‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele e le politiche di Trump

Analisi: Israele ha ispirato la politica di Trump di separazione dalle famiglie?

Ma’an News

27 giugno 2018

di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è ” The Last Earth: A Palestinian Story” [L’Ultima terra: una storia palestinese]

Lo scorso maggio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff  Sessions, ha annunciato la politica della “tolleranza zero” del governo ai posti di frontiera USA. E’ stata questione di qualche settimana prima che la nuova politica iniziasse a produrre tragiche conseguenze. Chi tentava di attraversare illegalmente il confine per entrare negli USA è stato sottoposto a un’incriminazione penale federale, mentre i figli gli sono stati tolti dalle autorità federali, che li hanno messi in strutture simili a gabbie.

Come prevedibile, questa politica ha provocato indignazione e alla fine è stata revocata. Tuttavia molti di quelli che hanno condannato l’amministrazione del presidente Trump sembrano ignorare deliberatamente il fatto che Israele ha portato avanti pratiche molto peggiori contro i palestinesi.

Di fatto molti all’interno della classe dominante americana, sia repubblicani che democratici, sono stati ammaliati per decenni dal modello israeliano. Per anni opinionisti hanno elogiato non solo la presunta democrazia israeliana, ma anche il suo apparato di sicurezza come un esempio da emulare. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 è fiorita una rinnovata storia d’amore con le strategie securitarie israeliane, grazie alle quali Tel Aviv ha rastrellato miliardi di dollari dei contribuenti americani in nome dell’aiuto per rendere sicuri i confini USA contro presunte minacce.

Un nuovo, persino più terribile capitolo della continua cooperazione è stato stilato poco dopo che il neo-eletto Trump ha reso noto il suo piano di costruzione di un “grande” muro sul confine USA – Messico. Ancor prima che le imprese israeliane cogliessero l’occasione per costruire il muro di Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha twittato a favore della “grande idea” di Trump, affermando che il muro di Israele è stato un “grande successo” perché “ha bloccato qualunque immigrazione illegale:”

“Uccelli dello  stesso piumaggio fanno uno stormo insieme”, dice un proverbio inglese. Netanyahu e Trump si sono mossi insieme per oltre un anno e mezzo in perfetta armonia. Purtroppo la loro affinità personale, lo stile opportunistico in politica e, in modo più preoccupante, i punti di contatto ideologici hanno peggiorato le cose. Nel caso di Israele, la parola “democrazia” non è certo appropriata. Tutt’al più, la democrazia israeliana può essere descritta come unica. L’ex-presidente della Corte Suprema dello “Stato ebraico”, Aharon Barak, avrebbe detto che “Israele è diverso dagli altri Paesi. Non solo è uno Stato democratico, ma anche ebraico.”

All’inizio di quest’anno, durante una conferenza a Tel Aviv, la controversa  ministra della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, ha proposto la sua personale versione dell’affermazione di Barak. “Israele è uno Stato ebraico,” ha detto. “Non è uno Stato per tutte le sue nazionalità. Cioè, uguali diritti per tutti i cittadini ma non uguali diritti nazionali.”

Per preservare la sua versione della “democrazia”, Israele deve, in base alle parole di Shaked, “conservare una maggioranza ebraica anche a costo di una violazione dei diritti.”

Israele ruota il concetto di democrazia in qualunque direzione gli consenta di garantire la dominazione della maggioranza ebraica a spese dei palestinesi, gli abitanti originari del territorio, il cui crescente numero è spesso visto come una “minaccia demografica”, persino una “bomba”.

A tutt’oggi Israele non ha una costituzione formale. E’ governato da quella che è nota come “Legge fondamentale”. Non avendo un codice etico o un fondamento giuridico in base al quale può essere giudicato il comportamento dello Stato, il parlamento israeliano (la Knesset) è, di conseguenza, libero di stilare e imporre leggi che prendono di mira i diritti dei palestinesi senza doversi confrontare con nozioni quali la minaccia di ‘incostituzionalità’ delle leggi.

Una delle ragioni per cui la legge di Trump di separazione delle famiglie sul confine è fallita è che, nonostante i difetti nel loro sistema democratico, gli USA hanno una costituzione e una società civile relativamente forte che può utilizzare i codici etici e giuridici del Paese per sfidare il terribile comportamento dello Stato.

Invece in Israele questo non succede. Il governo investe molta energia e fondi per garantire la supremazia ebraica e stabilire contatti diretti tra le colonie ebraiche illegali (costruite su terra palestinese sfidando le leggi internazionali) e Israele. Allo stesso tempo investe altrettante risorse per la pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra, mantenendo ovunque le loro comunità separate e frammentate.

