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Furto di terre e deportazioni: ecco cosa prevede per il dopo annessione un importante avvocato israeliano

Meron Rapoport

20 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua intervista con MEE, Michael Sfard dice che a Israele si è presentata l’occasione del secolo di annettere la Cisgiordania

A quasi 53 anni dall’occupazione della Cisgiordania, Israele è più vicina che mai ad annettere parti del territorio palestinese.

L’articolo 39 del patto di coalizione firmato dal primo ministro Benjamin Netanyahu del Likud e Benny Gantz di Blu e Bianco permette al premier, in accordo con la Casa Bianca, di proporre alla discussione nel governo un disegno di legge per mettere in pratica la sovranità di Israele e per l’approvazione in parlamento entro il primo luglio.

Dato che nella Knesset, il parlamento israeliano, c’è una chiara maggioranza per l’”applicazione della sovranità”, la nuova parola che si usa per ‘annessione’, in teoria, tra appena due mesi e mezzo, Israele potrà annettere parti della Cisgiordania – indubbiamente la mossa più significativa da quando l’ha occupata nel 1967.

Il governo insediatosi domenica metterà l’annessione come primo punto all’ordine del giorno.

Questo “in teoria”, perché con il passar del tempo dalla firma dell’accordo, la pressione su Israele sta salendo.

Solo venerdì Josep Borrrell, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, ha detto che l’UE userà “tutte le sue capacità diplomatiche ” per fermare l’annessione e il re di Giordania Abdullah ha previsto un “gravissimo conflitto” se si procedesse all’annessione.

Persino l’amministrazione Trump sembra meno entusiasta che alcune settimane fa. L’annessione dovrebbe far “parte di negoziati fra israeliani e palestinesi”, ha detto Morgan Ortagus, portavoce di Mike Pompeo, dopo la visita in Israele del Segretario di Stato della scorsa settimana.

Sebbene nelle ultime elezioni la sinistra israeliana sia stata pesantemente sconfitta, all’interno del Paese c’è ancora opposizione. Una figura prominente è Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in leggi sulla difesa dei diritti umani, consulente legale per organizzazioni di diritti umani in Israele e autore de The Wall and the Gate: Israel, Palestine, and the Legal Battle for Human Rights, [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia legale per i diritti umani ndtr.].

In un’intervista della scorsa settimana Sfard ha messo in guardia contro le disastrose conseguenze per i palestinesi residenti nei territori annessi e per le loro proprietà. Eppure, allo stesso tempo, sostiene che, se l’annessione venisse fermata adesso, scomparirebbe dal dibattito “per cent’anni”.

Middle East Eye: Si è spesso sostenuto, persino da parte dei palestinesi, che sostanzialmente l’annessione sia già avvenuta e quindi un atto formale non farebbe una grande differenza.

Michael Sfard: Questo è un errore molto comune e rivela scarsa comprensione del significato per i singoli individui e per le comunità palestinesi e di quanto profondamente inciderà sulle loro vite e i loro diritti. Quasi sicuramente vorrà dire “nazionalizzazione” della maggior parte del territorio. Grandi porzioni di terra di proprietà di palestinesi che non vivono sul territorio saranno considerate come ‘proprietà di assenti ’.

MEE: Può spiegare meglio?

MS: La Absentee Property Act, la legge sulla proprietà degli assenti del 1950 permette di impossessarsi di proprietà di rifugiati palestinesi che se ne andarono, fuggirono o vennero deportati da ciò che nel 1948 diventò Israele. La legge definisce ‘assente’ un individuo che risiede in un “territorio nemico” o in “qualsiasi parte della Palestina Mandataria che non sia lo Stato di Israele”.

Nel 1967, quando Israele ha applicato questa legge a Gerusalemme Est, molti abitanti della Cisgiordania che avevano là delle proprietà furono definiti ‘assenti’, sebbene non avessero fatto nulla per diventarlo, non se ne erano andati. È una condizione fittizia, ma legale.

MEE: Cosa le fa pensare che ora useranno questa legge?

MS: Per molto tempo [il governo israeliano] non l’ha applicata a Gerusalemme Est, ma negli ultimi 20 anni lo sta facendo. La lobby dei coloni ha persuaso il Procuratore generale a fare eccezioni che sono state approvate dalla Corte Suprema di Israele. Sappiamo per esperienza che ogni eccezione diventa una regola, e quindi c’è l’enorme pericolo che gran parte del territorio venga dichiarato ‘proprietà di assenti’.

Un altro meccanismo con cui Israele esproprierà terre è la confisca per pubblica utilità. In ogni Paese ci sono delle leggi simili, per costruire strade, ecc.

MEE: Al momento ciò non è possibile in Cisgiordania?

MS: Ora no, secondo le leggi dell’occupazione e i principi applicati in questi anni dalla Corte suprema di Israele e dal Ministro della giustizia. Questa è la ragione per cui Israele ha usato ogni stratagemma giuridico, come dichiararle terre pubbliche. Ma una volta che un territorio è annesso, allora il “pubblico” sono gli israeliani e si può espropriare nel loro interesse. È chiaro che è questo che sarà fatto. Ecco il motivo per cui Israele sta annettendo questi territori.

MEE: É questa la ragione? Non è un gesto simbolico e politico?

MS: Naturalmente c’è un aspetto simbolico e di orgoglio nazionale, ma senza impadronirsi delle terre, l’annessione non soddisferebbe le fantasie annessioniste. Già ora i coloni nei loro insediamenti si sentono parte di Israele. L’unica restrizione è lo sviluppo, il fatto che ci sono molte terre agricole intorno ad essi sulle quali è difficile per loro espandersi.

MEE: Quindi il motivo principale è impossessarsi di terre?

MS: Ne è decisamente l’aspetto principale. Il conflitto israelo-palestinese è sostanzialmente per il territorio, non è né religioso né culturale, è territoriale. L’annessione, senza impadronirsi delle terre, non è una vittoria.

Questa è la prima cosa. La seconda è che alcune, probabilmente molte, delle comunità palestinesi che saranno coinvolte dovranno fronteggiare il pericolo della deportazione forzata. Per 53 anni Israele ha avuto il controllo del registro della popolazione palestinese e la sua politica ha impedito ai palestinesi di cambiare l’indirizzo in certe zone, come quelle a sud del Monte Hebron, nella Valle del Giordano e nel cosiddetto ‘Jerusalem Envelope’.

Quindi ci sono molte comunità, la maggior parte piccole e deboli che, se controlli la carta d’identità rilasciata ai loro abitanti dall’amministrazione civile israeliana [l’autorità militare che controlla i territori occupati ndtr.], sono registrate altrove in Cisgiordania. Dopo l’annessione diventeranno stranieri illegali in Israele e a rischio di deportazione. Naturalmente non avverrà il giorno dopo, ma alla lunga questo sarà il loro destino.

MEE: Lei è uno di quelli che da molto tempo ha sostenuto che quello che Israele sta facendo in Cisgiordania sia un tipo di apartheid. L’annessione non la aiuterà a convincere la comunità internazionale che è così? 

MS: L’accusa di apartheid è stata mossa a Israele da molti anni, espressa dagli attivisti dei diritti umani più radicali e politicamente periferici. L’annessione sposterà questo modo di pensare in un campo politico più convenzionale. Se Israele in passato ha sostenuto che non vuole governare i palestinesi e che la situazione presente è temporanea, l’annessione significherà perpetuare il dominio sui palestinesi e la loro oppressione, una situazione che si penserà che sia definitiva. 

MEE: Quindi non aiuterà persone come lei?

MS: Sicuramente rafforzerà questo argomento, ma non voglio barattare la forza del mio ragionamento in cambio dell’occupazione dei territori e della deportazione dei palestinesi. La gente che pensa che questo sia uno sviluppo positivo perché genererà un’opposizione più forte contro le politiche israeliane non valuta o non capisce appieno le conseguenze enormi dell’annessione e probabilmente sopravvaluta l’opposizione internazionale. Israele è uno Stato molto potente e più volte ci sono state cose commesse da Israele che si pensava che la comunità internazionale non avrebbe perdonato – ma l’ha fatto.

MEE: Cosa potrebbe fermare Israele? 

MS: Ci sono tre campi in Israele che voteranno a favore. Uno è quello ideologico, niente cambierà il suo punto di vista. Il secondo lo farà per motivi politici interni. Per loro i costi superano i benefici, potrebbero opporre resistenza. Fra i costi ci sarebbero la sicurezza, costi economici e, più importante di tutti, il danno alla posizione di Israele all’interno della comunità internazionale.

Il terzo gruppo è Netanyahu stesso. Un uomo, una missione. I suoi interessi sono completamente diversi. Non penso che al momento siano ideologici. Il problema principale è la sua sopravvivenza e il ruolo che può giocare l’annessione.

C’è ancora una cosa. Si tratta probabilmente del passo più importante di Israele dalla sua dichiarazione di indipendenza, eppure, per la maggior parte, la decisione non avverrà a Gerusalemme, ma a Washington.

MEE: Molti centri di potere della sicurezza israeliana, al centro e persino a destra, vogliono fermarla per continuare con lo status quo dell’occupazione. Non si sente a disagio a trovarsi insieme a loro? 

