato lo scorso anno dal Segretario Generale Guterres per il numero di bambini palestinesi uccisi e mutilati dalle forze israeliane, questo mese continuiamo a vedere la stessa tendenza e la sofferenza tra i giovanissimi a Gaza. Abbiamo assistito all’uccisione di chi riferisce e denuncia questi crimini, e Shireen Abu Akleh è stata l’ultima giornalista a pagare con la vita.

E ora questo attacco a coloro che documentano gli abusi e difendono i diritti umani, così come a chi fornisce servizi alla comunità, con le operazioni di Israele contro sei importanti organizzazioni della società civile palestinese… In seguito alla definizione da parte delle autorità israeliane delle sei ONG come terroriste, un certo numero di Paesi ha dichiarato che non erano state loro fornite prove convincenti. La scorsa settimana, gli uffici di quelle organizzazioni sono stati perquisiti e chiusi e i loro operatori interrogati.

Sono (come al solito) speranzoso che queste due affermazioni rappresentino un segno che l’establishment statunitense si stia finalmente rendendo conto della morte della soluzione dei due Stati e che il BDS guadagnerà prestigio politico. Come ha commentato insieme a me Donald Johnson, “Le cose sono cambiate a sufficienza perché i crimini israeliani non possano essere sempre cancellati o istericamente negati”.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Le ferite autoinflitte di Israele

Nota redazionale: l’articolo che segue non riflette per niente le opinioni della redazione di Zeitun. A nostro parere alcune affermazioni sono palesemente contrarie alla situazione in Palestina e distorcono la realtà sul terreno e il carattere storico del sionismo e dello Stato di Israele. Riteniamo tuttavia interessante proporlo ai lettori del sito in quanto ci pare estremamente significativo che persino uno dei massimi rappresentanti dell’ebraismo mondiale, esplicitamente schierato sempre e comunque con Israele (come lui stesso sostiene in questo testo) prenda una posizione critica nei confronti delle politiche messe in atto dall’attuale governo israeliano e dalla sua strategia annessionista.

RONALD S. LAUDER

18 marzo 2018,The New York Times

Mentre lo Stato di Israele si avvicina al suo settantesimo anniversario, sono molto orgoglioso quando vedo il vulnerabile Stato ebraico della mia infanzia trasformato nella nazione prospera e forte che è oggi.

In quanto presidente del Congresso Mondiale Ebraico, credo che Israele sia fondamentale per ogni identità ebraica e lo sento come mia seconda patria. Eppure oggi temo per il futuro della nazione che amo.

È vero, l’esercito israeliano è più forte di qualunque altro esercito del Medio Oriente. E sì, la capacità economica di Israele è nota in tutto il mondo: in Cina, in India e nella Silicon Valley sono celebrate la tecnologia, l’innovazione e l’intraprendenza israeliane.

Ma lo Stato ebraico democratico affronta due gravi minacce che credo potrebbero mettere in pericolo la sua stessa esistenza.

La prima è la possibile fine della soluzione dei due Stati. Sono un conservatore ed un repubblicano ed ho appoggiato il partito Likud fin dagli anni ’80. Ma la realtà è che 13 milioni di persone vivono tra il fiume Giordano ed il mar Mediterraneo. E circa la metà di esse sono palestinesi.

Se l’attuale tendenza continua, Israele dovrà affrontare una scelta drastica: concedere ai palestinesi pieni diritti e smettere di essere uno Stato ebraico o abrogare i loro diritti e smettere di essere una democrazia.

Per evitare questi risultati inaccettabili, l’unico cammino è la soluzione dei due Stati. Il presidente Trump e i suoi consiglieri sono assolutamente impegnati per una pace in Medio Oriente. Gli Stati arabi, come Egitto, Giordania, Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti sono ora più vicini ad Israele di quanto non lo siano mai stati, e, contrariamente a informazioni dei media, importanti dirigenti palestinesi sono pronti, mi hanno personalmente detto, a iniziare immediatamente negoziati diretti.

