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Kafr Qasim non fu solo un massacro, ma parte di un piano di pulizia etnica

Motasem A Dalloul

1 agosto 2022-Middle East Monitor

Venerdì gli archivi delle forze di occupazione israeliane hanno rilasciato documenti giudiziari relativi al processo contro i soldati israeliani che massacrarono brutalmente 49 palestinesi il 29 ottobre 1956. Il massacro ebbe luogo nella città palestinese di Kafr Qasem.

Era il primo giorno dell’invasione israeliana, britannica e francese del Sinai, avvenuta in risposta alla chiusura del Canale di Suez da parte dell’Egitto. Israele impose il coprifuoco notturno sulla maggior parte delle aree ad alta popolazione palestinese (araba) in Israele.

Il defunto generale di brigata, Issachar Shadmi era il comandante della brigata dell’esercito israeliano che occupava Kafr Qasem, situata al centro della Palestina recentemente occupata che divenne Israele, ovverosia vicino alla linea dell’armistizio con la Giordania, che allora controllava la Cisgiordania. Ordinò che quel giorno il coprifuoco iniziasse prima e impose ai suoi ufficiali di applicarlo rigorosamente

I contadini palestinesi o arabi, che si trovavano nelle loro fattorie fuori dal villaggio, tornarono a casa senza sapere nulla degli aggiornamenti relativi al coprifuoco. Gli agenti di polizia di frontiera comandati da Shadmi aprirono senza pietà il fuoco contro i contadini disarmati, uccidendo 49 persone, tra cui anziani, donne e bambini

Il massacro fu ampiamente condannato, anche da funzionari del governo di occupazione israeliano, che mandarono Shadmi e gli altri ufficiali coinvolti nel massacro a processo e li condannarono tutti. Gli ufficiali trascorsero un periodo molto breve in prigione prima di ottenere la grazia presidenziale.

Per quanto riguarda Shadmi, all’epoca il più alto ufficiale della zona, i giudici gli ordinarono di pagare una multa di 10 centesimi, secondo Haaretz, per aver modificato il coprifuoco senza l’approvazione del governatore militare. I giudici stabilirono che lo aveva fatto “in buona fede”. In questo modo fu chiusa la questione della strage, ma gli atti del tribunale rivelati venerdì hanno esposto nuovi fatti al riguardo.

La trascrizione [della testimonianza, ndt] di Haim Levy, che era un comandante di compagnia, mostra che c’era un ordine esplicito di sparare ai palestinesi che avessero infranto il coprifuoco senza sapere del cambiamento dell’ora di inizio. Levy affermò anche, secondo i documenti del tribunale, che il comandante di battaglione, Shmuel Malinki gli disse: “È auspicabile che ci sia un certo numero di vittime”.

Milinki disse alla corte di aver risposto ai soldati, che gli chiedevano come avrebbero dovuto comportarsi con i palestinesi che non erano a conoscenza del cambiamento dei tempi del coprifuoco, che avrebbero dovuto ucciderli. “Allah yerhamu”, disse in arabo. Significa: “Che Dio abbia pietà di loro”. Ciò dimostra che prima del massacro erano stati predisposti dei piani per uccidere i palestinesi.

Per dimostrare che l’uccisione intenzionale di palestinesi era un ordine importante legato alla situazione a Kafr Qasim il comandante Gabriel Dahan affermò, secondo il Jerusalem Post, che Melinki gli disse “mettiamo da parte i sentimenti, è meglio avere qualche morto perché ci sia pace nella zona”.

Durante le udienze i soldati israeliani menzionarono, più volte, un piano chiamato “Hafarferet” (“Talpa”), che era stato preparato per essere attuato durante l’invasione del Sinai, ma Israele volle che iniziasse “spontaneamente”, per non risultare, come l’invasione dell’Egitto, ufficialmente avviato dal suo esercito.

Levy affermò che come parte di questa operazione c’erano misure intese a spostare i palestinesi dalle loro case, inclusa l’imposizione del coprifuoco, la confisca di proprietà e lo spostamento di interi villaggi da un luogo all’altro. Secondo il Jerusalem Post, Levy disse che, nel caso di Kafr Qasim, “l’intera popolazione del villaggio doveva essere trasferita a Tira”.

L’obiettivo non era solo quello di spostare i palestinesi da un’area a un’altra all’interno della Palestina o di Israele, ma anche di spostarli fuori dal paese. Levy affermò che alle forze di occupazione israeliane fu detto “di non mettere vedette e posti di blocco sul lato orientale [di Kafr Qasim] in modo che se gli arabi avessero deciso di fuggire, avrebbero potuto oltrepassare col consenso il confine giordano [Linea dell’armistizio]”.

Levy disse anche di aver capito che c’era un legame diretto tra sparare ai palestinesi che avevano violato il coprifuoco e cambiare la composizione demografica di Israele. “Il collegamento è che, di conseguenza, parte della popolazione si sarebbe spaventata e avrebbe deciso che era meglio vivere dall’altra parte. È così che lo interpreto”, disse ai giudici, secondo l’agenzia di stampa Wafa.

Tutti questi fatti provano che il massacro di Kafr Qasim faceva parte di un’operazione di pulizia etnica e che i successivi procedimenti giudiziari, tenuti segreti per più di sei decenni, furono solo un tentativo di mascherare i crimini dell’esercito di occupazione israeliano.

Questo è normale in Israele, che ha una lunga storia di queste ingiustizie. Il tribunale israeliano ritenne che Shadmi, che fu multato di soli 10 centesimi per aver brutalmente comandato il massacro di 49 palestinesi, avesse agito “in buona fede”.

Il suo collega alla Kadoorie Agricultural High School, Yitzhak Rabin, la cui sanguinosa storia include l’uccisione di circa 1.000 prigionieri egiziani quando era comandante in capo durante la guerra del 1967, è stato nominato vincitore del Premio Nobel per la Pace solo per aver affermato di aver raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Moshe Dayan, Menachem Begin, Yitzhak Shamir e altri hanno massacrato palestinesi e versato molto sangue palestinese e israeliani e non israeliani li chiamano eroi. Anche i leader israeliani di oggi stanno facendo lo stesso. L’attuale ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, orgoglioso di aver bombardato Gaza [riportandola fino, ndt] all’età della pietra, è ancora descritto come una “colomba della pace”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’esercito israeliano comincia le esercitazioni a Masafer Yatta nonostante le proteste.

The New Arab, PC, Social Media

Martedì 21 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia The New Arab ha riferito che martedì l’esercito israeliano comincerà le esercitazioni militari a Masafer Yatta, nonostante l’opposizione degli abitanti palestinesi.

Granate con propulsione a razzo, carri armati, mitragliatrici, ruspe e altri tipi di armi e mezzi pesanti saranno usati nelle esercitazioni militari che secondo il quotidiano israeliano Haaretz avranno luogo dalle 12 alle 18 ora locale.

Il giornale ha affermato che le esercitazioni, che continueranno per un mese, saranno le più ampie degli ultimi 20 anni.

Circa 1200 palestinesi di Masafer Yatta, a sud di Hebron (Al-Khalil), rischiano di essere espulsi dalle proprie case per fare spazio ad un’area per esercitazioni dopo una battaglia legale durata decenni che è terminata lo scorso mese davanti all’Alta Corte israeliana.

La sentenza ha aperto la strada ad una delle più ampie deportazioni da quando lo Stato di Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. Gli abitanti palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare il territorio, sperando che la loro resistenza e la pressione internazionale impediscano a Israele di portare avanti le espulsioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Le forze israeliane emettono ordini di demolizione a Masafer Yatta

WAFA, Palestine Chronicle

Martedì 24 maggio 2022 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale palestinese di notizie ha riferito che lo scorso lunedì le forze israeliane hanno emesso ordini di demolizione contro altre tre case nell’area di Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno ordinato la demolizione di tre case nella comunità di al-Juwaya a Masafer Yatta, nel distretto di Hebron (Al-Khalil) nella Cisgiordania meridionale.