MS: Lo chieda a loro, ma io penso che non capiscano che in Medio Oriente lo status quo non esiste. Se si ferma l’annessione, non torneremo alla situazione precedente. In realtà io penso che fermarla sarà il passo più importante per far avanzare una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Molti tasselli del puzzle vanno al loro posto, una situazione che la destra israeliana non avrebbe mai potuto sognarsi: un presidente alla Casa Bianca che non solo sostiene l’annessione, ma anzi ci spinge a farla, un’Europa molto debole, una maggioranza nel parlamento israeliano, l’opinione pubblica israeliana che negli ultimi vent’anni ha virato costantemente a destra e i palestinesi più deboli che mai.

Lo dicono le stelle. Se, in questa situazione che sembra perfetta, si previene l’annessione significherà che i confini di una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese saranno ridefiniti. Se oggi non potessimo annettere, allora probabilmente non succederà nei prossimi cent’anni.

Questo creerà un’enorme frattura nel campo degli annessionisti. Hanno aspettato 2000 anni, il messia è arrivato, si è fermato alla nostra porta, ma non l’ha aperta e se n’è andato.

MEE: Quindi lei è ottimista?

MS: Non sono sicuro che scommetterei che non succeda. Ma credo che ci sia un percorso ragionevole per far sì che non accada e la comunità internazionale gioca un ruolo primario. Il nostro compito è la mobilitazione di quelle forze che lo impediranno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Se si propagasse la pandemia, i villaggi beduini non riconosciuti potrebbero ‘diventare come il nord Italia’

Oren Ziv

29 marzo 2020 – +972 Magazine

Privati dei servizi essenziali, i villaggi non riconosciuti del Naqab non sono in grado di affrontare il coronavirus – e il governo israeliano non interviene.

Abitanti e attivisti affermano che i villaggi beduini non riconosciuti nel Naqab / Negev nel sud di Israele  si trovano ad affrontare una crisi in conseguenza della pandemia da coronavirus. Per la mancanza di infrastrutture e servizi sanitari, le comunità non sono in grado di seguire le linee guida stabilite dal Ministero della Salute israeliano.

Attiah al-Aasem, presidente del Consiglio Regionale dei Villaggi Non Riconosciuti del Naqab, avverte che “il coronavirus aggraverà i problemi quotidiani nei villaggi”. In assenza di servizi come acqua, fognature e raccolta dei rifiuti, aggiunge al-Aasem, gli abitanti devono fare del loro meglio per prendersi cura di se stessi.

“Il Naqab potrebbe diventare come il nord Italia”, afferma Salame Alatrash, capo del Consiglio Regionale di Al-Kasom.

Qui le persone vivono in condizioni di grande affollamento. Una baracca di 50 metri può ospitare da sette a dodici persone”, afferma. “Il governo è a conoscenza del grave affollamento e della mancanza di infrastrutture. E cosa hanno fatto in tutti questi anni? Noi li abbiamo avvertiti che ciò avrebbe portato al disastro.”

“Un abitante di un villaggio non riconosciuto afferma che non ci sono stati provvedimenti e che non sono disponibili dispositivi di protezione individuale. “Siamo consapevoli [della situazione], ma come ci proteggeremo?” dice. “Abbiamo paura, ma abbiamo la necessità di recarci al supermercato.”

‘Stiamo vivendo nella paura e nel panico’

Nei 37 villaggi non riconosciuti del Naqab vivono circa 150.000 persone. A causa del pluridecennale rifiuto del governo israeliano di concedere loro lo status legale, questi villaggi si vedono negati i servizi essenziali come l’acqua, un sistema fognario o la raccolta dei rifiuti, e sono in continua lotta per resistere alle demolizioni di case e ai trasferimenti forzati. Il loro relativo isolamento dai centri urbani ha contribuito, per il momento, a tenere a bada la pandemia, ma gli abitanti temono che una volta arrivato il virus la mancanza di infrastrutture possa provocare un’epidemia di massa.

“Questa crisi sta evidenziando una realtà che in tempi normali passa inosservata”, afferma Sari Arraf, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Adalah. “Sta mettendo in evidenza la disuguaglianza che devono affrontare i villaggi non riconosciuti. Se fossero state soddisfatte le richieste che avevamo fatto di collegare i villaggi alle infrastrutture essenziali, non ci troveremmo in una situazione che sta mettendo in pericolo non solo gli abitanti dei villaggi non riconosciuti, ma anche l’intera popolazione del Naqab.”

“Viviamo nella paura e nel panico”, afferma Aziz Abu Mdeghem, abitante di Al-Araqib, che le autorità israeliane hanno demolito 175 volte negli ultimi 10 anni. “Non abbiamo modo di proteggerci dal coronavirus. Non possiamo conservare il cibo e non c’è nessun posto nelle vicinanze dove possiamo lavarci le mani regolarmente, perché non c’è acqua corrente”.

Gli abitanti hanno paura di lasciare il villaggio per procurarsi il cibo e temono il giorno in cui uno dei loro vicini potrebbe essere costretto ad autoisolarsi, perché il villaggio non è in grado di consentire un simile distanziamento.

Alatrash, il capo del consiglio di Al-Kasom, ha segnalato la stessa preoccupazione al Ministero della Sanità, chiedendo diverse settimane fa il permesso di trasformare le scuole del suo distretto in centri di isolamento. Sta ancora aspettando di ricevere il consenso.

Mentre Al-Araqib non ha acqua corrente, altri villaggi non riconosciuti sono in grado di utilizzare punti di approvvigionamento idrico isolati a pagamento installati dalla compagnia idrica nazionale israeliana. Questi punti di accesso possono trovarsi a chilometri di distanza dai villaggi e non forniscono acqua a sufficienza per le comunità.

“I villaggi ricevono la quantità minima di acqua al massimo costo”, afferma Arraf. Il prezzo si basa su due tariffe: il volume della fornitura e l’entità del surplus del consumo oltre la fornitura. Gli utenti abituali dell’acqua pagano per una determinata quantità, al di sopra della quale pagano un extra. I beduini residenti “pagano il doppio fin dalla prima goccia d’acqua, il che rende costoso rispettare le linee guida del Ministero della Salute. È assurdo “, aggiunge Arraf. Inoltre, poiché gli abitanti hanno dovuto costruire le proprie reti idriche utilizzando lunghe tubazioni non interrate all’interno dei loro villaggi, spesso sorgono problemi di pressione e qualità dell’acqua.

La mancanza di infrastrutture fa sì che, anche in tempi normali, le ambulanze non possano raggiungere i villaggi a causa dell’assenza di strade asfaltate. Non è quindi chiaro come potrebbe arrivare l’assistenza medica se le vittime del coronavirus richiedessero un’evacuazione urgente.

“Qui siamo tutti in crisi”, afferma Alatrash. “Questa non è una situazione normale e non c’è distinzione tra ebrei e arabi: dobbiamo lavorare insieme”.

Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni’

Le misure del governo israeliano per combattere la pandemia potrebbero avere gravi conseguenze economiche per molti dei villaggi non riconosciuti. “Ci sono migliaia di beduini che sono lavoratori temporanei e guadagnano 150-200 shekel [38-51 euro, ndtr.] al giorno nell’agricoltura, nei ristoranti, hotel e lavando le automobili”, afferma Alatrash. “Non hanno diritto alla disoccupazione e se questa crisi persiste, avranno bisogno di un sostegno che non possiamo fornire”.

Nel frattempo, fino a lunedì scorso, nonostante lo stato di emergenza, le autorità israeliane stavano ancora effettuando demolizioni di case e distruggendo i raccolti appartenenti a villaggi beduini non riconosciuti. La preoccupazione principale degli abitanti di Al-Araqib rimane il rischio di perdere la casa, anche se dall’inizio dell’epidemia le autorità, diversamente dal solito andamento settimanale, hanno demolito le loro baracche solo una volta. “Le demolizioni delle case sono il nostro coronavirus”, afferma Abu Mdeghem.

Domenica scorsa, gli urbanisti e gli ispettori del ministero delle finanze sono arrivati nel villaggio di Rahma e hanno distribuito avvisi di demolizione per gli edifici che erano stati ristrutturati dopo essere stati danneggiati da inondazioni due settimane prima. Gli abitanti hanno rilevato che i funzionari sono arrivati senza dispositivi di protezione individuale e sono entrati nelle loro case in gruppi di otto persone, senza mantenere alcuna distanza tra loro.

“Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni contro i beduini”, dice al-Aasam. “Questo è ciò di cui lo Stato si preoccupa: di qualcuno che stia piazzando una lamiera o stia martellando su un chiodo. La distribuzione degli ordini [di demolizione] è una scusa: vogliono sfruttare l’opportunità di danneggiare le persone, che ora non hanno il tempo per costruire perché sono impegnate a preoccuparsi del coronavirus”.

Le visite degli ispettori rischiano di mettere in pericolo gli abitanti, aggiunge al-Aasem. “Qualcuno di loro potrebbe avere il virus, dal momento che si è diffuso in tutto il Paese.”

In seguito alla visita degli ispettori, un certo numero di organizzazioni per i diritti ha fatto un appello al governo affinché interrompa tutte le attività di demolizione contro le case e le terre dei villaggi non riconosciuti, soprattutto nel corso della pandemia, sottolineando che tali operazioni mettono a repentaglio non solo la salute degli abitanti dei villaggi, ma anche i tentativi di contrastare l’epidemia da coronavirus. Devono ancora ricevere una risposta.