La triste verità è che quello a cui gli americani hanno assistito sul loro confine meridionale negli ultimi due mesi è quello che i palestinesi hanno provato come situazione quotidiana da parte di Israele negli ultimi 70 anni.

Il tipo di segregazione e separazione che le comunità palestinesi sopportano va persino oltre le tipiche conseguenze della guerra, dell’assedio e dell’occupazione militare. E’ una cosa sancita dalle leggi israeliane, fatte principalmente per indebolire, persino demolire la coesione della società palestinese.

Per esempio, nel 2003 la Knesset ha votato a favore della legge “Cittadinanza e ingresso in Israele”, che pone gravi limitazioni ai cittadini palestinesi di Israele che facciano richiesta di ricongiungimento familiare. Quando alcuni gruppi per i diritti umani hanno messo in discussione la legge, i loro tentativi sono falliti in quanto all’inizio del 2012 la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore del governo.

Nel 2007 quella stessa legge è stata modificata per includere coniugi di “Stati ostili” – cioè la Siria, l’Iran, il Libano e l’Iraq. Non sorprende che i cittadini di alcuni di questi “Stati ostili” siano stati inclusi nel divieto di ingresso negli USA di Trump contro cittadini di Paesi in maggioranza musulmani.

E’ come se Trump stesse seguendo un modello israeliano, improntando le sue decisioni ai principi che hanno guidato le politiche israeliane verso i palestinesi per molti anni.

Persino l’idea di rinchiudere bambini in gabbia è israeliana, una pratica che è stata denunciata dal gruppo per i diritti umani “Commissione pubblica contro la tortura in Israele” (PCATI).

La politica, che a quanto si sostiene è stata sospesa,  ha consentito di rinchiudere detenuti palestinesi, compresi minori, in gabbie esterne, persino durante durissime tempeste invernali.

“Mettere in gabbia palestinesi”, tuttavia, è una vecchia prassi. Oggi il muro dell’apartheid israeliano separa i palestinesi dalla loro terra e segrega arabi ed ebrei su base razziale. Riguardo al caso di Gaza, tutta la Striscia, che ospita 2 milioni di persone, per lo più rifugiati, è stata trasformata in un’immensa “prigione a cielo aperto” di muri e fossati.

 

Mentre molti americani sono confortati dalla decisione di Trump di porre fine alla pratica della separazione familiare sul confine, i politici e i media USA dimenticano il destino dei palestinesi che hanno subito terribili forme di separazione per molti anni. Ancora più scioccante è il fatto che molti tra i repubblicani e i democratici vedano Israele non come un ostacolo per una reale democrazia, ma come un fulgido esempio da seguire.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La verità dietro la corsa del Centro America per seguire lo spostamento dell’ambasciata USA

Maren Mantovani

giovedì 17 maggio 2018, Middle East Eye

Negli anni ’80 Israele fornì aiuto militare a brutali dittature latinoamericane. Il Guatemala è stato il primo a seguire lo spostamento dell’ambasciata USA. Honduras e Paraguay potrebbero presto essere i prossimi Paesi.

Mentre a Gaza – e in tutto il mondo – la gente stava ancora piangendo i 62 palestinesi uccisi, gli oltre 2.700 mutilati e feriti in un solo giorno in seguito a un altro massacro israeliano contro civili disarmati, il 16 maggio una seconda ambasciata stava tenendo la cerimonia di apertura a Gerusalemme.

Il Guatemala ha seguito le orme degli USA.

Israele ha dovuto promettere di pagare le spese dello spostamento. Il ministero degli Esteri israeliano ha coperto parte dei costi del trasferimento dell’ambasciata guatemalteca da Rishon LeZion [cittadina dell’area metropolitana di Tel Aviv, ndt.] a Gerusalemme, contribuendo con un totale di 300.000 dollari.

Jimmy Morales, il presidente di destra del Paese, a cui lo scorso mese gruppi delle società civile hanno chiesto di dimettersi in seguito ad accuse di corruzione, ha dovuto chiedere ai tribunali il permesso per suo fratello e suo figlio, entrambi sotto processo per corruzione, perché lo accompagnassero a Gerusalemme. Tuttavia i media guatemaltechi hanno già scoperto nella contabilità del loro governo voci di spesa sospette per la cerimonia di apertura dell’ambasciata.

Comunque sempre meno della grottesca esibizione offerta dalla cerimonia di apertura degli USA. Mentre Israele falciava manifestanti, armati solo della loro determinazione a tornare alle loro case piuttosto che soccombere in silenzio al brutale assedio di Gaza, Donald Trump ha annunciato in video che “stiamo veramente facendo grandi passi avanti” per un accordo tra Israele e i palestinesi.