Fouad al-Amour, coordinatore dei Comitati di Protezione e Resilienza ha detto alla WAFA che le forze israeliane hanno preso d’assalto la comunità e consegnato ai tre abitanti l’ordine di demolire le loro case. Ha aggiunto che i soldati hanno consegnato ad un abitante della comunità vicina di Ein al-Beida un’ingiunzione di demolizione di un locale per uso agricolo.

Considerato uno dei sobborghi ad est di Yatta, al-Juwaya è pesantemente preso di mira dalle misure dell’occupazione israeliana che intendono cancellare l’espansione delle costruzioni palestinesi.

Masafer Yatta è un insieme di circa 19 villaggi che dipendono quasi esclusivamente dall’allevamento come principale fonte di sussistenza.

Il 4 maggio l’Alta Corte israeliana ha deliberato a favore della demolizione di 12 comunità a Masafer Yatta e dell’espulsione di migliaia di abitanti basandosi sull’asserzione secondo cui si trovano in una area destinata ad esercitazioni militari.

Situata nell’Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo amministrativo e militare israeliano, l’area è stata soggetta a ripetute violazioni israeliane da parte di coloni e soldati che prendono di mira la principale fonte di reddito palestinese – l’allevamento.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Oscenità israeliane, complicità occidentali e arabe

Alain Gresh

16 maggio 2022 – Orient XXI

Osceno. In base a quanto scrive il Dictionnaire étymologique de la langue française [Dizionario etimologico della lingua francese] di Alain Rey, l’aggettivo derivato dal latino obscenus significa “di cattivo augurio, sinistro”, ed è entrato nel linguaggio comune con il senso di “aspetto orrendo che deve essere nascosto”.

Antigone a Gerusalemme

È il primo aggettivo che viene in mente vedendo le immagini dei funerali della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, assassinata mercoledì 11 maggio 2022 dall’esercito israeliano. Alcuni poliziotti assalgono la sua bara che rischia di essere rovesciata, manganellano i manifestanti, lanciano granate assordanti e strappano bandiere palestinesi. Anche al di là di ogni giudizio politico, questa azione mina nel più profondo la dignità umana, viola un principio sacro che risale alla notte dei tempi: il diritto ad essere sepolti con dignità, che riesuma il mito di Antigone, la quale si rivolge al re Creonte che rifiuta di seppellire suo fratello e di cui lei ha violato gli ordini:

Non ritengo che i tuoi proclami siano talmente potenti che le leggi degli dei, non scritte e sempre certe, possano essere superate da un semplice mortale.”

Israele non cerca affatto di nascondere le proprie azioni, perché non le considera oscene. Agisce alla luce del sole, con questa chutzpah, questa arroganza, questo sentimento coloniale di superiorità che caratterizza non solo la maggioranza della classe politica israeliana, ma anche gran parte dei media, allineati con la versione diffusa dai portavoce dell’esercito. Itamar Ben-Gvir ha un bell’essere un deputato fascista – come sono, con sfumature diverse, molti dei membri dell’attuale governo o dell’opposizione. Egli esprime un sentimento condiviso in Israele quando scrive: “Mentre i terroristi sparano sui nostri soldati a Jenin, essi devono rispondere con tutta la forza necessaria, anche quando ‘giornaliste’ di Al-Jazeera sono presenti nella zona in mezzo alla battaglia per ostacolare i nostri soldati.”

La sua frase conferma che l’assassinio di Shireen Abu Akleh non è un incidente, ma il risultato di una politica deliberata, sistematica, ragionata. Altrimenti come spiegare il fatto che mai nessuno dei giornalisti israeliani che informano sugli stessi avvenimenti è stato ucciso, mentre secondo Reporter Senza Frontiere (RSF) dal 2001 sono stati eliminati 35 dei loro colleghi palestinesi, in maggioranza fotografi e cineoperatori – i più “pericolosi” perché raccontano con le immagini quello che succede sul terreno? Questa asimmetria non è che una delle molteplici sfaccettature dell’apartheid all’opera in Israele-Palestina così ben descritto da Amnesty International: a seconda che siate occupante o occupato, per parafrasare La Fontaine, le “sentenze” israeliane vi renderanno bianchi o neri e la maggior parte delle volte la sentenza è la pena di morte per il più debole.

Il colpevole può indagare sul crimine che ha commesso?

L’uccisione di Shireen Abu Akleh ha suscitato per una volta qualche reazione internazionale ufficiale in più del solito. La sua notorietà, il fatto che fosse cittadina americana e di religione cristiana vi ha contribuito. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha persino adottato una risoluzione di condanna del crimine e chiesto un’inchiesta “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”, senza peraltro arrivare ad esigere che sia internazionale, una cosa che Israele rifiuta sempre. Ora, si possono associare alla conduzione delle indagini i responsabili del crimine? Da anni le organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani come B’Tselem, o internazionali come Amnesty International o Human Rights Watch (HRW), hanno documentato il modo in cui le “indagini” dell’esercito israeliano non danno mai risultati.

Queste proteste ufficiali saranno seguite dai fatti? Si può già rispondere di no. Non ci sarà un’inchiesta internazionale, perché né l’Occidente né i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele sono pronti ad andare oltre le denunce verbali che non danno fastidio a nessuno. Né a riconoscere quello che peraltro la storia recente conferma, cioè che ogni concessione fatta ad Israele, invece di provocare la “moderazione” di Tel Aviv, incoraggia la colonizzazione e la repressione. Chi ricorda che gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sostenevano che l’apertura di un’ambasciata di Tel Aviv ad Abu Dhabi avrebbe permesso di influenzare la politica israeliana? E la compiacenza di Washington o dell’Unione Europea (UE) nei confronti del governo israeliano, “il nostro alleato nella guerra contro il terrorismo”, ha forse portato almeno a un rallentamento della colonizzazione dei territori occupati, che peraltro essi fingono di condannare?

La Corte Suprema ratifica l’occupazione

Due fatti recenti hanno da poco confermato l’indifferenza totale del potere israeliano rispetto alle “rimostranze” dei suoi amici. La Corte Suprema israeliana ha approvato il più grande spostamento forzato di popolazione dal 1967: l’espulsione di più di 1.000 palestinesi che vivono in otto villaggi a sud di Hebron scrivendo, senza alcuna vergogna, che le leggi israeliane sono al di sopra del diritto internazionale. Troppo occupati a punire la Russia, gli occidentali non hanno reagito. E lo stesso giorno delle esequie di Shireen Abu Akleh il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 4.400 nuovi alloggi nelle colonie in Cisgiordania. Perché dovrebbe moderarsi, dato che sa di non rischiare alcuna sanzione e che le condanne, quando ci sono, finiscono nella carta straccia del ministero degli Esteri israeliano e sono compensate dal costante richiamo al sostegno per Israele?

Un sostegno rinnovato nel maggio 2022 da Emmanuel Macron, che si è impegnato a rafforzare con questo Paese “la cooperazione in tutti i campi, anche a livello europeo […] La sicurezza di Israele è al centro della nostra collaborazione.” Ha persino lodato gli sforzi di Israele “per evitare un’escalation” a Gerusalemme.

Quello che sta avvenendo in Terra Santa da decenni non è né un episodio di “guerra contro il terrorismo” né un “conflitto” tra due parti uguali, come fanno intendere certi titoli dei media e certi commentatori. I palestinesi non sono attaccati da extraterrestri come potrebbe far pensare la reazione del ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian sul suo account ufficiale di Twitter: “Sono profondamente scioccato e costernato di fronte alle inaccettabili violenze che hanno impedito che il corteo funebre della signora Shireen Abu Akleh avvenisse nella pace e nella dignità.”

Quanto a tutti quelli che danno lezioni ai palestinesi rimproverandoli per l’uso della violenza, comunque molto minore di quella degli israeliani, ricordiamo quello che scrisse Nelson Mandela, diventato un’icona imbalsamata da molti commentatori, mentre era un rivoluzionario che conduceva la lotta armata per porre fine al regime dell’apartheid di cui Israele è rimasto uno degli alleati più fedeli fino all’ultimo:

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta. Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non avrà altra scelta che rispondere con la violenza. Nel nostro caso non è stata altro che una forma di legittima difesa.”