Tuttavia, nonostante la persistenza delle operazioni di demolizione ci sono segnali che il governo stia iniziando a modificare i suoi interventi nei villaggi non riconosciuti, nella consapevolezza della potenziale catastrofe. Il 22 marzo, per la prima volta dall’istituzione dell’Autorità per lo Sviluppo e l’Insediamento dei Beduini nel Negev (chiamata di solito “Autorità Beduina”), il ministero dell’Agricoltura ha deciso che l’organismo avrebbe gestito, in cooperazione con vari ministeri, aiuti governativi per i villaggi non riconosciuti.

Normalmente l’Autorità Beduina è responsabile della cosiddetta “regolarizzazione” dei villaggi non riconosciuti e svolge attività di applicazione della legge, demolizioni e sfratti. Nei giorni scorsi, tuttavia, l’ente ha inviato dei dipendenti a distribuire materiale in lingua araba su come affrontare la pandemia. Secondo l’Autorità, il suo personale avrebbe avuto il compito di identificare i bisogni della popolazione beduina.

Il responsabile dell’Autorità Beduina, Yair Maayan, ha riferito a Local Call [sito di notizie israeliano, versione in ebraico di +972, ndtr.] che sono state congelate tutte le attività, comprese le demolizioni, e che “tutti i dipendenti stanno lavorando con la popolazione per cercare di prevenire la malattia”. Con una mossa del tutto inusuale, Maayan ha scritto al Ministero delle Finanze, dopo che i suoi ispettori avevano distribuito avvisi di demolizione in uno dei villaggi, chiedendo loro di interrompere tutti questi interventi. Invece di effettuare demolizioni e sfratti, ha scritto, il dipartimento dovrebbe “concentrarsi sulla sensibilizzazione e sulla riduzione delle infezioni da coronavirus”.

Tuttavia, Haia Noach, direttrice esecutiva del Negev Coexistence Forum – una delle organizzazioni che ha chiesto allo Stato di fermare le demolizioni – afferma che, mentre l’Autorità Beduina è competente sulle demolizioni, non è competente in merito alla salute pubblica. “Lasciare che queste persone [nell’Autorità] affrontino la situazione, – sostiene – significa abbandonare la comunità”.

Interruzione massiccia dell’istruzione

All’inizio della crisi le scuole israeliane sono state chiuse e il Ministero dell’Educazione ha creato dei programmi online nazionali per l’apprendimento a domicilio da parte degli studenti. Ma il progetto, chiaramente, non ha tenuto conto della popolazione di lingua araba, afferma il dott. Sharaf Hassan, che dirige un comitato di valutazione dell’educazione araba. “Non hanno pensato al divario tra ebrei e arabi. Circa un terzo degli studenti arabi non ha la tecnologia necessaria per accedere alle lezioni”.

Secondo Hassan circa la metà degli studenti arabo-palestinesi in Israele non partecipa all’apprendimento a distanza e metà vive al di sotto della soglia di povertà. Inoltre, aggiunge, non tutte le famiglie hanno accesso a un computer, per non parlare della disponibilità di corrente elettrica o di Internet.

Nel migliore dei casi, i bambini dei villaggi non riconosciuti devono lottare per accedere all’istruzione. Ora, tuttavia, il comitato per i villaggi non riconosciuti stima che circa il 70% degli studenti di queste comunità non partecipi all’apprendimento a distanza, a causa della mancanza di risorse.

“La mancanza di preparazione per una situazione di emergenza è dovuta a una discriminazione di lunga data”, afferma Hassan. Nel caso in cui l’apprendimento a distanza debba continuare per un lungo periodo, il governo deve garantire che gli studenti senza accesso a Internet possano comunque ricevere un’istruzione, fornendo loro router e computer.

Anche l’accesso alle informazioni sulla pandemia è stato un problema. “La gente ha impiegato un po’ di tempo per capire che la chiusura delle scuole non fosse dovuta a una vacanza”, afferma Huda Abu Obeid, attivista e abitante del Naqab. “Non c’erano abbastanza informazioni in arabo. Le stesse organizzazioni sanitarie, per un senso del dovere, hanno iniziato a distribuire le linee guida. È preoccupante.”

“Abbiamo bisogno di una task force che includa medici che conoscano la comunità e che fornisca delle soluzioni”, afferma Noach. “Lo Stato deve assumersi la sua responsabilità”.

Nel contempo al-Aasem propone una rapida fornitura di servizi essenziali, come un ambulatorio medico, anche se solo provvisorio. “Se riconoscessero i villaggi – afferma – e fornissero loro le infrastrutture essenziali, saremmo in grado di prevenire questo disastro”.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e cronista di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di problemi sociali e politici in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione verso le comunità di attivisti e le loro battaglie. La sua attività di reporter ha messo a fuoco le proteste popolari contro il muro e le colonie, l’edilizia popolare e altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e la discriminazione e le battaglie per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi non hanno altra scelta: restare e lottare

David Hearst

29 gennaio 2020 – Middle East Eye

Una nuova ondata di lotte deve ora iniziare per ottenere la parità dei diritti in uno Stato che comprenda tutta la Palestina storica

Per anni sulla strada dei piani messianici di Benjamin Netanyahu per stabilire lo Stato di Israele fra il fiume e il mare, c’è stata una trappola per elefanti.

Si tratta del dato demografico secondo il quale, in quello spazio, c’erano più palestinesi che ebrei. Secondo i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica (CBS) del 2016 forniti alla Commissione di Difesa e Affari Esteri della Knesset israeliana, fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’erano 6,5 milioni di mussulmani e 6,44 milioni di ebrei, anche se quei dati ora sono superati. La commissione si riferiva ai musulmani, non ai palestinesi, escludendo perciò i palestinesi cristiani.

Ciò significa che il piano di annessione di Netanyahu da solo non può funzionare. Le enormi infrastrutture di calcestruzzo con cui Israele ha cosparso di cemento la Cisgiordania che occupa – colonie, muri, strade e tunnel – e lo stato di apartheid imposto, crudele e totale più di quello messo in pratica in Sud Africa, sono tutti palliativi – medicine con cui ridurre il dolore di uno Stato a maggioranza ebrea, senza eliminarne la causa.

Un’altra Nakba

Si può annunciare quante volte si vuole, come ha fatto ieri Donald Trump, che Israele occuperà la valle del Giordano e quindi circa il 30% della Cisgiordania e imporre la legge israeliana sulle colonie, ma senza spostare fisicamente numeri sempre maggiori di palestinesi fuori da uno Stato di Israele ingrandito, poco cambia. L’annessione diventa solo un’altra forma di occupazione.

Perciò al centro della “visione” di pace di Trump e Netanyahu sta un trasferimento di popolazione, in massa, un’altra Nakba o Catastrofe.

Questa è una pace per modo di dire. È il silenzio che si sente nei villaggi palestinesi nel 1948, a Beit Hanoun nel 2014, quando nel nord di Gaza Israele ha bombardato una scuola dell’ONU affollata di centinaia di civili sfollati, uccidendone 15 e ferendone 200, o ad Aleppo est o a Mosul, dopo averle bombardate, una dopo l’altra, fino a ridurle in macerie. È la pace creata dalla totale e completa sconfitta della lotta dei palestinesi per costruire uno Stato sulla propria terra.

Il piano segreto

Per me quindi il centro della visione apocalittica non sta nei discorsi suprematisti di Trump o Netanyahu, in cui entrambi proclamano “missione compiuta”, e la vittoria totale del movimento sionista sui palestinesi. Sta invece in un paragrafo ben sepolto nelle 180 pagine del documento, il documento più dettagliato, si vanta Trump, mai prodotto prima su questo conflitto. Esattamente.

È il paragrafo che dice che lo scambio di terre fatto dagli israeliani potrebbe includere le ” aree popolate e non popolate “. Il documento è preciso sulla popolazione a cui si riferisce, è la popolazione palestinese del 1948 del cosiddetto triangolo settentrionale di Israele – Kafr Qara, Baqa-al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr Qasim, Tira, Kafr Bara e Jaljulia.

Il documento continua: “La Visione contempla la possibilità, soggetta all’accordo delle parti, che i confini di Israele vengano ridisegnati in modo che le comunità del Triangolo vengano a far parte dello Stato di Palestina. In questo accordo, i diritti civili degli abitanti delle comunità del Triangolo saranno assoggettate alle leggi, ove applicabili, e alle decisioni giudiziarie delle autorità competenti.”

Questa è la parte nascosta ma più pericolosa di questo piano. Il Triangolo ospita circa 350.000 palestinesi, tutti cittadini israeliani, abbarbicati sul confine nord-occidentale della Cisgiordania. Umm al-Fahm, la città principale, ha dato i natali ad alcuni dei più attivi difensori di Al Aqsa.

Yousef Jabareen, un membro della Knesset della Lista Araba Unita [formata da partiti arabi di Israele e terza forza nel parlamento israeliano, ndtr.] mi ha detto: “Umm al-Fahm è la mia città, Wadi Ara è la mia anima. Il Triangolo è la patria di centinaia di migliaia di cittadini arabo-palestinese che vivono sulla propria terra. Il programma di annessione e trasferimento di Trump e Netanyahu ci strappa dalla nostra patria e revoca la nostra cittadinanza; un danno esistenziale a tutti i cittadini della minoranza araba. Ora è il momento per gli ebrei e gli arabi che hanno a cuore democrazia e uguaglianza di schierarsi e lavorare insieme contro questo pericoloso piano.” 