Una realtà tragica e inumana

Se il riconoscimento da parte della Casa Bianca di Gerusalemme – che in base alle leggi internazionali non fa parte di Israele – come capitale di Israele e il conseguente spostamento dell’ambasciata USA non fosse parte di una realtà tragica e inumana imposta al popolo palestinese, lo si potrebbe definire surreale.

Settant’anni dopo l’inizio della Nakba – la pulizia etnica di massa del popolo palestinese – le politiche israeliane di espulsione, furto di terre e risorse, repressione e segregazione continuano giorno dopo giorno. La Grande Marcia del Ritorno, che rivendica il diritto, riconosciuto dall’ONU, al ritorno per i profughi che rappresentano più di metà del popolo palestinese, si è trasformata in un massacro.

Lo spostamento dell’ambasciata USA non è solo un attacco frontale ai diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma ha anche fornito una copertura diplomatica a Israele per un ulteriore massacro contro Gaza. Manda il messaggio che il regime israeliano può continuare con tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali.

Ciò comprende l’attacco concreto non solo al loro diritto al ritorno, ma alle vite ed esistenze stesse dei rifugiati palestinesi a Gaza. Ciò può indurre all’impressione che Israele abbia raggiunto il massimo del suo potere, con un’impunità garantita.

Un’analisi più approfondita del potere globale che si gioca oggi sulla Palestina non cambia la conclusione secondo cui siamo arrivati ad un momento estremamente pericoloso e drammatico della storia – ma ciò fornisce qualche barlume di speranza.

A dicembre gli USA ed Israele erano profondamente isolati nel voto dell’assemblea generale dell’ONU sul riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele. Solo altri cinque Paesi hanno votato con l’asse USA-Israele.

Stupidità politica

La legittimazione del riconoscimento USA di Gerusalemme – una città su cui in base alle leggi internazionali Israele non ha la sovranità – come capitale di Israele è un precedente che minaccia le fondamenta stesse delle relazioni internazionali. Se gli USA possono arbitrariamente decidere in materia di sovranità internazionale, verranno minacciati gli interessi di moltissimi Paesi.

Fondamentali controlli contro i capricci e la volontà del potere USA saranno eliminati. Accettarlo significherebbe la totale dipendenza dagli USA o la totale stupidità politica. Ciononostante, al momento, Israele ha previsto che oltre dieci Paesi potrebbero spostare le loro ambasciate. Oggi è in corso solo il trasloco di quella del Guatemala.

Israele spera che l’Honduras sia il prossimo a spostare la sua ambasciata.

Cosa c’è sotto il rapporto di Israele con questi Stati centroamericani, che li vede unirsi a un’iniziativa pericolosa, rifiutata dalla grande maggioranza della comunità internazionale?

I rapporti di Israele con Honduras e Guatemala divennero particolarmente stretti durante i giorni oscuri delle dittature centroamericane, quando Israele fornì generoso supporto militare ai generali guatemaltechi nel periodo del genocidio dei maya nei primi anni ’80. Addestrò le forze speciali honduregne accusate di torture e utilizzò il Paese come base per l’appoggio ai Contras [guerriglia finanziata dagli USA contro il governo sandinista, ndt.] in Nicaragua.

Oggi l’Honduras è nel bel mezzo di un ciclo di violente violazioni dei diritti umani da parte del governo di Juan Orlando Hernandez, arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Questo governo si è talmente macchiato di sangue che la presenza di Hernandez nel “Giorno dell’Indipendenza” di Israele ha dovuto essere annullata dopo le proteste che ha sollevato da parte israeliana.

Una prova del nove

Il presidente paraguayano, che a sua volta ha indicato l’intenzione di spostare l’ambasciata, è allo stesso modo arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Dato che lascerà il suo posto in agosto, pare dubbio che lo spostamento abbia effettivamente luogo.

Il tentativo della prima ministra rumena di iniziare il processo di spostamento è stato bloccato dal presidente del Paese, che per questa iniziativa ha chiesto le sue dimissioni.

La stessa cerimonia dell’ambasciata USA è stata la prova del nove senza possibilità di astensione – o gli invitati si sarebbero presentati o l’avrebbero boicottata. Persino alleati molto vicini agli USA come Australia, Canada e alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno deciso di tenersi alla larga. Allo stesso modo, né l’India né alcuno dei principali Paesi dell’America latina hanno partecipato.

Tuttavia Israele sta facendo importanti progressi in Africa, e circa una dozzina di Paesi hanno preso parte all’iniziativa dell’ambasciata USA a Gerusalemme, tra cui Etiopia, Sud Sudan, Zambia, Kenya, Ruanda, Camerun, Repubblica del Congo, Angola, Costa d’Avorio, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo.