Sicuramente non si saprà mai l’identità del soldato israeliano che ha premuto il grilletto e ucciso la giornalista palestinese. Ma quello che già si sa è che la catena di complicità è lunga. Se ha origine a Tel Aviv, essa arriva fino a Washington, entra di soppiatto ad Abu Dhabi e a Rabat, penetra a Parigi e a Bruxelles. L’uccisione di Shireen Abu Akleh non è un atto isolato, ma un crimine collettivo.

Alain Gresh

Specialista del Medio Oriente, è autore di molte opere, tra cui De quoi la Palestine est-elle le nom ? [Di cos’è il nome la Palestina?] (Les Liens qui libèrent, 2010) e, con Hélène Aldeguer, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, [Un canto d’amore. Israele-Palestina, una storia francese] (La Découverte, 2017). È il direttore di Orient XXI.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il Naqab è un tassello chiave del puzzle dell’apartheid in Israele

Ahmed Abu Artema 

 23 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Il primo febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui dichiara Israele un regime di apartheid.

Che i palestinesi vivano nella Striscia di Gaza assediata, a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania occupata o in Israele, Israele li tratta come un gruppo razziale inferiore e li priva dei loro diritti.

Il rapporto definisce la regione del Naqab meridionale (Negev) un “ottimo esempio” delle pluriennali politiche israeliane per appropriarsi di terre e risorse palestinesi a vantaggio degli ebrei israeliani.

Durante le settimane precedenti la pubblicazione del rapporto di Amnesty i beduini palestinesi nel Naqab hanno respinto rinnovati tentativi israeliani di espropriare vasti appezzamenti di terra con la scusa del “rimboschimento.”

Il mese scorso l’esercito israeliano è intervenuto pesantemente contro i manifestanti sparando pallottole di acciaio rivestite di gomma e lanciando lacrimogeni dai droni. I palestinesi feriti sono stati decine e pare che le autorità israeliane abbiano fermato oltre 80 persone.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha anche lanciato pallottole di acciaio con punta in spugna contro i manifestanti, ferendone cinque alla testa.

Un ragazzino palestinese che assisteva alle proteste ha perso un occhio dopo essere stato colpito dalla polizia israeliana.

Secondo Al Jazeera il Jewish National Fund  [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] e l’Israel Land Authority [Autorità Israeliana per la terra, ndtr.] stanno cercando di espropriare più di 11.000 ettari di terreni palestinesi per piantare alberi.

Ma i beduini palestinesi sanno che Israele usa da molto tempo il “rimboschimento” per impadronirsi di terre nel Naqab e altrove e per nascondere monumenti e rovine di villaggi palestinesi dopo averli distrutti e attuato la pulizia etnica.

È un metodo tipico di Israele per cancellare tutte le tracce dei suoi crimini.

Ebraizzare il Naqab

Fin dal 1948 Israele ha adottato varie politiche per “ebraizzare” il Naqab, soprattutto destinando vaste aree intorno ai villaggi beduini a riserve naturali, zone industriali e per esercitazioni militari, come notato da Amnesty.

Israele ha radunato gli abitanti beduini e li ha trasferiti con la forza in quelle che chiama “città pianificate” con conseguenze devastanti per coloro che vivono nella zona.

Nel Naqab Israele si rifiuta ancora di riconoscere 35 villaggi beduini, che di conseguenza sono privi di luce e acqua e destinati alla demolizione, sostiene Amnesty.

A dicembre le autorità israeliane di occupazione hanno demolito il villaggio beduino di al-Araqib nel nord del deserto di Naqab quasi per la duecentesima volta dal 2000.

I palestinesi l’hanno ripetutamente ricostruito solo per subirne di nuovo la demolizione con il pretesto che non è riconosciuto.

Rifiutando di concedere ai villaggi uno status ufficiale Israele limita la partecipazione politica degli abitanti beduini e li esclude dall’assistenza sanitaria e dal sistema scolastico. Ciò intende costringerli a lasciare le proprie case e villaggi, il che equivale al trasferimento coatto.

Secondo Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] fra il 2013 e il 2019 Israele ha demolito nel Naqab più di 10.000 case.

Nel 2013 la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato il cosiddetto Prawer Plan, studiato per trasferire con la forza gli abitanti di decine di villaggi palestinesi del Naqab e concentrarli in una zona segregata.

Secondo questa legge Israele trasferirà in modo coatto 70.000 beduini e i 35 villaggi non riconosciuti saranno demoliti.

Per ora le proteste popolari e la condanna di molte organizzazioni internazionali hanno costretto il governo di Israele a sospendere l’implementazione del piano.

Questi progetti sono progettati per cacciare i palestinesi dalla regione e rimpiazzarli con ebrei israeliani.

Naqab come continuazione della Nakba

Sin dalla sua fondazione nel 1948 sulle rovine di città e villaggi palestinesi, l’obiettivo strategico coloniale di Israele è il furto di terre palestinesi e il trasferimento forzato della sua popolazione nativa.

Dall’estremo nord della Galilea al sud del Naqab e ovunque nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, Israele continua a perseguire questo obiettivo.

Mentre il mese scorso, in una notte fredda e piovosa, l’esercito israeliano attaccava i manifestanti nel Naqab, i bulldozer demolivano la casa della famiglia Salhiya nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata, lasciando la famiglia senza un tetto.

Gli abitanti del Naqab riconoscono il significato nazionale della loro causa. Le loro sofferenze sono le stesse subite dall’intero popolo palestinese.

Qualcuno ha chiamato la violenta repressione israeliana e il trasferimento coatto dei palestinesi del Naqab una versione in scala ridotta della Nakba, la pulizia etnica di circa 800.000 palestinesi per far posto a Israele nel 1948.

Il mese scorso Aden Hajjouj, attivista palestinese nel Naqab, ha detto ai media con ardore rivoluzionario: “Ci trattano come rifugiati nella nostra terra”.

Questa non è la loro terra, è la nostra. Siamo qui da prima del 1948, prima che Israele diventasse Israele.”

Identità nazionale collettiva

La definizione di apartheid di Amnesty segue quelle dell’anno scorso di B’Tselem, associazione israeliana per i diritti umani, e di Human Rights Watch.

Questi rapporti allarmano Israele perché minano la falsa immagine che cerca di presentare al mondo.

La designazione di Israele quale Stato di apartheid sposta l’attenzione da una visione limitata del conflitto nella Cisgiordania occupata e Gaza a considerare il problema come vera essenza di Israele.

Come scrive Amnesty nel suo rapporto: “Dalla sua istituzione nel 1948 Israele ha perseguito una chiara politica per stabilire e mantenere un’egemonia demografica ebraica e massimizzare il suo controllo sulla terra per avvantaggiare gli ebrei israeliani e così minimizzare il numero dei palestinesi, limitare i loro diritti e ostacolare la loro capacità di sfidare questa spoliazione.”

I palestinesi respingono uno Stato razzista

Fin dalla sua fondazione Israele ha cercato di separare il popolo palestinese e frammentarne l’identità nazionale. I cittadini palestinesi di Israele sono quelli sopravvissuti alla Nakba del 1948 e i loro discendenti che riuscirono a restare in quello che è poi diventato Israele.

A seconda di dove si trovavano geograficamente Israele ha classificato i palestinesi con una gerarchia di identificazioni con implicazioni politiche, di sicurezza e giuridiche.

Questa separazione fu imposta dopo la firma degli accordi di Oslo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a metà degli anni ’90.

Sebbene gli strumenti repressivi di Israele differiscano a seconda della classificazione giuridica e geografica dei palestinesi, l’essenza della repressione è la stessa: espulsioni, trasferimenti e discriminazione razziale contro i palestinesi.

Israele sperava che tali divisioni avrebbero portato a una frattura nella coscienza nazionale palestinese contro il colonialismo.

Il governo israeliano non ha mai cercato di integrare i propri cittadini palestinesi, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese. Sebbene questi palestinesi siano ufficialmente considerati cittadini israeliani, Israele li sottopone a una persecuzione etnica e religiosa.

Successivi governi israeliani hanno approvato decine di leggi su terre, abitazioni, costruzioni, istruzione e lavoro. Queste leggi discriminano i cittadini palestinesi di Israele, li privano dei loro diritti civili, ne confiscano le terre e restringono il loro spazio pubblico.