‘Pulizia etnica’ ufficiale

Per anni i leader israeliani di centro o di destra hanno giocherellato con il “trasferimento statico” di queste popolazioni fuori da Israele. All’idea di uno scambio di popolazione e territori avevano alluso gli ex primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Ma è stato solo Avigdor Lieberman ad aver sposato la causa dell’espulsione dei palestinesi. 

Egli propugna di privare un numero ipotetico di 350.000 palestinesi del Triangolo della loro cittadinanza israeliana e costringere l’altro 20% della popolazione israeliana non ebrea a fare un “giuramento di lealtà” a Israele quale ” Stato Sionista Ebraico ” o affrontare l’espulsione in uno Stato palestinese.

Due anni fa Netanyahu aveva suggerito a Trump che Israele avrebbe dovuto liberarsi del Triangolo. Oggi questi piani di pulizia etnica sono stati suggellati in un documento ufficiale della Casa Bianca. 

Ayman Odeh, un membro palestinese della Knesset, ha twittato che l’annuncio di Trump dà “il semaforo verde alla revoca della cittadinanza a centinaia di migliaia di cittadini arabo- palestinesi che vivono nel nord di Israele”.

Sostegno a Trump

L’altro aspetto notevole dell’annuncio di martedì alla Casa Bianca è stata la presenza nell’uditorio degli ambasciatori degli Emirati, Bahrain e Oman. Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno accolto il piano senza riserve. Anche il Qatar lo ha fatto, sebbene abbia aggiunto che lo Stato palestinese dovrebbe essere negoziato con i confini del 1967 e i palestinesi dovrebbero mantenere il diritto al ritorno.

Trump ha detto di essere stato stupito dal numero di chiamate che ha ricevuto dai leader di tutto il mondo a sostegno del suo piano, incluso il Primo Ministro britannico, Boris Johnson.

Buttando al vento quattro decenni di politica estera britannica sulla soluzione dei due Stati, Johnson ha sostenuto il piano di Trump con tutto il peso del Regno Unito. Anche il ministro degli esteri Dominic Raab ha dato appoggio all’accordo “chiaramente una proposta seria che riflette i grandi sforzi e il lungo tempo richiesto.” ha detto.

“Non riesco a credere alle dimensioni del sostegno ricevuto stamattina.” si è vantato Trump. “Mi hanno chiamato dei leader, Boris [Johnson] ha chiamato; così tanti hanno chiamato. Tutti mi dicono ‘cosa possiamo fare per aiutare’”.

Ci sono alcuni comunque che si sono resi conto del pericolo di questo piano. Il Senatore Chris Murphy è uno di loro. Ha twittato: “L’annessione unilaterale della valle del fiume Giordano e delle colonie esistenti, dichiarata illegale dalle leggi USA e internazionali, riporta indietro di decenni il processo di pace. E pone un rischio reale di violenze e un’enorme destabilizzazione in luoghi come la Giordania.”

 A casa da soli

Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata storica della dichiarazione appena fatta. La soluzione dei due Stati o l’idea che uno Stato palestinese contiguo sia attuabile e possa essere creato a fianco di uno Stato a maggioranza ebraica è morta. Ed era morta ben prima degli accordi di Oslo. 

Ai sostenitori arabi come il re di Giordania Hussein venne detto sia dai sovietici, Yevgeny Primakov, che da James Baker, l’allora Segretario di Stato, che non si sarebbe mai ottenuto uno Stato palestinese indipendente. E questo ben prima della conferenza di Madrid che precedette Oslo. Il re non aveva bisogno di presenziare al funerale del suo amico Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995, per rendersene conto. Lo sapeva già. Ma adesso è veramente morto. 

Gli USA ora hanno dato il loro imprimatur ufficiale ai confini orientali dello Stato di Israele. La mappa (vedi map Middle East Eye published) dice tutto. Lo Stato palestinese immaginato dal piano sembra la TAC del cervello di una vittima dell’Alzheimer. Lo Stato palestinese è interamente divorato.

Il messaggio di questa mappa per i palestinesi di qualsiasi fazione è ora totalmente chiaro. Dimenticate le vostre divisioni, dimenticate cosa è successo tra Fatah e Hamas a Gaza nel 2007, accantonate pretese di colpi di stato e unitevi. Unitevi contro una minaccia esistenziale.

I palestinesi sono completamente soli. Tutti i punti fermi delle loro posizioni di negoziazione sono spariti. Non hanno Gerusalemme, niente diritto al ritorno, nessun rifugiato può ritornare, niente Alture di Golan e ora niente Valle del Giordano. Non hanno alleati arabi. La Siria è distrutta, l’Iraq diviso, Egitto e Arabia Saudita sono ora fantocci nelle mani di Israele. I palestinesi hanno perso il supporto della più popolosa e ricca Nazione araba.

Non hanno un posto dove fuggire. L’Europa è chiusa per ogni futura migrazione di massa. Hanno una sola alternativa: restare e lottare. Uniti possono annullare i piani israeliani suprematisti di pulizia etnica. L’hanno fatto in precedenza e lo possono fare di nuovo.

Una nuova lotta

Ora i palestinesi devono far fronte a questa situazione. Il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP nel 1993 è finalmente arrivato a fine corsa, come si poteva immaginare. Le leggi USA e internazionali e le risoluzioni ONU non sarebbero mai venute in loro soccorso e, ma solo in questo senso, il brutale piano di Trump ha fatto un favore ai palestinesi. Ha fugato fantasie durate decenni.

Quella che deve cominciare ora è una nuova ondata di lotte per l’uguaglianza dei diritti in uno Stato su tutto il territorio della Palestina storica. Questo comporterà una lotta enorme. Nessuno dovrebbe sottostimare cosa succederà se i palestinesi insorgeranno ancora una volta. Ma nessuno dovrebbe aver alcun dubbio sulle conseguenze dell’accettazione.

Questa è la prima volta dal 1948 che tutti i palestinesi possono unirsi per farlo. Devono cogliere questa opportunità o scomparire e diventare una nota a piè pagina della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le opinioni editoriali di Middle East Eye.




“Ci sposteranno, ma solo da morti”: scontro fra Israele e i beduini nel Negev

Jack Dodson

17 gennaio 2020 – Middle East Eye

Le autorità israeliane hanno intenzione di trasferire 36.000 beduini che vivono nella regione desertica per far posto a ebrei israeliani e progetti industriali e militari

Mohammad Danfiri, dal recinto delle pecore della sua famiglia beduina nel deserto del Negev, guarda verso i due ripetitori cellulari in cima alla collina vicina. Sono situati in uno spazio aperto fra il limitare tra il suo villaggio e un altro, un’area, spiega, dove sarà costruito un ampliamento della principale autostrada orientale di Israele.

Una fila di case sta a circa 60 metri dalle torri dove sono stati approvati i progetti per l’autostrada. Ma il governo israeliano sta procedendo con dei progetti per cacciare non solo i residenti più vicini alla strada progettata.

L’intera popolazione del villaggio, 5.000 persone e molte altre del circondario, verrà trasferita in unità abitative temporanee secondo il piano del governo, limitando seriamente la possibilità di allevare pecore e sviluppare l’agricoltura, le attività principali delle comunità beduine.

Danfiri è uno degli almeno 36.000 beduini del Negev israeliano che si trova ad affrontare l’espulsione (in arabo la Nakba, la catastrofe) a causa di vari progetti come l’ampliamento della superstrada.

Per mettere in pratica questi piani di sviluppo proposti da enti governativi, dall’esercito israeliano, da aziende private e da gruppi no-profit, l’Autorità israeliana per gli insediamenti beduini, l’ente governativo responsabile per la gestione dei rapporti tra beduini e Stato, mira a trasferire decine di migliaia di persone in alloggi temporanei.

I beduini chiamano questi alloggi provvisori “caravan”, perché sono casette mobili in cui gli israeliani intendono insediare intere famiglie. A ottobre, una commissione edilizia distrettuale israeliana ha cominciato a valutare se approvare questi piani di trasferimento.

I residenti che possono essere trasferiti vivono in villaggi che il governo ritiene “non riconosciuti”, sebbene la maggior parte sia vissuta su quei terreni o nelle vicinanze fin dalla fondazione del Paese nel 1948. Durante gli ultimi 50 anni, Israele ha cercato di spostare i beduini in comunità “riconosciute”, sostenendo ripetutamente che quelli delle aree non riconosciute non hanno diritti sulle terre.

I villaggi non riconosciuti non sono provvisti di infrastrutture o servizi governativi. Non ci sono mezzi di trasporto, strade, scuole e le autorità israeliane non riconoscono i leader locali né negoziano con loro.

Di conseguenza le comunità vivono una vita di sussistenza su una terra ostile. Molti allevano pecore per venderne la carne. Alcuni riescono a trovar lavoro in aziende israeliane nei dintorni.

‘Nessuna soluzione’

Danfiri, 47 anni, racconta di essere cresciuto nel villaggio dove l’unica fonte idrica era un pozzo che raccoglieva acqua piovana. Lui e i suoi amici tiravano su l’acqua e sua mamma usava il foulard per filtrare la sporcizia. I venerdì gli adulti attaccavano una televisione alla batteria di un’auto per guardare i cartoni animati e i film egiziani.