Il Togo è stato l’unico Paese africano che ha votato con gli USA durante la votazione all’ONU di dicembre – ma lunedì non era presente.

La maggior parte delle ragioni per cui alcuni Paesi hanno scelto di partecipare ha poco a che fare con la Palestina. Come hanno esplicitamente ammesso commentatori dei Paesi latinoamericani coinvolti, le posizioni su Gerusalemme avevano più che altro a che vedere con la questione di garantirsi il favore degli USA, compresa l’assistenza per conservare il potere contro le loro stesse popolazioni.

Per altri si è trattato della logica prosecuzione di politiche xenofobe, di destra, suprematiste e autoritarie. Il governo dell’Austria è in larga misura emarginato in Europa per le sue politiche razziste e xenofobe, mentre Victor Orban, il primo ministro dell’Ungheria, è un noto xenofobo antisemita. Il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, è noto per la sua politica allarmistica sul terrorismo e per i suoi discorsi razzisti.

Anche la delegazione del Myanmar, che grazie all’appoggio militare di Israele dal 2015 ha intrapreso una pulizia etnica su vasta scala contro il popolo Rohingya, portando all’esilio di quasi 700.000 sopravvissuti, era tra gli ospiti.

Il fatto che Robert Jeffress, pastore evangelico USA e consigliere spirituale di Trump, universalmente accusato di sermoni antisemiti e razzisti, si sia rivolto a questa adunata pare semplicemente naturale.

L’alleanza tra Trump e Israele, sullo sfondo del massacro di Gaza, ha in effetti elevato l’appoggio all’apartheid, all’occupazione e al colonialismo di Israele a fulcro della nuova ondata di politici e partiti xenofobi, razzisti e antidemocratici arrivati al potere negli ultimi anni.

Un embargo militare contro Israele

Mentre Israele ha onorato Trump dando il suo nome a una piazza centrale di Gerusalemme, tutti quelli che sono fuori dal campo delle ideologie suprematiste, razziste ed autoritarie dovrebbero rabbrividire all’idea di esservi associati.

Per il bene della Palestina e dell’umanità, è il momento per la grande maggioranza della comunità internazionale, che non aderisce ai valori espressi nella cerimonia dell’ambasciata USA, di scrollarsi di dosso la riluttanza a prendere un’iniziativa concreta.

Resistere alle violazioni israeliane dei diritti umani e delle leggi internazionali oggi è diventata una difesa vitale dei più fondamentali valori di tolleranza, democrazia e rispetto. Siamo ancora in tempo.

Israele ha appena annunciato un’esportazione record nel 2017 di armamenti, che ha testato per decenni sul popolo palestinese. Un embargo militare contro Israele, come chiesto dal comitato nazionale del BDS palestinese e ripreso da organizzazioni dei diritti umani come Amnesty International, sarebbe un passo nella giusta direzione.

La maggior parte di queste esportazioni riguarda politiche contro i migranti ed è legata alle spese per la sicurezza dei confini dell’Unione Europea, mentre l’India da sola sta comprando il 50% delle esportazioni di armi israeliane.

L’aiuto militare USA continua ad aumentare e la cooperazione della polizia USA con Israele alimenta la discriminazione razziale e le violazioni dei diritti umani.

È tempo di ricordare lo slogan reso popolare dalla resistenza antifascista spagnola negli anni ’30 e poi ripreso da innumerevoli movimenti per la giustizia in tutto il mondo: “No pasarán!” Non passeranno.

– Maren Mantovani, coordinatrice dei rapporti internazionali per la “Campagna Palestinese dal Basso contro il Muro dell’Apartheid”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




‘Bruciateli, sparategli, uccideteli’: gli israeliani esultano a Gerusalemme mentre i palestinesi vengono uccisi a Gaza

Hind Khoudary, Lubna Masarwa, Chloé Benoist

Lunedì 14 maggio 2018, Middle East Eye

Mentre gli Stati Uniti trasferivano ufficialmente la loro ambasciata a Gerusalemme, le forze israeliane uccidevano decine di manifestanti a Gaza

Lunedì il contrasto tra Gerusalemme e Gaza non poteva essere più stridente, anche se le separano solo 75 chilometri.

Mentre i dirigenti americani ed israeliani inauguravano il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme – una vittoria di Israele rispetto al rifiuto della comunità internazionale della sua pretesa di avere Gerusalemme come propria capitale – le forze armate israeliane sparavano sui manifestanti a Gaza, con un bilancio di morti che è cresciuto inesorabilmente nel corso della giornata.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato con entusiasmo il trasferimento dell’ambasciata come un momento “storico”.