La sistematica discriminazione razziale israeliana contro i palestinesi nel vasto territorio occupato nel 1948 ha contribuito alla crescita del patriottismo palestinese.

In parte soppresso per decenni nell’Israele odierno, esso è riapparso nel maggio 2021 quando i palestinesi hanno protestato diffusamente contro l’assalto militare israeliano contro Gaza e gli abusi di Israele a Sheikh Jarrah [quartiere palestinese di Gerusalemme est dove Israele sta cercando di cacciare gli abitanti, ndtr.].

Come dichiara Amnesty International nella sintesi del rapporto sull’apartheid: “In una dimostrazione di unità mai vista in decenni, ([i palestinesi) hanno sfidato la frammentazione e segregazione territoriale che affrontano nella loro vita quotidiana e hanno partecipato a uno sciopero generale per protestare contro la loro comune repressione da parte di Israele.”

Questa unità, dal Naqab nel sud della Galilea al nord, da Gaza alla Cisgiordania, è essenziale per allontanarsi dal modello fallito dei due Stati che non garantisce tutti i diritti dei palestinesi, e li sprona verso un’azione per uno Stato che difenda principi chiave come parità di diritti e il diritto al ritorno [dei profughi].

Ahmed Abu Artema, scrittore palestinese e attivista, è un rifugiato di Ramle [città palestinese in cui nel 1948 ci furono massicce espulsioni e che ora si trova in Israele, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Non si paga nessun prezzo per la distruzione di un villaggio palestinese?

Sarit Michaeli

26 luglio 2021 +972 Magazine

I diplomatici vedono che il nuovo governo israeliano continua ad espellere i palestinesi. Per quale motivo gli Stati continuano a tributare onori a chi compie questi crimini?

Negli annali dei tentativi israeliani di espellere comunità di pastori palestinesi nella Cisgiordania occupata, un ruolo centrale è svolto dalla burocrazia, coi suoi uffici dotati di aria condizionata, e dalle aule di tribunali. Le udienze della Corte Suprema di Israele, che quotidianamente autorizza la politica di espulsione del governo e le ordinanze di demolizione dell’Amministrazione Civile, forse non sono spettacolari come la vista del bulldozer che distrugge tende e cisterne, o della gru che solleva le macerie per depositarle in un camion. Ma è su questi magistrati, politici, e generali che ricade la maggiore responsabilità di queste distruzioni e sofferenze.

Eppure a volte basta un’immagine sola presa sul campo per ottenere il quadro globale della politica condotta da Israele per perseguitare alcune delle comunità palestinesi più svantaggiate della Cisgiordania con l’unico obiettivo di portarle alla disperazione, cacciarle via dalle loro case e comunità, per impadronirsi delle loro terre. E’ un momento topico che mette in luce tutto, chiaro come il sole che in estate picchia cocente sulla Valle del Giordano.

Lo scorso 7 luglio camion, bulldozer e altri mezzi pesanti israeliani sono arrivati in località Khirbet Humsa, un borgo di pastori formato da quattro gruppi di tende e catapecchie in cui vivono 61 persone, di cui 34 sono minori. I soldati, gli agenti della polizia di frontiera e gente assoldata dall’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano che controlla la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – hanno iniziato senza perdere tempo la loro opera di distruzione.

Le donne delle famiglie Abu al-Kabash e Awawdeh, che si trovavano a casa mentre gli uomini erano fuori a pascolare le greggi, hanno visto i bulldozer che dopo aver tirato e strappato i pali metallici e i rivestimenti di plastica delle tende li trasferivano nei camion. Stavano a guardare mentre il conducente del bulldozer spaccava prima i serbatoi delle acque nere e poi ne buttava giù uno di acque bianche prima di colpirlo ripetutamente sul terreno arido, attento che non ne restasse più niente.

Parte degli avvenimenti è stato ripreso da una donna della comunità con un cellulare avuto in precedenza dagli attivisti di Machsom Watch [associazione di volontarie israeliane che monitora la vita dei palestinesi sotto occupazione, ndtr] prima che la batteria si esaurisse. Più in là c’erano attivisti palestinesi provenienti da altre parti della Valle del Giordano, ricercatori di B’Tselem [Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, ndtr], operatori umanitari, personale ONU e diplomatici europei che documentavano. I soldati non li hanno lasciati avvicinare.

Dopo che i bulldozer hanno finito di schiacciare le tende e i recinti degli animali del villaggio, i lavoratori a contratto si sono dedicati agli effetti personali dei residenti. Per ore hanno caricato sui camion tutto ciò che si trovava nelle case appena distrutte: mobili, materassi, abiti, fornelli, cibo. Poi i camion si sono diretti in località Ein Shibli, ai margini dell’Area C della Cisgiordania, quella sotto totale controllo militare israeliano, dove hanno scaricato il tutto. Israele sta cercando di spostare i residenti espulsi proprio qui, nonostante essi rifiutino strenuamente di spostarsi da nessuna parte, men che meno a Ein Shibli, dove la mancanza di pascoli gli impedirebbe di continuare a vivere secondo le loro tradizioni.

Gli abitanti di Humsa hanno dovuto trascorrere la notte solo con i vestiti che avevano indosso, privi dei servizi basilari e di un riparo. Era la sesta volta nell’ultimo anno che la comunità ha dovuto opporre resistenza per non essere espulsa da Israele. Anche se questa demolizione è stata forse più spudorata delle altre, la giustificazione è rimasta invariata: negli anni Settanta Israele aveva designato l’area come “zona di tiro” – poco importa se ciò violava le leggi internazionali.

Nessuna ripercussione

La distruzione di Humsa non è un’aberrazione. E’ la norma che Israele ha stabilito. E’ parte dell’ininterrotta politica dei governi israeliani che creano condizioni di vita insostenibili per i palestinesi con l’obiettivo di cacciarli dalle loro case, concentrarli in enclave, ed impadronirsi delle loro terre senza problemi. Cercare di trasferire con la forza persone prive di protezione costituisce crimine di guerra per il diritto internazionale umanitario, ed è tale per lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale dell’Aia.

La responsabilità di questo crimine è di chi lo ordina, approva e controlla: i funzionari del governo, i comandanti militari di alto livello, le alte cariche nell’Amministrazione Civile, e i magistrati della Corte Suprema che forniscono l’approvazione legale. In effetti, quando la Corte Penale Internazionale prenderà in considerazione i trasferimenti forzati [di popolazione] come parte della sua indagine sui potenziali crimini di guerra israeliani, dovrà accertare tutte le responsabilità di chi ha reso possibile tale crimine.

Alle precedenti demolizioni della comunità sono seguite visite da parte di delegazioni di alti diplomatici dell’Unione Europea. Questi hanno detto ai residenti che la UE sostiene la loro lotta per la terra e si oppone alla politica di Israele. Gli ambasciatori della UE hanno ripetuto questo messaggio tramite un’iniziativa formale presso il governo di Israele, che ha scelto di ignorarlo e di andare avanti – scelta che non ha provocato alcuna ripercussione da parte europea.

Anzi, è vero il contrario. Dopo l’ultima demolizione in ordine di tempo di Humsa, il ministro degli esteri Yair Lapid è stato accolto con ogni onore al Consiglio Affari Esteri della UE, composto dai ministri degli esteri degli Stati membri. Secondo quanto riferito, l’Unione Europea ha convenuto di accettare Israele in “Creative Europe”, uno strumento finanziario europeo per sostenere l’arte, che proibisce di finanziare le colonie, quando Israele dichiara pubblicamente di respingere la posizione UE sull’illegalità delle colonie. Gli Stati Uniti, che con la presidenza di Joe Biden hanno ripreso a parlare della soluzione dei due Stati e di diritti umani, non hanno detto alcunché sugli eventi di Humsa.