“Oggi i bambini hanno tutto” dice Danfiri, riferendosi ai pannelli solari che ora sono installati sopra molte case beduine. “Frigoriferi, internet, tutto è immediatamente disponibile.”

Danfiri dice che per proteggere lo stile di vita della comunità i beduini respingeranno i piani governativi di trasferimento. Nel caso dovessero assolutamente spostarsi, dice che rifiuteranno i “caravan” e staranno il più vicino possibile alle loro case originarie, anche se di fianco a un cantiere.

“Non ci sposteremo, lotteremo” dice. “Non succederà … un progetto come questo farebbe sparire la cultura e il patrimonio culturale dei beduini.”

Per una comunità che si riconosce in uno stile di vita tradizionale basato sull’agricoltura, la rimozione forzata è vista come l’ultima mossa di una campagna governativa decennale per concentrarli in aree specifiche. Per gente come Danfiri ciò significa rinunciare a una parte della propria identità.

Ovunque io vada la cosa di cui sono più fiero è essere un beduino. Ed è soprattutto nei villaggi non riconosciuti che i beduini conservano di più la loro cultura tradizionale.” dice.

Adalah, una ONG [israeliana] con sede a Haifa specializzata nei diritti sanciti dalla legge per gli arabi in Israele, si oppone ai piani per vari motivi. Innanzitutto, sostiene l’organizzazione, le unità residenziali progettate non sono adatte, a termini di legge, perché non hanno infrastrutture adeguate e non rispettano le norme relative alle dimensioni abitative.

Il mese scorso l’ONG ha anche pubblicato un libro bianco, sostenendo che i piani rappresenterebbero un approccio che considera i cittadini israeliani del Negev “separati ma uguali”.

Un sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per il beneficio, il benessere e lo sviluppo futuro di cittadini e comunità ebraiche israeliane e che pone i cittadini ebrei israeliani al centro del processo” scrive.

L’altro sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per l’evacuazione e il trasferimento dei cittadini beduini in residenze temporanee imponendo all’intera popolazione palestinese beduina una situazione opprimente senza averla consultata.”

Adalah afferma anche che il piano farà crescere la povertà dei beduini che sono trasferiti e di quelli che vivono nelle comunità dove verranno costruiti i campi, perché potrebbe danneggiare l’accesso al lavoro per entrambi i gruppi.

Myssana Morany, un’avvocatessa che lavora per Adalah, dice che non è chiara la velocità con cui i piani verranno eseguiti e quante persone verranno trasferite in totale. Dato che il modo di esprimersi del governo sui piani che hanno presentato è vago, dice, ciò rivela un progetto più ampio che potrebbe coinvolgere fino a 80.000 persone. Per questo stesso motivo l’assenza di un numero preciso di unità abitative significa che il governo può sfrattare quante persone vuole.

Per noi ciò significa che non hanno una soluzione per le persone che progettano di far sgombrare” dice Morany.

Hussein El Rafaiya, 58 anni, è di Birh Hamam un villaggio non riconosciuto e dal 2002 al 2007 è stato a capo di un comitato che rappresenta i villaggi non riconosciuti. Israele non riconosce l’autorità del comitato e non negozia con loro.

Rafaiya ha ricordato esempi fatti nel corso degli anni di pressioni israeliane sulle comunità beduine per costringerle ad andarsene dalle loro case, per esempio decenni di demolizioni di case e sfratti effettuati dal governo.

Noi non abbiamo nessuna possibilità di risolvere la situazione per vie legali” dice Rafaiya, spiegando che la legge israeliana semplicemente non riconosce le rivendicazioni dei beduini sulla terra o sulle case.

Questo non è il comportamento di uno Stato: è un comportamento da criminali … Tutti quegli sforzi per l’Autorità Beduina [ente governativo creato nel 2007 per occuparsi dei beduini, ndtr.]non sono stati abbastanza efficaci, così hanno deciso di creare questi campi temporanei di sfollati.”

Agli inizi del 2020, la commissione urbanistica del distretto meridionale israeliano deciderà se procedere. I due piani residenziali temporanei del governo enfatizzano la necessità di sfrattare “urgentemente” i beduini in base ai progetti di sviluppo. Agli occhi dei gruppi per i diritti umani è un modo per escogitare una soluzione rapida ma giuridicamente inefficace per espellere la gente.

Una presenza in espansione

In anni recenti l’esercito israeliano ha spostato delle basi nel Negev nel tentativo di espandervi la presenza militare e industriale e per aumentare la popolazione. Il governo ha anche investito risorse per promuovere Be’er Sheba, la più grande città meridionale, come un hub per la tecnologia e l’imprenditorialità.

Il Negev è diventato il luogo di un’ampia gamma di progetti, inclusi parchi solari, centrali elettriche, serre e altre imprese industriali. Il governo ha espresso interesse nel sostenere le coltivazioni di marijuana a scopo medico, l’industria manifatturiera e la difesa informatica, tutto tramite fondi e sussidi.

Secondo il Ministero dell’Economia dello Stato, l’idea è di far concorrenza alla Silicon Valley.

Uno dei protagonisti di questo processo è il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF) un’organizzazione con sedi negli USA e a Gerusalemme che ha ricevuto un’autorizzazione governativa speciale da parte di Israele per acquistare e sviluppare dei terreni per i coloni ebrei.

Supervisiona molti progetti nella regione, spesso bonificando enormi distese di terreni per piantare foreste. Alcune comunità non riconosciute di beduini si trovano in aree destinate a essere evacuate per i progetti del JNF.

Sul sito del JNF, dove si presenta il piano per il Negev, si illustra un progetto per insediarvi 500.000 persone provenienti da altre parti della regione.

Il deserto del Negev rappresenta il 60% del territorio di Israele ma ospita solo l’8% della popolazione del Paese” c’è scritto. “E in queste cifre sbilanciate noi vediamo un’opportunità di crescita senza precedenti.”

Il “Progetto Negev” del JNF dà grande evidenza alla priorità di sostenere le comunità beduine della regione, ma elenca collaborazioni solo con città beduine “riconosciute”.

Nessun portavoce del JNF ha risposto a un’email con cui si richiedeva un commento.

Thabet Abu Rass, il co-direttore di Abraham Initiatives, un’ONG che opera per i diritti politici in Israele, ha detto di non essere d’accordo con il piano governativo principalmente perché non tiene conto di nessuna delle necessità delle comunità beduine.

È un modo diverso per parlare dello sradicamento delle persone. Qui il problema è lo sradicamento delle persone.” ha detto Rass.

Il governo israeliano sta investendo un sacco di soldi nella pianificazione. Se da un lato è bene pianificare per la gente, dall’altro non va bene pianificare contro la loro volontà … i beduini non hanno voce in capitolo.”

Rass rammenta molti casi in cui il governo d’Israele ha fatto dei piani per il Negev senza consultare i beduini e senza accettare o neppure prendere in considerazione i loro diritti sulla terra.

La terra in Israele è una questione che ha motivazioni ideologiche” ha detto Rass. “Israele si definisce uno Stato ebraico e per loro è importante controllare sempre maggiori estensioni di territorio.”

Per Rafaiya i progetti sono semplicemente inaccettabili. I beduini delle comunità riconosciute non si sposteranno.

Questo piano per noi è un disastro” dice Rafaiya. “Lo Stato può venire e distruggere case e comunità. Ma noi ci sposteremo solo da morti, saremo seppelliti nella nostra terra.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guardate Hebron e vedrete l’occupazione nel suo complesso

Eyal Hareuveni

29 settembre 2019 +972 Magazine

Le colonie, i checkpoint ed i muri che sono la realtà della popolazione palestinese di Hebron vengono ora replicati ovunque in tutta la Cisgiordania.

Chi visita per la prima volta la colonia ebraica nel centro della città vecchia di Hebron potrebbe avere l’impressione di essere finito nel cuore dell’oscurità. È qui che le politiche di occupazione militare israeliana hanno toccato il picco della barbarie: reggimenti di soldati sono dispiegati per proteggere 700 coloni ebrei che vivono in un’enclave che è diventata un luogo di degrado urbano in conseguenza delle misure di sicurezza dell’esercito. I 200.000 palestinesi residenti della città non possono fare nulla per contrastare le misure oppressive che rendono insopportabili le loro vite.

A Hebron l’esercito ha distrutto o sigillato le case dell’epoca mamelucca [regno egiziano durato dalla metà del XIII alla metà del XVI secolo, ndtr.] che costeggiano il cosiddetto Cammino dei Fedeli, un sentiero riservato esclusivamente ai coloni ebrei in quanto è il loro percorso verso la Tomba dei Patriarchi [la moschea di Ibrahim per i musulmani, ndtr.]. Shuhada Street, un tempo vivace fulcro commerciale dell’intera Cisgiordania meridionale, è immersa nel silenzio; i commercianti hanno abbandonato i loro negozi e quasi tutti gli abitanti se ne sono andati. Né è possibile ignorare le decine di checkpoint attrezzati con tecnologie avanzate di riconoscimento facciale. Queste riproposizioni nel XXI secolo delle fortezze medievali mantengono la colonia ebraica separata dal resto di Hebron.