“Amici, che giorno di gloria, ricordatevi questo giorno”, ha detto il leader israeliano lunedì in un discorso trionfante. “Questa è storia. Signor Trump, riconoscendo la storia, voi avete fatto la storia. Tutti noi siamo profondamente commossi e grati. L’ambasciata della Nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti d’America, è stata aperta qui.”

Il genero e principale consigliere di Trump, Jared Kushner, ha tenuto anch’egli un discorso durante la cerimonia, nel corso della quale ha ribadito il sostegno degli USA ad Israele, mettendo a quanto pare da parte le preoccupazioni riguardo alle azioni dell’esercito israeliano a Gaza che avvenivano in concomitanza con il suo discorso.

“Noi stiamo dalla parte di Israele perché entrambi noi crediamo nei diritti umani, nel fatto che la democrazia vada difesa e siamo convinti che questa sia la cosa giusta da fare”, ha detto Kushner.

Nel frattempo, proprio fuori dalla nuova ambasciata, i manifestanti palestinesi a Gerusalemme venivano brutalmente repressi dalle forze israeliane.

MEE è stato testimone di decine di palestinesi disarmati picchiati ed arrestati dalle forze di sicurezza israeliane fuori dalla ambasciata, suscitando gli applausi dei manifestanti israeliani venuti ad appoggiare l’apertura dell’ambasciata.

“Bruciateli”, “sparategli”, “uccideteli”, scandivano gli israeliani.

Intanto l’ex portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner si è lamentato sui social media, sottintendendo che le morti di palestinesi a Gaza erano un tentativo di rovinare la festa a Israele.

Ma a Gaza i palestinesi hanno manifestato la propria profonda rabbia e incredulità per i festeggiamenti che si tenevano a Gerusalemme mentre a centinaia venivano indiscriminatamente colpiti dalle forze israeliane.

Alle 19,30 ora locale erano stati uccisi dalle forze israeliane 52 palestinesi e feriti 2.410, l’epilogo sanguinoso delle 6 settimane della “Grande Marcia per il Ritorno” a Gaza, che era già costata 49 vite prima di lunedì.

Dal 30 marzo durante le manifestazioni a Gaza sono stati uccisi in totale 101 palestinesi.

Lo scenario a Gaza nella zona vicina alla barriera di separazione tra la piccola enclave palestinese ed Israele è stato di caos e sangue fin dal mattino, con numerosi dimostranti colpiti alla testa, al collo o al petto.

Molti corpi sono rimasti bloccati nei pressi della barriera, poiché il fuoco dell’esercito era troppo intenso perché le ambulanze potessero raggiungerli.

“Moltissimi palestinesi sono morti oggi in nome della protesta pacifica dei palestinesi e noi non rinunceremo a lottare per il sangue che hanno versato”, ha detto a Middle East Eye il cinquantaduenne Wadee Masri. “Sono venuto qui per partecipare alla marcia, per dimostrare che sono una persona che ha diritto a ritornare nella sua terra.

Gli odierni festeggiamenti a Gerusalemme mi rattristano per ciò che gli USA hanno fatto contro i palestinesi”, ha aggiunto. “Non c’è pace senza Gerusalemme. Noi vivremo e moriremo lottando per Gerusalemme.”

Associazioni internazionali hanno descritto la situazione a Gaza come un “bagno di sangue”.

Human Rights Watch ha dichiarato: “La politica delle autorità israeliane di aprire il fuoco contro i manifestanti palestinesi a Gaza, imprigionati da dieci anni e sotto occupazione da mezzo secolo, prescindendo dal fatto che vi sia una minaccia immediata alla vita, ha condotto ad un bagno di sangue che chiunque avrebbe potuto prevedere.”

Jamal Zahalka [deputato del parlamento israeliano del partito arabo israeliano di sinistra Balad, ndt.], un leader politico dei palestinesi cittadini di Israele, ha detto a MEE che Israele e gli USA sono i responsabili della violenza a Gaza.

“È una violazione del diritto internazionale. Trump e gli USA sono responsabili di tutto il sangue che è stato versato a partire dalla decisione degli Stati Uniti”, ha detto Zahalka.

“Quelli che oggi stanno festeggiando (l’inaugurazione dell’ambasciata USA) hanno le mani sporche di sangue.”

Ma nonostante il trauma della giornata più sanguinosa a Gaza dalla guerra del 2014, Samira Mohsen, una manifestante ventisettenne della zona est di Gaza, nonostante il pesante bilancio delle manifestazioni della giornata continua ad avere un atteggiamento di sfida.

