Rapporto OCHA del periodo 7-20 febbraio 2017 (due settimane)

Il 9 febbraio, un 19enne palestinese di Beita (Nablus), ha ferito cinque civili israeliani con arma da fuoco e coltello in un mercato della città di Petah Tikva (Israele) ed è stato successivamente arrestato.

Dall’inizio del 2017, quattro soldati israeliani sono stati uccisi e altri 23 israeliani sono rimasti feriti in attacchi compiuti da palestinesi.

Il 10 febbraio, un 25enne palestinese di Tulkarem è morto in un ospedale israeliano dove era in cura per le ferite riportate nel novembre 2016, quando venne colpito dalle forze israeliane, durante un suo presunto tentativo di accoltellamento. Secondo fonti palestinesi, l’uomo, malato di cancro, si stava recando all’ospedale di Nablus per effettuare la chemioterapia ed è stato colpito mentre correva per prendere un taxi nei pressi del checkpoint di Huwwara (Nablus). Prima di essere consegnato, il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane per una settimana.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 29 palestinesi, tra cui nove minori. La maggior parte dei ferimenti si è verificata durante le operazioni di ricerca-arresto e nel corso delle manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Ni’lin (Ramallah); in quest’ultimo villaggio la manifestazione ha commemorato i 12 anni di proteste anti-Barriera attuate dalla comunità locale. In due distinti episodi, nella città di Qalqiliya e nel villaggio di Bizzariya (Nablus), scontri verificatisi nei pressi di scuole hanno provocato il ferimento di cinque studenti.

Tre operai palestinesi sono morti e sei sono rimasti feriti in quattro diversi casi di crollo di tunnel per il contrabbando tra Gaza e l’Egitto. In questo settore le attività di contrabbando di merci si sono significativamente ridotte dalla metà del 2013, in seguito alla distruzione o al blocco dei tunnel attuato dalle autorità egiziane sul loro lato. Inoltre Il 7 dicembre, ad est di Gaza City, due membri palestinesi di un gruppo armato morirono ed un altro rimase ferito, in seguito al crollo di un tunnel militare.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 40 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento alle Aree ad Accesso Riservato (ARA) imposte da Israele su terra ed in mare. Non sono stati segnalati feriti, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato più volte interrotto. Quattro palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane: un mercante in transito al valico di Erez (sotto controllo israeliano) e altri tre che tentavano di entrare illegalmente in Israele. Inoltre, in due distinti episodi, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno svolto operazioni di spianatura del terreno e scavi nei pressi della recinzione perimetrale.

A Gerusalemme Est e in Area C, per mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 29 strutture di proprietà palestinese, sfollando 32 persone, tra cui 20 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 87. Fra le strutture interessate figura una rete idrica, finanziata da donatori, che serviva due comunità di pastori: Humsa al Bqia’a e Al Hadidiya, nel nord della Valle del Giordano. In meno di due mesi, questa è la seconda demolizione messa in atto contro la stessa rete idrica. In un altro episodio, durante una operazione di ricerca-arresto nella città di Hebron, le forze israeliane hanno distrutto una struttura agricola appartenente ad una famiglia di sette persone.

Il 19 febbraio, le autorità israeliane hanno consegnato ordini di arresto lavori contro quasi tutte le strutture della Comunità beduina palestinese di Khan al Ahmar-Abu al Helu (140 persone), che si trova nella zona C del governatorato di Gerusalemme. Fra le strutture coinvolte vi è una scuola primaria, finanziata da donatore, costruita con pneumatici e fango, utilizzata da circa 170 bambini provenienti da cinque comunità beduine palestinesi. Al leader della Comunità è stato detto che non hanno altra scelta se non trasferirsi in uno dei due “siti di rilocalizzazione” prestabiliti [da Israele] per il trasferimento delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale (circa 7.000 persone a rischio di trasferimento forzato). Il Coordinatore Umanitario per i Territori occupati palestinesi, Robert Piper, ha visitato Khan al Ahmar ed ha richiamato Israele a fermare le pressioni sulla comunità ed al rispetto del diritto internazionale.

Nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, coloni israeliani si sono trasferiti in una parte di casa palestinese che, secondo quanto riferito, avevano acquistato dai proprietari palestinesi. Silwan è stato bersaglio di intensa attività di insediamento che ha posto centinaia di residenti a rischio di sfollamento. Durante la stessa settimana, sempre a Silwan, per mancanza di permessi di costruzione israeliani (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno consegnato ordini di demolizione nei confronti di otto edifici che ospitano circa 120 persone.

In vari episodi che vedono coinvolti coloni israeliani, sono stati registrati il ferimento di tre palestinesi e danni significativi alle proprietà. In questi episodi sono compresi l’aggressione fisica e il ferimento di una ragazza palestinese di 14 anni, ad Hebron nella zona della città controllata da Israele, e di un giornalista palestinese, nei pressi dell’insediamento di Ofra (Ramallah). Inoltre, nei pressi di Beit Ummar (Hebron), un palestinese è stato investito e ferito dal veicolo di un colono israeliano; secondo fonti palestinesi, suffragate da riprese video, si sarebbe trattato di uno speronamento intenzionale. Vandalismi su proprietà palestinesi sono state riportate in tre episodi distinti: l’uccisione di una pecora e il ferimento di altre due a Tell al Himmeh (Tubas); la vandalizzazione di oltre 350 alberi e alberelli di proprietà palestinese nel villaggio di Al-Khader (Betlemme); il danneggiamento di un pozzo d’acqua utilizzato da più di 50 agricoltori a Deir Istiya (Salfit).

I media israeliani hanno riferito almeno 18 episodi di lanci di pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani da parte di palestinesi: feriti quattro coloni israeliani, tra cui una donna, a Gerusalemme, Ramallah e Betlemme. Sono stati riferiti anche danni a diversi veicoli israeliani.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni in ingresso e per un giorno in uscita: è stata consentita l’uscita dalla Striscia di Gaza a 1.527 persone e il rientro a 1.373. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, circa 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate e in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 21 febbraio, un tribunale militare israeliano ha condannato a 18 mesi di prigione un soldato israeliano che, nel marzo 2016, nella città di Hebron, uccise un palestinese ferito che aveva effettuato una aggressione. Secondo la sentenza del tribunale, l’uomo ferito, al momento dell’uccisione, era steso a terra e non costituiva alcun pericolo.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Manifestanti organizzano un sit in alla scuola di Khan al-Ahmar, che è nella lista delle demolizioni

Ma’an News

Betlemme- 23 febbraio 2017

Giovedì il ministero dell’Educazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha organizzato un sit in di protesta nella scuola del villaggio beduino di Khan al-Ahmar nella Cisgiordania occupata contro l’ ordine imminente del governo israeliano per la demolizione della scuola e dell’intero villaggio.

I manifestanti hanno condannato l’ordine israeliano di demolizione della scuola di Khan al-Ahmar – che fornisce il servizio a 150 studenti tra maschi e femmine – ed hanno espresso la propria rabbia nei confronti dell’esercito israeliano, che prende di mira una scuola per bambini e “cerca di escluderli dal diritto all’istruzione”.

Il ministro dell’Educazione Sabri Sedim ha fatto appello a tutti i palestinesi “perché resistano e si oppongano ai progetti israeliani e alle violazioni contro l’educazione e contro le comunità beduine che svelano l’orribile volto dell’occupazione,” aggiungendo che il ministero “realizzerà tutti gli sforzi possibili per bloccare le pratiche israeliane e denunciarle sui media e nei tribunali.”

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno emesso ordinanze di demolizione di 40 case e della scuola elementare del villaggio, compresi ordini di blocco dei lavori nei confronti di varie strutture del villaggio, che si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano e luogo di frequenti demolizioni da parte di Israele.

Al momento abitanti locali hanno detto a Ma’an che forze israeliane hanno imposto la chiusura militare della zona prima di consegnare gli ordini di demolizione, mentre a insegnanti e studenti della scuola è stato impedito l’accesso all’edificio.

Nonostante il fatto che la comunità, e la scuola in particolare, siano state minacciate di demolizione dal governo israeliano da anni, gli abitanti del luogo hanno detto che la consegna di avvisi di demolizione per ogni singola casa rappresenta un colpo senza precedenti.