Ma alcuni israeliani e palestinesi stanno propugnando iniziative che minacciano di far fallire questa opportunità.

Gli incitamenti [alla violenza] e l’intransigenza dei palestinesi sono distruttivi. Ma lo sono anche i progetti di annessione, sostenuti dalla destra [israeliana] e la diffusa costruzione di colonie ebraiche oltre la linea di separazione [precedente alla guerra del 1967, ndt.]. Negli ultimi anni le colonie in Cisgiordania su terre che molto probabilmente in qualunque accordo di pace saranno parte dello Stato palestinese hanno continuato a crescere e ad estendersi. Queste ottuse politiche israeliane stanno creando una situazione irreversibile di Stato unico.

La seconda duplice minaccia è la capitolazione di Israele agli estremisti religiosi e la crescente disaffezione della diaspora ebraica. Molti ebrei fuori da Israele non sono accettabili agli occhi degli ultra-ortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi nello Stato. Sette degli otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sud America, Africa ed Australia sono ortodossi moderni, conservatori, riformati o sono laici. Molti di loro hanno cominciato a sentire, soprattutto negli ultimi anni, che la Nazione che hanno appoggiato politicamente, finanziariamente e spiritualmente gli sta voltando le spalle.

Sottomettendosi alle pressioni esercitate da una minoranza in Israele, lo Stato ebraico si sta alienando una vasta parte del popolo ebraico. La crisi è particolarmente pronunciata tra la generazione più giovane, che è prevalentemente laica. Un crescente numero di millenials ebrei – soprattutto negli Stati Uniti – si sta allontanando da Israele perché le sue politiche contraddicono i loro valori. I risultati sono prevedibili: assimilazione, disaffezione e una grave erosione dell’identificazione della comunità ebraica globale con la patria ebraica.

Nell’ultimo decennio ho visitato comunità ebraiche in oltre 40 Paesi. Membri di ognuna di esse mi hanno manifestato la propria preoccupazione e inquietudine sul futuro di Israele e sui suoi rapporti con la diaspora ebraica.

Molti ebrei non ortodossi, compreso il sottoscritto, sentono che in Israele l’espansione di una religiosità promossa dallo Stato sta trasformando una nazione moderna e liberale in una semi-teocrazia. Una grande maggioranza di ebrei in tutto il mondo non accetta l’esclusione delle donne da certe pratiche religiose, leggi restrittive sulla conversione o il bando alla preghiera paritaria al Muro del Pianto. Sono disorientati dall’impressione che Israele stia abbandonando la visione umanistica di Theodor Herzl e stia assumendo sempre più un carattere che non corrisponde ai suoi valori fondamentali o allo spirito del XXI° secolo.

I dirigenti del mondo ebraico hanno sempre rispettato le scelte fatte dai votanti israeliani ed agito di concerto con il governo democraticamente eletto in Israele. Sono anche ben consapevole che gli israeliani sono sulla linea del fronte, facendo sacrifici e rischiando le loro stesse vite ogni giorno in modo che il mondo ebraico sopravviva e prosperi. Sarò sempre in debito con loro.

Ma a volte la lealtà richiede un amico che parli a voce alta ed esponga una verità scomoda. E la verità è che lo spettro di una soluzione dello Stato unico e il crescente divario tra Israele e la diaspora stanno mettendo a rischio il futuro del Paese che mi è tanto caro.

Siamo ad un bivio. Le scelte che Israele farà nei prossimi anni saranno determinanti per il destino del nostro solo e unico Stato ebraico – e per la costante unità del nostro amato popolo.

Dobbiamo cambiare rotta. Dobbiamo spingere per una soluzione dei due Stati e trovare un terreno comune tra noi in modo che possiamo garantire il successo della nostra amata nazione.

Ronald S. Lauder è il presidente del Congresso Mondiale Ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)