“Un giorno festeggeremo a Gerusalemme, pregheremo là, nessuno ce lo impedirà”, ha detto a MEE. “Il mio sogno è di vedere Gerusalemme. Gerusalemme è la capitale della Palestina e Trump e gli USA non possono decidere di consegnare la nostra terra ai sionisti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele contro Iran: Venti di guerra a Gerusalemme – con il sostegno di Washington

Amos Harel

1 maggio 2018, Haaretz

Israele è determinato a estromettere l’Iran dalla Siria, ma se sbaglia i calcoli, Hezbollah e Hamas potrebbero accettare la sfida. Netanyahu è pronto a correre dei rischi – a un passo dal gioco d’azzardo.

Dopo l’attacco alla Siria attribuito a Israele nella notte di domenica, perlomeno il quinto da settembre, sembra che non ci sia spazio al dubbio. Israele è determinato a sradicare la presenza militare iraniana dalla Siria.

Dopo il precedente attacco alla base aerea T4 vicino a Homs il 9 aprile, in cui morirono 14 persone inclusi sette membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane, l’Iran minacciò gravi ritorsioni. Lo stato maggiore di difesa israeliano si preparò di conseguenza, ma finora non era successo nulla. Invece, ora è stato inflitto un altro attacco agli interessi iraniani in Siria.

In base ai rapporti siriani, il raid [israeliano] sugli obiettivi militari tra Hama e Aleppo nel nord della Siria ha causato forti esplosioni – una fonte ha riferito che sembrava ci fosse un piccolo terremoto. Alcuni furono uccisi, apparentemente soldati siriani e miliziani sciiti pro-iraniani.

La scorsa settimana la rete televisiva CNN ha riferito che lo spionaggio americano e israeliano sta controllando i movimenti in Siria delle armi iraniane che potrebbero essere utilizzate per “chiudere i conti” con Israele. L’attacco di domenica notte – questa volta, con tanta forza – potrebbe rivelare che è stato colpito un grosso deposito di armi. E ciò potrebbe confermare il tentativo di sventare una potenziale reazione iraniana.

Con l’Iran a nord di Israele lo scontro è diretto: Israele ha tracciato un limite ed è pronto a farlo rispettare con la forza. Poiché gli iraniani si oppongono sia alla proibizione di Israele alla sua presenza che ai mezzi che Israele sta usando, in assenza di un mediatore tra le parti, questo conflitto potrebbe ancora intensificarsi. La settimana è appena all’inizio.

Paura di provocare Trump

Nell’ultimo anno, due tendenze sono diventate evidenti in Medio Oriente: il presidente siriano Bashar Assad ha vinto la sanguinosa guerra civile in Siria e gli Stati Uniti stanno ridimensionando la propria presenza nella regione. Anche il loro recente attacco punitivo contro il regime di Assad è stato percepito come un gesto simbolico di addio. Nel frattempo, stanno prendendo forma altre due tendenze: lo sforzo di Israele di espellere l’Iran dalla Siria e Washington che si prepara a una risoluzione per abbandonare l’accordo nucleare tra l’Iran e le potenze [occidentali], che dovrebbe avvenire intorno al 12 maggio.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu sembra stabilire una relazione fra le ultime due tendenze. L’idea è che l’Iran si stia trattenendo dal reagire contro Israele per le ultime presunte mosse in Siria perché ha paura di commettere un errore che provocherebbe la rabbia degli Stati Uniti. Secondo questo punto di vista, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe rispondere all’escalation tra Iran e Israele abbandonando l’accordo nucleare ancora prima, e in seguito potrebbe persino attaccare i siti nucleari iraniani (il che sarebbe incalcolabilmente più grave di un ipotetico attacco israeliano). Le autorità di Teheran sono anche preoccupate per le varie minacce interne, dalla crisi finanziaria alle accese manifestazioni di protesta. Apparentemente la conclusione logica è che Israele possa continuare a colpire gli iraniani in Siria a suo piacimento.

In effetti, gli Stati Uniti agiscono in modo molto diverso rispetto ai giorni di Obama. Il Segretario di Stato Mike Pompeo è venuto in Israele dopo aver assunto l’incarico ed è partito per la Giordania poco prima che arrivassero le prime notizie degli attacchi israeliani in Siria. Contemporaneamente, Trump e Netanyahu si sono parlati per telefono, discutendo, come riferito, anche dell’Iran. Si tratta chiaramente di un riconoscimento da parte di Washington dei venti di guerra che soffiano a Gerusalemme. Si potrebbe pensare che se Pompeo avesse potuto rimanere in Israele qualche ora in più, gli avrebbero suggerito di saltare in una cabina di pilotaggio e sparare lui stesso alcuni missili.