Mercoledì funzionari dell’ONU hanno visitato la comunità beduina ed hanno definito la situazione “inaccettabile”. ” Khan al-Ahmar è una delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania, che lotta per conservare uno standard minimo di vita di fronte alle pesanti pressioni da parte delle autorità israeliane per spostarla in un luogo di ricollocazione stabilito,” ha affermato in un comunicato Robert Piper, il coordinatore per l’aiuto umanitario e per le attività di sviluppo dell’ONU per i territori palestinesi occupati, aggiungendo che “questo è inaccettabile e deve finire.”

Khan al-Ahmar, come altre comunità beduine della regione, è minacciata di trasferimento da Israele in quanto si trova nel conteso “Corridoio E1”, stabilito dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa [a Israele] con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’E1 migliaia di abitazioni per le colonie solo per ebrei, il che dividerebbe in effetti la Cisgiordania e renderebbe la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come previsto dalla soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese – praticamente impossibile.

I gruppi per i diritti umani e i membri della comunità beduina hanno fortemente criticato i piani di ricollocazione da parte di Israele per i beduini che risiedono nei pressi delle colonie israeliane illegali di Maale Adumim, sostenendo che lo spostamento rimuoverebbe palestinesi autoctoni con lo scopo di espandere le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, in violazione delle leggi internazionali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Divide et Impera: come il sistema scolastico semina divisione tra i palestinesi di Israele

Mona Bieling Middle East Eye – Martedì 27 ottobre 2016

Com’è strutturato attualmente, il sistema scolastico israeliano serve chiaramente ai principali interessi dello Stato piuttosto che a quelli degli studenti arabo- palestinesi.

Il sistema educativo in Israele è uno dei principali contesti in cui cittadini arabo-palestinesi di Israele ed ebrei sono segregati gli uni dagli altri, in quanto le scuole sono rigidamente separate in differenti settori in base sia alla religione che all’etnia.

Nella sua attuale struttura il sistema è stato fondato nel 1953 con la legge statale per l’educazione che ha definito il quadro giuridico per la formazione di due aree: una per gli ebrei laici e una per i praticanti. Poiché in questa legge la minoranza palestinese non viene citata, ne è scaturita quasi inevitabilmente la costituzione di un settore scolastico arabo separato dai due previsti per gli ebrei.

Nonostante un emendamento della legge nel 2000, il settore destinato agli arabi non ha una posizione giuridica ufficiale, ma esiste come “non ufficiale ma riconosciuto”accanto ai due sistemi ebraici “ufficiali e riconosciuti”. Quindi, fin dall’istituzione del sistema scolastico statale nel 1953, agli israeliani arabo- palestinesi ed a quelli ebrei è in genere impedito di andare a scuola insieme.

Recenti tentativi di prendere in considerazione separatamente la popolazione araba cristiana di Israele riguardo al servizio militare [gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare. Ndtr.] e all’educazione suggeriscono che il sistema educativo nella sua struttura attuale non si limita ad offrire una formazione culturale ai cittadini dello Stato. Il ministero dell’Educazione ha il controllo totale dei curricula di ogni tipo di scuola – ebraica, drusa e araba sia pubbliche che private, dall’asilo alle superiori.

Ci sono due modi prevalenti in cui il sistema educativo statale promuove la divisione tra i cittadini palestinesi di Israele: direttamente, attraverso la separazione delle diverse comunità religiose in scuole distinte, la definizione del curriculum e l’assegnazione dei docenti e dei presidi; indirettamente, con questioni relative ai finanziamenti, alle infrastrutture, alle scuole private e all’accesso all’educazione superiore.

Perciò il sistema educativo israeliano può essere visto come un’arma politica utilizzata dal governo per raggiungere i suoi scopi di rafforzamento del carattere ebraico dello Stato piuttosto che per fornire la migliore formazione possibile a tutti i cittadini.

Le divisioni create tra i palestinesi con cittadinanza israeliana avranno anche conseguenze per il tentativo più complessivo dei palestinesi di avere uno Stato e l’autodeterminazione. Pertanto la separazione tra le comunità palestinesi, una dentro Israele e l’altra fuori, come ho fatto in questo articolo, è esclusivamente funzionale all’analisi e non intende inficiare il concetto di una nazione palestinese che li comprenda.

Tener lontani i drusi

I principali e più evidenti interventi attivi da parte di Israele nel sistema educativo per dividere la sua popolazione palestinese sono i tentativi di separare la comunità in base alla religione.

La politica del divide et impera come pratica all’interno del sistema educativo risale al 1956, quando è stato fondato un sistema scolastico separato per i drusi di Israele. Questo sviluppo deve essere visto nel più complessivo contesto del tentativo di Israele di separare la comunità drusa come “un popolo a parte”, non legato in nessuno modo alla comunità palestinese.

Anzi, la lealtà dei drusi verso lo Stato è stata sottolineata e garantita includendo nell’esercito israeliano per il servizio militare tutti i maschi drusi e promuovendo ciò nelle scuole druse. Perciò, come mi ha detto la scorsa estate Ra’afat Harb, un attivista druso, sia il contesto che il curriculum nelle scuole druse sono diversi rispetto alle altre scuole degli arabo-palestinesi.

Il risultato dell’educazione segregata, limitata e tendenziosa nelle scuole druse è che l’identità drusa è stata rimodellata in modo da corrispondere all’obiettivo dello Stato e della maggioranza ebraica. Ovviamente l’identità è sempre un concetto mutevole, che è diverso sia individualmente che collettivamente, e si può manifestare in vario modo. Di nuovo, secondo Harb, ci sono drusi che si identificano come palestinesi, come arabi, come israeliani o persino come sionisti.

Tuttavia, attraverso il sistema educativo, lo Stato ha attivamente inibito lo sviluppo di un’identità araba e palestinese dei drusi ed ha invece imposto loro un’identità unicamente drusa/israeliana. Così facendo lo Stato ha chiaramente seguito un progetto per allontanare i drusi dalla comunità arabo-palestinese.

Sfide per gli arabi beduini

Un’altra divisione molto importante creata all’interno della comunità palestinese in Israele è quella tra arabi cristiani/musulmani da una parte e arabi beduini dall’altra.

La maggioranza dei beduini di Israele vive nel Naqab (Negev), nel sud del paese, dove devono sopportare condizioni di vita miserabili a causa del tentativo israeliano di espellerli dalla loro terra e concentrarli in pochi villaggi e cittadine.

Secondo Noga Dagan-Buzaglo, un ricercatore del centro “ADVA” (Informazione sull’Uguaglianza e la Giustizia Sociale in Israele), in quanto abitanti di villaggi non riconosciuti [dallo Stato israeliano. Ndtr.], i beduini patiscono le peggiori condizioni di vita del Paese.

Benché lo Stato sia obbligato a fornire educazione a tutti i cittadini dall’età di 3 o 4 anni, le scuole nel Naqab si possono trovare solo in villaggi e cittadine riconosciuti. Ciò rende difficile ai genitori dei villaggi non riconosciuti mandare a scuola i propri bambini in modo regolare.

Secondo Muhammad Zidani, ricercatore, e Muna Haddad, avvocato, entrambi di Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, poiché i genitori possono essere processati se non mandano i figli a scuola, alcune famiglie si sono spostate dai villaggi non riconosciuti a quelli riconosciuti per facilitare la frequenza scolastica ed evitare denunce penali.

Anche a questo proposito, l’educazione è utilizzata come uno strumento politico per imporre la volontà dello Stato ai suoi cittadini arabi, in questo caso spostando una parte della popolazione dalla sua terra d’origine.

Isolare gli arabi cristiani

Un terzo, e abbastanza recente, sviluppo è il tentativo di Israele di isolare gli arabi cristiani come ha fatto con i drusi per 60 anni.

Nel 2013 sono aumentati i tentativi dello Stato per incoraggiare gli arabi cristiani ad arruolarsi nell’esercito israeliano, approfittando del fatto che sono meno numerosi degli arabi musulmani, e cercando di creare timore per la “crescente ‘minaccia musulmana’ nella regione.” L’attuale tentativo dello Stato di assegnare agli arabi cristiani una nuova etnicità aramaica è collegato a questo.

Odna Copty, che lavora per il Comitato di Monitoraggio dell’Educazione Araba (FUCAE), afferma che gli arabi cristiani come lei sono ora definiti come aramaici piuttosto che arabi.

