I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




Ho stilato la definizione di antisemitismo. Gli ebrei di destra la stanno usando come un’arma

Kenneth Stern

venerdì 13 dicembre 2019 – The Guardian

La “bozza di definizione di antisemitismo” non è mai stata pensata per silenziare la libertà di parola, ma è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Trump

Quindici anni fa, in quanto esperto di antisemitismo della Commissione Ebraica Americana, sono stato il principale estensore di quella che allora venne denominata la “definizione provvisoria di antisemitismo” [La definizione è stata promossa dall’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza per il Ricordo dell’Olocausto] cui aderiscono 31 governi, ndtr.]. Essa venne ideata principalmente perché gli osservatori enti di monitoraggio o europei potessero sapere cosa includere e cosa escludere. In questo modo l’antisemitismo avrebbe potuto essere monitorato in modo migliore nel tempo e tra diversi Paesi.

Non è mai stata pensata come un modo per definire i discorsi d’odio nei campus, ma questo è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Donald Trump [L’11 dicembre 2019 Trump ha firmato un decreto che estende l’applicazione del titolo VI della legge sui diritti civili ai casi di antisemitismo., ndtr.].

Questo decreto è un attacco contro la libertà accademica e la libertà di parola e danneggerà non solo i sostenitori dei palestinesi, ma anche gli studenti e i docenti ebrei, e lo stesso mondo academico.

Il problema non è che il decreto protegge gli studenti ebrei in base al titolo VI della legge sui diritti civili [Il titolo VI previene la discriminazione nelle agenzie governative che ricevono fondi federali. Se un’agenzia viola il titolo VI, può perdere i finanziamenti federali, ndtr.]. Il ministero dell’Educazione ha chiarito nel 2010 che in base a queste disposizioni ebrei, sikh e musulmani (in quanto etnie) possono protestare contro intimidazioni, soprusi e discriminazioni. Ho appoggiato questo chiarimento ed ho in seguito presentato una denuncia, che ha dato esito positivo, per studenti ebrei di scuola superiore quando sono stati minacciati e persino percossi (era una giornata “picchia un ebreo”).

Ma a partire dal 2010 gruppi ebraici di destra hanno adottato la “definizione provvisoria”, che presenta alcuni esempi riguardanti Israele (come considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni di Israele e negare il diritto degli ebrei all’autodeterminazione), e hanno deciso di utilizzarla come arma in casi relativi al titolo VI. Mentre alcune denunce riguardavano azioni, per lo più hanno preso di mira chi ha fatto discorsi, testi di programmi di studio e proteste che secondo loro violerebbero la definizione. Avendo perso in tutte queste cause, a quel punto questi stessi gruppi hanno poi chiesto all’università della California di adottare la definizione e di renderla operativa nei suoi campus. Quando ciò è fallito, si sono rivolti al Congresso e, quando questi tentativi si sono arenati, al presidente.

Come hanno chiarito i sostenitori del decreto, ad esempio la Zionist Organization of America [Organizzazione Sionista d’America, ZOA, ndtr.], essi vedono la messa in pratica della definizione come “relativa a molte offese…frequentemente guidate da… Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina], compresi…richiami all’‘Intifada’ [e] la demonizzazione di Israele.” Per quanto io sia in disaccordo con SJP, essi hanno il diritto di fare “appelli”. Questo si chiama libertà di parola.

Se si pensa che ciò non riguardi la repressione del discorso politico, si consideri un parallelo. Non c’è nessuna definizione del razzismo contro i neri che abbia forza di legge quando si prende in considerazione un caso relativo al titolo VI. Se se ne dovesse elaborare una, vi si includerebbe l’opposizione all’ affirmative action [discriminazioni positive, vasta gamma di politiche relative a favorire la presenza di minoranze discriminate in contesti in cui sono sottorappresentate, come ad esempio tra gli studenti universitari, assegnando quote alle persone svantaggiate per questa ragione, ndtr.].? L’opposizione alla rimozione di statue di confederati [in un contesto in cui sono tornati in evidenza i problemi razziali negli USA, sono state avviate campagne per eliminare i simboli che rappresentano la memoria dei confederali che, durante la Guerra Civile, difendevano la conservazione della schiavitù degli afroamericani negli Stati del sud, ndtr.]?

Jared Kushner, il genero e consigliere speciale del presidente, ha scritto sul New York Times che la definizione “stabilisce chiaramente [che] l’antisionismo è antisemitismo.” Sono un sionista. Ma nel campus di un college, in cui l’obiettivo è mettere a confronto le idee, gli antisionisti hanno il diritto di esprimersi liberamente. Sospetto che, se Kushner o io fossimo nati in una famiglia palestinese espulsa nel 1948, avremmo una visione diversa del sionismo e non necessariamente perché denigriamo gli ebrei o pensiamo che cospirino per danneggiare l’umanità. Inoltre c’è un dibattito all’interno della comunità ebraica sul fatto se essere ebreo comporti l’essere sionista. Non so se questa domanda possa essere risolta, ma tutti gli ebrei dovrebbero essere spaventati che il governo stia sostanzialmente definendo la risposta per noi.

Il vero obiettivo del decreto non è far pendere la bilancia a favore di qualche causa basata sul titolo VI, ma piuttosto avere un effetto dissuasivo. ZOA e altri gruppi andranno a caccia di discorsi politici con cui sono in disaccordo e minacceranno di sollevare azioni legali. Temo che ora gli amministratori delle università avranno una forte motivazione a reprimere, o almeno a condannare, discorsi politici per timore di contenziosi. Temo che docenti che potrebbero altrettanto facilmente insegnare la vita degli ebrei nella Polonia del XIX° secolo o l’Israele contemporaneo probabilmente sceglieranno il primo argomento in quanto più sicuro. Temo che gli studenti e i gruppi ebrei filo-israeliani, che giustamente si lamentano quando qualche conferenziere filo-israeliano viene interrotto, verranno accusati di utilizzare strumenti statali per reprimere gli oppositori politici.

L’antisemitismo è un problema reale, ma troppo spesso persone sia di destra che di sinistra chiudono un occhio se una persona ha la “giusta” opinione su Israele. Storicamente l’antisemitismo prospera quando i leader alimentano la facoltà dell’uomo di definire un “noi” e un “loro” e quando l’integrità delle istituzioni e le regole democratiche (quali la libertà di parola) sono sotto attacco.

Invece di propugnare la dissuasione di espressioni che gli ebrei filoisraeliani considerano fastidiose o criticare in modo molto moderato (o non criticare affatto) un presidente che utilizza ripetutamente luoghi comuni antisemiti, perché questi rappresentanti ufficiali delle organizzazioni ebraiche che erano presenti quando Trump ha firmato il decreto non gli hanno ricordato che lo scorso anno, quando ha demonizzato gli immigrati definendoli “invasori”, Robert Bowers è entrato in una sinagoga di Pittsburgh perché credeva che gli ebrei stessero dietro questa “invasione” di gente di colore come parte di un piano per danneggiare i bianchi, ed ha ucciso 11 di noi?

Kenneth Stern è il direttore del Bard Center for the Study of Hate [Centro Bard per lo Studio dell’Odio] ed è l’autore di The Conflict Over the Conflict: The Israel/Palestine Campus Debate [Il conflitto sul conflitto: il dibattito su Israele/Palestina nei campus], di imminente pubblicazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il “Grande Gioco” è in corso: l’uccisione di Suleimani riflette la disperazione degli USA in Medio Oriente

Ramzy Baroud & Romana Rubeo

6 gennaio 2020 – Palestine Chronicle

Con l’uccisione del comandante in capo iraniano Qasem Suleimani i dirigenti americani e israeliani hanno reso manifesta l’espressione idiomatica “dalla padella nella brace”.

Il presidente USA Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sono entrambi in difficoltà sia in campo politico che giudiziario – il primo è stato appena messo sotto accusa e il secondo è stato perseguito con un’imputazione e un’inchiesta della procura generale per gravissimi casi di corruzione. Disperati, senza alternative e uniti dalla causa comune, entrambi i leader erano alla ricerca di un grosso problema che li ponesse in una luce positiva sui mezzi di comunicazione dei rispettivi Paesi, ed hanno trovato questo.