Nel frattempo, Netanyahu, come abbiamo scritto alcune settimane fa, è di un umore particolarmente trumpiano, molto diverso dal suo comportamento normale. L’attenzione agli incidenti riguardo alla sicurezza ha superato anche la preoccupazione per le lotte politiche all’interno della coalizione. È pronto ad affrontare rischi inediti, al limite del gioco d’azzardo. Stranamente, lo stato maggiore della difesa è con lui. Contrariamente all’acceso contrasto dell’inizio del decennio [2010] sul bombardamento dei siti nucleari in Iran, questa volta i capi della difesa israeliana portano avanti una linea dura e aggressiva riguardo alla presenza dell’Iran in Siria.

La seccante ma necessaria domanda di questa mattina è cosa succede se Israele sbaglia una mossa.

È vero, l’Iran adesso non vuole importunare gli Stati Uniti. È piuttosto occupato a proteggere il suo programma nucleare da ulteriori pressioni ed è interessato a esibire la sua capacità di colpire in Siria. Un combattimento in Siria non andrebbe bene nemmeno ai russi che sono intenzionati a ristabilire il regime di Assad.

Ma i calcoli di Israele potrebbero saltare se le fiamme in Siria divampassero fuori controllo, e se l’Iran decidesse, smentendo le ipotesi, di trascinare Hezbollah nel conflitto, per esempio dopo le elezioni libanesi del 6 maggio. Hezbollah ha acquisito in Siria un’esperienza largamente operativa. Ha un arsenale di oltre 100.000 fra missili e razzi. Hezbollah non è certamente più forte delle Forze di Difesa Israeliane, ma in caso di guerra, potrebbe provocare danni reali sul fronte interno israeliano, e i combattimenti a terra in Libano potrebbero costare cari all’esercito israeliano.

Un conflitto del genere potrebbe coinvolgere Hamas a Gaza, come il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ripetutamente segnalato (sembra esserci una discrepanza tra i toni sicuri espressi da Gerusalemme, tra cui quelli di Lieberman, in pubblico, e le loro reali paure). Finora Israele è riuscito a stabilire e mantenere un coordinamento con l’aviazione russa per prevenire qualsiasi attrito nei cieli siriani. Ma, a un certo punto, non potrebbe Mosca decidere che è stufa di ricevere diktat da Gerusalemme?

Israele ha uno scopo comprensibile in Siria. La presenza dell’Iran sta diventando potenzialmente pericolosa e potrebbe in futuro bloccare l’esercito israeliano. Eppure, stamattina, bisogna farsi alcune domande. L’obiettivo di espellere tutte le forze iraniane dalla Siria è davvero raggiungibile, come sembrano pensare il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo dello stato maggiore? Stanno considerando che le cose possano andare storte, sfociando in un conflitto più vasto dal costo molto più alto? Finora non c’è stata alcuna vera discussione in merito, né è emerso alcun dibattito sulla politica che sta prendendo forma al nord – non nel governo né tra i vertici della sicurezza.

( Traduzione di Luciana Galliano)




Come gli attivisti di Durham hanno convinto la municipalità a vietare l’addestramento della polizia in Israele

Nora Barrows-Friedman 

19 aprile 2018, The Electronic Intifada  

Con voto unanime del consiglio comunale del 16 aprile, Durham, nella Carolina del Nord, è la prima città degli Stati Uniti a vietare i programmi di addestramento tra il dipartimento di polizia e le forze armate straniere, compresa quella di Israele.

La decisione del consiglio comunale è il risultato di continue campagne di cittadini guidate da 10 gruppi locali per i diritti civili e umani che compongono la coalizione “Demilitarize! Durham2Palestina”, sostenuta da circa 1.400 residenti e decine di esponenti di diverse religioni.

La coalizione è affiliata a Jewish Voice for Peace e in particolare alla campagna “Scambio mortale”, che cerca di abolire ufficialmente i rapporti di scambio tra i dipartimenti di polizia degli Stati Uniti e l’esercito e le forze di polizia israeliane.

MJ Edery, leader della sezione di New York della campagna Scambio Mortale, ha detto martedì a The Electronic Intifada che per porre fine a questi programmi il divieto di Durham sugli scambi di polizia “costituisce un esempio per altre città”. Attraverso un lavoro simile con i gruppi locali di base, gli attivisti stanno offrendo un’alternativa a quei programmi “costruendo sicurezza attraverso la solidarietà e la collettività e immaginando [soluzioni] alternative alle carceri, alla polizia, all’ICE [Il Dipartimento della Sicurezza degli Stati Uniti, responsabile del controllo delle frontiere e dell’immigrazione, ndt], ai confini e al militarismo”, ha aggiunto Edery.