“Dicono che siamo un gruppo con religioni diverse e non abbiamo niente in comune, ” afferma. “Quando parlo con qualcun altro che è arabo, non mi viene mai in mente di chiedergli specificamente della sua religione, perché nella cultura araba non è educato fare domande simili.”

L’intento dello Stato di isolare i cristiani e fare in modo che adottino una nuova identità aramaica non ha ancora attecchito tra la gente. Al contrario, molti arabo-palestinesi come Copty deridono questi tentativi come artificiosi e destinati a fallire.

Tuttavia il passato dimostra che simili iniziative hanno avuto successo nel contesto dei drusi. Pertanto questa nuova strategia del divide et impera dovrebbe essere presa sul serio piuttosto che liquidata come assurda.

La storia di qualcun altro

La seconda area importante in cui lo Stato mette in atto direttamente la sua politica del divide et impera sono i contenuti che gli alunni studiano a scuola. Tutto il sistema educativo è basato “sui valori della cultura ebraica e sui successi in campo scientifico, sull’amore per la patria e la lealtà nei confronti dello Stato e del popolo ebraico (…)” come stabilito nella legge dell’Educazione Statale del 1953.

In pratica, ciò significa che i curricula destinati ai settori ebraici laici o religiosi intendono insegnare agli studenti i valori del sionismo ed il punto di vista ebraico. Di conseguenza, gli studenti arabo-palestinesi durante i 14 anni di scuola non apprendono niente della storia o della cultura del loro stesso popolo.

Oltretutto l’immagine degli arabo-palestinesi descritta per loro nei libri di testo è negativa, se non apertamente razzista.

Le differenze tra gli arabo-palestinesi sono evidenziate in un nuovo e controverso testo di educazione civica introdotto in maggio dall’attuale ministro dell’Educazione Naftali Bennett.

Nonostante accese proteste da parte della comunità arabo-palestinese, Bennett ha insistito per la pubblicazione di un libro che, tra le altre cose, “senza ragione distingue tra le componenti musulmane, cristiane, aramaiche e druse di Israele e dedica più attenzione al servizio militare di quest’ultima piuttosto che al sottogruppo più ampio “, cioè gli arabi musulmani.

Legata a questo problema è l’assunzione di insegnanti e presidi nelle scuole arabe. All’interno della comunità palestinese in Israele è risaputo che il ministero dell’Educazione non nomina le persone più adatte a questo lavoro, ma quelle che collaborano con lo Stato.

Il fatto che lo Shabak (Shin Bet), il servizio di sicurezza interno di Israele, sia coinvolto nelle assunzioni – e nella selezione che le precede- degli insegnanti e dei presidi dimostra quanto Israele consideri fondamentale la nomina delle persone ‘giuste’. Scegliendo insegnanti e presidi leali, o per lo meno non critici, lo Stato garantisce che verranno insegnati solo i contenuti previsti dal curriculum scolastico. Persino nelle scuole private, che hanno un certo grado di libertà riguardo all’assunzione dei docenti e ai contenuti, gli insegnanti sono consapevoli del loro ruolo all’interno del sistema e aderiscono in maggioranza alla narrazione dominante.

Tutti questi aspetti presi insieme garantiscono che lo Stato, grazie all’intervento diretto nel sistema educativo, trasmetta solo la narrazione sionista dominante, che dovrebbe tutelare il carattere ebraico dello Stato. Questa prassi intende seminare divisioni tra gli studenti arabo-palestinesi, perché nega l’esistenza di una Nazione palestinese e sottolinea piuttosto ogni aspetto che separa la comunità in termini di religione o di altro.

Buona educazione – se te lo puoi permettere

Israele tenta anche di indebolire la coesione nella comunità arabo-palestinese in un modo più indiretto e sottile. Anche se le cifre esatte variano, è evidente che il ministero dell’Educazione assegna molti meno fondi alle scuole arabe che a quelle ebraiche, con il risultato di una grave mancanza di risorse in tutte le scuole pubbliche arabe.

Le scuole dei beduini sono considerate ben fornite se si tratta di edifici di mattoni con acqua corrente ed elettricità. In seguito al costante lavoro del FUCAE, il ministero dell’Educazione è totalmente al corrente della quantità di denaro necessaria annualmente per studente al fine di ridurre la differenza tra studenti ebrei ed arabi.

Tuttavia, secondo Aatef Moadei, direttore generale del FUCAE, Israele è interessato a gestire questa differenza piuttosto che a ridurla. L’indifferenza dello Stato è ancora più evidente quando si prende in considerazione il fatto che è diretta contro persone che rappresentano oltre il 20% dei suoi stessi cittadini, che pagano tutti le tasse e si aspettano di vedere in cambio investimenti significativi.

In conseguenza della mancanza di fondi e della carenza delle infrastrutture nella maggior parte delle scuole pubbliche, le scuole private arabe sono diventate l’alternativa preferita per i genitori che vogliono che i propri figli ricevano un’educazione migliore. Molte scuole private arabe sono gestite ed in parte finanziate da chiese, il che significa che hanno più fondi di cui avvalersi e maggiore libertà nella gestione degli affari interni della scuola. Le scuole delle chiese arabe sono aperte a tutti gli alunni arabi, non solo ai cristiani.

Tuttavia, poiché i genitori devono pagare le tasse d’iscrizione a queste scuole, le famiglie arabe più povere, che sono in genere musulmane, sono escluse da questa alternativa. Di conseguenza, con i finanziamenti volutamente scarsi alle scuole pubbliche e obbligando la comunità araba a rivolgersi all’educazione privata, che è in parte a pagamento, ancora una volta lo Stato impone una divisione della comunità in base alla religione, oltre a mettere in evidenza la stratificazione in base alla classe sociale.

Mantenere poco istruiti gli studenti

La strategia dello Stato riguardo al sistema educativo arabo intende garantire che i cittadini palestinesi di Israele rimangano poco istruiti, pur fornendo loro la formazione sufficiente a mascherare la realtà sia per la comunità internazionale che per l’opinione pubblica israeliana.

Il grave deficit nel sistema scolastico determina una bassa partecipazione degli arabi all’educazione superiore: solo uno studente arabo su quattro arriva all’educazione superiore, rispetto a uno su due studenti ebrei. Di conseguenza, le misure dirette ed indirette attuate dallo Stato non portano solo al rafforzamento delle differenze all’interno della comunità arabo palestinese.

Su scala più ampia, queste misure configurano anche un sistema che produce forza lavoro relativamente poco qualificata, per esempio formando insegnanti arabi poco qualificati, cosa che, a sua volta, avrà un effetto sulla prossima generazione di alunni arabo- palestinesi – garantendo una costante marginalizzazione della minoranza palestinese in Israele.

Democrazia solo di nome

Quindi lo Stato interferisce direttamente e indirettamente nel settore dell’educazione araba e intende imporre la separazione tra i cittadini arabo- palestinesi in Israele sulla base dell’etnia, della religione, della geografia e della classe sociale. Il sistema scolastico, così com’è ora, serve agli interessi dello Stato piuttosto che a quello degli studenti.

I palestinesi in Israele sono consapevoli delle diversità della loro comunità. Tuttavia sostengono che il governo utilizza il sistema educativo per rafforzare le differenze esistenti, che non sarebbero così problematiche se non fossero sottolineate continuamente dallo Stato. Il controllo delle loro scuole da parte del ministero dell’Educazione e soprattutto l’assoluta mancanza di libertà riguardo ai contenuti insegnati sono due pratiche che rifiutano ampiamente.

Dunque la comunità araba palestinese di Israele chiede una completa autonomia per il settore dell’educazione araba, per farsi totalmente carico della distribuzione dei fondi, dei contenuti dei curricula e dell’assunzione degli insegnanti in tutte le scuole arabe.

L’autonomia del settore educativo arabo in Israele sarebbe un importante passo verso il miglioramento dell’educazione araba in generale. Inoltre determinerebbe un cambiamento per i cittadini arabo- palestinesi di Israele, ponendo fine ai tentativi dello Stato di dividerli in comunità sempre più ridotte per mettere in crisi il movimento nazionale palestinese.