L’assassinio il 3 gennaio del più importante generale iraniano nei corpi della Guardia Rivoluzionaria Islamica e comandante della sua Forza Quds, Suleimani, insieme con altri dirigenti militari iraniani da parte di un drone USA ha testimoniato del livello di disperazione degli Usa e di Israele.

Benché non ci siano state conferme o smentite ufficiali del ruolo di Israele nell’operazione americana, è semplicemente logico supporre un coinvolgimento indiretto o persino diretto di Israele nell’assassinio.

Negli scorsi mesi la possibilità di una guerra contro l’Iran ha acquisito nuovo slancio, diventando una priorità nell’agenda dei responsabili della politica estera israeliana. Netanyahu, politicamente assediato, ha ripetutamente e instancabilmente chiesto ai suoi amici di Washington di accentuare la pressione su Teheran.

Mentre noi parliamo l’Iran sta aumentando la sua aggressione,” ha affermato Netanyahu il 4 dicembre, durante un incontro con il segretario di Stato USA Mike Pompeo. “Siamo attivamente impegnati a contenere questa aggressione.”

Si può solo supporre cosa possa significare in questo contesto “impegno attivo” dal punto di vista esplicitamente bellicoso di Israele.

Oltretutto le impronte digitali dell’intelligence israeliana, il Mossad, sono indiscutibilmente presenti nell’assassinio. È plausibile che l’attacco contro il convoglio di Suleimani nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad sia stato un’operazione congiunta della CIA e del Mossad.

È ben noto che Israele ha una maggiore esperienza in omicidi mirati nella regione di tutti gli altri Paesi del Medio Oriente messi insieme. Ha ucciso centinaia di attivisti palestinesi e arabi in questo modo. L’assassinio del principale capo militare di Hezbollah, il secondo in grado del movimento, Imad Mughniyah nel febbraio 2008 in Siria è stato solo una di molte altre uccisioni simili.

Non è un segreto che Israele brami una guerra contro l’Iran. Eppure tutti i tentativi di Tel Aviv per provocare una guerra guidata dagli Usa simile all’invasione dell’Iraq nel 2003 sono falliti. Il massimo che Netanyahu sia riuscito ad ottenere in termini di appoggio statunitense a questo proposito è stata la decisione dell’amministrazione Trump di rimangiarsi gli impegni USA con la comunità internazionale uscendo dal trattato nucleare con l’Iran nel maggio 2018.

Questa guerra israeliana fortemente voluta sembrava assicurata quando l’Iran, dopo varie provocazioni e lo schiaffo di ulteriori sanzioni da parte di Washington, ha abbattuto un velivolo statunitense senza pilota che il 20 giugno 2019, come ha sostenuto l’Iran, aveva violato lo spazio aereo del Paese.

Anche allora la risposta degli USA ha mancato di condurre alla guerra totale che Netanyahu andava cercando così ossessivamente.

Ma molto è successo da allora, compresa una replica dei ripetuti insuccessi di Netanyahu nel vincere elezioni decisive, garantendosi in questo modo un altro mandato e accentuando il timore pienamente giustificato del primo ministro israeliano della possibilità di finire dietro le sbarre per aver gestito una massiccia rete di tangenti e abusi di potere.

Anche Trump ha le sue disgrazie politiche, da qui le sue ragioni per agire in modo imprevedibile e irresponsabile. Il suo impeachment da parte della Camera dei Rappresentanti USA il 18 dicembre è stato l’ultima di queste cattive notizie. Anche lui ha bisogno di alzare la posta in gioco politica.

Se c’è una cosa che hanno in comune molti parlamentari democratici e repubblicani è il desiderio di maggiori interventi militari in Medio Oriente e di mantenere una presenza militare più forte nella regione ricca di petrolio e di gas. Ciò è stato riflesso dal tono quasi celebrativo che personalità, generali e commentatori USA hanno utilizzato in seguito all’assassinio del comandante iraniano a Baghdad.

Anche politici israeliani erano visibilmente esaltati. Subito dopo l’uccisione del generale Suleimani, dirigenti e funzionari israeliani hanno emesso comunicati e tweet di appoggio per l’azione USA.

Da parte sua Netanyahu ha dichiarato che “Israele ha il diritto di difendersi. Gli USA hanno esattamente lo stesso diritto. Suleimani,” ha aggiunto, “è responsabile delle morti di innocenti cittadini USA e di molti altri. Stava pianificando ulteriori attacchi.”

In particolare l’ultima dichiarazione, “stava pianificando ulteriori attacchi”, evidenzia l’ovvio lavoro di intelligence in comune e la condivisione di informazioni tra Washington e Tel Aviv. Benny Gantz, erroneamente noto per essere un “uomo di centro”, non è stato meno bellicoso nelle sue opinioni. Quando si tratta di argomenti relativi alla sicurezza nazionale, “non ci sono coalizioni o opposizioni” ha affermato.

L’uccisione di Suleimani è un messaggio a tutti i capi del terrorismo globale: ne pagherete le conseguenze,” ha anche aggiunto il generale israeliano, responsabile della morte di migliaia di palestinesi innocenti a Gaza e altrove.

L’Iran sicuramente risponderà, non solo contro obiettivi americani, ma anche israeliani, in quanto Teheran è convinta che Israele abbia giocato un ruolo fondamentale nell’operazione. Le pressanti domande riguardano la natura e i tempi della risposta iraniana: fin dove arriverà l’Iran per lanciare un messaggio ancora più forte a Washington e a Tel Aviv? E Teheran potrebbe comunicare un messaggio decisivo senza concedere a Netanyahu la guerra totale da lui desiderata tra l’Iran e gli Stati Uniti?

Recenti avvenimenti in Iran – le proteste di massa e il tentativo da parte di manifestanti disarmati di assaltare l’ambasciata USA a Baghdad il 31 dicembre – sono stati in qualche misura una svolta.

Inizialmente sono stati interpretati come una risposta infuriata agli attacchi aerei USA di domenica contro una milizia sostenuta dall’Iran, ma le proteste hanno avuto anche conseguenze non volute, particolarmente pericolose per l’esercito e le prospettive strategiche statunitensi. Per la prima volta dal finto “ritiro” USA dall’Iraq sotto la precedente amministrazione di Barak Obama nel 2012, una nuova consapevolezza collettiva che gli USA devono lasciare definitivamente il Paese ha iniziato a maturare tra la gente comune irachena e tra i suoi rappresentanti.

Agendo rapidamente, gli USA, con l’evidente esultanza israeliana, hanno assassinato Suleimani per mandare un chiaro messaggio a Iraq e Iran che chiedere o aspettarsi un ritiro americano è una linea rossa da non attraversare, e al resto del Medio Oriente che il palese ritiro degli USA dalla regione non sarà ripetuto in Iraq.

L’assassinio di Suleimani è stato seguito da altri attacchi aerei USA contro gli alleati dell’Iran in Iraq, in modo da sottolineare anche come ovvio il livello di serietà e di volontà degli USA di cercare un confronto violento.

Mentre l’Iran sta ora soppesando la sua risposta, deve anche essere consapevole delle conseguenze geopolitiche delle sue decisioni. Una mossa iraniana contro gli interessi di USA e Israele dovrebbe essere convincente dal punto di vista dell’Iran e dei suoi alleati, ma, di nuovo, senza impegnarsi in una guerra totale.

Comunque la prossima iniziativa dell’Iran definirà i rapporti tra Iran e USA nella regione per i prossimi anni e intensificherà ulteriormente il continuo “Grande Gioco” [termine che indica il conflitto diplomatico e spionistico tra Russia e GB durante il XIX secolo, ndtr.] regionale e internazionale, in pieno corso in tutto il Medio Oriente.