Alcuni palestinesi sono rimasti, anche se le loro vite sono controllate e gestite dalle forze di sicurezza israeliane. Quasi tutti dicono che, se solo avessero potuto, avrebbero lasciato la città fantasma in cui da tempo Israele li ha intrappolati. Ogni attività quotidiana – andare a scuola o al lavoro, fare o ricevere visite dai famigliari, partecipare a feste di famiglia, addirittura andare a fare la spesa – comporta stare in fila ai checkpoint e subire un trattamento umiliante.

Quasi ogni giorno, nella pressoché totale impunità, soldati, poliziotti e coloni commettono violenze contro i palestinesi. I soldati li sottopongono a perquisizioni umilianti, fanno incursione nelle loro case nel cuore della notte ed eseguono finti arresti. Tutti questi sono normali aspetti dell’occupazione in generale, ma ad Hebron sono molto più continui.

Nel 2007 Hagai Alon, allora collaboratore dell’ex Ministro della Difesa Amir Peretz [dirigente del partito Laburista israeliano, ndtr.], disse che lo scopo di queste politiche era di “svuotare Hebron dagli arabi” – in altri termini, scacciare la popolazione civile con la forza. In base al diritto umanitario internazionale, il trasferimento forzato di popolazione civile è un crimine di guerra.

Il modello di Hebron non è unico. Le forze di occupazione usano le stesse tattiche in tutta la Cisgiordania, in modi differenti ma con lo stesso scopo – la sempre più violenta espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. Insediamenti, checkpoint e muri circondano i principali centri urbani palestinesi, ed anche villaggi come Susiya e Khan al-Ahmar. Gli abitanti di questi due villaggi devono anche affrontare la minaccia di espulsione nel tentativo di spingerli a forza in enclave più grandi. Lo stesso avviene nella Valle di Shiloh, nel blocco di colonie di Talmonim, in tutta la Valle del Giordano dove sono sorti gli avamposti, a Gerusalemme est, intorno a Betlemme e nel sud della Cisgiordania. In altre parole, avviene ovunque.

Il meglio di Israele ha preso parte a questa ingiustizia: i giudici della Corte Suprema, gli alti ufficiali dell’esercito e degli apparati di sicurezza, i membri dell’Avvocatura Generale dell’esercito, l’ufficio della Procura di Stato e, ovviamente, politici di destra e di sinistra. Tutti hanno tollerato la violenza, a Hebron e dovunque in Cisgiordania. Tutti hanno legittimato l’espulsione dei palestinesi e il furto delle loro proprietà – e non solo ad Hebron. Tutti hanno appoggiato la continua oppressione dei palestinesi, anche dopo che gli atroci effetti di questa politica sono diventati evidenti.

I coloni amano dire: “Hebron: infine e per sempre”. Ma Hebron è molto più di ciò: è qui, là e dovunque. Guardate Hebron e vedrete tutti i territori occupati.

Eyal Hareuveni è un ricercatore di B’Tselem. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Irresponsabilità aziendale di TripAdvisor

Laith Abu Zeyad

28 luglio 2019 – Al Jazeera

TripAdvisor afferma di voler aiutare i rifugiati, ma trascura il proprio appoggio alle violazioni dei diritti umani.

Il 20 giugno, Giornata Mondiale per i Rifugiati, l’amministratore delegato di TripAdvisor Stephen Kaufer ha pubblicato un editoriale in cui chiedeva alle imprese di contribuire ad affrontare la crisi globale dei rifugiati e si impegnava a donare milioni di dollari alle organizzazioni umanitarie “per sostenere e aiutare i rifugiati a ricostruire la propria vita e a rivendicare il proprio futuro.”

È certamente una lodevole iniziativa, se solo non contraddicesse lo spirito di altre prassi dell’azienda. Mentre TripAdvisor ha deciso di aiutare i rifugiati in alcune parti del mondo, altrove – in particolare nei territori palestinesi occupati – contribuisce alle sofferenze della popolazione locale, che è all’origine di una delle più grandi comunità di rifugiati al mondo.

Negli ultimi 70 anni le spietate politiche israeliane di confisca della terra, colonizzazione illegale e spossessamento, accompagnate da una violenta discriminazione, hanno inflitto enormi sofferenze ai palestinesi, privandoli dei loro diritti fondamentali. Anche TripAdvisor ha avuto parte in queste continue violazioni.

Nel gennaio 2019 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato ‘Destinazione Occupazione’, che illustra come le compagnie leader mondiali del turismo online – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – contribuiscano e traggano profitto dal mantenimento, sviluppo ed espansione delle colonie illegali israeliane. In base al diritto internazionale tali attività costituiscono dei crimini di guerra.

TripAdvisor è il secondo sito web (dopo Google) più visitato dai turisti stranieri che arrivano in Israele, con oltre un quarto delle persone (più di 800.000) che dicono di aver consultato il sito prima del loro arrivo per le attrazioni turistiche, le escursioni, i ristoranti, i caffè, gli hotel o gli appartamenti in affitto.

Durante la nostra campagna abbiamo chiesto a Kaufer di smettere di inserire nei propri annunci, o promuovere, proprietà, attività e attrazioni situate nelle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. TripAdvisor ha risposto sostenendo che “ l’inserimento negli annunci su TripAdvisor di una proprietà o di un’azienda non costituisce la nostra approvazione nei confronti di quella struttura”. Eppure la compagnia trae profitto da annunci che includono quelle che si trovano in colonie illegali israeliane.

TripAdvisor e altre compagnie cercano di difendere la loro posizione sostenendo che la questione delle colonie illegali israeliane è troppo politica, per cui loro non possono prendere posizione in merito. Comprendiamo che le aziende non hanno il compito di risolvere le questioni politiche, ma hanno la responsabilità di garantire che non provochino danni o non contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

È forse difficile per i lettori immaginare l’impatto sui diritti umani del turismo e di altre attività aziendali in Palestina, ma è molto concreto per le persone che vivono sotto occupazione israeliana. Per esempio abbiamo scoperto che TripAdvisor ha segnalato con grande evidenza, fungendo da agenzia di prenotazioni, la ‘Città di Davide’, una nota attrazione turistica situata a Silwan, un quartiere palestinese nella Gerusalemme est occupata. Il sito è gestito da un’organizzazione chiamata ‘Fondazione Elad’, che è sostenuta dal governo israeliano e lavora per aiutare i coloni israeliani a trasferirsi in quell’area.

Silwan ospita circa 33.000 palestinesi. Ora vi vivono parecchie centinaia di coloni, per di più in insediamenti rigorosamente protetti. Israele ha trasferito i suoi cittadini nel quartiere fin dagli anni ’80. Questo ha comportato numerose violazioni di diritti umani, compresi l’espulsione e il trasferimento forzati di abitanti palestinesi.

Negli ultimi 10 anni almeno 233 palestinesi sono stati espulsi da Silwan. Molto recentemente, il 10 luglio, la polizia e le forze di sicurezza israeliane hanno cacciato dalla loro casa nel quartiere una famiglia di cinque palestinesi, compresi quattro bambini.

Incoraggiando attivamente gli utenti a visitare la ‘Città di Davide’ e a fare tour guidati del luogo, TripAdvisor ha promosso l’attività di Elad e tratto profitto da ogni prenotazione fatta attraverso il sito.

Se TripAdvisor avesse condotto almeno un’elementare valutazione del rischio della propria attività nelle, o con le, colonie israeliane, avrebbe scoperto che quelle inserzioni contribuiscono a sostenere una situazione illegale che è intrinsecamente discriminatoria e viola i diritti umani dei palestinesi. È stupefacente che una compagnia multimiliardaria (che sostiene di essere il sito di viaggi più visitato al mondo, con più di 450 milioni di visitatori al mese) o non abbia posto tale doverosa attenzione riguardo alle proprie operazioni in Israele e nei territori palestinesi occupati, o lo abbia fatto, ma abbia deciso di proseguire ugualmente le proprie attività.

Anche altre compagnie di turismo digitale hanno inviato messaggi ambigui sui diritti umani. Nell’aprile 2019 Airbnb ha annunciato che, in seguito ad una class-action da parte di avvocati israeliani ,avrebbe revocato una precedente decisione di eliminare le offerte nelle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata. La compagnia ha affermato che avrebbe donato i profitti derivanti da questi annunci a “organizzazioni non-profit impegnate negli aiuti umanitari che si occupano di persone in diverse parti del mondo.”

Airbnb, come TripAdvisor, mentre cerca di mostrare preoccupazione per le popolazioni bisognose attraverso un piano di responsabilità aziendale, non può continuare ad ignorare che la sua attività con le colonie israeliane illegali è contraria alle norme fondamentali delle leggi internazionali sui diritti umani,

Nessuna somma di denaro in donazioni cancellerà il danno che stanno commettendo nei territori palestinesi occupati e sicuramente nessun profitto a breve termine dovrebbe valere il prezzo della collaborazione con crimini di guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Laith Abu Zeyad è responsabile delle campagne su Israele/Palestina per Amnesty International.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’escalation delle punizioni collettive israeliane contro i palestinesi

Nada Awad

21 febbraio 2019, Al Shabaka

Nel 2017 le autorità israeliane hanno trasferito con la forza la palestinese Nadia Abu Jamal da Gerusalemme, dopo la demolizione della casa della sua famiglia nel 2015. Inoltre l’Istituto di Previdenza Nazionale israeliano ha revocato la tessera sanitaria e altri documenti di previdenza sociale ai tre figli di Abu Jamal, due dei quali soffrono di patologie croniche. Questi ordini sono stati misure punitive dopo che suo marito, Ghassan, è stato ucciso mentre avrebbe effettuato un presunto attacco. Essi dimostrano l’ incremento di politiche israeliane che puniscono individui palestinesi per reati che non hanno commesso.