Anche se questo obiettivo può sembrare utopico, è di cruciale importanza che Israele inizi a trattare tutti i suoi cittadini, ebrei e non, allo stesso modo se vuole continuare a chiamarsi e ad essere chiamato una democrazia.

– Mona Bieling è una dottoranda in Storia Internazionale presso l’Istituto Universitario di Studi Internazionali e Sviluppo (IHEID) di Ginevra, Svizzera. Questa ricerca è stata realizzata con il sostegno di Baladna – Associazione per la Gioventù Araba di Haifa, Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Migliaia di arabi ed ebrei marciano insieme a Tel Aviv contro il razzismo e le demolizioni di case

  1. Nota redazionale: nel presente articolo gli autori utilizzano costantemente ed esclusivamente i termini “arabo/i” ed “ebreo/i” intendendo “palestinesi con cittadinanza israeliana” e “israeliani ebrei”. Si tratta del modo in cui sono solitamente denominati i due gruppi in Israele. Pur non condividendo questo modo di definirli, per correttezza rispetto agli autori abbiamo conservato queste categorie anche nella traduzione.

Inoltre sulla morte del palestinese ucciso durante l’evacuazione del villaggio beduino viene riportata solamente la versione della polizia contraddetta da testimonianze e da un video.

di Jack Khoury e Or Kashti |. 5 febbraio 2017 | Haaretz

I promotori sostengono che la protesta, in cui i discorsi sono stati fatti in arabo e in ebraico, è una nuova fase della lotta civile di ebrei e arabi.

Migliaia di persone, arabi ed ebrei, hanno marciato sabato sera [4 febbraio 2017] a Tel Aviv in una manifestazione di protesta contro le demolizioni di case delle scorse settimane a Kalansua e a Umm al-Hiran e contro ulteriori misure di demolizione di altre case.  

Gli organizzatori hanno detto che circa 5000 manifestanti hanno partecipato al corteo, che è iniziato all’incrocio tra le due strade King George ed Allenby e si è concluso nella piazza Dizengoff.

Alcune associazioni ebraiche e arabe hanno partecipato all’organizzazione della protesta, che i promotori hanno definito come una nuova fase della lotta civile degli ebrei e degli arabi. I discorsi sono stati fatti in arabo e in ebraico e i dimostranti hanno sventolato sia bandiere israeliane che palestinesi.

Amal Abu Sa’ad, la vedova di Yakub Abu al-Kiyan, che è stato ucciso il mese scorso durante le operazioni di demolizione delle case illegali del villaggio beduino non autorizzato di Umm al-Hiran, nel Negev , ha parlato ai manifestanti: “È importante per me essere qui e parlarvi e trasmettere il messaggio al primo ministro e ai suoi ministri. Nonostante la vostra rozza istigazione, il razzismo e una discriminazione nella legislazione, nella sua applicazione, nelle infrastrutture e nei servizi pubblici, non riuscirete a creare divisioni tra i cittadini del Paese. Voi che siete qui oggi siete la prova che ebrei e arabi possono e vogliono vivere insieme e con uguali diritti.”

Amal Abu Sa’ad ha chiesto al governo di istituire una commissione d’inchiesta indipendente per indagare sull’evacuazione di Umm al-Hiran. Al-Kiyan è stato ucciso dalla polizia quando con la sua auto ha investito e ucciso il sergente maggiore della polizia Erez Levi e ferito un altro graduato.

Il parlamentare Ayman Odeh, leader della Lista Unita [coalizione di partiti della minoranza palestinese in Israele, ndt] ha fatto un discorso e ha detto: “Oggi sono venute qui migliaia di persone, arabi ed ebrei, da tutto il Paese per protestare vivamente contro l’attacco del governo alla popolazione araba, per chiedere l’uguaglianza, il riconoscimento dei villaggi non autorizzati e una commissione d’inchiesta ufficiale dello Stato per analizzare tutti i fatti riguardanti la brutale evacuazione di Umm al-Hiran”

Il parlamentare Dov Khenin (Llista Unita) ha detto: “ Le migliaia di persone che hanno manifestato questa sera a Tel Aviv esprimono una voce di speranza e di intelligenza nei confronti di un governo che sceglie l’istigazione e l’odio. Sappiamo che l’istigazione è l’ultimo rifugio di quelli che hanno fallito.”

L’alto comitato arabo di inchiesta (the Higher Arab Monitoring Committee) ha reso nota la decisione di appellarsi a Israele e all’opinione pubblica internazionale. Centinaia di cittadini ebrei hanno partecipato alle recenti proteste contro le demolizioni di case, ha detto Raja Za’atra di Hadash [partito comunista che fa parte della coalizione Lista Unita , ndt], che presiede il sottocomitato del partito incaricato delle pubbliche relazioni con l’opinione pubblica israeliana.

Za’atra ha detto che dalla costituzione della Lista Unita, un maggior numero di politici della comunità araba ritiene di importanza strategica la costruzione di ponti per il dialogo e la collaborazione con le forze democratiche presenti nella società israeliana. Ha aggiunto che questo è particolarmente vero alla luce dell’aumento del razzismo e dei duri attacchi del primo ministro Benjamin Netanyahu e del suo governo contro la popolazione araba e contro la democrazia.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Il testo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulle colonie israeliane

“Le colonie israeliane non hanno alcuna validità legale, costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”.

https://www.un.org/press/en/2016/sc12657.doc.htm

Il Consiglio di Sicurezza,

riconfermando le sue risoluzioni sull’argomento, comprese le 242 (1967), 338 (1973), 446 (1979), 452 (1979), 465 (1980), 476 (1980), 478 (1980), 1397 (2002), 1515 (2003 e 1850 (2008),

guidato dalle intenzioni e dai principi della Carta delle Nazioni Unite e riaffermando, tra le altre cose, l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza,

riconfermando l’obbligo di Israele, potenza occupante, di attenersi scrupolosamente ai suoi obblighi legali ed alle sue responsabilità in base alla Quarta Convenzione di Ginevra riguardanti la protezione dei civili in tempo di guerra, del 12 agosto 1949, e ricordando il parere consuntivo reso dalla Corte Internazionale di Giustizia il 9 luglio 2004,

condannando ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, riguardante, tra gli altri: la costruzione ed espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali e importanti risoluzioni,

esprimendo grave preoccupazione per il fatto che le continue attività di colonizzazione israeliane stanno mettendo pericolosamente in pericolo la possibilità di una soluzione dei due Stati in base ai confini del 1967,

ricordando gli obblighi in base alla Roadmap del Quartetto, appoggiata dalla sua risoluzione 1515 (2003), per il congelamento da parte di Israele di tutte le attività di colonizzazione, compresa la “crescita naturale”, e lo smantellamento di tutti gli avamposti dei coloni costruiti dal marzo 2001,

ricordando anche l’obbligo, in base alla Roadmap del Quartetto, delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese di mantenere operazioni concrete intese a prendere misure contro tutti coloro che sono impegnati in azioni terroristiche e a smantellare gli strumenti terroristici, compresa la confisca di armi illegali,

condannando ogni atto di violenza contro i civili, comprese le azioni terroristiche, così come ogni atto di provocazione, incitamento e distruzione,

riprendendo la propria visione di una regione in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivano uno di fianco all’altro in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute,

sottolineando che lo status quo non è accettabile e che passi significativi, coerenti con la transizione prevista nei precedenti accordi, sono urgentemente necessari per (i) stabilizzare la situazione e ribaltare le tendenze negative sul terreno, che stanno costantemente erodendo la soluzione dei due Stati e rafforzando una realtà dello Stato unico, e (ii) creare le condizioni di efficaci negoziati sullo status definitivo e per il progresso della soluzione dei due Stati attraverso questi negoziati e sul terreno,

1. Riafferma che la costituzione da parte di Israele di colonie nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace, definitiva e complessiva;

2. insiste con la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e che rispetti totalmente tutti i propri obblighi a questo proposito;

3. ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 1967, comprese quelle riguardanti Gerusalemme, se non quelle concordate dalle parti con i negoziati;

4. sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è indispendabile per salvaguardare la soluzione dei due Stati e invoca che vengano intrapresi immediatamente passi positivi per invertire le tendenze in senso opposto sul terreno che stanno impedendo la soluzione dei due Stati;

5. chiede a tutti gli Stati, tenendo presente il paragrafo 1 di questa risoluzione, di distinguere, nei loro contatti importanti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967;