L’assassinio di Suleimani potrebbe anche essere inteso come un chiaro messaggio sia alla Russia che alla Cina che se necessario gli USA sono pronti a incendiare tutta la regione per conservare la propria presenza strategica e per garantire i propri interessi economici – che per lo più riguardano il petrolio e il gas iracheno e dell’Arabia saudita.

Ciò avviene dopo un’esercitazione navale congiunta tra russi, cinesi e iraniani nell’oceano Indiano e nel golfo di Oman, iniziata il 27 dicembre. La notizia delle esercitazioni militari deve aver allarmato in modo particolare il Pentagono, in quanto l’Iran, che doveva essere isolato e intimorito, sta diventando sempre più un punto di accesso nella regione per le potenze militari emergenti e riemergenti, rispettivamente Cina e Russia.

Suleimani era un comandante iraniano, ma la sua massiccia rete e le sue alleanze militari nella regione e altrove rendono il suo assassinio un potente messaggio inviato da Washington e Tel Aviv secondo cui sono pronti e non temono di incrementare il proprio ruolo.

La palla ora è nel cortile dell’Iran e dei suoi alleati.

A giudicare dalle esperienze del passato, è probabile che Washington rimpiangerà l’assassinio del generale iraniano per molti anni a venire.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. É autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Questa catena verrà spezzata: storie palestinesi di lotta e sfida nelle prigioni israeliane] (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs [Centro per l’Islam e le Questioni Globali] (CIGA) all’università Zaim di Istanbul (IZU).

Romana Rubeo è una scrittrice e giornalista italiana di PalestineChronicle.com. Rubeo ha conseguito un master in Lingua e Letteratura Straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha partecipato alla decisione degli USA di assassinare il generale iraniano

Philip Weiss

4 gennaio 2020 – Mondoweiss

La giustificazione di Trump per l’assassinio del capo militare iraniano Qasim Suleimani il 2 gennaio sono state le presunte minacce di Suleimani a diplomatici e soldati americani in Iraq. E persino il New York Times ha citato la sua responsabilità per “l’ondata di attacchi di miliziani contro Israele,” e un attacco contro l’Arabia Saudita come ragioni dell’uccisione.

Molti articoli suggeriscono che nella decisione di Trump siano stati considerati gli interessi israeliani. Sul LA Times [Los Angeles Times, quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] Noga Tarnopolsky ha riferito che i politici israeliani sono stati informati in anticipo:

Israele è stato informato preventivamente del piano USA…hanno riferito analisti militari e diplomatici israeliani venerdì notte, evitando di fornire ulteriori dettagli data la pesante censura militare.

La nostra opinione è che gli Stati Uniti abbiano informato Israele su questa operazione in Iraq, probabilmente qualche giorno fa,” ha detto a Channel 13 [canale televisivo israeliano, ndtr.] Barak Ravid, giornalista e opinionista con fonti molto addentro al sistema di sicurezza israeliano.

L’amministrazione Trump si è consultata con l’Arabia Saudita, gli Emirati e Israele prima dell’attacco, ma non con gli alleati europei, afferma Negar Mortazavi dell’Indipendent [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.]. “(Mike) Pompeo ha chiamato Netanyahu, MBS (Mohammed bin Salman [reggente dell’Arabia Saudita, ndtr.]) e MBZ [lo sceicco Mohammed bin Zayed [generale e politico degli Emirati, ndtr.] più di una volta negli ultimi giorni per discutere di Iran, attraverso il Dipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.].” Mortavazi nota che i comunicati di ieri del Dipartimento di Stato dimostrano che Pompeo ha chiamato i ministri degli Esteri di GB e Germania dopo il fatto.

Sana Saeed di AjPlus [canale di notizie di Al Jazeera, ndtr.] osserva:

Il Congresso non sapeva della decisione di assassinare Suleimani, ma indovinate chi lo sapeva? Israele.

Jeff Morley riferisce che lo scorso anno dei funzionari degli apparati di sicurezza israeliani hanno caldeggiato l’assassinio di Suleimani: “Il Mossad ha preso di mira Suleimani, Trump ha premuto il grilletto.” Lo scorso ottobre Morley affermava che Israele sembrava aver messo Suleimani nel mirino:

Lo scorso ottobre Yossi Cohen, capo del Mossad israeliano, ha parlato apertamente dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, il capo della forza scelta Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana.

Sa molto bene che il suo assassinio non è impossibile,” ha detto Cohen in un’intervista. Suleimani si era vantato che Israele cercò di ucciderlo nel 2006 e non ci riuscì.

Trump ha ora soddisfatto i desideri del Mossad,” conclude Morley. “Dopo aver dichiarato la propria intenzione di porre fine alle ‘stupide e infinite guerra’ dell’America, il presidente ha di fatto dichiarato guerra al più grande Paese della regione per solidarietà con Israele, il Paese più impopolare del Medio Oriente.”

Il New York Times informa che dei funzionari israeliani avevano in precedenza promosso l’idea di uccidere Suleimani, ma dirigenti in Israele e negli USA avevano opposto resistenza, per timore che l’omicidio scatenasse una guerra con l’Iran:

Almeno una volta, tuttavia, dei funzionari israeliani hanno prospettato la possibilità di attaccarlo con le loro strutture di controllo. Secondo importanti funzionari dell’intelligence americana e israeliana, ciò avveniva nel febbraio 2008, mentre operatori delle intelligence israeliana e americana stavano inseguendo Mugniyah, il comandante di Hezbollah, nella speranza di ucciderlo, (Imad Mugniyah venne assassinato da Israele in Siria nel 2008).

Jonathan Ofir scrive su Facebook:

Il concetto secondo cui gli USA hanno agito da soli, senza rapporti con Israele, è solo un’affermazione a vantaggio della propaganda israeliana.

MJ Rosenberg ha twittato che la complicità di Israele nell’attacco non sarà mai presa in considerazione dal Congresso:

Il Congresso non avvierà mai un’inchiesta sul ruolo di Israele nell’attacco all’Iran e su tutto quello che ne conseguirà perché entrambi i partiti [del Congresso] sono controllati dall’AIPAC [la Commissione Americana per gli Affari Pubblici di Israele, ndtr], controllata da Netanyahu.

Parliamo dell’AIPAC. Ieri l’associazione di punta della lobby filo-israeliana ha lodato la decisione di Trump e ha paragonato Suleimani a Osama bin Laden:

La decisiva azione del presidente ha fatto giustizia di uno dei più pericolosi terroristi al mondo, responsabile della morte di oltre 600 militari USA.

In quanto comandante della forza IRGC-Quds iraniana, Qasem Suleimani ha spietatamente portato avanti le ambizioni rivoluzionarie del regime, causando morte e distruzione in Medio Oriente e mettendo in pericolo i nostri alleati e interessi …

L’AIPAC sembra fare eco al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ieri ha elogiato Trump: “Il presidente Trump merita tutto il plauso per aver agito in modo rapido, energico e deciso. Israele sta con gli Stati Uniti nella sua giusta lotta per la pace, la sicurezza e l’autodifesa.

Altrettanto importante dell’AIPAC è la Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), un gruppo di esperti pro-Israele che ha fornito molti analisti politici all’amministrazione Trump.

Uno dei falchi di Trump, Richard Goldberg, ha lasciato ieri il suo lavoro come consigliere capo per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca; ma Bloomberg riferisce che lo stipendio di Goldberg è stato pagato da FDD. “Goldberg tornerà a FDD, che ha continuato a pagare il suo stipendio durante il suo periodo al Consiglio Nazionale di Sicurezza.”

Un ex funzionario di Obama, Ned Price, è turbato dal resoconto: “Se fosse vero, è un monito di come la corruzione e i conflitti di interesse facciano sempre parte dell’equazione, anche quando la posta in gioco non potrebbe essere più alta”.