La notte del sette luglio, dopo una giornata di distruzioni, un bulldozer militare è ritornato in zona per seppellire i rottami e detriti abbandonati. Khirbet Humsa è stato cancellato dalla faccia della terra. Ai margini della zona, i residenti cercano di aggrapparsi alla loro terra in ripari di fortuna. Dopo la distruzione, di tanto in tanto arrivano in zona attivisti palestinesi ed israeliani, oltre ad operatori umanitari. I soldati che pattugliano con i loro fuoristrada li avvisano di non entrare nella zona chiusa.

I residenti di Humsa non riusciranno a sopportare le condizioni attuali ancora a lungo. Con i loro atti i responsabili di governo della cosiddetta “coalizione del cambiamento” di Israele hanno reso ampiamente chiaro di non avere alcuna intenzione di rinunciare alla politica di espulsioni e distruzioni. La chiave ce l’ha soltanto la comunità internazionale. Farà capire ad Israele che danneggiare Humsa e le altre comunità palestinesi ha un prezzo, oppure i suoi richiami ancora una volta non saranno altro che vuota retorica?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in ebraico su Local Call. Clicca qui per leggerlo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Comunità palestinese in Cisgiordania distrutta per la sesta volta

Al Jazeera e agenzie di stampa

7 luglio 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane hanno distrutto case e attrezzature agricole a Humsa al-Baqai’a nella Valle del Giordano occupata.

Le forze israeliane hanno distrutto la comunità palestinese beduina di Humsa al-Baqai’a, nella Valle del Giordano, comprese strutture che sono state fornite dalla comunità internazionale.

Sono state sfollate almeno 65 persone, compresi 35 minori, ha detto Christopher Holt del Consorzio di Tutela della Cisgiordania, un gruppo di organizzazioni umanitarie internazionali sostenuto dall’Unione Europea, che dà assistenza agli abitanti.

La demolizione ha lasciato ancora una volta senza casa gli abitanti del villaggio, che si guadagnano da vivere essenzialmente allevando circa 4.000 pecore. In passato l’UE ha aiutato gli abitanti nella ricostruzione dopo precedenti demolizioni.

In base agli Accordi di Oslo la Valle del Giordano, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata, è classificata come area C – che significa sotto il pieno controllo militare e civile israeliano.

È la sesta volta che il villaggio viene distrutto dal novembre 2020, quando – secondo il Consiglio dei Rifugiati Norvegese (NRC) – sono state demolite 83 strutture nella più vasta azione di demolizione registrata negli ultimi anni.

Alcune delle case e fattorie provvisorie sono state fornite dall’Unione Europea. Humsa al-Baqai’a ha ricevuto assistenza materiale dal Consorzio di Tutela della Cisgiordania, creato per impedire il trasferimento forzato di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Holt ha detto che le famiglie si sono rifiutate di abbandonare la zona.

Sappiamo che ciò che è successo stamattina è che l’esercito israeliano è entrato nella comunità verso le 9 e vi ha distrutto tutto, comprese otto strutture abitative e agricole e stalle per animali, ha detto ad Al Jazeera.

Le forze israeliane hanno cercato di trasferire con la forza le famiglie, cosa illegale in quanto questo è un territorio occupato, e che le famiglie hanno rifiutato di andarsene…È un’escalation molto grave.”

Un funzionario della sicurezza israeliano ha detto che per mesi il governo ha condotto incontri con gli abitanti ed ha offerto una località alternativa nelle vicinanze. Il funzionario, che non era autorizzato a rilasciare dichiarazioni pubbliche, ha detto alla Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] che l’offerta della nuova sistemazione resta valida.

In base al diritto internazionale, ad una potenza occupante è rigorosamente vietato trasferire membri della popolazione occupata dalle proprie comunità contro la loro volontà.

Lo scorso febbraio, dopo aver eseguito demolizioni in due precedenti occasioni nello stesso mese, le forze israeliane hanno anche confiscato i serbatoi d’acqua del villaggio, lasciando la comunità senza acqua potabile e per il bestiame.

Attualmente le famiglie di Humsa al-Baqai’a non hanno riparo dai torridi 39 gradi di calore nella Valle del Giordano.

Le forze israeliane hanno nuovamente distrutto la vita delle famiglie di Humsa e adesso le stanno scacciando dalle loro case,” ha detto Caroline Ort, direttrice per la Palestina del Consiglio dei Rifugiati Norvegese.

La comunità internazionale deve condannare fermamente questa espropriazione e dimostrare che non tollererà queste sfrontate violazioni del diritto internazionale. Le autorità israeliane devono garantire immediatamente l’accesso umanitario alla comunità per soddisfare le necessità urgenti.”

Ort ha affermato che le demolizioni sono l’ultima di una “incessante serie di dimostrazioni di forza da parte delle autorità israeliane, che solo nei primi sei mesi del 2021 hanno distrutto almeno 421 strutture appartenenti a palestinesi.”

Ciò rappresenta un incremento del 30% delle demolizioni rispetto allo stesso periodo del 2020”, ha affermato Ort.

Aree di tiro’

Il villaggio è una delle 38 aree beduine parzialmente o totalmente collocate all’interno di un’area che Israele ha dichiarato zona militare di prove di tiro.

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA) le “aree di tiro” indicate costituiscono circa il 30% dell’area C, dove vivono 6.200 beduini.

Queste comunità sono alcune delle più vulnerabili nella Cisgiordania occupata, con accesso limitato ai servizi basilari quali acqua, igiene, elettricità, educazione e servizi per la salute.

Le case palestinesi nella Valle del Giordano sono soggette a demolizioni da parte delle autorità israeliane, che sostengono che sono state costruite senza permessi.

L’area della Valle del Giordano palestinese copre circa 160.000 ettari con circa 13.000 coloni israeliani che vivono in 38 insediamenti. Nel contempo, circa 65.000 palestinesi vivono in 34 comunità.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 febbraio 2021

Il 5 febbraio, vicino al villaggio di Ras Karkar (Ramallah, nei pressi di un insediamento colonico avamposto [cioè, non autorizzato dal Governo israeliano] di nuova costruzione, un colono israeliano ha sparato, uccidendo un palestinese 34enne che, secondo fonti militari israeliane, aveva cercato di entrare in una casa dell’avamposto. Successivi scontri a Ras Karkar, villaggio di provenienza dell’uomo, hanno provocato il ferimento di un palestinese e di un soldato israeliano. A Nuba (Hebron), un altro palestinese 25enne è rimasto ucciso dall’esplosione di un ordigno rinvenuto nei pressi della sua casa.

In vari scontri avvenuti in Cisgiordania, sono rimasti feriti settantuno palestinesi e quattro soldati israeliani [seguono dettagli]. Trenta dei palestinesi feriti sono stati curati per aver inalato gas lacrimogeno durante una protesta svolta il 12 febbraio ad Humsa – Al Bqai’a, contro demolizioni e confische. Altri ventisette palestinesi sono rimasti feriti durante proteste: contro la realizzazione di tre insediamenti colonici avamposti su terra palestinese in Kafr Malik, Deir Jarir, Ras at Tin, Al Mughayyir (in Ramallah); contro la realizzazione di un altro [insediamento avamposto] su terreni palestinesi in Beit Dajan (Nablus); contro l’espansione degli insediamenti colonici a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Sette palestinesi sono rimasti feriti negli scontri scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto condotte nei Campi profughi di Ad Duheisha (Betlemme) e di Jenin, e nel villaggio di Jaba (sempre a Jenin). Altri tre sono rimasti feriti nell’area di Jenin mentre, a quanto riferito, tentavano di entrare in Israele attraverso varchi nella Barriera. Due [palestinesi] sono rimasti feriti ad Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), in seguito all’intervento delle forze israeliane richiamate da scontri tra palestinesi e coloni; altri due, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah), in circostanze non ancora chiare. Cinquantuno dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, dieci sono stati colpiti da proiettili di gomma, sei sono stati colpiti da proiettili di armi da fuoco ed i restanti sono stati aggrediti fisicamente o colpiti da bombolette lacrimogene. Quattro soldati israeliani sono rimasti feriti a Beituniya (Ramallah), durante un’operazione di ricerca-arresto.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 186 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 172 palestinesi. I governatorati di Gerusalemme, Ramallah ed Hebron sono stati i più coinvolti (in media 28 operazioni ciascuno). In uno degli episodi, accaduto a Hebron, forze israeliane hanno fatto irruzione nel municipio arrestando i dipendenti al lavoro per il turno di notte; sarebbero stati rotti mobili e porte.