6. Chiede passi immediati per evitare ogni atto di violenza contro i civili, compresi atti di terrorismo, così come ogni azione di provocazione e distruzione, chiede che a questo proposito i responsabili vengano chiamati a risponderne, e invoca il rispetto degli obblighi in base alle leggi internazionali per rafforzare i continui sforzi di combattere il terrorismo, anche attraverso l’attuale coordinamento per la sicurezza, e la condanna esplicita di ogni atto di terrorismo;

7. Chiede ad entrambe le parti di agire sulla base delle leggi internazionali, comprese le leggi umanitarie internazionali, e dei precedenti accordi ed obblighi, di mantenere la calma e la moderazione e di evitare azioni di provocazione, di incitamento e di retorica incendiaria, con il proposito, tra le altre cose, di attenuare l’aggravamento della situazione sul terreno, di ricostituire la fiducia, dimostrando attraverso politiche e azioni concrete un effettivo impegno a favore della soluzione dei due Stati, creando le condizioni necessarie alla promozione della pace;

8. chiede alle parti di continuare, nell’interesse della promozione della pace e della sicurezza, di esercitare sforzi congiunti per lanciare negoziati credibili sulle questioni riguardanti lo status finale nel processo di pace del Medio Oriente e nei tempi definiti dal Quartetto nella sua dichiarazione del 21 settembre 2010;

9. Invita a questo proposito ad intensificare ed accelerare gli sforzi e il sostegno ai tentativi diplomatici internazionali e regionali che intendono raggiungere senza ulteriori ritardi una pace complessiva, giusta e definitiva in Medio Oriente sulla base delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, dei parametri di Madrid, compreso il principio di terra in cambio di pace, dell’iniziativa araba di pace e della Roadmap del Quartetto e una fine dell’occupazione israeliana iniziata nel 1967; sottolinea a questo proposito l’importanza dei continui sforzi di promuovere l’iniziativa di pace araba, della Francia per la convocazione di una conferenza di pace internazionale, i recenti tentativi del Quartetto, così come quelli dell’Egitto e della Federazione Russa;

10. Conferma la propria determinazione ad appoggiare le parti attraverso i negoziati e nella messa in pratica di un accordo;

11. Riafferma la propria determinazione ad esaminare mezzi e modi per garantire la completa applicazione delle sue risoluzioni a questo proposito;

12. Chiede al segretario generale di informare il Consiglio ogni tre mesi sull’attuazione delle decisioni della presente risoluzione;

13. Decide di seguire attivamente la questione.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Il sionismo nella sua espressione migliore

di Amira Hass, 30 novembre 2016 , Haaretz

La terra che Israele ha destinato ai giubilanti coloni si chiama Atir/Umm al Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an.

I video prodotti dal gruppo di coloni di Hiran mostra molti ebrei festanti, che amano cantare e suonare, raccontare barzellette e divertirsi. Saranno presto ancor più contenti, quando si sposteranno nel luogo della loro comunità defintiva nel nordest del Negev.

La terra che lo stato ha destinato a loro si chiama Atir/Umm al-Hiran e per 60 anni ha ospitato i membri della tribù beduina di Al-Qi’an. In altri termini, le case ed i parchi giochi per i bambini ebrei che verranno costruiti là, ed i parchi che vi verranno piantati, saranno tutti edificati sulle rovine delle case e delle vite di circa 1000 altre persone, che sono anch’esse cittadini israeliani (alcuni dei quali hanno servito nell’esercito, se a qualcuno importa).

Adesso ogni giorno i bulldozer dell’Amministrazione per la Terra di Israele, e/o i suoi subappaltatori, vanno a demolire le case di questi cittadini beduini per fare spazio alla fiorente comunità di giubilanti cittadini ebrei. In una parola, il sionismo.

Non si tratta di un atto di guerra o nemmeno di spirito di vendetta; tutto è stato pianificato attentamente e con calma. Il governo di Ariel Sharon ha preso la decisione, il Consiglio per la Pianificazione e l’Edificazione Nazionale ha approvato e le commissioni per i ricorsi hanno respinto tutte le contestazioni presentate.

Il piano per distruggere le vite dei beduini, per i quali il Negev è stata la casa per centinaia di anni, per favorire e promuovere un gruppo di ebrei raccolti da tutto il paese viene anche approvato e sancito da sei giudici di tre differenti tribunali: Israel Pablo Akselrad della Corte di giustizia di Kyriat Gat; i giudici Sarah Drovat, Rachel Barkai e Ariel Vago della Corte distrettuale di Be’er Sheva e i giudici Elyakim Rubinstein e Neal Hendel della Corte Suprema (il giudice Daphne Barak-Erez si è opposta alla demolizione).

Questi giudici sapevano che la tribù di Al-Qi’an viveva a Umm al-Hiran dal 1956, dopo esservi stata trasferita su ordine del governatore militare. Dopo il 1948 quei pochi beduini che Israele non ha espulso verso Gaza, la Cisgiordania o la Giordania furono obbligati a rimanere in un’area a loro destinata del Negev, che gradualmente è stata ridotta. La tribù di Al-Qi’an è stata costretta ad abbandonare le terre in cui aveva vissuto per parecchie generazioni e su cui è stato costruito il kibbutz Shoval. Dopo anni di nomadismo ed espulsioni, è arrivato il permesso di stabilirsi nell’area di Wadi Yatir. Ciononostante lo stato non ha mai riconosciuto ufficialmente il loro villaggio. Ciò significa 60 anni senza elettricità, senza servizio idrico e senza finanziamenti governativi per l’istruzione, la salute o il welfare. Oltre a questo, tutte le strutture sono definite “illegali”.

La “Nazione delle Startup” (slogan israeliano, ndtr.) vuole trasferirli nel villaggio beduino di Hura. Ecco quindi un’altra mini-lezione di sionismo: gli ebrei israeliani possono decidere da soli dove e come vivere. Gli arabi? Dovrebbero esserci grati perché non li espelliamo; loro vivranno dove e come decidiamo noi.

Il giudice Akselrad ha scritto: “Possiamo dire che l’interesse personale dei ricorrenti riguardo al fatto che i tetti sopra le loro teste non vengano demoliti non ha rilievo in queste circostanze, e in ogni caso non può prevalere rispetto al pubblico interesse di impedire che si costruisca su terreni statali.”

E i giudici di Be’er Sheva: “Una volta stabilito che il permesso concesso ai ricorrenti di usare il terreno è revocabile, il convenuto ha il diritto di richiedere il loro sfratto dal terreno…L’accusa che il convenuto abbia motivazioni nascoste o anche palesi per espellerli dalla terra al fine di stabilirvi una comunità di ebrei….(deve essere dibattuta) in un differente tribunale.”

E che cosa hanno detto i due giudici del tribunale speciale, la Corte Suprema? Si sono nascosti dietro la motivazione procedurale che i residenti avevano presentato in ritardo i loro ricorsi contro la distruzione delle loro case e delle loro vite.

La decisione presa a maggioranza da Rubinstein e Hendel, che consente la demolizione del villaggio, è stata pronunciata nel maggio 2015. Ora i bambini e gli adulti di Umm al-Hiran sanno che da un momento all’altro i bulldozer e i funzionari ebrei che recano ordini ufficiali arriveranno per cacciarli via.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 1 – 14 novembre 2016 (due settimane)

Nei pressi dell’insediamento colonico israeliano di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un 23enne palestinese mentre tentava di aggredire con un coltello i soldati israeliani. Questo episodio porta a 73 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Un altro palestinese è stato ferito con arma da fuoco, e successivamente arrestato, in un presunto tentativo di accoltellamento verificatosi nel villaggio di Huwwara (Nablus). In nessuno di tali episodi sono stati riportati ferimenti di israeliani. In un altro caso, ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem, palestinesi hanno aperto il fuoco e ferito un soldato, riuscendo poi a fuggire.

Nei Territori Palestinesi Occupati (oPt), nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 57 palestinesi, tra cui 19 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare. I rimanenti feriti sono stati registrati in Cisgiordania: durante scontri scoppiati nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante le manifestazioni settimanali contro la Barriera e gli insediamenti a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di eventi commemorativi del 12° anniversario della morte dell’ex presidente palestinese Yasser Arafat.