Il giornalista Nick Wadhams spiega l’influenza di FDD:

L’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha espressamente creato un lavoro per Goldberg – direttore per la lotta contro le armi di distruzione di massa dell’Iran. L’obiettivo era contrastare ciò che Bolton vedeva come un desiderio nei ministeri di Stato e del Tesoro di indebolire la campagna di “massima pressione” contro l’Iran …

Quella lotta è stata solo una delle battaglie legate all’Iran interne all’amministrazione e ha sottolineato l’influenza esercitata dalla Fondazione per la Difesa delle Democrazie, il think tank in cui Goldberg aveva precedentemente lavorato, nello spingere per una linea più dura contro l’Iran.

Nel suo articolo sull’assassinio, il New York Times ha dato ampio spazio all’amministratore delegato di FDD, Mark Dubowitz, nel giustificare l’assassinio di Suleimani. Eli Clifton del Quincy Institute punta il dito sul finanziamento di FDD:

E’ importante rivelare ai lettori del New York Times che il maggior finanziatore di FDD è il super-finanziatore di Trump, Bernie Marcus, che afferma “L’Iran è il diavolo”?

Si sta letteralmente citando qualcuno che sostiene le decisioni di Trump sulla politica estera che viene finanziato da uno dei maggiori finanziatori di Trump.

Marcus è il fondatore di Home Depot (impresa di prodotti domestici, ndtr.) e il secondo maggior finanziatore di Trump dopo Sheldon Adelson. Di gran lunga il più grande sostenitore di Trump, Adelson ha affermato di aver desiderato di prestare servizio nell’esercito israeliano e non nell’esercito americano. Una volta ha esortato il presidente Obama a colpire l’Iran con armi atomiche.

Eli Clifton ha riferito due anni fa che Marcus e Adelson e un terzo donatore miliardario filo-israeliano hanno spianato la strada a Trump perché si ritirasse dall’accordo con l’Iran.

Marcus ha definito l’accordo con l’Iran un “trattato mortalmente mortale”, riferisce Militarist Monitor (pubblicazione indipendente online, ndtr.). E Marcus ha finanziato molti gruppi filo israeliani di destra:

Secondo i documenti fiscali, la suddetta fondazione di Marcus da cui prende il nome ha finanziato gruppi di falchi e neoconservatori come “American Enterprise Institute”, “Christian United for Israel”, “Friends of IDF” [l’esercito israeliano], “Hoover Institution”, “Hudson Institute”, “Israel Project”, “Jewish Institute for National Security Affairs”, “Manhattan Institute” e “Middle East Media Research Institute”, così come altri gruppi conservatori come “Judicial Watch” e “Philanthropy Roundtable”. Fa anche parte del consiglio di amministrazione della Coalizione Repubblicana Ebraica.

Colin Powell [politico americano, generale a quattro stelle in pensione] una volta accusò il “Jewish Institute for National Security Affairs” per il piano di invasione dell’Iraq, che lui stesso sostenne. L’idea che Israele abbia avuto un ruolo di spicco nella decisione dei politici statunitensi di invadere l’Iraq è ampiamente accettata ma anche dibattuta. Spesso si dice che questa idea sia faziosa, e questa è una delle ragioni per cui la stampa più importante evita la prospettiva israeliana, allora e adesso.

Ringraziamenti a Scott Roth e James North.

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net e ha fondato il sito nel 2005-06

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi e Luciana Galliano)




L’antisemitismo è stato utilizzato per calunniare la sinistra, mentre la destra prende di mira gli ebrei

Jonathan Cook

30 dicembre 2019 – Middle East Eye

Israele potrebbe uscire rafforzato usando politicamente l’antisemitismo, ma non senza gravi conseguenze per gli ebrei dell’Occidente.

L’anno è finito con due terribili battute d’arresto per quanti chiedono giustizia per il popolo palestinese. Una è stata la sconfitta nelle elezioni politiche britanniche di Jeremy Corbyn – il leader europeo più solidale con i palestinesi. Ha subito le conseguenze di quattro anni di continui insulti da parte dei media, che hanno ridefinito il suo attivismo come prova di antisemitismo.

L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere

Il crollo elettorale del partito Laburista non è direttamente attribuibile alle calunnie di antisemitismo. Riguarda piuttosto principalmente l’incertezza del partito nel formulare una risposta convincente alla Brexit. Ma le accuse di antisemitismo sono riuscite ad alimentare profonde divisioni all’interno del partito di Corbyn, facendolo sembrare debole e, per la prima volta, ambiguo. Ha scorrettamente seminato dubbi persino tra i suoi sostenitori: se non è stato in grado di risolvere quel problema nel suo partito, come avrebbe potuto guidare il Paese?

Qualunque futuro leader politico, in Gran Bretagna o altrove, che prenda in considerazione una posizione filo-palestinese – o un programma economico radicale in contrasto con i principali mezzi di comunicazione – ne dovrà tener conto. L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere.

Definire l’antisemitismo

La seconda sconfitta è stata il nuovo decreto esecutivo emanato dal presidente USA Donald Trump, che ha accolto una nuova e controversa definizione di antisemitismo, che intende assimilare le critiche a Israele, l’attivismo filopalestinese e la difesa delle leggi internazionali all’odio nei confronti degli ebrei.

La lezione su dove ciò intenda portare è stata evidenziata dall’esperienza di Corbyn. Prima il suo partito è stato obbligato ad accettare la stessa definizione formulata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione internazionale a cui aderisce una trentina di Paesi, ndtr.] (IHRA), nel tentativo di placare le critiche. Invece ha scoperto che questo ha fornito ancora più armi per attaccarlo.

Il decreto esecutivo di Trump intende bloccare il dibattito nei campus, uno dei pochi spazi pubblici rimasti negli USA in cui le voci dei palestinesi possono ancora farsi sentire. Ciò viola in modo palese il Primo Emendamento, che protegge il diritto di parola. Il governo federale ora si è schierato con i 27 Stati in cui i lobbysti di Israele sono riusciti a far passare leggi che penalizzano quanti sostengono i diritti dei palestinesi.

Tali iniziative sono state replicate altrove. Questo mese il parlamento francese ha dichiarato che l’antisionismo – o l’opposizione a Israele come Stato ebraico che nega uguali diritti ai palestinesi – equivale all’antisemitismo. 

E ancor prima il parlamento tedesco aveva approvato una risoluzione che dichiara antisemita l’appoggio al crescente movimento internazionale che sollecita il boicottaggio di Israele, sul modello delle iniziative che hanno posto fine all’apartheid in Sud Africa. I parlamentari tedeschi hanno persino equiparato gli slogan del movimento per il boicottaggio alla propaganda nazista.

All’orizzonte ci sono molte altre limitazioni alle libertà fondamentali, tutte in appoggio a Israele.

Far tacere le critiche

Il primo ministro inglese, il conservatore Boris Johnson, ha promesso di impedire alle autorità locali di appoggiare il boicottaggio di Israele, mentre John Mann, suo cosiddetto zar dell’antisemitismo, sta minacciando di far tacere i media in rete che criticano Israele, di nuovo con il pretesto dell’antisemitismo. Sono gli stessi media che avevano appoggiato Corbyn, l’avversario politico di Johnson.

Ironicamente tutte queste leggi, decreti e risoluzioni, emanate apparentemente in nome dei diritti umani, stanno soffocando il lavoro concreto delle organizzazioni per i diritti umani. In assenza di un processo di pace, devono scontrarsi con il carattere ideologico di Israele in maniera inedita.

Mentre Trump, Johnson ed altri erano impegnati a ridefinire l’antisemitismo per aiutare Israele, questo mese Human Rights Watch (HRW) ha reso pubblico un rapporto che rivela che Israele – lo Stato che sostiene di rappresentare tutti gli ebrei – per più di 50 anni ha utilizzato gli ordini militari per violare i più basilari diritti dei palestinesi. Nella Cisgiordania occupata, ai palestinesi vengono negate “libertà basilari come sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, unirsi ai principali movimenti politici e diffondere materiale politico.”

Al contempo la Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali è andata anche oltre, condannando Israele per i suoi soprusi verso tutti i palestinesi sottoposti al suo potere, senza distinguere tra quelli sotto occupazione e quelli con una cittadinanza di serie B all’interno di Israele.