A Gaza, vicino alla recinzione israeliana del suo perimetro o in mare, al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 28 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]. In altre tre occasioni, sempre vicino alla recinzione, le forze israeliane hanno svolto operazioni di spianatura del terreno.

Dopo una chiusura di oltre due mesi, il 1° febbraio, il valico egiziano di Rafah, al confine con Gaza, è stato aperto per quattro giorni consecutivi, in entrambe le direzioni. Il 9 febbraio, le autorità egiziane hanno annunciato che il valico rimarrà aperto in entrambe le direzioni, a tempo indeterminato. Dall’inizio di febbraio sono state registrate 6.373 uscite [da Gaza] e 3.520 ingressi.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 89 strutture di proprietà palestinese, sfollando 146 persone, di cui 83 minori, e creando ripercussioni su almeno 330 [seguono dettagli]. Il 3 e l’8 febbraio, nella Comunità Humsa – Al Bqai’a nella Valle del Giordano, le autorità israeliane hanno demolito 37 strutture, la maggior parte delle quali erano state donate. In ciascuno dei due episodi sono state sfollate sessanta persone, inclusi 35 minori. Questa Comunità, dislocata prevalentemente in un’area destinata all’addestramento militare israeliano, negli ultimi mesi ha subito molteplici demolizioni di massa. Una dichiarazione delle Nazioni Unite, rilasciata il 5 febbraio, ha denunciato che la pressione esercitata sulla Comunità per indurla ad abbandonare il luogo, costituisce un reale rischio di trasferimento forzato. A sud di Hebron, nelle Comunità di Ar Rakeez, Umm al Kheir e Khirbet at Tawamin, sono state sequestrate sette strutture, comprese latrine mobili, compromettendo le condizioni di vita e il sostentamento di 80 persone. Inoltre, ad Al Jalama (Jenin), i mezzi di sussistenza di circa 70 persone sono stati colpiti dalla demolizione di 13 bancarelle adibite alla vendita di bevande. A Gerusalemme Est, sono state demolite sette strutture, di cui quattro ad opera degli stessi proprietari per evitare costi aggiuntivi; una famiglia di quattro persone è stata sfollata.

Inoltre, nel villaggio di Tura al Gharbiya (Jenin), le autorità israeliane hanno demolito, a scopo punitivo, una casa, sfollando 11 persone, tra cui quattro minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso, a dicembre [2020], una donna israeliana. L’anno scorso, con le stesse motivazioni, sono state demolite sette strutture.

Secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese, le autorità israeliane hanno sradicato 1.000 alberelli vicino alla città di Tubas. Erano stati piantati in risposta allo sradicamento di migliaia di alberi, avvenuto il mese scorso nella stessa area, sulla base del fatto che la terra è stata dichiarata [da Israele] “Terra di Stato”.

Coloni israeliani, o persone ritenute tali, hanno ferito quattro palestinesi, compreso un minore, ed hanno danneggiato proprietà palestinesi, compresi alberi [seguono dettagli]. Tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente nel villaggio di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), in due separati scontri con coloni israeliani, mentre un 13enne è stato aggredito fisicamente nell’area di Hebron controllata da Israele (H2). Nel villaggio di Susiya (Hebron), un volontario straniero è stato colpito con pietre e ferito e, nel villaggio di As Samu, altri volontari stranieri e locali sono stati attaccati e derubati da persone ritenute coloni. Secondo fonti palestinesi, oltre 130 ulivi e alberelli sono stati sradicati o abbattuti nelle comunità di Khirbet Sarra (Nablus), Bruqin e Kafr ad Dik (Salfit), in At Tuwani e Bir al ‘Idd (Hebron) e in Al Janiya (Ramallah). A Bruqin sono stati rubati circa 180 pali da recinzione. Inoltre, a Beit Dajan è stata danneggiata una struttura agricola e a Qusra (entrambi a Nablus) è stato dato alle fiamme un veicolo. Un altro veicolo che transitava vicino all’insediamento di Bet El (Ramallah) è stato colpito con pietre e danneggiato. A Qawawis, un pastore ha riferito della morte di sette sue pecore a causa di una sostanza velenosa che egli ritiene sia stata spruzzata da coloni del vicino insediamento di Mitzpe Yair, i quali, egli dice, lo hanno ripetutamente attaccato mentre pascolava le sue pecore. In un altro episodio avvenuto nella zona di Ein ar Rashrash (Ramallah), un pastore ha riferito che un veicolo, verosimilmente guidato da coloni, aveva investito ed ucciso due delle sue pecore. Secondo quanto riferito, a Gerusalemme Est, autori ritenuti coloni israeliani avrebbero danneggiato una telecamera di sorveglianza e una serratura nella chiesa ortodossa rumena.

Secondo fonti israeliane, due israeliani, una ragazza di 14 anni e una donna, in viaggio sulle strade della Cisgiordania, sono stati feriti da autori ritenuti palestinesi. A quanto riferito, trenta veicoli israeliani sono stati danneggiati, prevalentemente colpiti da pietre.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 16 febbraio, nella Comunità beduina di Humsa – Al Bqai’a, nella valle del Giordano settentrionale, le forze israeliane hanno confiscato cinque tende di sostentamento finanziate da donatori [correlato ad altri eventi descritti nel 6° paragrafo di questo Rapporto].




Rapporto OCHA del periodo 22 dicembre 2020 – 4 gennaio 2021

Il 26 dicembre, in seguito al lancio di due razzi, da Gaza verso Israele, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei sulla città di Gaza, provocando il ferimento di tre palestinesi, tra cui una bambina di sei anni, e significativi danni a strutture civili adiacenti.

Secondo fonti ufficiali israeliane, gli attacchi aerei avevano come obiettivi una struttura sotterranea ed un sito utilizzati per la fabbricazione di razzi. Le strutture civili danneggiate includono due scuole, due manifatture, un ospedale, una moschea, tralicci per l’energia elettrica ed una conduttura per l’acqua; i danni a quest’ultima hanno interrotto l’approvvigionamento idrico a 250.000 persone circa. I razzi palestinesi erano stati intercettati in aria e non avevano provocato ferimenti di israeliani, né danni. Da metà agosto scorso, questo è il primo scontro con feriti e danni materiali importanti.

Nelle aree [di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale e in zone di mare al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 45 occasioni. In un episodio separato, accaduto al largo della costa di Rafah, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una imbarcazione palestinese, arrestando tre pescatori. Nessuno di questi episodi ha provocato feriti. In queste aree, di solito, le sparatorie si svolgono per imporre restrizioni di accesso.

Il 1° gennaio, un palestinese di 24 anni è stato colpito al collo da un proiettile sparato da un soldato israeliano e, al momento, è paralizzato; egli aveva cercato di impedire il sequestro di un generatore elettrico privo dell’autorizzazione richiesta da Israele. L’episodio è avvenuto ad Ar Rakeez: una delle 14 Comunità di pastori dell’area di Massafer Yatta (a sud di Hebron) i cui residenti sono a rischio di trasferimento forzato poiché l’area è stata designata da Israele come zona “chiusa” e destinata all’addestramento dei suoi militari.

In Cisgiordania, scontri scoppiati durante operazioni israeliane di ricerca-arresto, condotte nei pressi di due ospedali, hanno provocato il ferimento di due palestinesi, tra cui una donna incinta, e l’interruzione delle attività ospedaliere [seguono dettagli]. In un episodio verificatosi il 27 dicembre, nella città di Ramallah, due persone, che stavano nel cortile di un ospedale, sono state colpite da proiettili di gomma sparati dalle forze israeliane dall’esterno; è stata danneggiata anche un’ambulanza. Il 4 gennaio, nella città di Tulkarm, in un altro episodio, le cui circostanze rimangono poco chiare, le forze israeliane sono entrate in un ospedale ed hanno lanciato granate stordenti.