In tre diversi episodi, che hanno visto coinvolte forze israeliane e coloni, altri nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti mentre raccoglievano olive sui propri terreni. In particolare: in una zona vicino all’insediamento colonico israeliano di Qedumim (Qalqiliya), in circostanze poco chiare, soldati israeliani hanno aggredito fisicamente due persone che erano entrate nella propria terra dopo aver ottenuto una “preventiva autorizzazione” all’accesso; nel villaggio Al Janiya (Ramallah), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito quattro persone che stavano lavorando vicino all’insediamento colonico di Talmon; altre quattro persone sono rimaste ferite, nei pressi di Bani Na’im (Hebron), dall’esplosione di una granata assordante abbandonata dalle forze israeliane. In altri due episodi, sempre nel contesto della raccolta delle olive, coloni israeliani hanno vandalizzato 70 ulivi in Sa’ir (Hebron) mentre, presso l’insediamento colonico di Shave Shomron (Nablus), hanno raccolto olive da alberi di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, in Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 47 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi, dieci dei quali minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 330 persone. Nove di queste strutture erano state fornite come assistenza umanitaria, in risposta a demolizioni precedenti. Dall’inizio del 2016, il numero di strutture prese di mira ammonta a 1.033: più del doppio rispetto al dato relativo allo stesso periodo del 2015. Nel periodo di riferimento sono stati emessi almeno 24 ordini di demolizione, di arresto-lavori e di sfratto.

Nella comunità pastorale di Khirbet Tana (Nablus), i funzionari israeliani hanno sequestrato un generatore elettrico e una macchina per il taglio dei metalli, appartenenti ad una organizzazione assistenziale; hanno inoltre fatto rilievi fotografici di strutture precedentemente fornite come assistenza; tra queste, una struttura adibita a scuola, quattro cisterne per l’acqua e sei ricoveri abitativi. La comunità si trova all’interno di un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” e, dall’inizio del 2016, ha subito quattro ondate di demolizioni.

In una dichiarazione rilasciata il 10 novembre, Robert Piper, Coordinatore delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari e lo Sviluppo, ha condannato il continuo osteggiamento dell’assistenza umanitaria da parte delle autorità israeliane, affermando che “colpire i più vulnerabili tra i vulnerabili ed impedire loro di ricevere assistenza – in particolare con l’arrivo dell’inverno – è inaccettabile e contraddice gli obblighi di Israele quale potenza occupante”.

In tre occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno trasferito, per diverse ore ogni volta, 23 famiglie (123 persone, tra cui 59 minori) appartenenti a due comunità di pastori palestinesi nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq). Le due comunità devono far fronte anche ad ripetute demolizioni e restrizioni ai loro spostamenti che acuiscono le crescenti preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Cinque famiglie palestinesi (29 persone) che vivono nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, hanno ricevuto avvisi di sfratto connessi a cause intentate da organizzazioni di coloni israeliani che rivendicano la proprietà delle abitazioni. Un sondaggio esplorativo, effettuato a Gerusalemme Est da OCHA [Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari], indica che su almeno 180 famiglie palestinesi pende una causa di sfratto presentata contro di loro principalmente da organizzazioni di coloni israeliani: sono pertanto a rischio di sfollamento più di 818 palestinesi, tra cui 372 minori.

Nella zona H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un ragazzo palestinese che si stava recando a scuola. Nel corso del periodo di riferimento almeno quattro episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani hanno causato danni a veicoli palestinesi.

Secondo i media israeliani, si sono verificati otto casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani: ferito un colono israeliano, danneggiati almeno sei veicoli e la metropolitana leggera di Gerusalemme. Vicino a Betlemme un altro veicolo è stato danneggiato da un ordigno esplosivo.

A Rafah, nella Striscia di Gaza, un 15enne palestinese è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico con il quale stava giocando nei pressi della scuola.

In almeno 23 occasioni durante il periodo cui si riferisce questo Rapporto (due settimane), le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare della Striscia di Gaza. In altri tre casi, le forze israeliane sono entrate nelle ARA di terra per livellare il terreno ed effettuare scavi. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, nell’ultimo giorno del periodo di riferimento [14 novembre] è stato eccezionalmente aperto per i casi umanitari, consentendo l’uscita dalla Striscia di Gaza a 386 palestinesi ed il rientro a 274 (dopo tale data il passaggio è rimasto ancora aperto per alcuni giorni). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato eccezionalmente aperto il 6 novembre, per consentire a una delegazione di 93 palestinesi l’ingresso in Egitto; è stato quindi riaperto il 12 novembre per consentire il loro rientro.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Israele non ha attuato nessuna pulizia etnica nel 1948

Nota redazionale: pur non condividendone affatto i contenuti, e non potendo in questa sede entrare nel merito della sua fondatezza dal punto di vista storico (smentita ad esempio dai lavori di Ilan Pappé), abbiamo deciso di proporre questa risposta di Benny Morris all’articolo di Daniel Blatman su Haaretz.

Pensiamo infatti che i lettori di Zeitun possano essere interessati a seguire il dibattito storiografico innescato in Israele dalle dichiarazioni di Netanyahu in merito alla definizione di “pulizia etnica” nel caso di un ritiro dei coloni dai territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est. Va comunque ricordato quanto lo stesso Morris ha dichiarato al quotidiano Haaretz… “Senza la rimozione dei palestinesi, qui non avrebbe potuto nascere uno Stato ebraico… quel che penso è che questo posto sarebbe stato più tranquillo e avrebbe conosciuto meno sofferenza se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben Gurion avesse compiuto una grande espulsione e ripulito l’intero paese – l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano. Potremmo scoprire che questo fu il suo errore fatale. Se avesse portato a termine un’espulsione completa – invece di una parziale – avrebbe potuto stabilizzare lo Stato d’Israele per molte generazioni.”
E riguardo alle responsabilità di Ben Gurion e dei dirigenti sionisti ha affermato: “Dall’aprile del 1948, Ben Gurion trasmette l’idea del trasferimento. Non ci sono ordini espliciti nei suoi scritti, non c’è una precisa linea politica, ma traspare l’idea del trasferimento [di popolazione]. L’idea del trasferimento è nell’aria. L’intera leadership ha capito che questa era l’idea. Il corpo ufficiali capisce cosa gli viene richiesto. Sotto Ben Gurion, viene creato il consenso al trasferimento….Certo, Ben Gurion era un sostenitore del trasferimento. Aveva capito che non avrebbe potuto esistere uno Stato ebraico con una vasta minoranza araba ostile al suo interno. Non avrebbe mai potuto esistere uno Stato simile. Non sarebbe stato in grado di sopravvivere.”

Vedi: http://www.forumpalestina.org/Doc%20forumpalestina/2004/Febbraio04/27-02-0Nakba_ 1948_ Intervista_di_Benny-Morris.htm

di Benny Morris

Haaretz – 10 ottobre 2016

Il professor Daniel Blatman distorce la storia quando afferma che il nuovo stato di Israele, un paese che affrontava eserciti invasori, ha condotto una politica di espulsione delle popolazioni arabe locali.

In fondo al suo articolo della scorsa settimana, “Netanyahu, ecco che cosa è veramente la pulizia etnica”, il professor Daniel Blatman viene definito uno “storico”. In tal caso, Blatman ha tradito la sua professione attribuendomi posizioni che non ho mai sostenuto e distorcendo gli eventi della guerra del 1948.

Anzitutto nel suo articolo Blatman ignora il fatto fondamentale che sono stati i palestinesi a dare inizio alla guerra, quando hanno respinto il piano di compromesso delle Nazioni Unite ed hanno intrapreso azioni ostili in cui 1800 ebrei sono stati uccisi tra il novembre 1947 e la metà di maggio 1948. (In questo, tra l’altro, c’è differenza tra gli ebrei ed i serbi, che hanno iniziato le guerre in Yugoslavia negli anni 1990 ed hanno effettivamente attuato una pulizia etnica in Bosnia ed altrove).

Riguardo alla seconda fase della guerra del 1948, Blatman sostiene che i paesi arabi hanno invaso il futuro stato di Israele per salvare i loro fratelli palestinesi dalla pulizia etnica che gli ebrei avevano iniziato, e che la maggior parte di essi ha attaccato il nuovo stato di Israele a questo scopo. Nel corso di questa presunta pulizia etnica “più di 400.000” arabi – che secondo Blatman costituivano oltre la metà della popolazione araba palestinese – sono stati espulsi dalle loro case e costretti a fuggire dal 14 maggio (1948). (In realtà, all’epoca vi erano da 1,2 a 1,3 milioni di arabi nel paese.)