Il gruppo di esperti giuridici sui diritti ha di fatto riconosciuto che le violazioni di Israele a danno dei palestinesi sono insite nell’ideologia sionista dello Stato, e non sono una caratteristica dell’occupazione. È stato un modo tutt’altro che velato di dichiarare che uno Stato che privilegia strutturalmente gli ebrei e opprime sistematicamente i palestinesi ha un “comportamento razzista” – una formulazione ora ridicolmente definita dall’IHRA come prova di antisemitismo.

Clamoroso fallimento

Nell’ultimo rapporto di HRW la direttrice per il Medio Oriente Sarah Elah Whitson ha osservato: “I tentativi di Israele di giustificare la privazione dei diritti civili fondamentali per i palestinesi per più di 50 anni in base delle esigenze di un’eterna occupazione militare ormai non funzionano più.”

Ma è proprio quello che la nuova ondata di leggi e di decreti è destinata a garantire. Mettendo a tacere le critiche contro le violazioni israeliane contro i diritti dei palestinesi con il pretesto che tali critiche siano antisemitismo mascherato, alcuni governi occidentali possono sostenere che queste violazioni non stanno avvenendo.

Di fatto ci sono due raggruppamenti politici molto diversi che sostengono l’attuale repressione di ogni solidarietà verso i palestinesi – e per ragioni molto diverse. Nessuno dei due si preoccupa della protezione degli ebrei. Una fazione include i partiti di centro dell’Occidente che avrebbero dovuto controllare per un quarto di secolo il processo di pace in Medio Oriente. Essi vogliono impedire ogni critica che osi considerarli responsabili del loro clamoroso fallimento – un fallimento ancora più evidente ora che Israele non è più disposto a sostenere di essere interessato alla pace e cerca invece di annettere il territorio palestinese.

Non è fallita, come era destinata a essere, solo la versione della pace molto limitata e focalizzata su Israele dei centristi, ma si è ottenuto l’esatto contrario dell’obiettivo dichiarato. Israele ha sfruttato la passività e l’indulgenza occidentali per rafforzare ed estendere l’occupazione, così come per intensificare le leggi razziste all’interno di Israele.

Ciò si è materializzato nel 2018 con l’approvazione da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu della legge sullo Stato-Nazione, che dichiara non solo lo Stato di Israele, ma un’indefinitamente estesa “Terra di Israele” come la patria storica di tutto il popolo ebraico.

Smascherare l’ipocrisia

Ora, i centristi sono determinati a schiacciare quanti desiderano evidenziare la loro ipocrisia e la loro costante alleanza con uno Stato apertamente razzista e risolutamente contrario all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quindi hanno utilizzato l’antisemitismo come arma con tale successo che la scorsa settimana studiosi dei diritti umani hanno accusato la Corte Penale Internazionale dell’Aia – che dovrebbe difendere le leggi internazionali – di tirarla per le lunghe indefinitamente per evitare di aprire un’inchiesta equa sui crimini di guerra di Israele. I procuratori della CPI sembrano timorosi di finire loro stessi sotto accusa.

L’altra componente dietro la repressione delle critiche contro Israele sono le rinascenti destra ed estrema destra razziste, che hanno sempre più successo nello sconfiggere i centristi screditati nella politica di USA ed Europa.

Amano Israele perché offre un alibi al loro nazionalismo bianco. Difendendo Israele dalle critiche – definendole antisemitismo – cercano una patina di moralità per il proprio suprematismo bianco.

Se gli ebrei sostengono legittimamente di essere il popolo eletto in Israele, perché i bianchi non possono affermare altrettanto di se stessi negli USA e in Europa? Se Israele tratta i palestinesi non come nativi ma come immigrati intrusi in terra ebraica, perché Trump o Johnson non possono allo stesso modo definire i non bianchi come infiltrati ed usurpatori di terra bianca?

Più la destra esalta il nazionalismo bianco, il fervore contro gli immigrati, più è in grado di minare le soluzioni politiche offerte dai suoi oppositori di centro e di sinistra.

Avventato errore di valutazione

Cosa ancora più sorprendente, buona parte dei dirigenti ebrei negli USA e in Europa ha attivamente aiutato la destra in questo progetto politico, tanto sono accecati dal loro impegno nei confronti di Israele come Stato ebraico.

Quindi, dove va a parare questa politica dell’Occidente? I centristi hanno fatto uscire dalla lampada il genio dell’antisemitismo per danneggiare la sinistra, ma è la destra populista che ora si attiva per perfezionarne l’uso come arma e promuovere i propri fini. Alimenteranno paura e odio contro le minoranze, compresi palestinesi, arabi e musulmani, tutto a beneficio dell’ideologia di Israele.

Tuttavia anche gli ebrei dell’Occidente ne pagheranno il prezzo. I discorsi di Trump hanno ripetutamente imputato agli ebrei americani motivazioni malvage, avidità e doppia lealtà. Tuttavia, di fronte al tenace sostegno di Trump nei confronti di Israele, negli USA i dirigenti ebrei conservatori hanno preferito rimanere quasi totalmente in silenzio riguardo al fatto che il presidente alimenti sentimenti nativisti.

Si tratta di un avventato errore di valutazione. La finta battaglia per combattere un presunto antisemitismo di sinistra ha già distratto l’attenzione e le energie dalla lotta contro la concretissima rinascita dell’antisemitismo di destra.

Israele potrebbe uscire rafforzato usando a scopo politico l’antisemitismo, ma in conseguenza di ciò gli ebrei dell’Occidente si potrebbero trovare esposti all’odio più che in qualunque altro periodo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Israele congela il progetto di annessione della Valle del Giordano dopo la decisione della CPI di avviare un’inchiesta per crimini di guerra.

Mercoledì 25 dicembre 2019 - Press TV

Israele avrebbe congelato il progetto del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere la Valle del Giordano a seguito della decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su crimini di guerra del regime nei territori palestinesi occupati.

Martedì [17 dic.] il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha scritto che la scorsa settimana la prima riunione di una commissione interministeriale sull’applicazione della “sovranità” israeliana sulla valle del Giordano è stata annullata, poche ore prima dell’inizio previsto.

La riunione della commissione, presieduta da Ronen Peretz, direttore generale ad interim dell’ufficio del primo ministro, è stata annullata dopo che è diventato chiaro che era in arrivo un annuncio della CPI su un’approfondita indagine su crimini di guerra israeliani.

“A causa della decisione del pubblico ministero dell’Aja, la questione dell’annessione della Valle del Giordano verrà a lungo congelata”, ha detto una fonte anonima al quotidiano israeliano.

La commissione interministeriale era stata incaricata di formulare la procedura di annessione del regime di Tel Aviv e [di stilare] un disegno di legge della Knesset.

Venerdì [20 dic.], il procuratore capo della CPI Fatou Bensouda ha dichiarato che l’esame preliminare dei crimini di guerra, aperto nel 2015, ha fornito informazioni sufficienti per soddisfare tutti i criteri per l’apertura di un’inchiesta.

C’è una “base ragionevole” per indagare sulla situazione in Palestina, ha detto. “Sono persuasa che … crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, comprese Gerusalemme est (al-Quds)] e la Striscia di Gaza.”

A settembre Netanyahu ha promesso che se fosse stato rieletto, avrebbe immediatamente annesso la Valle del Giordano, un territorio fertile che rappresenta circa un quarto della Cisgiordania.

Attualmente nella Valle del Giordano vivono circa 70.000 palestinesi e 9.500 coloni israeliani

Il commentatore politico israeliano Barak Ravid ha scritto sabato in un tweet che il piano di annessione della Cisgiordania di Netanyahu è stato una delle cause dell’indagine della CPI.

“Ecco cosa ha scritto la procuratrice nell’articolo 177: “Nonostante gli espliciti e continui richiami a Israele di porre fine ad interventi nei territori palestinesi occupati ritenuti contrari al diritto internazionale, non vi è alcuna indicazione che possano cessare. Al contrario, ci sono indicazioni che potrebbero non solo continuare ma che Israele potrebbe cercare di annettere questi territori”, ha scritto.