In Cisgiordania, in scontri con forze israeliane, sono rimasti feriti altri 89 palestinesi, compresi 16 minori [seguono dettagli]. Quarantasei feriti si sono avuti vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante le reiterate proteste contro le attività di insediamento colonico, tra cui la creazione di un nuovo insediamento avamposto [non autorizzato da Israele]. Altri 30 palestinesi sono rimasti feriti nella comunità di Al Karmel, nel sud di Hebron, durante la demolizione di una casa. Nella città di Nablus, Beituniya e Al Bireh a Ramallah, e nei Campi profughi di Aqbet Jaber (Gerico) e Ad Duheisheh (Betlemme), operazioni israeliane di ricerca-arresto hanno innescato scontri con palestinesi, 11 dei quali sono stati feriti. Degli 89 feriti, 65 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 13 sono stati colpiti da proiettili di gomma, sei sono stati aggrediti fisicamente e cinque sono stati colpiti con armi da fuoco.

Il 24 dicembre, nel villaggio di Tura (Jenin), forze israeliane hanno arrestato un palestinese sospettato dell’omicidio di una donna israeliana, il cui corpo era stato ritrovato il 20 dicembre, vicino all’insediamento di Tal Menashe. Secondo le autorità israeliane, l’uomo ha confessato di aver ucciso la donna per motivi nazionalistici. In relazione a questo episodio sono stati arrestati anche altri quattro palestinesi.

Il 3 gennaio, vicino al villaggio di Deir Nidham (Ramallah), una donna israeliana, che transitava in auto, è stata gravemente ferita da una pietra lanciata da un palestinese. Successivamente, le forze israeliane hanno condotto una serie di operazioni di ricerca nel villaggio, arrestando nove palestinesi, tra cui, secondo quanto riferito, il presunto aggressore. Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, in ulteriori episodi di lancio di pietre, tre israeliani sono rimasti feriti e 14 veicoli israeliani hanno subito danni.

A motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate trentaquattro strutture palestinesi provocando lo sfollamento di 22 persone e creando ripercussioni su oltre 170. Tutte le strutture prese di mira, tranne due, e tutti gli sfollamenti sono stati registrati in Area C, interessando 12 Comunità palestinesi. Le due strutture sopraccitate sono state demolite in Gerusalemme Est dagli stessi proprietari per evitare maggiori spese e multe.

In due episodi distinti, le forze israeliane hanno spianato con i bulldozer terreni agricoli e sradicato circa 850 alberi di proprietà palestinese, con la motivazione che la terra è dichiarata [da Israele] “terra di stato” [seguono dettagli]. Vicino al villaggio di Al Jab’a (Betlemme) sono stati rasi al suolo circa 1,5 ettari di terreno e sono stati sradicati 350 ulivi e 150 viti, minando i mezzi di sussistenza di almeno tre famiglie. Nella Comunità beduina di An Nuwei’ma Al Fauqa (Gerico), durante una demolizione, le forze israeliane hanno sradicato 350 ulivi.

In diversi episodi, palestinesi sono stati colpiti da pietre o attaccati in altro modo da aggressori ritenuti coloni israeliani. In due episodi distinti, avvenuti a Gerusalemme Est e Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), un ragazzo e un uomo sono stati aggrediti fisicamente e feriti. Nei villaggi di At Tuwani (Hebron), Huwwara e Jalud (Nablus) e Kifl Haris e Sarta (Salfit), coloni hanno lanciato pietre e danneggiato veicoli, case e ulivi; nell’ultima di tali località gli aggressori hanno lanciato una granata assordante all’interno di una casa, senza provocare feriti. In tutta la Cisgiordania sono stati registrati decine di casi di lancio di pietre contro auto palestinesi; in tre degli episodi sono stati danneggiati veicoli. A quanto riferito, alcuni di questi episodi si sono verificati durante proteste di coloni per la morte di un ragazzo israeliano in un incidente d’auto: l’auto si era schiantata mentre era inseguita dalla polizia israeliana [che sospettava che gli occupanti avessero lanciato pietre contro auto palestinesi]. Alcune di queste proteste hanno comportato scontri tra coloni e polizia israeliana.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 5 gennaio, vicino all’incrocio di Gush Etzion (Hebron), il coordinatore della sicurezza di un insediamento israeliano ha sparato, uccidendo un palestinese che, secondo quanto riportato da media, aveva tentato una aggressione con coltello.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Israele e il “trasferimento silenzioso” dei palestinesi fuori dalla Palestina

Ibrahim Husseini

27 settembre 2020 – Al Jazeera

Conferendo un precario status di residenza a Gerusalemme Est, Israele è riuscito a revocare e successivamente sradicare più di 14.200 palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Mentre un numero sempre maggiore di Paesi arabi normalizza le relazioni con Israele, si procede con una politica di “trasferimento silenzioso” – un intricato sistema che prende di mira i palestinesi nella Gerusalemme est occupata con revoca della residenza, espulsione attraverso la demolizione di case, ostacoli per ottenere licenze edilizie e tasse elevate.

Il ricercatore palestinese Manosur Manasra segnala che Israele ha iniziato questa politica ostile di trasferimento dei palestinesi da Gerusalemme est quasi immediatamente dopo la guerra del 1967 e la successiva occupazione della parte orientale della città.

Questa politica continua ancora oggi, con l’obiettivo di prendere il controllo di Gerusalemme Est.

L’espropriazione di terra per permettere l’insediamento di ebrei è avvenuta sin dal 1968 intorno a Gerusalemme est e nel cuore dei quartieri palestinesi quali i quartieri musulmani e cristiani della città vecchia e oltre, a Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amoud e Abu Tur.

Dopo la guerra del giugno 1967, Israele ha applicato la legge israeliana a Gerusalemme Est e ha concesso ai palestinesi uno status di “residente permanente”, che però è in realtà precario. B’tselem, il centro israeliano di informazione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, descrive questo status come “accordato a cittadini stranieri che desiderano risiedere in Israele” – senonché i palestinesi sono nativi del territorio.

I palestinesi di Gerusalemme est non hanno automaticamente diritto alla cittadinanza israeliana né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rilascia passaporti palestinesi. Di solito possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Assegnando ai palestinesi di Gerusalemme est un precario status di residenza, Israele è riuscito dal 1967 a revocare e successivamente sradicare da Gerusalemme est più di 14.200 palestinesi.

Queste misure sono unite ad una aggressiva pratica di demolizione di case. Le demolizioni di case in Cisgiordania non si sono fermate nonostante la pandemia di coronavirus.

Secondo le Nazioni Unite, il numero degli sfrattati è quasi quadruplicato da gennaio ad agosto 2020 e c’è stato un aumento del 55% delle strutture oggetto di demolizione o confisca rispetto all’anno precedente.

Il mese scorso a Gerusalemme Est sono stati demoliti 24 edifici, metà dei quali dagli stessi proprietari a seguito dell’emissione di un ordine di demolizione da parte del comune di Gerusalemme.

Lo status di “residenza permanente” si mantiene fino a che i palestinesi rimangono fisicamente in città. Tuttavia, in alcuni casi, le autorità israeliane decidono di ritirare lo status di residenza ai palestinesi di Gerusalemme est come provvedimento punitivo perché sono dissidenti politici. La persecuzione da parte di Israele degli attivisti palestinesi è tentacolare e non esclude alcuna fazione.

Il caso più recente è quello del 35enne Salah Hammouri, avvocato e attivista. Arye Deri, ministro degli Interni israeliano, afferma che Salah è membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Israele ha messo fuori legge il gruppo e vuole cacciarlo dal Paese.

In alcuni casi, le autorità israeliane annullano per rappresaglia i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici. Shadi Mtoor, un membro di Fatah a Gerusalemme Est, sta attualmente combattendo una causa nei tribunali israeliani per mantenere a Gerusalemme Est la residenza di sua moglie, originaria della Cisgiordania.

Nel 2010, Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di quattro alti membri di Hamas – tre dei quali sono stati eletti al parlamento palestinese nel 2006 e uno è stato ministro di gabinetto – perché rappresentano un pericolo per lo Stato. Tre ora vivono a Ramallah e uno è in detenzione amministrativa [cioè senza imputazione, ndtr.]. Il 26 ottobre è prevista un’udienza presso l’Alta Corte israeliana.