Il numero reale di coloro che sono fuggiti e sono stati costretti a fuggire era verosimilmente più basso, ma, cosa ancor più importante, gli stati arabi hanno attaccato lo stato di Israele soprattutto per nuocergli, se non per distruggerlo. Il fatto è che i loro leaders hanno minacciato l’invasione anche prima che fosse approvata la risoluzione dell’ONU il 29 novembre 1947 e prima che anche un solo arabo fosse stato cacciato dalla sua casa. Ed hanno continuato a minacciare un’invasione nei mesi seguenti, fino a maggio 1948.

Non è stata la tragedia palestinese a motivare i paesi arabi durante l’invasione. La verità è che la fuga e l’espulsione degli arabi dalle loro case prima della nascita dello stato di Israele, soprattutto da inizio aprile fino al 14 maggio 1948 [data della proclamazione dello Stato di Israele, ndt.] (è a tale proposito che sono stati sempre citati la presa di Jaffa, Tiberiade e Haifa ed il massacro di Deir Yassin) hanno alimentato l’estremismo tra le popolazioni arabe che circondavano il futuro Israele e sono state una delle ragioni per cui i leaders arabi hanno deciso di procedere all’invasione alla vigilia del 15 maggio.

Ma fattori più importanti hanno influenzato i leaders arabi nella loro decisione: per esempio, re Abdullah di Giordania voleva espandere i confini del proprio paese, il re egiziano intendeva negare a quello giordano ulteriori conquiste territoriali ed i leaders di Siria, Iraq ed Egitto temevano la reazione interna se non avessero effettuato l’invasione. La preoccupazione per il benessere degli arabi nel territorio, non ancora stato, di Israele non era il principale motivo dell’invasione araba.

Attaccare il neonato stato ebraico

Secondo Blatman, io ho sostenuto che “più di sei mesi prima che iniziasse l’invasione araba” i leaders dell’Yishuv, la comunità ebraica nella Terra di Israele, aspiravano ad espandere i confini del paese oltre quelli stabiliti dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, “e ridurre al minimo il numero” degli arabi che sarebbero rimasti nello stato ebraico.

Questo non ha senso, è una distorsione delle mie parole e della storia. Ovviamente i leaders, nei primi anni di vita di un paese, hanno interesse ad espanderne il territorio, ma c’è una grande differenza tra aspirazioni personali e politiche.

In termini politici, i leaders dell’Yishuv aspiravano ad ingrandire l’area dello stato che stava per nascere solo a partire da marzo-aprile 1948, non fin da novembre 1947. E questo è successo solo dopo quattro mesi di conflitto arabo contro l’Yishuv, che stava impostando una difesa strategica. Ed è successo solo dopo che i leaders arabi dichiararono apertamente, mattina, giorno e notte, che intendevano attaccare lo stato ebraico quando se ne fossero andati i britannici.

Riguardo al fatto di ridurre al minimo il numero di arabi, in nessun momento della guerra del 1948 fu presa una decisione da parte della leadership dell’Yishuv o dello stato di “espellere gli arabi” – né nell’ambito dell’Agenzia Ebraica né del governo di Israele; e neanche all’interno dello stato maggiore dell’Haganah [principale milizia sionista prima della creazione dell’esercito israeliano, ndt] o dell’esercito israeliano. E nessun partito importante nell’Yishuv, neppure i revisionisti [gruppi sionisti della destra nazionalista, ndt.], ha inserito tale politica nel suo programma.

E’ vero che negli anni ’30 ed all’inizio degli anni ’40 David Ben Gurion e Chaim Weizman hanno sostenuto il trasferimento di arabi dall’area del futuro stato ebraico. Ma in seguito hanno appoggiato la decisione dell’ONU, il cui piano prevedeva che più di 400.000 palestinesi rimanessero dove erano [cioè nel territorio dello Stato di Israele, ndt.].

E’ vero altresì che a partire da una certa fase della guerra Ben Gurion ha lasciato intendere ai suoi ufficiali che era preferibile che rimanessero nel nuovo paese meno arabi possibile, ma non diede mai loro l’ordine di “espellere gli arabi”. (Nel luglio 1948 si è espresso addirittura contro l’espulsione degli arabi di Nazareth, mentre ha ordinato a malincuore l’espulsione di quelli di Lod e Ramle.)

La logica del trasferimento che prevalse nel paese a cominciare dall’aprile 1948 non si è mai trasformata in una scelta politica ufficiale – il che spiega perché ci sono stati ufficiali che espulsero gli arabi ed altri che non lo fecero. Né gli uni né gli altri sono stati redarguiti o puniti.

Alla fine, nel 1948 circa 160.000 arabi sono rimasti nel territorio israeliano – un quinto della popolazione. Nel corso dei decenni questo numero è aumentato fino a 1,6 milioni. (In questo mese i loro leaders hanno deciso di non partecipare al funerale di Shimon Peres, che cercò di promuovere un accordo basato sulla soluzione di due stati.)

Nessuna politica di espulsione totale

Se Blatman legge i miei libri, può apprendere che già il 24 marzo 1948 Israel Galili, vice di Ben Gurion nel futuro Ministero della Difesa e capo dell’Haganah, ordinò a tutte le brigate dell’Haganah di non deportare gli arabi dal territorio destinato allo stato ebraico. Le cose cambiarono all’inizio di aprile a causa delle instabili condizioni dell’Yishuv e dell’imminente invasione araba. Ma non vi fu una politica di espulsione totale – in qualche luogo espulsero la popolazione, in altri no, e per la maggior parte gli arabi semplicemente scapparono.

E’ vero che a metà del 1948 il nuovo stato di Israele adottò una politica di divieto del ritorno dei rifugiati – gli stessi rifugiati che mesi e settimane prima avevano cercato di distruggere il nascituro stato. Ma io continuo a ritenere tale politica logica e giusta.

Non accetto la definizione di “pulizia etnica” per ciò che fecero gli ebrei nel futuro stato di Israele nel 1948. (Se prendiamo in considerazione Lod e Ramle, forse possiamo parlare di parziale pulizia etnica). E sicuramente non vi fu una pulizia etnica che fu “una delle più riuscite del XX secolo”, come l’ha definita Blatman. Al contrario.

Alla fine, 160.000 arabi sono rimasti sul territorio israeliano e non tutti quelli che hanno cercato di tornare dai paesi arabi dopo il 1948 sono stati espulsi, come sostiene Blatman. Molti lo sono stati, e a molti che in qualche modo sono ritornati è stato consentito di restare e sono diventati cittadini dello stato ebraico.

Detto per inciso, i paesi arabi hanno attuato una pulizia etnica e scacciato tutti gli ebrei fino all’ultimo dai territori che hanno conquistato nel 1948 – per esempio, i giordani a Gush Etzion e nella città vecchia di Gerusalemme ed i siriani a Masada, Sha’ar Hagolan e Mishmar Hayarden. Gli ebrei, d’altra parte, hanno lasciato rimanere gli arabi ad Haifa e Jaffa e nei villaggi lungo le strade principali del paese – l’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e Tel Aviv-Haifa – un fatto che non corrisponde all’affermazione secondo cui si è trattato di una pulizia etnica “riuscita”.

Riguardo all’attuale preoccupazione su questa questione, è assurdo, per dirla in termini blandi, sostenere che cacciare le comunità ebraiche dalla Cisgiordania sia una “pulizia etnica”, ma c’è una logica nella presenza di ebrei in zone arabe, così come che arabi vivano nello stato ebraico. Nella situazione attuale, l’impresa di colonizzazione in Giudea e Samaria [come i sionisti israeliani definiscono la Cisgiordania occupata, ndt.] costituisce un ostacolo ad una possibile pace tra noi ed i palestinesi. Io mi sono sempre opposto a questa impresa, perché una divisione in due stati per due popoli è la soluzione giusta e logica.