Sotto la copertura dell’addestramento antiterrorismo, ufficiali di alto grado dei dipartimenti di polizia degli Stati Uniti e delle agenzie federali si sono recati in Israele per seguire corsi sulle tecniche di controllo delle forze di occupazione.

Ma questi scambi, sponsorizzati dai principali gruppi lobbistici israeliani tra cui l’Anti-Defamation League (ADL), l’American Jewish Committee e l’American Israel Education Foundation, una branca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee], sono qualcosa di più della semplice formazione; mirano anche a nutrire il multimiliardario mercato statunitense delle armi e l’industria della “sicurezza nazionale” di Israele, e rafforzano il sostegno ideologico a Israele tra le élite statunitensi.

In una lettera al consiglio comunale di Durham, l’ADL ha denigrato e respinto Jewish Voice for Peace ribadendo il proprio sostegno al programma di scambi fra le polizie.

L’ADL si vanta di aver dal 2004 inviato 200 “dirigenti delle forze dell’ordine” per essere addestrati dalle forze israeliane in tattiche di ” lotta intensiva al terrorismo”.

Il gruppo si è vantato anche del fatto che gli ufficiali che prendono parte ai corsi di formazione “tornano e sono diventati sionisti” – sostenitori dell’ideologia dello Stato di Israele.

L’ex capo della polizia di Durham ha preso parte al seminario nazionale antiterrorismo dell’ADL – come evidenziato nel materiale pubblicitario della società di consulenza sulla sicurezza per cui ora lavora che vanta un prestigioso elenco clienti incluse diverse importanti università.

Starbucks

Questa settimana l’ADL è stata invitata a cooperare con Starbucks alla produzione di materiale per l’addestramento del personale al fine di combattere i “pregiudizi impliciti”, dopo che l’arresto di due uomini di colore in una caffetteria Starbucks a Filadelfia ha suscitato un’indignazione nazionale.

Gli attivisti fanno notare come la pretesa di ADL di proporsi a modello della lotta ai pregiudizi presenti clamorose ed evidenti cadute, specialmente quando si tratta di afroamericani e palestinesi.

Oltre a celebrare il Dipartimento di Polizia Metropolitano di St. Louis per l’omicidio nel 2014 di Michael Brown, un adolescente nero disarmato a Ferguson, nel Missouri, l’ADL ha stigmatizzato gli attivisti di Black Lives Matter [movimento di protesta contro le uccisioni di afroamericani, ndt] per il loro sostegno ai diritti umani palestinesi.

Ha anche una lunga tradizione di islamofobia sui media più diffusi e di denigrazione delle organizzazioni delle comunità palestinese, musulmana e araba.

Formazione

“Non ha senso formare la nostra polizia – o addirittura lasciare che la nostra polizia sia formata – dall’esercito israeliano dopo le cose terribili cui hanno preso parte”, ha dichiarato Ahmad Amireh degli “Studenti per la Giustizia in Palestina” della Duke University a The Electronic Intifada Podcast.

Studenti per la Giustizia in Palestina della Duke University fa parte dell’associazione “Demilitarize! Durham2Palestina”.

Amireh ha detto di aver trascorso del tempo nella Cisgiordania occupata dopo la decisione in dicembre del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale israeliana, e durante una protesta ha visto le forze israeliane sparare a un uomo palestinese con una bandiera.

“Vedere ciò, affermare che un uomo non possa resistere all’occupazione cui è stato sottoposto tutta la vita senza che gli si spari, è una cosa che non ha alcun modo di affermarsi fra le comunità in America”, ha detto.

Amireh ha detto che, tornato a Durham, ha voluto contribuire a por fine a quel tipo di violenza di Stato e di approccio razzista che sia Israele sia le forze di polizia statunitensi portano avanti.

Con la campagna, gli attivisti hanno sottolineato l’urgenza di abbandonare la militarizzazione “e investire nelle comunità nere e meticce con abitazioni, posti di lavoro, istruzione, salari per vivere e assistenza sanitaria”, che soddisfino i bisogni fondamentali delle persone e rafforzino la sicurezza della comunità, ha dichiarato a The Electronic Intifada Podcast Ajamu Dillahunt, uno studente membro della sezione di Durham del Black Youth Project 100, anch’esso parte della coalizione Demilitarize! Durham2Palestine.

Dopo la vittoria al consiglio comunale, la coalizione continuerà i lavori per garantire che politiche analoghe possano essere approvate in altre città, “per por fine a qualsiasi genere di scambio fra Israele e le forze militari, e per mettere sul tavolo anche l’obbligo per la polizia di rispondere dei propri atti”, ha detto Dillahunt.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)