Il giorno prima dell’annuncio della CPI, Netanyahu ha promesso di ottenere il sostegno degli Stati Uniti all’annessione della Valle del Giordano e di altre colonie in Cisgiordania.

“La prima cosa che faremo”, ha detto Netanyahu, “è instaurare la nostra sovranità sulla Valle del Giordano e anche sulle colonie, e lo faremo con il riconoscimento americano”.

Da quando è entrato in carica nel 2017, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricoperto Netanyahu di regali politici, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme al-Quds quale “capitale” di Israele e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla città occupata, nonché il taglio degli aiuti ai palestinesi e la chiusura dell’ufficio dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina a Washington.

Prima delle elezioni generali israeliane di aprile, Trump ha firmato un decreto che riconosce la “sovranità” israeliana sulle alture del Golan siriane occupate .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

 



Il sionismo fa affidamento sul suprematismo bianco

Asa Winstanley

20 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Un obiettivo strategico a lungo termine del movimento sionista è stato quello di fomentare il settarismo in Palestina e in tutta l’area. È un classico trucco delle strategie imperialiste: dividi e governa.

Ciò ha ovviamente avuto in una certa misura successo. La falsa divisione della regione in “arabi contro ebrei” è stato un importante risultato del movimento colonialista di insediamento sionista. La realtà, tuttavia, è che, fino alla nascita del movimento sionista, in Palestina come in altri Paesi del mondo arabo gli ebrei di lingua araba hanno vissuto quasi sempre in pace con i loro vicini musulmani e cristiani.

Il sionismo è sempre stato un movimento razzista, colonialista, che si affida all’aiuto del suprematismo bianco occidentale (e quindi dell’antisemitismo) per avere successo. Il movimento sionista tedesco, per esempio, andò incontro ad un fallimento quasi totale nel [tentativo di] persuadere gli ebrei tedeschi a lasciare il loro Paese d’origine e trasferirsi in Palestina come coloni sionisti. Questo storia di insuccessi subì una inversione quando il movimento sionista in Germania iniziò a ricevere il sostegno dello Stato. Esso in effetti collaborò negli anni ’30 con il regime nazista di Hitler .

In seguito alla presa del potere dei nazisti nel 1933, il governo tedesco ferocemente antisemita fece dell’emigrazione ebraica una delle sue massime priorità. Inizialmente ciò non venne compiuto attraverso le deportazioni forzate, che giunsero più tardi. L’ eliminazione fisica degli ebrei europei nei campi di sterminio nazisti durante l’Olocausto iniziò nel 1941.

È un fatto storico ben documentato (anche se a volte tabù) che negli anni ’30 il movimento sionista si unì al governo nazista per dare alla popolazione ebraica tedesca una serie di incentivi perché lasciasse la Germania e andasse in Palestina. Il più noto di questi incentivi fu l’accordo di trasferimento, o Haavara. In base a questo accordo, gli ebrei tedeschi che accettavano di lasciare il loro Paese potevano recuperare una parte del proprio patrimonio finanziario sotto forma di proventi dalla vendita di prodotti tedeschi, ma solo dopo aver raggiunto la Palestina [accordo di Haavara (trasferimento) del 1933, siglato tra Hitler e i movimenti sionisti, grazie al quale gli ebrei forzatamente emigrati in Palestinaavrebbero recuperato almeno in parte le somme lasciate in Germania grazie all’esportazione di prodotti tedeschi destinati alle comunità ebraiche già insediate nel Mandato britannico”, ndtr.].

Ma si andò oltre l’accordo di trasferimento. Dozzine di centri di riqualificazione o di “rieducazione” vennero istituiti in tutta la Germania per preparare i partecipanti alla loro nuova vita da coloni in Palestina. Questi centri erano gestiti dall’ala giovanile della Federazione sionista tedesca ed erano anche tenuti sotto stretto controllo nazista dalla notoriamente antisemita Schutzstaffel, le SS.

La propaganda sionista (consentita e persino incoraggiata dai nazisti) affermava che gli ebrei tedeschi non erano realmente tedeschi, ma erano solo ebrei che vivevano in Germania. Ciò si sposava perfettamente con la propaganda nazista velenosamente antisemita. I nazisti spogliarono sistematicamente tutti gli ebrei dei loro diritti, spingendoli a lasciare la Germania. Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, gli sforzi nazisti per rimuovere gli ebrei tedeschi dalla Germania e inviarli in Palestina continuarono con la collusione attiva dei gruppi sionisti. Le SS furono persino coinvolte in alcuni tentativi di condurre illegalmente ebrei dall’Europa in Palestina sotto il naso delle autorità di occupazione del Mandato Britannico [in base agli accordi Sykes-Picot del 1916, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, il Regno Unito governò sulla Palestina dal 1920 e il 1948, ndtr.].

Le leggi antisemite di Norimberga dei nazisti nel 1935 perseguitarono in diversi modi gli ebrei tedeschi e li privarono del diritto di voto. Ai sensi dell’articolo 4 di tale ordinamento legislativo, tuttavia, l’unica bandiera che gli ebrei erano autorizzati a sventolare era [quella con] “i colori ebraici”; la stessa bandiera divenne in seguito la bandiera nazionale di Israele [la bandiera israeliana ha due strisce blu con una stella di David blu su uno sfondo bianco, ndtr.].

Un’altra fonte del suprematismo bianco su cui il sionismo fece affidamento per il sostegno finanziario, logistico e politico fu quella avvalorata dall’Impero britannico. Per 31 anni, a partire dal 1917, la Gran Bretagna occupò militarmente la Palestina, sfidando la volontà della sua popolazione originaria, che voleva uno Stato democratico e non settario. Ancor prima di invadere con successo la Palestina, nel corso della prima guerra mondiale l’Impero britannico aveva già preso la decisione politica di consegnare la Palestina al movimento sionista.

La famigerata Dichiarazione di Balfour del governo britannico del 1917 decretò che la Palestina sarebbe diventata “il focolare nazionale per il popolo ebraico”, nonostante all’epoca soltanto una piccola minoranza della popolazione di quel Paese fosse ebrea. La stragrande maggioranza degli abitanti erano musulmani e cristiani di lingua araba.

L’impero britannico prese la sua decisione in parte per motivi di fanatismo religioso – il sionismo cristiano – e in parte per le solite ragioni geopolitiche nell’interesse dell’impero. La Palestina era considerata un importante crocevia internazionale, parte della rete di comunicazione e commercio britannico con i suoi possedimenti imperiali in India.

Ovviamente, il sostegno dell’impero al movimento sionista è diminuito ed è cessato nel corso degli anni, con l’avvio da parte delle milizie sioniste di una guerra aperta contro la Gran Bretagna nel periodo precedente al 1948 e la creazione dello Stato di Israele in Palestina. Questo faceva parte della loro guerra contro la popolazione palestinese nativa.

Tuttavia, la realtà essenziale della storia è che l’Impero britannico sostanzialmente consegnò la Palestina al movimento sionista a spese della popolazione autoctona. Come Lord Arthur Balfour stesso ammise in privato nel 1919: “In Palestina, non abbiamo nessuna intenzione di seguire una modalità di consultazione dei desideri degli attuali abitanti del Paese … Le quattro grandi potenze si affidano al sionismo e il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato nella tradizione millenaria, nei bisogni attuali, nelle speranze future con un’importanza molto più profonda dei desideri e dei pregiudizi di 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica ”.

Tale aperto razzismo era tipico dell’Impero britannico. E mostra perché Hitler non ebbe mai dei problemi con i territori d’oltremare sotto il controllo della Gran Bretagna. Cercò invece di persuadere il governo britannico ad accettare “sfere di influenza” reciprocamente vantaggiose, prima di tentare di imporle quando la Gran Bretagna rifiutò di accettare il dominio tedesco nell’Europa continentale.