In alcuni casi, Israele non rilascia il documento di residenza a bambini il cui padre sia di Gerusalemme e la madre cisgiordana.

Il diritto internazionale condanna esplicitamente il trasferimento forzato di civili.

“In definitiva, la nostra decisione è di rimanere in questa città”, dice Hammouri.

All’inizio di settembre è stato convocato dalla polizia israeliana e informato dell’intenzione del Ministero degli Interni israeliano di revocare la sua residenza a Gerusalemme.

“Mi è stato detto che costituisco un pericolo per lo Stato e che appartengo al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha detto Hammouri.

Cittadino francese, Hammouri è nato a Gerusalemme da padre palestinese e madre francese. Nel 2017, la famiglia si è divisa quando Israele ha vietato a sua moglie, Elsa, anche lei di nazionalità francese e all’epoca incinta, di entrare nel Paese. Si disse che fosse a causa di un file segreto in possesso di Israele.

Hammouri si aspetta che, dopo la revoca formale della sua residenza, Israele lo espellerà verso la Francia. Il governo francese, in risposta, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo a Israele di consentire ad Hammouri di continuare a risiedere a Gerusalemme.

E afferma: “Il signor Salah Hammouri deve poter condurre una vita normale a Gerusalemme, dove è nato e dove risiede”.

Il Ministero degli Esteri israeliano sostiene che Hammouri è “un agente operativo di alto livello” di un’organizzazione terroristica e continua a impegnarsi in “attività ostili” contro lo Stato di Israele.

È ora in corso in Francia una campagna di solidarietà che invoca il diritto di Hammouri di mantenere la sua residenza a Gerusalemme, e i diplomatici francesi a Gerusalemme stanno attualmente negoziando con i funzionari israeliani per convincerli a revocare la decisione. Hammouri intende ricorrere in tribunale contro la revoca della sua residenza.

Hammouri ha trascorso in tempi diversi più di otto anni nelle carceri israeliane. Nel 2011, dopo una condanna a sette anni di reclusione, è stato liberato grazie ad un accordo per lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (noto come accordo Shalit [dal nome di un soldato israeliano rimasto per 5 anni prigioniero a Gaza e scambiato con più di 1.000 detenuti palestinesi, ndtr.]).

Sahar Francis, direttore della Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione per il Sostegno e i Diritti Umani dei Prigionieri, ndtr.] nota come Addameer, ha detto ad Al Jazeera: “Secondo il diritto internazionale la revoca della residenza è illegale “.

Lo Stato di occupazione non ha il diritto di togliere la residenza alle persone, protette ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Si chiama trasferimento forzato, e il trasferimento forzato è proibito”, ha detto Francis.

Il FPLP si è inizialmente opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma poi è arrivato ad accettare la soluzione dei due Stati. Tuttavia nel 2010 ha invitato l’OLP a porre fine ai negoziati con Israele e ha affermato che è possibile solo la soluzione di uno Stato unico per palestinesi ed ebrei.

“Vedo un orizzonte molto buio”, dice Khaled Abu Arafeh, 59 anni, ex Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“Israele farà fruttare i recenti sviluppi locali e regionali della normalizzazione e il risultato sarà l’espulsione degli abitanti della Cisgiordania e la riformulazione dello status dei palestinesi del 1948”, aggiunge.

Abu Arafeh è stato Ministro per le Questioni di Gerusalemme tra marzo 2006 e marzo 2007 nel governo di Ismail Haniyeh, formato dopo che Hamas ha ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni parlamentari del 2006.

Due mesi dopo la formazione del governo palestinese, la polizia israeliana ha notificato a tre membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e al ministro del governo Abu Arafeh, tutti di Gerusalemme, che avevano 30 giorni per lasciare il loro incarico o il loro status di residenti sarebbe stato revocato.

La minaccia della polizia israeliana è stata respinta e i quattro sono ricorsi in tribunale per contestare l’ultimatum del ministero dell’Interno.

Il 29 giugno 2006, la polizia israeliana ha condotto un’ampia campagna di arresti che ha preso di mira 45 membri neoeletti del PLC e 10 ministri del governo. I membri del PLC di Gerusalemme Muhammad Abu Teir, Muhammad Totah, Ahmad Atoun e Abu Arafeh erano tra gli arrestati. Israele li ha accusati di appartenere alla lista “Riforma e Cambiamento”, affiliata al movimento islamico Hamas.

Abu Arafeh è stato condannato a 27 mesi di prigione ed è stato rilasciato nel settembre 2008. Abu Teir e Totah sono stati condannati a pene più lunghe e sono stati rilasciati solo a maggio 2010.

Il 1 giugno 2010, la polizia israeliana ha di nuovo convocato i quattro. Questa volta è stato ordinato loro di consegnare i loro documenti di identità di Gerusalemme e gli è stato concesso un mese per lasciare Israele.

Proprio quando il termine stava per scadere, la polizia israeliana ha arrestato Abu Teir.

Abu Arafeh, Atoun e Totah, presentendo un imminente arresto, si sono rifugiati nell’edificio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La loro permanenza è durata 19 mesi, e vivevano in una tenda all’interno dei locali. La polizia israeliana ha infine preso d’assalto l’edificio e arrestato i tre uomini.

Sono stati accusati di appartenere a un “gruppo terroristico” e di ricoprire ruoli importanti nel movimento di Hamas, nonché di istigazione contro lo Stato di Israele. Sono stati condannati a due anni di carcere. Dopo il loro rilascio, si sono stabiliti a Ramallah.

“Lontano da al-Quds [Gerusalemme per i musulmani, ndtr.], mi sento tagliato fuori, assolutamente un estraneo”, ha lamentato Abu Arafeh.

La famiglia di Abu Arafeh continua a risiedere a Gerusalemme est. “Vivo a Ramallah e loro vivono ad al-Quds”, ha detto Abu Arafeh ad Al Jazeera. “Mi vengono a trovare ogni fine settimana e poi tornano a casa.”

Atoun è attualmente in detenzione amministrativa, la sua quarta dal 2014.

Nel 2018, l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la decisione del Ministero degli Interni di revocare lo status di residente era illegale in quanto non c’erano leggi a sostegno. Tuttavia, ha dato al ministro degli Interni sei mesi per presentare una legge alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. La Knesset ha approvato una legge che consente la revoca della residenza a individui ritenuti non fedeli allo Stato di Israele.

Fino ad oggi i quattro palestinesi non hanno documenti d’identità che permettano loro di attraversare i posti di blocco israeliani all’interno della Cisgiordania. L’unico documento che hanno potuto ottenere è stata la patente di guida dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma solo dopo l’approvazione da parte dell’esercito israeliano.

Poiché non hanno documenti d’identità, raramente si avventurano fuori Ramallah per paura di essere fermati e arrestati a un posto di blocco israeliano.

I quattro si sono appellati alle leggi dell’Alta Corte e hanno chiesto a Israele di fornire loro una residenza alternativa che consenta loro di vivere legalmente in Cisgiordania. Per il 26 ottobre è prevista un’udienza in tribunale, ma Abu Arafeh non si aspetta una sentenza.

Non ci aspettiamo una decisione; l’autorità di occupazione sta usando il tempo contro di noi”, ha detto.

Una donna palestinese ventiquattrenne, che ha chiesto di essere identificata come JA, è nata nella città di Betlemme in Cisgiordania. Suo padre è di Gerusalemme Est e possiede un documento di identità di Gerusalemme. Ma sua madre è di Betlemme e possiede una carta d’identità rilasciata dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il Ministero degli Interni israeliano ha respinto tutte le domande di rilascio di una carta d’identità a JA perché è nata in Cisgiordania. Peraltro, l’ANP non le ha rilasciato una carta d’identità perché suo padre ha un documento d’identità di Gerusalemme.

Quindi attualmente JA non ha alcun documento. Questa situazione le ha causato infiniti problemi nell’iscrizione a scuola, nella ricerca di un impiego, nell’apertura di un conto in banca e in altre necessità ordinarie. Non ha mai viaggiato.

JA sta ora intentando una causa contro il Ministero degli Interni israeliano nel tentativo di ottenere una residenza legale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)