Purtroppo Benjamin Netanyahu ha ragione quando dice che il principale ostacolo alla pace è la mancanza di volontà degli arabi da entrambe le parti della Linea Verde di accettare un compromesso basato su due stati per due popoli, ed il loro rifiuto della legittimazione dell’impresa sionista e dello stato di Israele.

Il professor Benny Morris, storico, è autore di “La nascita della questione dei rifugiati palestinesi rivisitata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 6 – 19 settembre 2016

Nell’arco di quattro giorni (16-19 settembre), sono state registrate sette aggressioni e presunte aggressioni da parte di palestinesi contro israeliani: è il numero più alto a partire dalla precedente escalation di violenza registrata nell’ultimo trimestre del 2015. Sei dei presunti aggressori, tra cui un ragazzo di 17 anni ed un cittadino giordano, sono stati uccisi sul posto;

altri tre sono stati feriti ed arrestati. Cinque soldati ed agenti di polizia e tre coloni israeliani sono stati feriti. Uno degli episodi, verificatosi all’ingresso dell’insediamento colonico di Kir-yat Arba’ (Hebron), è consistito in un sospetto speronamento con auto; negli altri sei casi si è trattato di accoltellamenti, o presunti tentativi di accoltellamento: tre nella Città Vecchia di Hebron, due nella Città Vecchia di Gerusalemme e uno all’ingresso dell’insediamento colonico di Efrata (Betlemme). Da quanto riferito, nessuno dei presunti responsabili risulta affiliato a qualche gruppo armato; tutti avrebbero agito autonomamente.

Due palestinesi sono stati uccisi con armi da fuoco durante scontri con le forze israeliane: il primo nel villaggio di Beit Ula (Hebron), a seguito di una operazione di ricerca-arresto, ed il secondo nei pressi della recinzione che circonda la Striscia di Gaza, nel corso di un episodio di lancio di pietre. La vittima di questo secondo caso è un ragazzo di 16 anni che, secondo le indagini svolte da diverse organizzazioni per i diritti umani, è stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dai soldati israeliani. Sale così a 16, dall’inizio dell’anno, il numero di civili palestinesi uccisi dalle forze israeliane durante scontri e proteste.

Complessivamente, durante il periodo di riferimento di due settimane, nel contesto di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 98 palestinesi, tra cui 37 minori. Oltre tre quarti di queste lesioni sono dovute ad inalazione di gas richiedente un trattamento medico; la maggior parte dei restanti ferimenti sono da attribuire a proiettili di gomma o ad armi da fuoco. Più della metà dei feriti sono stati registrati durante scontri avvenuti nelle città di Abu Dis e di Al ‘Eizariya (nel governatorato di Gerusalemme), a seguito di lancio di pietre da parte di giovani palestinesi contro le forze israeliane; altri cinque ferimenti si sono verificati durante scontri nei pressi della recinzione che circonda la Striscia di Gaza.

Sempre nella Striscia di Gaza, durante le due settimane di riferimento, in almeno 29 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, costringendoli ad allontanarsi, ma senza provocare vittime. In altri due casi, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno spianato il terreno ed effettuato scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In solidarietà con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e in sciopero della fame per protestare contro la detenzione amministrativa cui sono sottoposti, si sono svolte otto manifestazioni, concluse tutte senza scontri. Il Coordinatore delle Nazioni Unite per l’Assistenza Umanitaria e l’Aiuto allo Sviluppo ha sollecitato Israele a formalizzare le eventuali accuse o a rilasciare senza indugio tutti i detenuti amministrativi. Una ulteriore manifestazione si è tenuta per protestare contro la detenzione di sei palestinesi da parte delle Forze di Sicurezza Palestinesi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 137 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 183 palestinesi. Il numero più alto di arresti (56) si è avuto nel governatorato di Gerusalemme. Altri tre palestinesi sono stati arrestati nelle vicinanze di tre posti di blocco, secondo quanto riferito perché trovati in possesso di coltello.

Le autorità israeliane hanno restituito alle famiglie i corpi di due palestinesi sospettati di aver compiuto aggressioni contro israeliani; uno dei corpi è stato trattenuto per più di otto mesi. Attualmente, sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri dieci presunti aggressori palestinesi; alcuni da sette mesi.

Il 15 settembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha sfrattato a forza, dall’appartamento tenuto in affitto fin dagli anni 30, una famiglia palestinese di otto persone; l’alloggio è stato consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliani che, secondo quanto riferito, l’aveva acquistato. Il provvedimento è conseguente a prolungati procedimenti legali presso i tribunali israeliani dove la famiglia, sostenendo di essere “affittuari protetti” [categoria di inquilini non sfrattabili], si è opposta, senza successo, allo sfratto. L’appartamento in questione è parte di un più ampio complesso residenziale composto da nove appartamenti; nel luglio 2010, coloni israeliani erano entrati in possesso di otto di essi, causando lo sfollamento di sette famiglie palestinesi appartenenti alla stessa famiglia allargata.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 15 strutture di proprietà palestinese, sfollando 23 persone, tra cui 12 minori, e coinvolgendone, in modi diversi, altre 47. Due di queste strutture erano abitazioni di Gerusalemme Est, demolite dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione: l’autodemolizione evita l’addebito dei relativi costi da parte delle autorità israeliane. Altre cinque strutture, situate nel villaggio di Al Aqaba, nel nord della Valle del Giordano, erano ripari di emergenza finanziati da donatori e forniti a seguito di precedenti demolizioni. Quest’ultima comunità è stata anche esposta a proiettili vaganti dovuti ad una lunga esercitazione a fuoco effettuata dai militari israeliani il 12 ed il 13 di settembre in vicinanza dell’area di residenza della comunità; non sono stati segnalati feriti.

In diverse aree della Cisgiordania, secondo i media israeliani, sei episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, hanno provocato il ferimento di quattro israeliani, tra cui due donne, e danni a quattro veicoli.

Nei villaggi di Burin (Nablus) e Jinsafut (Qalqiliya), secondo quanto riferito, almeno 45 ulivi sono stati incendiati da coloni israeliani. Sempre in Burin, coloni israeliani accompagnati da forze israeliane, hanno spianato con bulldozer un appezzamento di terreno incolto di proprietà palestinese.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato eccezionalmente aperto per tre giorni: due giorni in entrambe le direzioni (6-7 settembre) ed un giorno (18 settembre) solo per consentire il ritorno a Gaza dei pellegrini. Complessivamente, sono entrate in Gaza 916 persone e 1.175 ne sono uscite. Secondo le autorità palestinesi di Gaza circa 27.000 persone sono registrate ed in attesa di attraversare. Dall’inizio del 2016 il valico è stato parzialmente aperto per soli 23 giorni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 20 settembre, all’ingresso del villaggio di Bani Na’im (Hebron), le forze israeliane hanno ucciso un 16enne palestinese, presumibilmente dopo un suo tentativo di accoltellamento di un soldato; non sono stati segnalati feriti israeliani.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




“Un popolo, una nazione”: una rappresentazione visiva dell’ignoranza .

Se una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia israeliana.

di Asher Schechter, 13 maggio 2016

Haaretz

Mercoledì sono iniziati i festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.

Mentre i soldati passavano da una formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza della storia: “un popolo, una nazione.”

E’ una frase che, se la pronunciate in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le parole “un Fuhrer”.

Per essere chiari, Israele non è affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.

Tuttavia, è difficile immaginare una raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.

Nel respingere risolutamente ogni similitudine tra la frase e lo slogan nazista, la ministra della Cultura Miri Regev (che era la responsabile della cerimonia) in qualche modo è riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere semplicemente il proprio errore.

Anche in assenza di scomodi riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini? Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?

La frase “un popolo, una nazione” è l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che, come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica dei primi dieci).

Il mese scorso un sondaggio condotto dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.

“Un popolo, una nazione”, dunque, può essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.) stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”, che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è passato in prima lettura a marzo.

L’esclusione e la persecuzione degli arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il calendario a sette bracci e la colomba della pace.

Ma neanche il riferimento storico, pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver “ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come “intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo che probabilmente voleva parlare.

Non è la prima volta che la foga antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana, quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.

Benjamin Netanyahu è un appassionato studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne sapevano di più.

E proprio questa può essere la cosa peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata dall’ignoranza della storia.

Gli israeliani imparano molte cose a scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”

Come recita il vecchio adagio, coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)