Israele ha fatto uso di punizioni collettive contro i palestinesi fin dall’inizio dell’occupazione militare nel 1967, attraverso demolizioni di case e guerra psicologica ed economica contro le famiglie di presunti attentatori – in violazione del diritto internazionale. Tali misure, applicate in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO), sono state intensificate dalle autorità israeliane nei confronti delle famiglie e dei parenti di presunti attentatori soprattutto a Gerusalemme est e in particolar modo dal 2015.

Per esempio, i parlamentari israeliani negli ultimi anni hanno proposto leggi che legalizzerebbero azioni come quelle attuate contro Abu Jamal, mettendo lo Stato ufficialmente in grado di revocare lo status di residenza permanente a membri della famiglia di presunti attentatori. Nel dicembre 2018 il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura una proposta di legge che consentirebbe il trasferimento forzato di famiglie di presunti attentatori palestinesi dalle città in cui vivono ad altre zone della Cisgiordania. Netanyahu ha espresso il suo appoggio al disegno di legge dichiarando: “L’espulsione di terroristi è uno strumento efficace. Per me i vantaggi superano i danni. I giuristi dicono che è contro la legge per come è prevista, e sarà sicuramente una sfida giuridica, ma non ho dubbi sulla sua efficacia.”

Questo articolo segnala l’ aumento delle punizioni collettive di Israele contro le famiglie di presunti attentatori attraverso azioni come i trasferimenti forzati, la demolizione di case e la guerra economica, e suggerisce le possibilità di contrastare i tentativi di Israele di inserire questi metodi nella legislazione per usarli per intensificare l’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme.

L’ incremento dei trasferimenti forzati

I trasferimenti forzati sono stati il cuore della politica di Israele per raggiungere e conservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme fin dalla sua annessione di fatto nel 1967. (1) Per raggiungere questo obiettivo demografico Israele attua una pianificazione edilizia discriminatoria per limitare la crescita della popolazione palestinese, mentre la legislazione israeliana rende difficile ai palestinesi sia vivere che trasferirsi nella città.

I palestinesi che vivevano a Gerusalemme dopo il 1967 ricevettero lo status di residenti permanenti. La legge sull’ “Ingresso in Israele” rende facile allo Stato revocare lo status di residenza permanente tramite l’attribuzione al ministero dell’Interno della prerogativa di annullare le residenze dei palestinesi in base ai seguenti criteri: vivere all’estero per oltre 7 anni; ottenere una cittadinanza straniera o la residenza permanente all’estero; non poter dimostrare che il “centro della propria vita” è in Israele; e, dal 2018, “contravvenire alla lealtà” nei confronti di Israele.

Tale revoca dei diritti di residenza è uno strumento diretto di trasferimento forzato, poiché i palestinesi in questa situazione non possono avere nemmeno il diritto di essere fisicamente presenti a Gerusalemme. Queste leggi sulla residenza a Gerusalemme limitano anche il ricongiungimento familiare per i palestinesi residenti a Gerusalemme con membri della famiglia che non hanno la residenza a Gerusalemme o la cittadinanza israeliana. Per i palestinesi residenti a Gerusalemme che scelgono di riunirsi alla famiglia in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nella diaspora, la conseguenza è la revoca dei loro diritti di residenza a Gerusalemme, che prelude al loro trasferimento forzato fuori dalla città.

Dall’adozione dell’ordine temporaneo del 2003 fino alla legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, a chi fa richiesta di ricongiungimento familiare è impedito di ricevere lo status di residenza permanente. In altri termini, un palestinese non gerosolimitano che sposa un palestinese gerosolimitano non può ottenere lo status di residenza permanente, ma gli vengono invece rilasciati permessi temporanei se il ministero dell’Interno israeliano accoglie la richiesta di ricongiungimento familiare. Questa politica pone i palestinesi di Gerusalemme a rischio di venir separati dalla loro famiglia e spesso li costringe a lasciare Gerusalemme per vivere con i coniugi che non hanno i permessi; di conseguenza perdono il loro diritto a vivere lì. Dal 1967 ci sono state 14.500 revoche di residenze di palestinesi, delle quali 11.500 attuate dal 1995.

Nell’ottobre 2015 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il governo stava esaminando “l’abolizione del ricongiungimento familiare” e “la revoca dello status di residenza e cittadinanza alle famiglie degli attentatori.” É stato questo il caso di Nadia Abu Jamal, originaria di un villaggio della Cisgiordania. Dopo aver sposato Ghassan e dopo una lunga procedura di ricongiungimento familiare, ha ottenuto il permesso di residenza temporanea per vivere a Gerusalemme, che rinnovava ogni anno. In seguito ad un presunto attentato da parte di suo marito il ministero dell’Interno ha ordinato a Nadia di lasciare la città e ha iniziato a rifiutare il rilascio di qualunque permesso che lei richiedesse. Nel gennaio 2017 la polizia ha arrestato Nadia in casa dei suoi suoceri, dove era andata a stare dopo la demolizione di casa sua, e l’ha trasferita con la forza fuori Gerusalemme.

Lo schema del caso Abu Jamal è stato da allora riproposto su più ampia scala. Dopo un presunto attacco nel 2017 il ministero dell’Interno israeliano ha dichiarato: “D’ora in poi chiunque organizzi, pianifichi o intenda condurre un attacco saprà che la sua famiglia pagherà un caro prezzo per la sua azione.” Aryeh Deri [all’epoca ministro dell’Interno del partito religioso Shah, ndtr.], parlando a nome del ministero, ha avvertito che “le conseguenze saranno severe e di vasta portata.”

Le “conseguenze di vasta portata” sono state chiare nel caso di Fadi Qunbar, accusato di aver compiuto un attacco con l’automobile nel luglio 2017. Deri ha revocato lo status di residenza permanente alla madre sessantunenne di Qunbar, oltre a 11 permessi di ricongiungimento familiare della sua famiglia estesa. Tra le 11 persone che hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme c’era il marito della figlia della sorellastra di Qunbar. La grande ampiezza con cui Deri ha applicato la legge ha segnato un chiaro ampliamento dell’estensione della revoca punitiva della residenza. Tutti i membri della famiglia di Qunbar stanno aspettando una decisione riguardo ad un possibile loro trasferimento forzato fuori dalle loro case.

Il caso di Qunbar è solo un esempio di come Israele abbia intensificato le misure di punizione collettiva in certi casi, stabilendo un precedente che spiana la strada a leggi che consentono che tali pratiche vengano utilizzate in modo esteso. Nel 2016 e 2017 i legislatori israeliani hanno presentato almeno quattro proposte di legge che fornirebbero una base giuridica alla revoca dei permessi di residenza sia alle persone che si presume abbiano compiuto un attacco che alle loro famiglie allargate. Tre dei quattro disegni di legge erano emendamenti all’articolo 11 della legge sull’ingresso in Israele.

Il primo [emendamento], P/20/2463, consente al ministero dell’Interno di revocare lo status di residenza permanente a presunti attentatori e ai loro familiari, oltre ai diritti relativi alla legge sulla Previdenza Nazionale e ad altre leggi. “Non c’è logica nel garantire eguali diritti a residenti che agiscono contro lo Stato e dargli la possibilità di godere dei servizi sociali che spettano a chi è residente permanente nello Stato di Israele”, sancisce la legge. Subito dopo, l’emendamento P/20/2808 stabilisce che il ministero dell’Interno possa cancellare un visto o lo status di residenza permanente di “membri della famiglia di una persona che compia un atto terroristico o abbia contribuito a compiere tale atto attraverso conoscenza, aiuto, incoraggiamento e sostegno prima, durante o dopo l’attuazione dell’atto terroristico”. L’emendamento P/20/3994 “attribuisce al ministro dell’Interno l’importante diritto di avere potere discrezionale relativamente alla commissione di atti terroristici.” E, come citato prima, nel dicembre 2018 è stata approvata in prima lettura alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] la legge P/20/3458, che consentirebbe “l’espulsione delle famiglie di terroristi per ragioni nazionaliste”. Essa conferirebbe all’esercito israeliano l’autorità di “espellere le famiglie degli aggressori che compiono o cercano di compiere un attacco terroristico” entro sette giorni. Sollecita il trasferimento forzato delle famiglie di presunti aggressori palestinesi in ogni area della Cisgiordania.

Inoltre, nel marzo 2018, il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge sull’ingresso in Israele che consente la revoca punitiva dello stato di residenza dei palestinesi sulla base di “violazione della lealtà”. Questa revoca è vietata in base all’articolo 45 dei Regolamenti dell’Aja della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce esplicitamente alla potenza occupante di pretendere lealtà dalla popolazione occupata. Utilizzando un criterio così vago come la lealtà, Israele può revocare lo status di residenza di ogni palestinese di Gerusalemme.