Ovviamente oggi il movimento sionista si affida principalmente al sostegno dell’impero americano. L’ultima manifestazione di come esso faccia anche affidamento sul suprematismo bianco è data dall’amore aperto ed esplicito tra Israele e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante il suo aperto razzismo, compreso l’antisemitismo, così come dal corteggiamento del primo ministro Benjamin Netanyahu verso i governi di estrema destra in Europa e altrove. Il sionismo e lo Stato sionista di Israele fanno affidamento sul suprematismo bianco.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Riorganizzare l’UNRWA nel mondo della post-verità

Christopher Gunness

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Non più dipendente dai finanziamenti USA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi deve tornare a dedicarsi al suo storico compito.

Nel mondo di Donald Trump e Boris Johnson della post-verità e della post-vergogna, in cui le politiche sono lanciate con un tweet, la storia è riscritta con una citazione e la “realtà” fatta da un titolo in prima pagina, il sostegno costante dell’UNRWA a oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi, ai loro diritti e alla loro dignità non è mai stato più importante.

Ma l’agenzia, che ora celebra i suoi 70 anni, deve riuscire a ribaltare il recente scandalo di cattiva gestione, ricuperare la fiducia dei donatori e riprendere i contatti con le comunità di rifugiati. Sotto la sua nuova dirigenza può riuscirci e risorgere più forte.

La posta in gioco non è mai stata così alta.

Nell’agosto 2018 la Casa Bianca di Trump ha tagliato il contributo annuale degli USA all’UNRWA – 365 milioni di dollari del bilancio dell’agenzia – pregiudicando i servizi per la più numerosa ed antica popolazione di rifugiati al mondo.

È presto emerso uno schema di unilateralismo distruttivo. Nel dicembre 2017 gli USA hanno annunciato la decisione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo l’annessione e l’occupazione illegali della città da parte di Israele, facendo a pezzi decenni di consenso internazionale.

Nel marzo di quest’anno l’ambasciatore di Washington in Israele ha appoggiato l’illegale annessione delle Alture del Golan e a novembre gli USA hanno dichiarato che le colonie ebraiche non sono in contraddizione con le leggi internazionali, avallando quindi molteplici “gravi violazioni” delle Convenzioni di Ginevra – che potrebbero rappresentare crimini di guerra – da parte di Israele, il potere occupante, contro un popolo protetto dall’ONU.

Incoraggiato dalla debole risposta internazionale, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha chiesto di più. Ha sollecitato il sostegno USA ai progetti di annessione della Valle del Giordano, in cui oltre 65.000 palestinesi vivono accanto a circa 11.000 coloni ebrei su terre anch’esse espropriate in violazione del diritto internazionale.

Il quadro giuridico si cui l’ordine mondiale si è fondato dalla Seconda Guerra Mondiale è sotto attacco unilaterale.

Oltretutto la Casa Bianca sta cercando di ridefinire tre questioni centrali per la ricerca della pace in Medio Oriente – Gerusalemme, i rifugiati e le colonie –, tutto ciò a costo zero per Israele, senza chiedere niente in cambio.

Sia chiaro chi sta guidando tutto questo. Fin dal dicembre 2016 Netanyahu ha chiesto che l’UNRWA venisse “smantellata”. I suoi accoliti a Washington, come l’amico di famiglia di Netanyahu e genero di Trump diventato consigliere per il Medio Oriente, Jared Kushner, hanno offerto il loro appoggio all’obiettivo a lungo accarezzato da Israele: l’eliminazione dello status di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi registrati dall’UNRWA, insieme al loro diritto al ritorno.

La Casa Bianca di Trump ha sostenuto che i discendenti dei rifugiati del 1948 non sono anch’essi rifugiati, un concetto in flagrante conflitto con le norme internazionali e le buone pratiche riguardo ai rifugiati sostenute da molti, compresa l’altra agenzia dell’ONU per i rifugiati, l’UNHCR, di cui gli USA sono il principale donatore.

Ma c’è stata opposizione contro questo tentativo di spazzare via dalla storia i diritti, l’identità, l’esistenza stessa di milioni di rifugiati.

A dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato in modo quasi unanime il rinnovo del mandato dell’UNRWA per altri tre anni, compresa la corretta definizione di rifugiati. Non meno di 169 membri l’hanno appoggiata e solo due hanno votato contro: gli USA e Israele. Sono stati isolati, sconfitti.

Per l’UNRWA questa vittoria diplomatica ha un nuovo significato.

Nel periodo che ha preceduto il dibattito all’assemblea generale, l’agenzia è stata usurata da uno scandalo gestionale limitato a un piccolo gruppo di funzionari della cerchia del direttore esecutivo, il commissario generale, che è stato obbligato a dare le dimissioni.

Un dirigente ad interim, Christian Saunders – un esperto riformatore dell’ONU e persona di fiducia del segretario generale dell’ONU – è stato inviato per risolvere la cattiva gestione. Il voto a stragrande maggioranza dell’assemblea generale è stato un primo segnale del fatto che l’UNRWA sta voltando pagina. Recentemente donatori che avevano sospeso l’aiuto finché l’agenzia non avesse risolto i suoi problemi interni sono tornati.

L’UNRWA ha ancora un grave deficit finanziario da colmare entro la fine dell’anno. Ma ha un piano in corso per riempire il vuoto lasciato dal malvagio de-finanziamento di Washington. Cosa fondamentale, e senza dubbio temporanea, ha bloccato l’attacco politico ispirato da Israele, che ha incluso un tentativo di chiudere l’operatività dell’UNRWA a Gerusalemme.

Quindi, come va avanti l’agenzia dopo il triplice smacco della crisi finanziaria, dello scandalo della dirigenza e dell’attacco politico contro il suo mandato?

Per iniziare, deve consolidare la fiducia dei suoi principali donatori per realizzare le riforme gestionali iniziate da Christian Saunders, intese a stabilizzare l’agenzia in seguito alle dimissioni del precedente commissario generale e della sua cerchia più ristretta.

I donatori devono onorare pienamente il loro tanto vantato “grande patto” e rispondere con accordi pluriennali a tutti i livelli, facilitando la pianificazione a lungo termine e la sicurezza finanziaria, riconoscendo il contributo di lungo periodo dell’UNRWA al capitale umano e la costante necessità dei suoi programmi d’emergenza.

Garantire e migliorare i servizi aiuterà l’UNRWA a recuperare presso i palestinesi che aiuta la credibilità danneggiata dalle recenti accuse di cattiva gestione.

Ma l’agenzia deve andare oltre.

Con un incremento dei finanziamenti arabi e una maggiore diversificazione della sua base di donatori in seguito alla dipartita degli americani, c’è un’opportunità di sostegno e di lavoro mediatico più consistenti, guidati da prove e basati sul diritto internazionale, che quest’anno sono stati palesemente assenti.

Una UNRWA rafforzata deve radicare la propria missione umanitaria nelle esperienze dei rifugiati. Per riuscirvi, l’agenzia deve iniziare un dialogo inclusivo ad ampio raggio con le comunità di rifugiati. Liberata dai limiti della pressione finanziaria americano-israeliana, ora è tempo di consultare i rifugiati sulle loro aspirazioni e rivendicare in modo significativo i loro diritti, compreso quello all’autodeterminazione e all’intero spettro dei loro diritti civili e politici.

L’UNRWA deve dire con chiarezza e con fermezza alla comunità dei donatori che l’aiuto non è un’attività di rimpiazzo. Non potrà mai sostituire i diritti e la dignità. I diritti dei palestinesi non sono in vendita.

I portavoce dell’UNRWA devono richiamare l’attenzione sul contesto in cui l’agenzia lavora e sul suo impatto sui rifugiati, gente che vive da mezzo secolo sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, da 13 anni sotto un blocco illegale a Gaza, da 9 anni di guerra in Siria e da decenni di emarginazione sociale in Libano.