Guerra psicologica ed economica

Nel 2015 il gabinetto di sicurezza israeliano ha confermato la demolizione della casa di un presunto attentatore come pratica punitiva legittima ed ha auspicato il divieto di nuova costruzione nel luogo della casa demolita e la confisca della proprietà stessa. Dal novembre 2014 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha cassato 11 casi in cui famiglie di Gerusalemme si erano appellate contro gli ordini di demolizione, confermando la decisione dell’esercito israeliano di demolire o sigillare le case per punizione. Su cinque case sigillate e confiscate, tre sono state riempite di cemento, rendendo irreversibile la chiusura. Questo lascia senza casa le famiglie dei presunti attentatori e li rende sfollati interni.

Queste misure intervengono dopo un’interruzione di dieci anni delle demolizioni di case. Una commissione militare israeliana nel 2005 ha concluso che le demolizioni punitive di case portavano a risultati controproducenti, facendo sì che le autorità di governo israeliane sospendessero questa pratica con alcune eccezioni, prima di riprenderla nel 2014.

Inoltre, come forma di punizione collettiva contro le famiglie, Israele trattiene i corpi dei palestinesi uccisi durante presunti attacchi. Nel 2016 il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge israeliana antiterrorismo del 2016, che conferisce questa autorità alla polizia. Da ottobre 2015 Israele ha trattenuto i corpi di 194 palestinesi, 32 dei quali sono tuttora negli obitori israeliani. (2) In molti casi i corpi sono stati restituiti a determinate condizioni alle famiglie per la sepoltura dopo una lunga battaglia legale. Le condizioni richieste dalle autorità israeliane per il rilascio includono una sepoltura immediata – impedendo così l’autopsia – che deve inoltre avvenire di notte e a cui può partecipare un numero limitato di persone autorizzate.

Le nuove misure di punizione collettiva hanno anche preso di mira i mezzi di sussistenza delle famiglie. Attraverso la legge per il contrasto al terrorismo del 2016 il ministro della Difesa israeliano ha emesso parecchi ordini di confisca di denaro contro famiglie di presunti attentatori. Il ministro ha dichiarato che la confisca è lecita in base al fatto che il denaro costituisce un indennizzo per l’attacco. Nell’agosto 2017 le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione in diverse case appartenenti alle famiglie di presunti attentatori e confiscato grosse somme di denaro. Per esempio, il ministro della Difesa israeliano ha confiscato 4.000 dollari alla famiglia Manasra dopo che nel 2015 l’esercito israeliano ha ucciso Hasan Manasra, di 15 anni, durante un presunto accoltellamento in una colonia di Gerusalemme.Questa nuova misura di punizione collettiva ha lo scopo di mantenere le famiglie di presunti attentatori nel timore di rappresaglie e prende di mira le loro fondamentali risorse economiche.

Con un’altra iniziativa che costituisce un precedente, il governo israeliano ha intentato due cause civili contro la moglie e i quattro figli di Fadi Qunbar e contro la moglie e i cinque figli di Misbah Abu Sbeih, che avrebbero compiuto presunti attacchi a Gerusalemme est nell’ottobre 2016. Nella causa contro la famiglia di Qunbar è stato chiesto il pagamento di 2,3 milioni di dollari, mentre in quella contro la famiglia di Abu Sbeih è stato imposto il pagamento di una somma che ammontava a oltre un milione di dollari. La Procura distrettuale di Gerusalemme ha affermato: “Questa causa, che ha origine da un atto terroristico in cui sono stati uccisi dei soldati, ha lo scopo di recuperare alle casse dello Stato le spese sostenute in eventi di questo tipo, e di mandare un chiaro messaggio che lo Stato regolerà anche i conti a livello civile con chi ha perpetrato atti ostili.” L’ufficio ha anche affermato: “Alla luce del fatto che il terrorista ha provocato il danno, ai suoi eredi legali spetta farsene carico e indennizzare lo Stato in merito.”

Le famiglie dei presunti attentatori spesso si trovano isolate dalla società, che teme misure di rappresaglia. Attualmente le vittime di punizioni collettive da parte Israele sono sempre più riluttanti a lottare o a riferire violazioni, per paura di ulteriori rappresaglie delle autorità israeliane. A distanza di mesi e a volte di anni dalle punizioni collettive, i palestinesi spesso sperano che il loro silenzio possa tutelarli da ulteriori misure punitive. Questa paura delle rappresaglie e la concomitante erosione della solidarietà tra palestinesi, come risultato della crescente arbitrarietà del potere di rappresaglia statale, ha accresciuto l’impunità di Israele relativamente alle sue violazioni dei divieti internazionali di punizioni collettive.

Direttive della legislazione internazionale

La legislazione internazionale sui diritti umani sancisce il divieto di punizione collettiva. L’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra afferma che “nessun individuo protetto può essere punito per un reato che non ha personalmente commesso. Le pene collettive e analogamente tutte le misure di intimidazione o terrorismo sono proibite”.

Oltretutto il trasferimento forzato di palestinesi è una violazione del diritto internazionale in quanto i palestinesi sono considerati una popolazione protetta. Infatti gli enti internazionali hanno ripetutamente affermato lo status di Gerusalemme come città occupata, definendo il popolo palestinese “persone protette”. L’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vieta il trasferimento forzato della popolazione palestinese protetta e lo considera un crimine di guerra. Se utilizzato in modo sistematico e diffuso, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale lo considera un crimine contro l’umanità. (3) Le misure israeliane di punizione collettiva violano anche il divieto di distruzione e appropriazione della proprietà delle persone protette.

Inoltre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016 ha dichiarato che “oltre a costituire una punizione collettiva, la mancata restituzione [alle famiglie] dei cadaveri contrasta con gli obblighi di Israele come potenza occupante secondo la Quarta Convenzione di Ginevra (articoli 27 e 30) e viola il divieto di tortura e maltrattamenti.”

Ad Israele è anche fatto divieto di cercare di usare lo stato di emergenza o le ragioni di sicurezza per giustificare la violazione delle norme giuridiche stabilite dalla legislazione internazionale sui diritti umani. La Commissione Diritti Umani dell’ONU ha sottolineato che il divieto di punizione collettiva non è derogabile, neanche in stato di emergenza. Eppure Israele adduce sistematicamente ragioni di sicurezza per incrementare le politiche punitive contro la popolazione palestinese con l’obiettivo del loro trasferimento forzato.

In base ai principi del diritto consuetudinario internazionale gli Stati terzi sono tenuti a impedire violazioni in corso del diritto umanitario attraverso indagini, incriminazioni, rifiuto di aiuti o crediti e cooperazione per porre fine alla grave violazione, incluse misure di rappresaglia contro gli Stati responsabili delle violazioni. Tuttavia l’opposizione della comunità internazionale all’uso di Israele delle punizioni collettive raramente si è spinta oltre il livello di condanna verbale. Sta ai palestinesi e al movimento di solidarietà coi palestinesi fare pressioni sulla comunità internazionale e su Israele perché cessino queste violazioni.

Contrastare le punizioni collettive

1. É indispensabile per i palestinesi ed i loro alleati sensibilizzare i media e la società civile sull’uso da parte di Israele delle punizioni collettive come mezzo di trasferimento forzato e considerarlo come un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. Ciò può contribuire a rendere prioritario il problema nell’agenda dell’ONU.

2. I palestinesi dovrebbero anche fare pressione sulla Corte Penale Internazionale (CPI) perché aggiunga la punizione collettiva al suo elenco di crimini perseguibili. L’attuale indagine preliminare della CPI su potenziali violazioni del diritto internazionale in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO) dovrebbe essere monitorata, in quanto costituisce un banco di prova per una legge internazionale relativa alla punizione collettiva. La definizione da parte della CPI della punizione collettiva come atto criminale sarebbe un passo verso la fine dell’impunità israeliana, che consentirebbe di perseguire questa violazione di diritti umani fondamentali.

3. Ê quindi indispensabile assistere le vittime sottoponendo i loro casi di punizione collettiva alla sezione della CPI dedicata a facilitare la partecipazione delle vittime.

É rendendo responsabili i criminali di guerra israeliani che le politiche di punizione collettiva contro i palestinesi, che portano al loro trasferimento forzato da Gerusalemme, potranno cessare.

Note:

  1. In base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, la deportazione o il trasferimento forzato di popolazione significa “spostamento forzato delle persone coinvolte attraverso espulsione o altri atti coercitivi dall’area in cui sono legittimamente presenti, in assenza di motivi contemplati dal diritto internazionale.”

  2. Dati dell’unità di monitoraggio Al-Haq, 12 gennaio 2018

  1. Benché l’imposizione di punizioni collettive sia stata considerata un crimine di guerra nel rapporto della ‘Commissione sulla Responsabilità’ creata dopo la Prima Guerra Mondiale e negli statuti del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda e del tribunale speciale per la Sierra Leone, non è stata inclusa come tale nello Statuto di Roma.

Nada Awad

Nada Awad è una palestinese nata a Gerusalemme. Attualmente lavora come assistente ricercatrice all’Istituto Muwatin per la Democrazia e i Diritti Umani dell’università di Birzeit [università palestinese nei pressi di Ramallah, ndtr.]. Ha conseguito un dottorato in Relazioni Internazionali e Sicurezza Internazionale della facoltà di Scienze Politiche a Parigi. In precedenza è stata responsabile del dipartimento legale presso il Community Action Center (Università di Al-Quds) [maggiore istituzione accademica palestinese a Gerusalemme, ndt.], dove si è occupata della questione dei trasferimenti forzati di palestinesi da Gerusalemme. Ha lavorato anche in ricerche di archivio presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)