L’agenzia deve tornare a storicizzare il discorso pubblico, ricordando al mondo gli eventi del 1948, in cui 770.000 persone vennero espulse e più di 450 villaggi palestinesi vennero distrutti durante una campagna sistematica di pulizia etnica da parte dei gruppi armati ebraici. Dopo settant’anni l’UNRWA e i suoi donatori devono impegnarsi di nuovo nella propria missione finché le ingiustizie del 1948, che durano fino ad oggi, sarano affrontate e verrà risolta la spoliazione dei palestinesi.

Soprattutto, l’UNRWA deve dare ai palestinesi il potere di presentarsi al mondo come titolari e attori della loro stessa dignità e del loro destino.

Per fare ciò, i servizi devono essere totalmente finanziati; ci devono essere accurate e costanti modifiche della gestione e un sostegno consistente e basato sui diritti. Questi sono i tre pilastri su cui sicuramente deve essere costruita la riorganizzazione dell’UNRWA.

Sono anche una potente e realizzabile risposta all’unilateralismo di Trump attorno a cui l’UNRWA e tutti i soggetti coinvolti – compresi i rifugiati – si devono unire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Christopher Gunness è un giornalista pluripremiato che in precedenza è stato portavoce dell’UNRWA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dalla benedizione alla maledizione: come la Risoluzione dell’ONU 2334 ha accelerato la colonizzazione della Cisgiordania

Ramzy Baroud

17 dicembre 2019Middle East Monitor

Tre anni fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 2334. Con 14 voti a favore ed un’astensione, la risoluzione è stata come un terremoto politico. Certamente è stata la prima volta in molti anni che l’istituzione internazionale ha condannato esplicitamente Israele per le sue politiche di colonizzazione illegale nei Territori Palestinesi Occupati. A differenza dei precedenti tentativi di imputare ad Israele le sue responsabilità, questa volta gli americani non hanno fatto nulla per proteggere il loro più stretto alleato.

Tuttavia ciò che è accaduto da allora ha testimoniato il fallimento dell’ONU nel mettere in campo significativi meccanismi che possano costringere chi viola il diritto internazionale, come Israele, a rispettare il consenso internazionale. In qualche modo la 2334, pur sostenendo apparentemente i diritti dei palestinesi, si è trasformata in una delle più dannose decisioni mai adottate dall’istituzione internazionale.

Immediatamente dopo l’adozione della 2334 il 23 dicembre 2016, Israele si è fatto beffe del mondo intero annunciando per due volte nel mese di gennaio progetti di costruzione di migliaia di nuove case nelle colonie ebraiche illegali della Cisgiordania occupata.

All’epoca il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora Ministro della Difesa Avigdor Lieberman hanno motivato la provocatoria iniziativa come “una risposta alle necessità abitative” all’interno delle colonie. Niente poteva essere più lontano dalla verità, come hanno dimostrato i successivi tre anni.

Ora è risultato evidente che l’espansione delle colonie faceva parte di una più ampia strategia volta ad eliminare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese contiguo e praticabile e a sbarrare la strada alla cosiddetta “formula terra in cambio di pace”, anch’essa tracciata in anni di mediazione americana e di “processo di pace”.

La strategia israeliana è stata un totale successo. Grazie alla mano libera concessa dall’amministrazione Trump alla coalizione di governo di destra in Israele, i politici israeliani adesso stanno apertamente progettando ciò che un tempo era quasi impensabile: l’annessione unilaterale di importanti blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania insieme a vaste aree della Valle del Giordano.

Negli ultimi tre anni Washington ha chiuso un occhio sui sinistri piani di Israele. Peggio ancora, ha abbracciato in pieno e avallato il discorso politico israeliano, prendendo al contempo tutte le misure necessarie a fornire una copertura alle azioni israeliane. La dichiarazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo del 18 novembre, secondo cui le colonie ebraiche “non violano il diritto internazionale” è solo una di tante posizioni analoghe adottate da Washington per spianare la strada alla sfrontatezza e alla violazione del diritto internazionale da parte di Israele.

Retrospettivamente, il Presidente Obama ha avuto l’opportunità di fare di più che non semplicemente astenersi dal votare contro una Risoluzione ONU – che comunque mancava di qualunque meccanismo di applicazione – usando il generoso aiuto finanziario USA ad Israele come carta di scambio. In quel modo avrebbe potuto potenzialmente costringere Netanyahu a congelare del tutto l’espansione delle colonie. Purtroppo Obama ha fatto l’esatto contrario, finanziando l’esercito israeliano e ogni guerra israeliana contro Gaza. Invece la sua mossa tardiva ha aperto la porta all’amministrazione Trump per scatenare una guerra crudele contro i palestinesi e anche contro il diritto internazionale.

Sembra che l’incarico biennale dell’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hailey, sia stato prevalentemente dedicato a rettificare il presunto “tradimento” dell’amministrazione Obama verso Israele. In nome della difesa di Israele contro un immaginario “antisemitismo” globale, gli Stati Uniti hanno rotto i loro rapporti con diverse organizzazioni dell’ONU, isolando alla fine la stessa Washington dal resto del mondo.

Con l’ONU considerata il nemico comune sia da Washington che da Tel Aviv, il diritto internazionale è stato reso irrilevante. Gradualmente il governo USA ha rafforzato il proprio scudo protettivo intorno a Israele, rendendo così insignificanti la Risoluzione 2334 e molte altre risoluzioni ONU. In altri termini, gli Stati Uniti sono riusciti a trasformare il consenso internazionale sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina in un’opportunità per Tel Aviv di disconoscere ogni impegno non solo nei confronti dell’ONU, ma anche della cosiddetta soluzione dei due Stati e del “processo di pace”.

Mentre Israele accelerava senza impedimenti i suoi progetti di colonizzazione, gli USA assicuravano che la leadership palestinese non avesse la possibilità di contrastarli, neanche simbolicamente, attraverso le varie istituzioni internazionali e le piattaforme politiche e legali disponibili. Questo è stato architettato attraverso sistematiche guerre economiche, che hanno visto il taglio di tutti gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese nell’agosto 2018, seguito una settimana dopo dall’interruzione di tutti i finanziamenti all’agenzia dell’ONU responsabile dell’assistenza ai rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

La guerra di USA e Israele ai palestinesi è stata organizzata su due fronti. Uno si concentrava sull’accaparramento di ulteriore terra palestinese, sulla costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle esistenti, come premessa agli imminenti passi verso l’annessione della maggior parte della Cisgiordania. L’altro fronte riguardava l’incessante pressione dell’amministrazione USA sui palestinesi con mezzi politici e finanziari.

Tre anni dopo la Risoluzione 2334 ci troviamo con un nuovo status quo. Sono finiti i tempi del tradizionale “piano di pace” americano e del suo complementare elaborato discorso centrato sulla soluzione di due Stati ed altre fantasie. Adesso Israele sta formulando in proprio la sua “visione” per un futuro che è destinato a soddisfare le aspettative dell’instabile, e sempre più di destra, elettorato del Paese. Quanto agli USA, il loro ruolo è stato ridimensionato a quello di sostenitori, indifferenti a questioni così irrilevanti come il diritto internazionale, i diritti umani, la giustizia, la pace o persino la stabilità della regione.

Poco dopo essere stato nominato nuovo Ministro della Difesa israeliano il 9 novembre, Naftali Bennett ha preso la pericolosa e conseguente decisione di costruire una nuova colonia ebraica nella città palestinese occupata di Al-Khalil (Hebron). Naturalmente i coloni ebrei hanno esultato perché vedranno finalmente la demolizione del vecchio mercato di Hebron, che è più antico dello stesso Israele, e la possibilità di una nuova espansione coloniale e di ulteriori annessioni nella città.

Al tempo stesso i palestinesi rabbrividiscono, perché un’iniziativa contro Hebron è la prova finale che Israele ormai sta agendo in Palestina senza alcun timore di ripercussioni politiche o giuridiche. Non solo la Risoluzione 2334 non è riuscita a rendere Israele responsabile, ma in qualche modo ha facilitato una maggiore espansione israeliana in Cisgiordania, spianando la strada all’annessione che sicuramente ne seguirà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)